È un rap impegnato quello di Kento, al secolo Francesco Carlo. Quarant’anni freschi freschi, di Reggio Calabria, romano di adozione, per lui la musica, il ritmo, in primis la parola, sono un’arma per comunicare ideali di buona convivenza, antifascisti. Lontanissimo dal mainstream dei vari tormentoni estivi, Kento vanta un curriculum pazzesco, che quest’anno ha arricchito con la partecipazione, in qualità di ospite, al Premio Tenco e a Umbria Jazz, palchi solitamente non appannaggio dei rapper. La carriera inizia nel 2009, con l’album Sacco e Vanzetti, prosegue con Resistenza sonora nel 2011, prodotto finanziato con i proventi dei beni sequestrati ai boss. Sì perché Francesco/Kento è di questo che canta. Si guarda intorno e denuncia il malaffare, l’ingiustizia, tutto ciò che rende marcia la nostra società. Ha un blog ed è membro del consiglio della Lega Italiana Poetry Slam. Tutto il resto è la sua musica, per i palchi d’Italia, e non è poco.
Che ci fa un rapper sui palchi d’autore?
Che emozione, è stato un anno di prime volte incredibili. Anche la prima che un rapper reinterpretasse le canzoni di Luigi Tenco. Esperienze molto positive, che stanno continuando perché con l’orchestra porto avanti le mie versioni dei pezzi di Tenco. Le vivo come un riconoscimento nei miei confronti, ma anche dell’hip hop e del rap italiano che ha la forza di confrontarsi con palchi di questo livello e non solo con quelli del mainstream, dei grandi numeri. Sono fiero di essere l’esponente della scena che ha raggiunto un simile risultato.
Quando e perché ti sei avvicinato al rap?
Negli anni Novanta, nel periodo che viene considerato la golden age del rap, anche in Italia. Mi sono avvicinato a questa forma di espressione perché basata molto sulla parola, sul concetto, sul contenuto, sul dire qualcosa, sul trasmettere. La chiave è stato il ritmo unito alla parola.
Un anno fa usciva Da Sud, un album pieno zeppo di storie, contenuti, proteste, denunce, ricchissimo insomma. Parli di mafia, di corruzioni, di ingiustizie in ogni ambito. Un album che porti in giro con la tua band, The Voodoo Brothers, per far conoscere il tuo messaggio.
Siamo ancora in tour, ci sono tante altre date in programma. Stiamo portando in giro anche il libro, Resistenza rap, che è uscito insieme al disco e, se tutto va bene, a breve ne annunceremo l’uscita, tradotto in inglese, negli Stati Uniti. Un periodo intenso di date e concerti. Io continuo a scrivere sempre, non mi fermo mai. È il momento di comunicare, di parlare con la gente, di portare la mia musica ovunque.
Per esempio, nel brano “H.I.P. H.O.P.”, che poi sta per “Ho Idee Potenti, Ho Obiettivi Precisi”, parli proprio della parola come arma da utilizzare «…con forza e precisione».
Sì perché la cosa importante non è solo la potenza dell’arma, ma la precisione. Nel momento in cui io utilizzo la parola, devo essere in grado di utilizzarla in maniera precisa e questo è il messaggio principale che mi sento di dare ai giovani rapper: la consapevolezza di avere un’arma in mano e di saperla usare.
In “Piazzale Loreto” c’è una presa di posizione netta nei confronti del fascismo, del razzismo e di tutta quella “zona grigia” che con loro scende a patti. Mi sembra un tema attualissimo. Che cosa e chi denunci?
Ci sono riferimenti abbastanza espliciti a Mafia capitale. Parlo, in generale, di tutti coloro che non si fanno scrupolo di fare affari con delle realtà implicate con il neo fascismo. Dico che il fascismo si è lavato la faccia e ha indossato la giacca.
A proposito di Mafia capitale, qual è stata la tua reazione alla sentenza per Buzzi e Carminati?
A me non interessano le verità giudiziarie, ma quelle storiche e sociali. Dal punto di vista sociale, non c’è dubbio che si tratti di un’organizzazione di tipo mafioso. Poi, la pronuncia del giudice non la condivido, ma non è di questo che mi occupo. La mia è una lotta politica attraverso la musica e da quel punto di vista io non ho dubbi da che parte stare o che cosa dire. La sentenza è un errore, ma io non costruisco la mia battaglia sulle sentenze, ma sulle realtà politiche.
A cosa dobbiamo, partendo da Roma e dalla presenza di CasaPound, questo preoccupante ritorno ai principi e comportamenti di estrema destra?
Dipende da molti fattori, sono realtà sdoganate; dipende dalla mancata applicazione, secondo me, delle leggi sull’apologia del fascismo e sulla ricostituzione del regime fascista. Al di là delle leggi, bisogna ricostruire l’attualità dell’antifascismo. Finché l’antifascismo viene visto solo in chiave storica, ci dimentichiamo la lezione più importante dell’antifascismo e della lotta partigiana.
Che riscontri hai, di ciò che canti e denunci, da parte del pubblico?
Ho un pubblico eterogeneo: il messaggio della musica arriva a tipologie di persone diverse, poi ognuno le filtra con le propria sensibilità e con le proprie esperienze. È importante quello che ricevo, e questo cambia ogni volta. Non riuscirei a scrivere così tanto se non frequentassi così tanti palchi.
In questo momento che cosa stai scrivendo?
Sto iniziando a scrivere il mio decimo disco e l’ispirazione viene dalla strada, dai palchi, dai viaggi. Lo sto scrivendo in treno, in aereo. Tutto quello che mi dà la gente che mi ascolta finisce nella mia musica.
Il rapporto con la tua Calabria?
Ancora più intenso e viscerale. Amo moltissimo quello che c’è di bello e quello che c’è di brutto.
Mai avuto problemi, minacce o cose simili?
Nel libro ne parlo molto, ho avuto episodi spiacevoli, che però, ci tengo a dire, non sono successi soltanto in Calabria, ma anche a Milano. Io tengo a mettere l’accento non solo sugli episodi spiacevoli, che comunque sono stati pochissimi, quanto sulle centinaia di episodi di solidarietà e incoraggiamento che ho avuto. Per quanto c’è di brutto, c’è una voglia di riscatto enorme, sono ottimista. La musica è un piccolo ingranaggio nella macchina che ci porta verso il futuro.
Kento sta per…
Si chiama così un personaggio di un cartone giapponese, Daltanious, ma è anche l’anagramma fonetico di Tenco!
Kento e la resistenza rap: «La parola che forza, per la lotta politica in musica»
Migranti, papa Francesco ha finito la Misericordina?
L’ultima sortita aerea di Jorge Mario Bergoglio in poche ore è già diventata la «giustificazione per fede» di nerboruti securitaristi e sollevatori di muri, anche se è soltanto la fotocopia di quanto il capo della Chiesa romana ebbe già a dire, forse con eco minore, a inizio novembre dell’anno scorso. Allora come oggi, gli Stati europei non stavano certo gareggiando a chi ospitasse il maggior numero di rifugiati, tuttavia il pontefice volle rimarcare che la «prudenza» dovrebbe essere «il buon consigliere» dei governanti in tema di accoglienza. Tornando dalla Colombia, ha spiegato che prudenza «significa valutare quanti posti si hanno». Forse Bergoglio ogni tanto finisce le pillole di Misericordina oppure la pressurizzazione dei voli papali è sempre regolata male, fatto sta che è già la seconda volta che i suoi discorsi celestiali piovono come meteoriti sulle file di migranti alle frontiere, rianimando animi e anime di chi vorrebbe solo “ricacciarli a casa loro”. Possibile che nessuno trovi il coraggio laico di insorgere di fronte al massimo esponente della religione cattolica che afferma si debbano tenere socchiusi il cuore e le porte, con tanto di pallottoliere alla mano?
Ius soli, è il giorno in cui la politica farà vedere il suo vero volto

Ci sono anche loro, gli Italiani senza cittadinanza oggi dalle 15 davanti a Montecitorio (non gli hanno dato il permesso per protestare davanti Palazzo Madama). Rappresentano gli 820mila giovani nati in Italia da genitori stranieri che attendono l’approvazione dello ius soli. Una legge tanto voluta dal Pd da essere al primo punto della campagna elettorale del 2013, tanto decantata dallo stesso ex premier Renzi, e ultimamente oggetto di una solenne promessa da parte del presidente del consiglio Gentiloni – che a luglio aveva detto di iniziare i lavori a settembre proprio con lo ius soli – e invece destinata a essere rinviata. Un’altra volta.
Quella sulla cittadinanza è una legge che trova ostacoli a ogni angolo, in pratica, segue gli umori dell’opinione pubblica alimentata da posizioni xenofobe e dalle aride cifre dei sondaggisti. Lo si è visto anche con la giravolta al Senato del M5s che pure nel 2013 aveva presentato un testo di legge simile a quello presentato dalla relatrice è Doris Lo Moro (Mdp). Come ha fatto notare il giurista Luigi Ferrajoli su Left, lo ius soli «non ha niente a che fare con le migrazioni e l’unica ragione per non concederlo è di carattere razzista». Ma il nesso ius soli e migrazioni viene ulteriormente coltivato e la stessa “cautela” del Pd dimostra la non chiarezza del partito democratico che facendo così contribuisce ad alimentare la confusione. Il capogruppo Pd Zanda ha promesso che se ne parlerà a ottobre dopo il Def e prima della legge di Stabilità. Vedremo.
Oggi la riunione dei capigruppo al Senato deciderà se calendarizzare o meno.
«Per me le promesse dei politici sono spesso per calmare l’opinione pubblica ma quello che spero è che Zanda rispetti quello che ha detto, non voglio credere che l’Italia non voglia riconoscere i suoi figli», dice Youness Warhou, 23 anni, tra i fondatori del movimento Italiani senza cittadinanza, molto attivo in questo ultimo periodo. « Però visto che non mi fido continuo ancora con il mio gruppo, scendiamo nelle piazze, facciamo incontri e vogliamo andare nelle scuole per spiegare ai bambini qual è la situazione».
«Oggi la patria è dove trovi pace e rifugio, e che rende possibile una convivenza civile. La patria è dove ti puoi fermare», si legge nell’appello promosso da Gianfranco Bettin, Ginevra Bompiani, Furio Colombo, Goffredo Fofi, Carlo Ginzburg, Luigi Manconi e diretto al presidente della Repubblica, ai presidenti del Senato e della Camera e a tutti i cittadini italiani. Un appello in cui si pone l’accento sul fatto che l’idea di cittadinanza cambia in questo mondo sconvolto da guerre e esilii e che il diritto di sangue si apre al diritto del suolo. «È così che un paese ritrova se stesso riconoscendosi nel suo prossimo».
Vedremo se queste idee aperte verso un orizzonte che arricchisce tutti i cittadini riusciranno a concretizzarsi in una legge a lungo attesa, oppure se prevarranno ragioni più misere che chiuderanno quell’orizzonte nel buio dei pregiudizi.
Aggiornamento delle ore 18,39. Per tutto il mese di settembre il ddl sullo ius soli non compare nel calendario dei lavori del Senato. Lo ha deciso la Conferenza dei capigruppo di Palazzo Madama.
Non c’è mai una seconda prima impressione. E qui nemmeno una fine
Non so se vi ricordate, è passato qualche anno, quando per alcune settimane in Italia deragliarono tutti i treni: fu un impareggiabile filotto cosparso su tutti i giornali (e telegiornali) per giorni interi che ci convinse (tranquilli, poi passa, sempre, passa) che salire su un treno fosse uno dei gesti più spericolati che un padre di famiglia potesse compiere. Poi, all’improvviso, all’unisono, più nulla: notizia sparita, problema risolto.
Poi (ve lo ricordate?) ci furono i sassi dal cavalcavia: migliaia di teste di persone alla guida che si sollevavano ogni volta che la propria auto passava sotto un ponte: una sensazione generale di spada di Damocle a forma di sasso attanagliava i viaggiatori e sui quotidiani (e nei telegiornali) si coglieva la paura di essere sterminati da un attacco che arrivasse dal cielo. Come in Indipendence Day. Ma poi basta. Tutto a posto.
Nelle scorse settimane (siamo nei giorni dello sgombero di piazza Indipendenza a Roma, per capirsi) si è schiacciato l’acceleratore sulle violenze degli “immigrati” (scritti così, senza distinzioni, mettendoci dentro l’irregolare insieme al minore non accompagnato o al perseguitato politico o al profugo di guerra come se fosse tutto materiale di risulta) e risultò utilissimo il racconto di Pamela, una donna romana trentacinquenne che raccontò di essere stata “rapita” insieme alla nipote da un gruppo di immigrati. Tempismo perfetto: “ora provate a dire che non andavano sgomberati!”, hanno urlato i giornalacci. Facendo di tutto lo stesso impasto. E notizia sparata in prima pagina.
Ora è la settimana degli stupri: un’Italia sotto la morsa della violenza di questi negri sporchi brutti e cattivi condita da numeri inventati, cronache vaginali, pornografia del dolore e presunti studi scientifici sulla predisposizione allo stupro di questa o quella razza, addirittura. Poi è successo il fattaccio dei carabinieri e allora subito di corsa a cambiare atteggiamento fissandosi sulle americane che bevono troppo e sulle donne ammaliatrici: il ritorno di Eva, bentornato Medio Evo. Fino a stamattina quando fortunatamente è successo ancora con uno straniero accusato di stupro su una turista a Roma e quindi la “linea della narrazione” è tornata sui binari più comodi.
Poi fa niente che gli incidenti su ferrovia siano in linea (e lo erano anche nei tempi dell’allarme) con il trend degli ultimi decenni; non importa che i sassi dal cavalcavia (per fortuna) continuino ad essere i rari gesti sconsiderati di qualche cretino; non importa che la donna romana che diceva di essere stata “rapita” sia stata smentita dai fatti e nel frattempo sia stata beccata mentre rubava in un supermercato e arrestata per furto; e non conta nemmeno che la Questura di Firenze abbia bollato come “fake news” le presunte statistiche sugli stupri “inventati” dalle straniere per screditare i fiorentini e, vedrete, non conterà nemmeno illustrare come le violenze sulle donne sia un fenomeno fomentato soprattutto da italiani su donne italiane e per di più in famiglia.
L’importante è la prima impressione. Giornalisti, politici e presunti intellettuali di latta si scatenano sull’onda emozionale dimenticandosi di avere il dovere di sapere e raccontare come va a finire. Tutti presi da un’analisi che si basa sul “sentimento popolare” come se fosse l’unico fatto da cui attingere. E così, ovvio, ci intirizziamo sempre di più ad essere un Paese con la credibilità che dura poco più di un tweet, convinto che la cultura e la credibilità si misuri solo nel tempismo e che la complessità del reale sia una perdita di tempo che non interessi a nessuno. Non è solo un analfabetismo di ritorno, no: è un Paese intero che vive la contemporaneità con la foga dello scommettitore alle corse dei cavalli e che smisuratamente esulta se vince o si dispera se sbaglia la puntata. Tutto qui.
Buon martedì.
L’appello di Ken Loach per Blue Desk, polo culturale indipendente che rischia di scomparire
Che la città di Roma viva una profonda crisi del settore culturale è una realtà oggettiva; che questa crisi sia determinata da molteplici fattori (economici, politici, progettuali etc.), retaggio di una storia passata oltre che situazione attuale, è un discorso noto; che nel cono d’ombra della crisi finiscano per precipitare le attività culturali meno protette, spesso le più vitali, certamente quelle maggiormente legate alla vita del territorio e della comunità civile, è un triste monito. Ecco perché, quando si tratta di associazioni culturali, come Blue Desk, scatta l’esigenza di intervenire.
Nata nel 2008, Blue Desk opera nella capitale dal 2013, nel quartiere Appio latino-Tuscolano, tra due importanti strade di percorrenza (Appia e Tuscolana): traffico inarrestabile, parcheggio introvabile, metropolitana, molti esercizi commerciali, altissima densità di popolazione, rari gli eventi e le iniziative culturali. Il locale, poco meno 50 metri quadri, è stato ristrutturato da Simone Amendola e Floriana Pinto, nel senso che hanno comprato pittura, pennelli, secchi e doghe di legno e, sebbene facessero l’uno il regista e l’altra l’operatore culturale, l’hanno rimesso a posto nel giro di tre mesi, lavorando il giorno, ma soprattutto la sera e la notte, per non sottrarre tempo agli impegni prefissati. Gli hanno dato una mano gli amici, è vero, nessuno di loro era muratore, parquettista, pittore-competenze importanti, di cui erano sprovvisti – ma erano tutti animati da un intento comune ovvero partecipare alla creazione di un laboratorio di idee e di confronto tra diversi linguaggi espressivi. Un luogo di incontro, in cui convergessero e da cui ripartissero energie, immaginazione, discorsi, bellezza nell’improvvisazione e organizzazione del tempo libero. Da allora, Blue Desk ha messo su appuntamenti con il miglior cinema di finzione e il vivace mondo del documentari, il teatro, la fotografia, la musica – tantissima, travolgente, etnica soprattutto – ma si è dedicata anche a progetti nelle scuole, temi sociali, grandi eventi gratuiti. Con la Casa del Cinema e il contributo della Regione Lazio ha realizzato retrospettive su alcuni importanti cineasti del presente, tra cui Ken Loach e Philip Groening. In solitaria ha investito su documentari, progetti editoriali, spettacoli teatrali. Spesso ha fatto da battistrada nel proporre temi caldi o progetti scomodi, come il documentario sulle Pussy Riot, l’anarchica band femminile, che ha pagato con la prigione la rivolta a Putin. In dieci anni il suo pubblico è aumentato ed è diventato sempre più eterogeneo, interessato, disponibile all’avventura di un intrattenimento non convenzionale ed a proposte artistiche inusuali. Accanto ad amanti del cinema, professionisti, studenti, amici e conoscenti si sono seduti curiosi, adolescenti, famiglie, post-punk, orfani di Rifondazione e non solo, tanti stranieri, artisti, pensionati, annoiati del vicino centro commerciale o anche della Tv. Ci sono stati fine settimana gremiti…
Questo luogo ora rischia di chiudere, e non importa quale sia il contraddittorio in corso, quanto entusiasmo da sempre abbia permeato questa esperienza, se i risultati siano eccellenti e anche questo sia un modo intelligente di fare impresa, la burocrazia ha un linguaggio incomprensibile ai più e non serve entrare nel merito. Resta il problema che nel 2018 Blune Desk forse non ci sarà più, versare la somma di 15 mila euro è la condizione necessaria per mantenerlo in vita, ottenere un contratto di affitto, non perdere quello che, con dedizione e costanza, Simone e Floriana hanno costruito in questi anni. È stato chiesto loro di resistere allo scoramento, non lasciarsi spaventare da una cifra fuori dalle loro contingenti opportunità e “provarci” ancora: glielo hanno chiesto amici, spettatori, iscritti all’associazione, gente del quartiere, esercizi delle vie circostanti. E’ nata così l’idea di lanciare un crowdfunding con “Produzioni dal basso” per ottenere risorse economiche e sponsorizzazioni da chiunque desideri partecipare al progetto e contemporaneamente lasciar agire sui social una campagna di visibilità #mydeskisblue per difendere il lavoro di 10 anni. Hanno immediatamente aderito: Ken Loach, Philip Groening, Pussy Riot, i registi Massimiliano Bruno e Silvano Agosti, l’Orchestra di Piazza Vittorio, il portavoce di Amnesty Italia Riccardo Noury, la sceneggiatrice Doriana Leondeff, la montatrice Francesca Calvelli, il fonico di presa diretta Maricetta Lombardo, l’attrice Elda Alvigini e aderiranno ancora in tanti. La redazione di Left e il direttore Simona Maggiorelli sono con loro.
Link alla campagna di crowdfunding
Contribuisci con quello che vuoi al crowdfunding e segui Blue Desk sui social. Scattati una foto con la scritta #MYDESKISBLUE , pubblicala sulle tue bacheche insieme al link di produzionidalbasso e poi inviala anche a [email protected]. Sarà inserita sulla wall del sito di Blue Desk.
«Quel giorno alla Moneda, mio padre…». Storia di Montiglio, l’italiano che voleva salvare Allende

Con il nome di battaglia ‘Joaquín’, Julio Soto Céspedes era uno dei sei autisti personali di Allende. L’11 settembre 1973 aveva 24 anni ed era un uomo del Gap (Grupo de amigos del presidente), un nucleo scelto di giovani militanti del Partito socialista, la scorta più fidata del “Dottore’ – così lo nomina per tutta l’intervista che mi ha rilasciato a Roma in occasione della sua testimonianza al processo Condor. È lui che portò il presidente alla Moneda la mattina del golpe a bordo della famosa Fiat 125 scura. «Chiesi al Dottore cosa stesse accadendo», racconta Soto. «‘Si è insubordinata la marina’, rispose. ‘Corri, dobbiamo arrivare alla Moneda prima della marina’. In auto non abbiamo più parlato. Impiegai meno di dieci minuti per coprire i 15 chilometri tra casa sua e il palazzo. Siamo arrivati verso le 7:20 e sembrava tutto calmo». Già il 29 giugno c’era stato un tentativo di golpe, ma allora le stesse forze armate guidate dal generale Carlos Prats erano intervenute per sedarlo. Poi erano venuti gli scioperi generali, come quello dei camionisti che aveva paralizzato il Cile affamando le città prive di rifornimenti. Allende si rivolse al paese via radio, chiedendo ai lavoratori di recarsi nelle fabbriche e di attendere istruzioni.
Nella Moneda tutti erano pronti a combattere fino all’ultimo, armati alla meglio con quanto avevano potuto trovare in quelle ultime ore. «‘Combattiamo per difendere la democrazia, la Costituzione e lo Stato di diritto. Chi vuole arrendersi ora può farlo’, ci disse Allende una volta dentro il palazzo. Eravamo in 34, nessuno depose le armi», ricorda Soto. «Secondo un piano prestabilito ci dividemmo in due gruppi. Io mi appostai con altri sette sul tetto del ministero dei Lavori pubblici che è molto più alto della Moneda. Avevamo un lanciagranate, un fucile mitragliatore e degli Ak47. Da lì sopra avremmo potuto colpire chiunque». L’idea di Allende era di resistere fino a quando il popolo cileno non avesse preso coscienza della gravità degli eventi. Ma la situazione in breve precipitò. Dopo pochi minuti arrivò la fanteria inviata dal generale Augusto Pinochet, nominato comandante dell’esercito il 23 agosto 1973 dallo stesso presidente socialista. I soldati cominciarono a sparare. I difensori del palazzo risposero al fuoco. Poi però giunsero anche i carri armati in appoggio dei golpisti; infine gli aerei.
«Scendevano verso la Moneda per sganciare le bombe, ci passavano davanti. Non siamo riusciti ad abbatterli. Eravamo stati addestrati per difendere il Dottore in caso di attentato, non per combattere una guerra. Pinochet era riuscito a mettere insieme esercito, marina e aviazione». La voce di ‘Joaquín’ cambia tono. «Se devi sventare un golpe con un fucile, non sparare mai a un aereo mirando alla fiancata. Ricorda: devi colpirlo davanti, dove c’è il pilota». Mentre sibila questa frase mi guarda fisso negli occhi e il suo volto si indurisce per un brevissimo istante; capisco che non sta facendo dell’ironia. In quel momento morì la democrazia cilena e con essa il presidente socialista e i suoi compagni. Dopo il suo ultimo messaggio alla nazione, poco prima che il generale Javier Palacios ordinasse l’assalto finale, i golpisti telefonarono ad Allende offrendogli un aereo per andare in esilio. Lui rifiutò urlando: «Traditori». Quindi intimò ai suoi di arrendersi e li salutò. Imbracciando il mitra ricevuto in regalo da Fidel Castro si chiuse nel suo studio privato e si sparò. «Forse pensò che in questo modo ci avrebbero risparmiato. Purtroppo non è andata così. Se i miei compagni avessero intuito cosa li aspettava, non si sarebbero lasciati ammanettare. Sarebbero morti combattendo».
[….]
Tra le prime vittime del golpe cileno c’è un giovane di origini piemontesi, Juan José Montiglio Murúa. La moglie, Rina Belvederessi, e i figli Tamara e Alejandro chiedono giustizia in virtù della norma del codice di procedura penale che consente allo Stato italiano di processare anche in contumacia i presunti responsabili di crimini contro l’umanità compiuti all’estero nei confronti di cittadini italiani. «A testimoniare», racconta Tamara Montiglio, «abbiamo chiamato tra gli altri la presidente del Senato cileno Isabel Allende Bussi, figlia di Salvador e di Hortensia Bussi, che lasciò la Moneda pochi istanti prima dell’attacco su ordine del padre». Nato a Santiago del Cile nel 1949, Montiglio era un militante del Partito socialista e capo del Gap (Grupo de amigos del presidente), la scorta personale e più fidata di Allende, con il nome in codice ‘Anibal’. «Fu arrestato l’11 settembre dalle milizie di Pinochet», prosegue Tamara, «ed è stato visto insieme ad altri prigionieri alla caserma Tacna, dove si presume che sia stato ucciso pochi giorni dopo insieme ad altri Gap prelevati al palazzo presidenziale». In Cile c’è un processo che riguarda la sua vicenda iniziato circa vent’anni fa. Ma Rina e i due figli non hanno mai testimoniato di persona prima di oggi in un’aula giudiziaria sull’omicidio di Montiglio. «Per ora», prosegue Tamara, «ci sono state solo indagini, nessuna udienza vera e propria. Molto probabilmente la sentenza di Roma arriverà prima di quella cilena e per questo la nostra famiglia è molto grata allo Stato italiano». «Montiglio fu imprigionato, torturato, fucilato a colpi di mitra e fatto saltare in aria con delle bombe a mano nella caserma Tacna insieme ad altri Gap dai militari comandati da Rafael Francisco Ahumada Valderrama. È uno dei 3.000 desaparecidos cileni: il suo corpo non è mai stato ritrovato», ricostruisce Soto.
Nel 1979 Pinochet, seguendo l’esempio della dittatura argentina, con l’operazione ‘Ritiro dei televisori’ ordinò di far sparire i resti dei prigionieri politici, riesumandoli e gettandoli in mare. Qualche frammento osseo rimase comunque nella fossa comune della Tacna e grazie all’esame del Dna alcune spoglie sono state restituite alle rispettive famiglie. Anibal non è tra queste. «Per identificarlo», spiega Tamara Montiglio, «occorrerebbe trovare mia nonna che lo aveva partorito in una relazione extraconiugale. Si sa solo che potrebbe avere il cognome Venezia. Poiché il Dna mitocondriale di una persona si ricava da quello della madre, la questione resta irrisolta. Tant’è che mia mamma in Cile risulta ancora sposata con lui. Non è considerata una vedova».
Tamara nel 1973 aveva meno di 2 anni e come suo fratello ha conosciuto la vera storia di suo padre solo a ottobre del 1988. «Per proteggerci eravamo sempre stati tenuti all’oscuro. Il 5 ottobre 1988 ci fu il plebiscito che si è concluso con la vittoria dei ‘no’ al prolungamento del mandato di Pinochet per altri otto anni. Vennero pertanto indette nuove elezioni: fu l’inizio della fine della dittatura che è caduta l’anno dopo. Nei giorni precedenti, poiché iniziavano a circolare più notizie del solito anche sugli anni del golpe, mia madre e mia nonna pensarono che avremmo potuto vedere qualche foto o leggere qualche articolo su papà e i suoi compagni, quindi decisero di raccontare a me e a mio fratello Alejandro di un anno più grande che cosa era successo alla nostra famiglia l’11 settembre 1973». La storia comincia una settimana prima. «Il 4 settembre il governo socialista aveva assegnato ai miei genitori una casa popolare. Fino a quel momento avevamo vissuto con i miei nonni ma terni. Per tre giorni papà e mamma sono stati a pulire, il 7 settembre siamo andati a vivere tutti insieme nella nuova casa. Pochi giorni dopo ci venne improvvisamente a prendere mio nonno con una zia. Insieme a mamma siamo tornati a casa dei miei nonni. Avevo 2 anni, ci sono rimasta fino a 25». La vita della famiglia Montiglio cambiò bruscamente. «Nonno era dentista, durante la dittatura abbiamo vissuto in un quartiere borghese e con mio fratello abbiamo studiato nella scuola italiana. Non abbiamo mai sospettato nulla. Mia madre negli anni ci raccontò tanti particolari della vita e del carattere di papà. Sapevamo che era stato un dirigente dei giovani studenti socialisti, che gli piaceva ascoltare gli Inti-Illimani. A poco a poco ci mostrava come era Montiglio ma senza mai arrivare a raccontare qualcosa che potesse far pensare alla sua presenza a fianco di Allende nel giorno della fine. Ci diceva che era morto per una brutta malattia, la tenia».
Una metafora che Rina non scelse a caso per alludere al regime fascista di Pinochet. «Poi», prosegue Tamara, «quel giorno del 1988 finalmente ho saputo. Lei ha cominciato a raccontare come aveva conosciuto papà all’università. Che prima erano amici e che dopo è nato l’amore. E poi che lui era molto più che un semplice studente socialista impegnato politicamente. Nel 1970 il partito gli aveva chiesto di entrare nel dispositivo del Gap per fare da scorta ad Allende. Lui lo raccontò a mamma quando aveva già preso la decisione di accettare. Entrò nella scorta il 23 novembre 1970, due giorni dopo è nato mio fratello Alejandro. Quando ci disse come è morto papà sono stata male. Il colpo è stato durissimo. Ricordo però che in quel momento mi sono resa conto di averlo sempre saputo. I racconti di mamma, alcune sue conversazioni a mezza bocca con la Figli rubati nonna. È stato come se improvvisamente si mettessero insieme tanti frammenti di un puzzle». Secondo Julio Soto, la ferocia con cui sono stati eliminati Anibal e gli altri compagni del Gap alla caserma Tacna è stata una conseguenza dal fatto che 34 persone sono riuscite a tener testa a un attacco militare coordinato per quasi otto ore. «Io mi sono salvato confondendomi tra il personale del ministero durante l’evacuazione. A fine settembre fui arrestato e condannato a cinque anni di carcere. Dopo due anni di torture, il 25 settembre 1975 la pena mi venne commutata in esilio». Una volta ‘libero’, Julio Soto è partito per il Regno Unito per poi trasferirsi in Svezia dove il premier socialista Olof Palme garantiva l’asilo ai militanti sudamericani. Infine si è stabilito in Germania, a Berlino. Qui si è innamorato di una donna tedesca, ha svolto molti lavori ed è stato consulente di Baltasar Garzón nell’inchiesta che si concluse nel 1998 con il mandato d’arresto internazionale emesso dal giudice spagnolo contro Pinochet. Oggi Joaquín è un pensionato. «Viviamo tra la Svezia e la parte est di Berlino, nostra figlia studia medicina. Ogni tanto ritorno in Cile dove non ho potuto rimettere piede fino al 1987, ma non mi trovo granché bene. C’è una democrazia molto fragile che ancora poggia sulla Costituzione scritta da Pinochet. Con il caso Montiglio a Roma per la prima volta al mondo in un’aula giudiziaria si parla degli eventi accaduti nel giorno del colpo di Stato cileno. Furono compiuti crimini contro l’umanità, ma nel mio paese la polizia fa solo finta di indagare». «15.516: sono i giorni passati dall’omicidio di mio padre », ha scritto in un sms dal Cile il figlio di Montiglio, Alejandro, all’avvocato di parte civile Andrea Speranzoni al termine della prima udienza romana, il 12 febbraio 2015.
In foto: Tamara Paola Montiglio Belvederessi durante la sua testimonianza al Processo Condor di Roma, (Lilia Di Monte ©)
La cupa avanzata dell’Afd, a “braccia tese” contro la Merkel

Manca poco per essere “quattro volte Angela”. Dopo che il suo terzo mandato volge a termine, è quasi certo che Merkel verrà rieletta di nuovo il 24 settembre a capo dello Stato più ricco dell’Unione Europea. Eppure nella cittadina tedesca di Finsterwalde, nel cuore di quella che è stata la sua regione natale nell’ex Germania dell’est, “la donna più potente d’Europa” non riusciva a far sentire la sua voce. Ad accoglierla c’era una folla che urlava “vattene”.
Angela Merkel ha tentato di ribadire a chi protestava nella cittadina le ragioni che l’hanno spinta ad accogliere oltre un milione di profughi, ma in cambio ha avuto fischi e proteste. Più potenti dei suoi microfoni, ai piedi del palco, c’erano i neonazisti dell’Afp, che alle elezioni si piazzeranno probabilmente davanti a verdi e liberali.
«La Merkel mi fa vomitare, ha ammesso tutti questi parassiti islamisti, questi criminali in Germania, non ha chiesto il permesso a nessuno». A parlare era un attivista dell’Afd, Alternativa per la Germania, il partito populista nato nel 2013 con posizioni anti-euro ed ora è apertamente anti-islamico. Durante la manifestazione, due di loro sono stati prontamente ammanettati, appena hanno alzato la mano e teso il braccio per compiere il saluto nazista.
Nell’est del paese l’Afd ha fatto presa con campagne contro migrazione e globalizzazione. I membri dell’ultra destra dell’Afp oggi si battono esplicitamente contro turchi, ebrei, neri e la ministra dell’Integrazione Aydan Ozoguz. Hanno conquistato il 33% nelle elezioni regionali lo scorso anno, e il loro rating nei sondaggi è cresciuto dall’otto all’11%. Il 24 settembre sapremo se sono diventati il terzo partito del paese e quasi certamente sarà così.
Perché mancano ormai pochi giorni alle elezioni tedesche, e nessuno ha troppi dubbi. Rinnovando la loro forza politica nella maggiore coalizione in Parlamento, vinceranno di nuovo i cristiano democratici di Angela Merkel, che vantano nei sondaggi un 37% di preferenze tra i cittadini rispetto al 20% dei social democratici.
Nel suo ultimo dibattito televisivo, da cui la cancelliera della Cdu è uscita vincente, anche il social-democratico Martin Schulz, in altri termini, ha criticato la politica “delle porte aperte” di due estati fa, quando un milione di migranti giunsero in Germania. La Merkel ha controbattuto come ha fatto in Germania Est.
«Non permetteremo che l’estate del 2015 si ripeta», ha detto alla folla a Finsterwalde, dove c’era anche chi la supportava, ed erano quasi in mille. Neppure loro riuscivano a coprire le urla dei manifestanti che impedivano alla Cancelliera di parlare. Sui cartelloni che agitavano c’era scritto “Noi Amiamo Angela”, erano radunati intorno alle staccionate intorno al palco ed alcuni di loro sapevano di cosa stava parlando quando ricordava il flusso umano che scappava dalla guerra: erano siriani.
Libia: è pizzo di Stato?

Il reportage dell’altro ieri di Lorenzo Cremonesi sul Corriere della Sera è solo l’ultimo tassello di un quadro che va componendosi da settimane. Sono molti i servizi giornalistici che ci raccontano come la Libia sia diventata un inferno (Medici Senza Frontiere l’ha detto senza giri di parole) e, soprattutto, che i trafficanti libici si sono riciclati nel ruolo di “tappo” degli imbarchi verso l’Italia.
“Zio” Dabbashi, di cui scrive il Corriere, è solo uno dei tanti schiavisti che ora si è messo a disposizione con le sue milizie per fermare i migranti.
Scrive il Corriere: “Con gli agenti dei servizi italiani si è incontrato più volte in alcuno hotel di Gammarth, la costa turistica di Tunisi. Sarà e gli italiani si sono assicurati la sua collaborazione in cambio di 5 milioni di euro e la promessa che i Dabbashi ne usciranno puliti le loro milizie saranno legalizzate”.
Quindi: un criminale viene pagato (da chi, esattamente?) e ottiene una promessa di impunità.
Sembra una puntata di Narcos e invece sono gli «amici libici» di Minniti.
Chi ha pagato? Chi garantisce copertura politica? Possibile che tutti coloro che si sono “eccitati” per le indagini conoscitive di Zuccaro sulle ONG oggi non trovino stimoli sui fatti raccontati da fonti autorevoli?
Per intendersi, pagare dei criminali per tenere lontano il crimine è “pizzo”: un favoreggiamento politico e criminale. Un po’ come funziona con quei commercianti che sono disposti a pagare un obolo ai criminali perché ammazzamenti e ladrocini non avvengano sotto le loro insegne. Non sono contro il crimine: sono contro i fastidi del crimine nel proprio giardino.
Pizzo, appunto. In questo caso pizzo di Stato.
Qualcuno ha qualcosa da dire?
L’ex ministro greco Varoufakis mette a nudo la retorica dell’establishment europeo
E’ stato uno degli eventi politici che ha contrassegnato la riapertura dei lavori nella capitale dell’Unione europea. Al Bozar, tempio culturale di Bruxelles, lo scorso 9 settembre è andato in scena il “vero stato dell’Unione” organizzato da DiEM25 (Movimento per la Democrazia in Europa 2025), primo ritrovo nel cuore pulsante dell’Ue per il movimento co-fondato dall’ex ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis. All’appuntamento si sono presentate più di mille persone, tra cui molti giovani. L’obiettivo era mettere a nudo la fatua retorica dell’establishment europeo, a pochi giorni dall’omonimo discorso ufficiale, pronunciato dal presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker.
“Lasciate perdere i numeri ingannevoli, noi sappiamo bene che la crisi in Europa non è finita, anzi sta peggiorando”, afferma l’ex ministro delle finanze di Atene, pungendo: “Immagino già cosa dirà Juncker settimana prossima: elogerà i dati sulla ripresa economica e dirà che la crisi è finita, continuando così la tradizione di diniego della realtà portata avanti da tempo dai principali politici europei”. Varoufakis ne ha per tutti, a cominciare dai fautori delle politiche di austerità, imposte dalla “tecnocrazia in cui si è trasformata l’Unione europea”, in modo autoritario (vedi il caso della Grecia, ma non solo): “Hanno creato un deserto e lo chiamano pace”.
I problemi dell’Europa attuale non si fermano tuttavia alle politiche economiche, né all’euro. “L’Ue fa le sue mosse tenendo conto del sentimento del mercato, non ascolta più i suoi cittadini, ignorando i loro interessi. Siamo in mano a politici incompetenti, che fanno scelte irresponsabili e a volte sono persino corrotti”, denunciano altri relatori di spicco, come Philippe Legrain, ex consulente del presidente della Commissione Manuel Barroso, e la senatrice irlandese Alice-Mary Higgins dal palco del Bozar, per l’occasione allestito con un’installazione di grandi stelle bianco-rosse a richiamare quelle della bandiera europea. “I burocrati europei hanno mantenuto il loro lavoro grazie alla vittoria di un solo uomo: Emmanuel Macron”, ammonisce Varoufakis, sottolineando: “Proprio Macron ha dichiarato recentemente che l’UE ha bisogno di essere completamente ristrutturata, altrimenti si disintegrerà”. Insomma, l’Europa per come l’abbiamo vista finora, dicono quelli di DiEM, si trova di fronte a un bivio e rischia di crollare.
Come rilanciare allora il progetto comunitario, messo in scacco da una parte da un’élite incapace di cambiare lo stato delle cose, dall’altra da movimenti xenofobi e populisti che ne invocano la disintegrazione? Lontani dall’abbracciare l’idea di un ritorno allo stato nazione, Varoufakis e i membri di DiEM25 hanno le idee chiare: propongono innanzitutto un “New Deal europeo”, sulle orme di quello statunitense voluto dal presidente Roosevelt all’indomani della grande depressione del ’29. “Abbiamo bisogno di un’Europa sociale, che protegga i suoi cittadini. Solo in seguito potremo discutere di una riforma costituente e democratica per l’Ue”, scandisce Varoufakis, annunciando i punti principali della proposta: un programma di “transizione verde” per l’economia europea, che punti sull’innovazione e sulla ricerca; un piano di “stabilizzazione economica” che garantisca il lavoro e la casa all’interno delle loro comunità ai cittadini; infine l’adozione di un “dividendo universale europeo”, basato su “una tassa comune sulle intelligenze artificiali che sostituiscono il lavoro dell’uomo”, a disposizione di tutti gli europei. A queste idee, si aggiungono proposte specifiche per l’eurozona, come “la creazione passo dopo passo di un’unione bancaria” simile a quella federale creata da Roosevelt negli anni Trenta, e l’introduzione di “un meccanismo di ristrutturazione del debito pubblico per gli stati membri che non sono più in grado di rimborsarlo”.
Accanto all’economista greco, si alternano personaggi di spicco della politica mondiale: dall’ex presidente dell’Ecuador, Rafael Correa, che parla dell’esempio ecuadoregno nell’affrontare i poteri della finanza globale; al noto economista statunitense Jeffrey Sachs, consulente del democratico Bernie Sanders e da anni impegnato all’Onu nella lotta in favore dello sviluppo sostenibile. Figure che, con il loro sostegno al progetto di DiEM, danno all’evento un tono da comizio elettorale. Solo sensazioni, perché per ora DiEM resta un movimento transnazionale fatto dai cittadini per i cittadini, molto lontano dal diventare un partito politico.
C’è però chi non si nasconde, come Lorenzo Marsili, co-fondatore del movimento insieme a Varoufakis: “L’evento di oggi è la prova che un’altra Europea esiste già”, afferma Marsili nel corso della serata, ricordandone le battaglie recenti, dall’addio al Ttip (il trattato di libero scambio con gli Stati Uniti) alla protesta contro i nuovi regimi autoritari in Polonia e Ungheria, passando per il sostegno ai rifugiati che arrivano in Italia e Grecia. “Quest’Europa”, umana e democratica, “non si arrende ed è determinata a vincere”, aggiunge l’indomani su Facebook l’attivista italiano, celebrando l’elevata partecipazione di Bruxelles. Durante l’evento qualcuno del pubblico chiede (su Twitter) se DiEM si appresti a scendere in campo, come si dice in Italia. Nessuno risponde, ma il dado sembra essere tratto. Per ora i Diemers si mobilitano per condividere il loro programma con un numero sempre maggiore di cittadini europei. Ad essere onesti, già riempire il Bozar non era scontato. Ma DiEM, nato soltanto nel 2016, cresce di mese in mese. E chissà che alle elezioni europee del 2019 non sia già pronto a fare il grande passo.







