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Non chiamateli più consultori

Woman 's hand waiting for doctor in hospital.

«Per favore non chiamateli più consultori», con questa frase Giuseppina Adorno chiude la sua lettera di denuncia pubblica sul declino dei consultori ponendo il problema del loro snaturamento, cioè di servizi con una “natura politica sociale sanitaria” diversa da quella dovuta, attesa e auspicata
Le cause? La lettera le riconduce sostanzialmente a delle tecnicalità cioè a problemi organizzativi (accoglienze limitate in spazi e tempi ridotti, visite ginecologiche ogni 15 minuti come nei poliambulatori, scarsi operatori, percorso nascita effettuato in luoghi diversi dal consultorio, gestiti dall’ostetrica in modo separato dalle altre attività ecc).
Ma i problemi tecnici e organizzativi (innegabili) provengono da fenomeni più profondi rispetto ai quali mi limiterò ad indicarne solo alcuni.
La legge istitutiva dei consultori (come altre leggi degli anni 70) appartiene a una strategia in cui si concepiva la salute come emancipazione. Il consultorio nasce come uno strumento al servizio dell’emancipazione della donna e nel tempo rispetto ai problemi di sostenibilità questa natura politica si perde.
Nella logica della sostenibilità, i servizi diversi (territoriali e ospedalieri) entrano in competizione tra loro per assicurarsi le risorse. I consultori sono servizi penalizzati perché perdendo gli obiettivi di emancipazione cioè la loro specificità politica finiscono per essere considerati servizi come gli altri per di più deboli o complementari o addirittura secondari. La legge istitutiva dei consultori, che resta, per tante ragioni una grande legge da difendere, nasce sulla base di una serie di compromessi: il “compromesso storico” tra Pci e Dc dal quale proviene la definizione di “maternità consapevole libera e responsabile” e senza il quale non sarebbe nata la legge per l’ivg, la riproposizione dell’indissolubilità dell’organo riproduttivo con il prodotto concepito abbinato questa volta alla sessualità, alla contraccezione, quindi un consultorio per la famiglia e non solo per la donna come era stato teorizzato dal movimento femminista. Oggi i vari compromessi sono saltati. Non perdo tempo a fare degli esempi perché sono sotto gli occhi di tutti.

L’articolo di Ivan Cavicchi prosegue su Left in edicola


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Datemi una mappa e solleverò il mondo

Chiudiamo gli occhi e, per un attimo, proviamo a ricordare la fisionomia dell’aula dove andavamo ogni giorno a scuola; elementari, medie o superiori, poco importa. È difficile che tra le varie immagini che riaffiorano alla mente non ci sia almeno una cartina, una grossa mappa appesa alla parete. Oggi, però, è lo studio della geografia che rischia di essere per tutti solo un lontano ricordo. Una disciplina strategica per comprendere la contemporaneità, ma disprezzata e svalutata da chi ha riformato il sistema educativo nostrano.

«A dare il colpo di grazia alla materia è stata la riforma Gelmini, che ha rivoluzionato i quadri orari delle scuole». A denunciarlo – senza mezzi termini – è Riccardo Canesi, docente dell’istituto tecnico Zaccagna di Carrara. Il suo curriculum è davvero ricco: portavoce del coordinamento Sos geografia (il nome è eloquente), candidato lo scorso anno all’Italian teacher prize (il riconoscimento del ministero dell’Istruzione per gli insegnanti italiani più meritevoli) ma anche un passato da deputato tra le file dei Verdi.

«All’istituto tecnico commerciale geografia era insegnata seriamente, ma la ministra Gelmini ha spostato la disciplina dal triennio al biennio, ridimensionando le ore – rammenta Canesi -, negli alberghieri poi si fa ormai un’ora sola, nel primo o secondo anno, così come nei tecnici industriali e negli istituti per geometri. Un’ora regalata dall’ex ministra Maria Chiara Carrozza, che la ripristinò, dando un piccolo segnale di interessamento alle istanze di noi geografi».

E nei licei? «È accorpata con le 3 ore settimanali dedicate a storia», spiega il professore. Ma non è finita qui. «La materia spesso non viene insegnata da geografi, bensì da biologi o da insegnanti di lettere…

L’articolo di Leonardo Filippi prosegue su Left in edicola


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Morire per una vignetta. L’assassinio di Naji al-Ali

La notizia è arrivata un po’ a sorpresa nel trentennale della sua morte: la polizia londinese ha riaperto l’inchiesta sull’uccisione del fumettista palestinese Naji al-Ali, il padre di Handala. La Metropolitan police ha fatto appello a chiunque abbia informazioni rispetto ai due sospettati dell’omicidio di farsi avanti: «Abbiamo in passato rivisto il caso e seguito una serie di piste che non hanno portato all’identificazione dei due uomini» ha dichiarato Dean Haydon, capo dell’unità antiterrorismo del Met. «Tuttavia – ha aggiunto – tante cose possono cambiare in 30 anni e persone che non hanno voluto parlare al tempo dell’omicidio potrebbero essere oggi pronte a dare informazioni cruciali. Qualunque informazione avete potrebbe costituire la tessera del puzzle necessaria a compiere progressi nelle indagini».

Bisogna quindi ripartire da quel 22 luglio del 1987 a Ives Street di Knightsbridge a Londra quando, intorno alle 17 ore locali, il 51enne Naji al-Ali, dopo aver parcheggiato la macchina a Ixworth Place, fu raggiunto da un colpo di pistola al collo vicino alla sede del quotidiano kuwaitiano al-Qabas per il quale lavorava. Allora i primi testimoni raccontarono agli inquirenti di aver visto un uomo sui 25 anni di aspetto mediorientale che lo aveva inseguito e di un secondo uomo cinquantenne sempre dai tratti mediorientali che era scappato dal luogo dell’agguato, era salito su una Mercedes con il compagno ed era fuggito.

A rendere ancora più misterioso il caso fu il ritrovamento due anni dopo a Paddington della pistola automatica che aveva ferito gravemente al-Ali. Poi più nulla. Le indagini si chiusero senza alcun indagato e con un solo dato certo: chi premette il grilletto della Tokarev 7.62 rischiò di non portare a compimento il suo obiettivo criminale. Il vignettista, infatti, non morì sul colpo ma sarebbe spirato in un ospedale londinese dopo cinque settimane di coma…

L’articolo di Roberto Prinzi prosegue su Left in edicola


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Salvatore Settis: Se anche l’architettura nega i diritti umani

Con il libro Se Venezia muore, (Einaudi, 2014) ha lanciato un appassionato J’accuse contro le grandi navi che distruggono la laguna. Ora con Architettura e democrazia – uscito per Einaudi quasi in contemporanea con Cieli d’Europa (Utet) – l’archeologo e storico dell’arte Salvatore Settis allarga lo sguardo a livello globale indagando i fallimenti di questa antichissima disciplina quando, schiava della speculazione, del profitto o di manie di grandezza del potere, perde di vista la propria finalità civile.

In questo nuovo volume, nato da una raccolta di lezioni tenute all’Accademia di architettura dell’università della Svizzera, Salvatore Settis punta il dito contro la «Bigness» (per dirla con Gregotti), la moda di costruire grattacieli in barba al paesaggio, ma anche e soprattutto contro quella mancanza di disegno urbano che fa delle periferie dei luoghi senza identità, cacofonici, invivibili, dove confinare e far sparire alla vista poveri e immigrati. Non è dunque solo un problema di bruttezza, di insopportabile kitsch come quello a cui si sono prestati alcuni architetti toscani che hanno costruito in Cina un outlet che riproduce le fattezze di San Gimignano. Non è “solo” una questione di sfregio al paesaggio ma – rimarca il professore – è anche una fondamentale questione di diritti e di democrazia. Che viene a mancare quando si costruiscono nuovi ghetti, ma anche quando l’upper class va a vivere in quartieri blindati e sorvegliati.

Da una questione di diritti siamo partiti. Vedendo cosa sta accadendo in città storiche come Roma, Venezia e Firenze dove i cittadini, sempre più, sono costretti ad andarsene dai centri storici, presi d’assalto dai turisti e sempre più spesso teatro di sgomberi, come è avvenuto a Roma il 19 e il 24 agosto, quando sono stati cacciati con la forza 800 rifugiati che dal 2013 occupavano un palazzo abbandonato in via Curtatone. Solo Magistratura democratica ha avuto il coraggio di parlare di «prevalenza dei diritti sociali e umani su quelli di proprietà», ma è rimasta inascoltata.

Professor Settis come legge il crescente ostracismo di poveri e migranti in città come Roma?
Le nostre città storiche – Roma come molte altre – hanno avuto una evoluzione nel tempo legata alla cultura dell’ospitalità, una cultura dell’accoglienza che ci può sembrare arcaica, ma è su questa base che si è formata la nostra civiltà. Credo che i due aspetti da lei evocati siano strettamente collegati: l’ostracismo verso i migranti e l’allontanamento degli italiani meno abbienti. Le città sempre più si chiudono in sé stesse innalzando confini interni basati sul censo. È la cosiddetta gentrification. Disoccupati, giovani e meno giovani, non possono permettersi di abitare nei quartieri più qualificati e curati, sono costretti ad andare in periferia. Quelle che un tempo erano le mura urbane sono diventate barriere interne alla città. È una vera discriminazione ad esempio, quella che a Napoli, impedisce a giovani e precari di trovare casa in centro. Se la trovano è in vicoli assolutamente malsani. Si configura così una sorta di «pulizia etnica»…

L’intervista di Simona Maggiorelli a Salvatore Settis prosegue su Left in edicola


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Arsenali atomici, si guarda solo il dito ma il problema è anche la luna

TOKYO, JAPAN - SEPTEMBER 03: Pedestrians walk past a monitor showing an image of North Korean leader Kim Jong-Un in a news program reporting on North Korea's 6th nuclear test on September 3, 2017 in Tokyo, Japan. South Korea, Japan and the U.S. detected an artificial earthquake from Kilju, northern Hamgyong Province of North Korea. State news agency KCNA announced Pyongyang have successfully carried out a test of a hydrogen bomb, which could be loaded to the Intercontinental Ballistic Missile (ICBM) missile. (Photo by Tomohiro Ohsumi/Getty Images)

Sembra che il rischio di una guerra nucleare che riporterebbe l’umanità all’età delle caverne sia tutto da imputare a quel pazzo di Kim Jong Un. Bisogna in primo luogo ristabilire il giusto ordine delle cose. Il pericolo di un conflitto atomico incombe da tempo. Il crollo dell’Urss rese evidente che gli arsenali nucleari accumulati durante la Guerra Fredda perdevano ogni “scopo” (in realtà pretestuoso poiché il coinvolgimento dell’Urss nella folle corsa agli armamenti fu un fattore non secondario del suo crollo), e iniziò un processo di riduzione delle testate che erano 75.000 a metà degli anni ‘80. Ma alla fine degli anni ‘90 le tensioni internazionali si acuirono e sorsero altre potenze nucleari tra cui, nel 1998, India e Pakistan che oggi hanno 120-130 testate a testa.

Il processo di disarmo non solo andò progressivamente rallentando ma – cosa più grave – i generali e i governanti “sdoganarono” queste armi, considerandole realmente utilizzabili, e risolutive, in un conflitto. Gli Stati Uniti, e con loro la Russia, hanno mantenuto migliaia di missili intercontinentali in stato di allerta immediata, pronti al lancio (launch on warning): come tenere il dito sul grilletto, una vera ricetta per il disastro. Si intuisce da analisi e preparativi che gli Usa si sono preparati per essere nelle condizioni di fare tuttavia il rischio non è soltanto che un presidente megalomane come Trump lanci un first-strike nucleare. Vi è il pericolo concreto che un attacco nucleare scatti per un falso allarme, o un errore. È un pericolo al quale l’umanità è miracolosamente scampata molte volte durante l’era nucleare.

E la situazione diventa sempre più grave con l’aumento delle tensioni che si aggiungono a quello della sofisticazione e degli automatismi dei sistemi di allarme e di controllo. In tutto questo i media occidentali hanno un’enorme responsabilità. Avendo alimentato nell’opinione pubblica la convinzione che ormai, dopo il crollo dell’Urss, le armi nucleari non abbiano più costituito un problema. Ora il brusco risveglio? Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica la Corea del Nord è stata spesso sotto tiro da Washington e dall’inizio degli anni ‘90 ha cominciato ad agitare la minaccia di sviluppare armi nucleari. La storia è lunga e complessa, ma i punti significativi sono due….

L’articolo di Angelo Baracca prosegue su Left in edicola


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Valeria Fedeli: «Non sono una ministra che improvvisa»

La ministra dell'Istruzione Valeria Fedeli durante la conferenza stampa "Edilizia Scolastica 2014 - 2018" a palazzo Chigi, Roma, 18 luglio 2017. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

Ministra Fedeli, perché i 18 anni? Non è riduttivo dire di volersi allineare con i Paesi europei? A parte il fatto che in Finlandia, Svezia, Danimarca, nei Paesi dell’Est la scuola superiore termina a 19 anni (anche in Olanda, Austria e Germania a seconda degli indirizzi), perché allinearsi a Paesi diversi per tessuto sociale, identità culturale e storia scolastica?
Questa estate, con la riflessione fatta al meeting di Rimini, ho voluto avviare un dibattito sulle prospettive del nostro sistema di istruzione. Credo che i prossimi mesi, quelli di fine legislatura, vadano dedicati a questo: ad una riflessione su cosa il Paese pensa sia necessario per la scuola, per rafforzarla e farne un asse portante dello sviluppo. La riflessione sull’obbligo a 18 anni non guarda tanto, o comunque non solo, a cosa accade oltre i nostri confini, ma tiene conto, innanzitutto, della necessità, oggettiva, di innalzare i livelli di istruzione in Italia – qui sì per raggiungere i tassi di diplomati che si hanno altrove – e di intercettare e rispondere ai cambiamenti sociali. Si tratta di questioni delle quali si discute da almeno 20 anni e per le quali è necessario il coinvolgimento di tutto il mondo della scuola, dei decisori politici, di intellettuali ed esperti, di tutti i soggetti coinvolti a vario titolo. Una discussione della quale si è tornati a parlare in questi giorni è, poi, quella che riguarda la riforma dei cicli scolastici, un tema distinto ma in qualche modo legato a quello dell’obbligo. Il primo a parlarne, pensando ad una uscita anticipata a 18 anni, fu il ministro Berlinguer, nel 2000. La sua azione fu bloccata, poi, dalla ministra Moratti, ma ripresa nel 2013 da una commissione istituita dal ministro Profumo. La prima sperimentazione di corsi di 4 anni è partita nel 2013/2014 con la ministra Carrozza, con solo due istituti coinvolti. Da allora 12 scuole hanno fatto richiesta per aderire e hanno avuto l’autorizzazione per intraprendere questo percorso. Ora abbiamo deciso di estendere la sperimentazione a livello nazionale: 100 scuole potranno candidarsi e gli esiti di questa sperimentazione verranno valutati nel 2023, in maniera trasparente e chiara. A quel punto i rappresentanti del mondo della scuola e delle istituzioni cui spetta il compito di decidere a tal proposito discuteranno dei risultati e prenderanno le decisioni conseguenti. Che potranno essere il recupero dell’intera riforma dei cicli e, contestualmente, l’innalzamento dell’obbligo scolastico fino al diciottesimo anno di età.
Da quando è iniziata la stagione delle riforme e delle sperimentazioni è un dato di fatto che la scuola incide sempre meno rispetto alle differenze sociali e gli esiti scolastici dipendono sempre più dalle condizioni sociali. La sperimentazione dei licei e istituti tecnici brevi porterà inevitabilmente alla variazione dell’offerta formativa e quindi alla logica del supermarket: chi ha più prodotti diversi ha più clienti. Questo creerà una “guerra” tra istituti e nuove disuguaglianze per la riduzione del tempo scuola che graverà soprattutto sugli studenti provenienti da famiglie meno abbienti.
Variare l’offerta, aprire alle sperimentazioni non vuol dire assolutamente agire secondo una logica da “supermarket”. Le sperimentazioni ci sono sempre state ed è bene che ci siano. Servono per fare innovazione. Non si può pensare che un sistema di istruzione rimanga immutato nel tempo senza tenere conto dei cambiamenti locali e globali che attraversano le società di riferimento. Nel caso specifico dei percorsi quadriennali estendendo la sperimentazione a tutto il territorio nazionale riusciremo a garantire pari opportunità a tutti gli studenti italiani e a evitare diseguaglianze territoriali. Finora le 12 scuole che avevano partecipato a questo tipo di percorso erano concentrate nel Centro-Nord. La scuola che immaginiamo – e per la quale stiamo lavorando – è una scuola che ….

L’intervista al ministro Valeria Fedeli prosegue su Left in edicola


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A scuola di pensiero critico

Students hold a banner reading "But what future" as they walk in front of the Colosseum trying to reach the Italian Chamber of Deputies to protest against the vote on an education reform on November 30, 2010 in Rome. Riot police blocked all access to the center of Rome to prevent demonstrators to reach Montecitorio, the lower house of the Italian parliament. Students and academics are outraged at cuts of around nine billion euros (12 billion dollars) and 130,000 jobs in the education system that Prime Minister Silvio Berlusconi's government has engaged to carry out by 2013. AFP PHOTO / ALBERTO PIZZOLI (Photo credit should read ALBERTO PIZZOLI/AFP/Getty Images)

Puntano a riformare la scuola in modo da far crescere obbedienti signorsì, non cittadini liberi e capaci di esercitare un controllo su chi li governa. Ci provano da oltre trent’anni. E più di recente con “innovazioni” come l’alternanza scuola lavoro, riducendo al minimo le materie umanistiche perché gli istituti tecnici siano sempre più tali, cancellando l’insegnamento della storia dell’arte (fu il colpo grosso della riforma Gelmini). Ora minacciano di manomettere le scuole superiori, riducendole a quattro anni di studi. Dai governi Berlusconi a quelli di Renzi e Gentiloni, senza soluzione di continuità, la scuola è stata depauperata di risorse, fiaccata nei programmi, svuotata di contenuti. Rincorrendo modelli americani che perfino Oltreoceano oggi sono considerati superati. L’obiettivo è chiaro: crescere operatori di catene produttive (anche se high tech), tecnici obbedienti, in possesso solo di un sapere parcellizzato. Ed è davvero scoraggiante che questo ennesimo, malsano, progetto di riforma annunciato come «sperimentazione» dal ministro della Pubblica istruzione, Valeria Fedeli, venga ancora una volta dal Pd. Dopo la Buona scuola di Renzi, che era tutto tranne quello che prometteva, eccoci alla scuola ridotta al lumicino. A dirla tutta non pensiamo che questo sciagurato progetto arrivi davvero in porto. Ma che un governo di centrosinistra l’abbia anche solo annunciato ci sembra un fatto assai preoccupante da leggere e analizzare a fondo. Anche perché abbiamo già alle spalle un percorso di trentennale, progressiva, “autonomia” della scuola, che si è tradotta in una progressiva perdita di qualità e contenuti. Che gli insegnanti hanno cercato di tamponare, nonostante siano fra le categorie più bistrattate e meno pagate in Italia. Perciò, conoscendo il rigore e l’impegno quotidiano di tantissimi docenti, abbiamo deciso di raccogliere le loro testimonianze. Non esprimono solo critiche ma avanzano articolate proposte che lasciano intravedere quella visione alta che, purtroppo, è mancata a tanti politici che negli anni si sono susseguiti alla guida del ministero della Pubblica istruzione. Doveroso era intervistare il ministro Fedeli come hanno fatto la collega Donatella Coccoli e il docente Giuseppe Benedetti con domande puntuali e incalzanti. Ma oltre a interrogare il ministro e le carte, abbiamo pensato che fosse importante dare spazio direttamente ai docenti, chiedendo di raccontarci la loro esperienza sul campo, che come ben documentano i loro contributi in queste pagine, va ben al di là degli standard. Siamo profondamente grati alle docenti Elisabetta Amalfitano e Paola Gramigni perché ci permettono di far conoscere ai lettori di Left una scuola che di solito non viene raccontata, in cui operano docenti impegnati nell’insegnamento e nella auto formazione continua (che i 500 euro della Buona scuola di certo non bastano a finanziare). Abbiamo conosciuto così professori che, insoddisfatti dalla ridda di manuali che escono ogni anno solo per necessità commerciali, hanno deciso di rimboccarsi le mani scrivendo insieme ad altri colleghi testi in dispense, più validi e approfonditi nei contenuti e insieme assai meno cari per le famiglie. Ma questa non è che una piccola parte di ciò che potrete scoprire leggendo questo numero. Le loro storie ci ridanno speranza e fiducia in una scuola che, nonostante la miopia della nostra classe politica, può rinascere dal basso, dall’auto organizzazione di docenti che sanno costruire rapporti veri e validi con gli studenti. Solo grazie al loro lavoro e alla loro competenza la scuola può diventare ciò che dovrebbe già essere: un baluardo contro i pregiudizi, contro il razzismo, contro il fondamentalismo religioso. Se la classe di governo italiana negli ultimi trent’anni non ha fatto altro che negare la Carta, disapplicandola, i suoi valori fondamentali circolano fra i banchi di scuola grazie a insegnanti che conoscono il valore della cultura, inteso come pensiero autonomo e critico, non come un insieme di nozioni, consapevoli che «la Repubblica è chiamata a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale… che impediscono il pieno sviluppo della persona umana».

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto dal numero di Left in edicola


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Se la scuola insegue il mercato

«Che fretta c’era…!» cantava Loretta Goggi nei lontani anni 80; il ritornello mi assale nel leggere i giornali di questa torrida estate. E non è un caso che nel bel mezzo di agosto giunga tra i vacanzieri distratti e addormentati la notizia della riforma delle superiori il cui percorso verrà ridotto da 5 a 4 anni.
La ministra Fedeli completa un’operazione che si stava tentando di portare a compimento dai tempi di Luigi Berlinguer quando si era pensato di riformare i cicli scolastici con un primo ciclo di sette anni, un secondo di due anni comune e un terzo di tre specifico per i vari indirizzi. Poi, in questi 17 anni, ciascuno degli otto ministri che si sono succeduti ha provato a rilanciare la riforma berlingueriana, ma senza risultati tanto che la Fedeli si difende affermando che in fondo lei “doveva” farla, poiché era stata avviata dai suoi predecessori e non poteva lasciare il lavoro a metà. Fatto sta che da quest’anno in Italia 100 scuole capofila di secondaria superiore daranno avvio alla sperimentazione per “allinearsi” al resto dei Paesi d’Europa. Già perché è questa la motivazione ufficiale: far sì che i nostri ragazzi siano pronti al mondo dell’università e del lavoro a 18 e non a 19 anni come negli altri Paesi europei! E di nuovo mi torna il ritornello: «Che fretta c’era…».
Perché i nostri politici hanno questa spasmodica ansia di mandare a lavorare le nuove generazioni? Qual è l’obiettivo, quale la filosofia di fondo di chi si ostina ad accorciare i tempi di una primavera che inesorabilmente fugge, in barba a progetti e attese di noi esseri umani? C’è chi parla di iscrizione anticipata a 5 anni alle scuole primarie; chi invece si proclama fiero e strenuo difensore dell’alternanza scuola-lavoro per professionalizzare gli adolescenti fin dalla terza superiore e infine, appunto, chi intende abbreviare la frequenza alle superiori e addirittura alle medie. Per non pensare alla riforma universitaria del tre + due che ha sdoganato le lauree brevi triennali, pensando di accorciare i tempi di permanenza – peccato che, notizia di questi giorni, il numero dei laureati italiani continui a diminuire e che il numero di anni di permanenza all’università resti lo stesso di chi frequentava ai tempi del “vecchio ordinamento”. Al di là dei casi specifici per cui magari è anche giusto per un bambino particolarmente sveglio e nato entro il 30 aprile dell’anno in corso essere iscritto prima alla scuola elementare; così come negli istituti tecnici o professionali è auspicabile una buona azione di indirizzo verso le attività lavorative; vorrei riuscire a svolgere una serie di considerazioni per rispondere al ritornello che mi assilla: perché questa corsa spasmodica a porre termine a un percorso che ha come scopo principale la formazione dell’identità umana?

L’articolo di Elisabetta Amalfitano prosegue su Left in edicola


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Il suo nome è Yacob e non ha fatto del male a nessuno, quindi non fa più notizia

Un ospite del Presidio Umanitario di Via del Frantoio nella Giornata Mondiale del Rifugiato [CR di Roma]

Un’accusa ingiusta, inventata. Solo per la “colpa” di essere un migrante. Eritreo, si affrettano (e si limitano) a precisare le cronache. Senza nome e senza storia, purché sia straniero. Di lui si è parlato tanto a fine agosto quando è stato accusato di aver tirato delle pietre contro alcuni bambini del quartiere romano Tiburtino III. Ma nel momento in cui la ricostruzione della vicenda da parte della madre di uno dei bimbi ha cominciato a fare acqua da tutte le parti, il caso è immediatamente scomparso dalle cronache, e di lui – che è finito in ospedale per aver ricevuto una coltellata durante la spedizione punitiva nei suoi confronti – non si è occupato più nessuno. A restituirgli un volto è bastato sentire chi ha accolto la sua umanità.

«Si chiama Yacob, ha quaranta anni ed era in attesa di completare le procedure per il ricollocamento in Svizzera» racconta a Left la presidente del Comitato area metropolitana di Roma Capitale della Croce rossa italiana, Debora Diodati. «Arrivato al centro di via del Frantoio (a Roma) nel gennaio del 2017 – prosegue – è rimasto fino al 27 luglio scorso, data in cui, proprio perché stava per finire le procedure necessarie, è stato trasferito al centro di accoglienza Centro di accoglienza straordinaria di via Staderini».

Sarebbe potuto partire legalmente per la Svizzera tra qualche giorno, Yacob, ma «sarà costretto a rimanere in Italia, anche in attesa di testimoniare nel processo» spiega la Diodati. «Il timore è, soprattutto, per la sua salute psichica: vive un momento di forte depressione sia perché dopo un’attesa molto lunga era, finalmente, arrivato il tanto agognato momento della partenza, sia per l’accaduto».

In via del Frantoio – aperto da fine ottobre del 2015 e che ospita tutte le persone che sono fuori dal circuito di accoglienza, le quali rischierebbero di finire o per strada o nelle mani dei trafficanti -, gli operatori sono molto preoccupati e, a ridosso di una manciata di giorni dal violento episodio, continua a esserci una tensione ancora alta, anche fra gli ospiti. I quali, però, «hanno ripreso la vita quotidiana, intrisa di normalità, in un ambiente in cui, abitualmente, si respira un’aria di serenità, fra mamme e bambini (tanti) che continuano come se niente fosse accaduto, con la leggerezza e la bellezza che li contraddistinguono».

E nel presidio umanitario ci convivono, pacificamente, tante nazionalità: «Fino a oggi – dice la presidente – abbiamo accolto e immesso nel circuito della legalità 1850 persone, delle quali circa 300 hanno ottenuto il ricollocamento in Europa. E, da dicembre 2016, anche molti italiani (e ci tiene a precisare che, seppure, a volte, necessario specificare la nazionalità, per lei esistono gli esseri umani, ndr)».

È un quartiere molto difficile, il Tiburtino III ma, certamente, «non è un quartiere razzista». Mai, fino a oggi, alcun episodio di violenza e tantomeno della portata di quest’ultimo: «Seppure gli abitanti della zona – che, tra l’altro, vivono e affrontano i loro problemi con grande dignità – non erano favorevoli all’apertura del presidio, non hanno mai manifestato intolleranza. Anzi, una parte di loro ha mostrato grande solidarietà, finanche partecipando alle attività del Centro», conclude Diodati. Contro il presidio umanitario qualche decina di residenti, contesi da piccoli movimenti che vivono di una sovraesposizione mediatica. Cronache (false) di ordinario razzismo.

 

ps. Questa sera al Presidio umanitario tiburtino della Croce rossa in via del Frantoio si terrà una cena eritrea organizzata dai migranti.

Dalla Brexit al Brexodus ecco perché nel Regno Unito sale la tensione

epa06189717 Protesters dressed as former English King Henry VIII (C) and Tudor royal aides demonstrate outside parliament in London, Britain, 07 September 2017. Campaigners from Another Europe are protesting against the government's Brexit, Great Repeal Bill calling the bill the biggest threat to parliamentary democracy in decades. Parliament is set to debate the bill 07 September. The British Government has announced it will repeal the 1972 European Communities Act with the Great Repeal Bill but concerns have been raised over the use of called Henry VIII clauses. King Henry VIII published a 'Statute of Proclamations' in 1539, which gave him the power to legislate by proclamation. In the current Parliament this would give the British Government powers to change old laws that have already been passed by Parliament. EPA/ANDY RAIN

Brexit o non Brexit? Brexodus. Gli accordi commerciali con l’Unione, il problema al confine alla riottosa Irlanda – che all’Europa deve la sua crescita e non ha intenzione di abbandonarla -, i lavoratori stranieri. Riguardano questi dilemmi economici e sociali i documenti della Brexitleak ottenuti dal the Guardian che riguardano l’uscita del Regno Unito dall’Unione: su quei fogli c’è anche la posizione del governo sulla migrazione, giudicata «completamente confusa, economicamente illetterata, un progetto per strangolare l’economia di Londra».

David Davis, segretario Brexit, adesso ha più pressione sulle spalle e forse di notte non dorme sereno, proprio come Michael Barnier, capo negoziatore per l’Unione Europa. La data d’addio tra il Vecchio Continente e la Gran Bretagna è fissata per il 29 maggio 2019. È di questo che stanno parlando oggi a Bruxelles ma «questa fuga di notizie rivela la crepa tra Europa e Regno Unito».

Le cifre: 3,300 è il numero dei copyright dei prodotti che l’Europa vuole proteggere, riguardano soprattutto il cibo. Ma non è questo il lato peggiore. Per l’Home Office, l’immigration policy dopo la Brexit, per le industrie sarà “catastrofica”: 2, 2 milioni di europei lavorano in Gran Bretagna e sono solo il 7 per cento della forza lavoro, ma alcuni settori dipendono completamente dai lavoratori migranti. Svolgono professioni che gli inglesi non farebbero mai, sono attivi nelle attività domestiche, dei trasporti, dello stoccaggio. Nell’industria manifatturiera, delle cave, della costruzione, della riparazione. E infine perderà per la Brexit soprattutto l’industria dell’accoglienza: in Gran Bretagna il 75 per cento dei camerieri è straniero e lo è anche il 25 per cento degli chef. Ogni anno le industrie dell’accoglienza- hotel, ristoranti, bar- assumono circa 60mila dipendenti extrabritannici.

Oltre a Davis e Barnier, anche la premier May di notte non dorme e non sogna. Il suo premierato scricchiola ogni giorno di più, ma lei continua a ripetere da mesi “I am no quitter”, non sono una che molla, facendo eco a quel “go on and on” della Thatcher nel 1987. L’unica altra donna premier della Gran Bretagna abbandonò la politica tre anni dopo, proprio mentre ripeteva che sarebbe andata avanti. Ma quell’ “on and on” non le portò fortuna. Né ne sta portando a Theresa, appena tornata dal viaggio in Giappone per dire a Shinzo Abe che il Regno Unito “sta spalla a spalla” con i nipponici contro l’aggressione missilistica della Corea del Nord. È andata a Kyodo, vecchia capitale imperiale, soprattutto per cementare i rapporti commerciali in Asia, rinegoziare i termini del business tra i due paesi, per fare insomma trade deals, accordi commerciali.

Oggi i media continuano a ribattere la notizia non confermata ufficialmente che il 30 agosto 2019, cioè tra quasi esattamente un anno, la May rassegnerà le sue dimissioni. Ma scegliere una data e confermarla significherebbe già rischiare di essere intralciati da un potenziale successore, diventare quella che nel mondo anglofono è chiamata “anatra zoppa”.

Insomma, in questo settembre, il glorioso Regno Unito assomiglia a quel Big Ben che non segna più l’ora esatta perché in ristrutturazione. Alcuni inglesi sono ancora di incapaci di credere a quello che è successo: lasceranno l’Europa. Altri notano che i politici non fanno seguire le azioni alle parole. “Stiamo ripulendo il casino dei laburisti”, è il ritornello che arriva dal lato tory, che risuona «finché le orecchie degli elettori non sanguinano», scrive Owen Jones sul Guardian. «I tories hanno fatto un incubo e ci siamo tutti chiusi dentro». Il referendum è stato fatto non nell’interesse nazionale, ma perché «Cameron aveva parlamentari irritanti e l’Ukip con cui fare i conti. La premier che gli è succeduta per estinguere l’opposizione, ha indetto elezioni rapide e, al contrario, ha estinto solo la sua autorità».

La Britain dopo la Brexit cosa sarà? Un Brexodus di certo. Nessuno sta fornendo risposte adeguate e ad essere sommersa dalle critiche è il capo dello Stato insieme al ministro del commercio estero, l’euroscettico Liam Fox. Vince Cable, leader liberale democratico, lo ha ridicolizzato dicendo che questa è una “cut and paste Brexit”, una Brexit copia e incolla: «ai Brexiters era stato promesso un nuovo inizio di accordi commerciali nel mondo. Invece che fare jet set intorno al globo, Liam Fox poteva pure starsene in una stanza con una fotocopiatrice».