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Bombe umane o schiave: così Boko Haram distrugge la vita di migliaia di donne e bambine

Ci sono vittime del terrorismo religioso per cui non si spreca inchiostro né titoli d’apertura sui media occidentali. Eppure si tratta di esseri umani, peraltro tra i più indifesi. Sono ragazzine, sono bambine, sono bambini, sono donne. Sono le prede di Boko Haram li utilizza, in Nigeria e altri Paesi sub sahariani per compiere attentati, come “bombe umane”. L’Unicef li chiama così, “human bombs” e non attentatori suicidi, perché ad essere vittime sono in primis loro: minori rapiti, plagiati, abusati da quel gruppo che fa sanguinare la mappa centrale africana. È il nuovo codice del terrore di una vecchia strategia, scrive Al Jaazera, una nuova tattica disciplinata, possibile grazie al mancato controllo del territorio da parte dell’esercito governativo ed è già diventata una nuova impronta, una nuova firma macabra del gruppo.

Le ragazze sono una nuova arma da guerra: solo nel 2017 sono state 80 le donne e le bambine usate negli attentati come kamikaze dai miliziani di Boko Haram. Lasciando dietro di sé la scia di sangue di 400 vittime da aprile in poi, il doppio rispetto ai cinque mesi precedenti. Lo riferisce Amnesty. L’organizzazione terroristica ha perso territorio, controllo delle front line e ha portato la sua guerra nelle moschee, nelle piazze, nelle università, nei mercati, nelle chiese, nei luoghi affollati. Il più mortale è stato compiuto a Waza, in una sala giochi, lo scorso luglio: 16 ragazzini sono morti per una cintura esplosiva indossata da una minore, una bambina costretta così a mettere fine al suo destino, insieme a quello di altri bambini.

L’Unicef è giunta alla stessa conclusione di Amnesty: nel 2017 sono stati 84 gli attentati compiuti da minorenni per il gruppo del terrore il cui nome significa “l’istruzione occidentale è proibita”. Uno studio sul terrorismo del centro di West Point e della Yale University ha esaminato 434 attacchi suicidi compiuti da Boko Haram dal 2011 al 2017: solo in 338 è stato possibile riconoscere l’identità dell’attentatore e nel 244 dei casi si trattava di ragazze o donne.

Boko Haram punta i fucili sulle ragazzine, l’occidente punta gli occhi altrove. Si dice migrazione ma è fuggire soprattutto dalla morte, tutte le morti che puoi incontrare per strada in Africa. Schiavi religiosi i bambini, doppie schiave le bambine. Per le donne, gli elementi più sacrificabili della società africana, è un nefasto record, a cui non c’è antidoto se non la fuga. Se non bombe umane, le ragazze rischiano di diventare schiave sessuali, mogli dei militanti contro il loro volere. Alcune di loro sono state liberate, ma ne hanno partorito i figli e adesso devono rimanere con loro. Alcune sono bambine che hanno messo al mondo altri bambini e hanno poco più di 14 anni. «Non eravamo mogli, ma schiave, non mangiavamo nemmeno, eravamo oggetti» dicono alle telecamere di Al Jazeera.

Tutto è difficile, niente è efficace. Amnesty nell’ultimo dossier dice che 223 civili sono morti in Nigeria da aprile, ma ricorda che i dati sono approssimati per difetto e nessuno conosce davvero l’esatto numero delle vittime: «tra maggio ed agosto il numero di civili uccisi è 7 volte maggiore che nei quattro mesi precedenti, mentre, solo ad agosto, sono cento i civili che hanno perso la vita». Non solo in Nigeria, ma anche in Camerun: «Da aprile 158 civili sono morti per gli attacchi di Boko Haram, quattro volte in più che nei cinque mesi precedenti».

A nord est della Nigeria sono in marcia, si lasciano dietro le case e i vicini di casa morti, cibo e documenti. Afferrano i loro figli, abbandonano le fattorie e scappano via correndo dalla violenza cieca di Boko Haram. A Monguno, nello stato del Borno sono arrivati un numero maggiore di migranti che in Europa nei primi nove mesi dell’anno: dei 17 milioni di profughi interni del continente nero, il 93,7% rimane in Africa, solo il 3,3% raggiunge l’Europa. L’UN avvisa: quest’anno in centinaia di migliaia moriranno di fame.

La vera crisi migratoria è all’interno dell’Africa stessa e non in Europa: per Boko Haram 2 milioni e 600mila persone hanno abbandonato la loro terra. Sono più dei siriani rifugiati in Turchia eppure la loro non la chiamiamo guerra.

«Boko Haram è tornato a compiere crimini su vasta scala, questo è esemplificato dalla depravazione di usare ragazzine costringendole ad indossare esplosivi, col solo intento di uccidere quante più persone può» ha detto Alioune Tine, direttrice per l’Africa centrale e occidentale di Amnesty International. I miliziani non perdono vigore, continuano a marciare, kalashnikov e tunica nera. Il loro potere cresce, ma in silenzio, perché non accade qui, in Europa, ma in stati i cui profughi ci rifiutiamo di accogliere. Sono morte almeno 20mila persone nelle violenze compiute da Boko Haram dal 2009 in Africa, perché il terrore non diminuisce, non in Africa. Diminuiscono solo le voci che lo denunciano.

«Se l’è andata a cercare»: reazioni italiche e le “nostre” donne

La bambina, dicono le carte dell’inchiesta, è “alta un metro e 55 e pesa 40 chili”. Oggi ha 16 anni ma ne aveva 13 quando sono iniziate le violenze: la violentavano in nove. A volte a turno. A volte tutti insieme. Poi, quando avevano finito, la costringevano anche a rifare il letto, come ultimo sfregio di una donna che, piaccia o no ai Salvini di turno, qui da noi è spesso vista come strumento di piacere e di riordino.

I responsabili dello stupro (rei confessi e condannati in via definitiva) sono italiani, italianissimi: c’è il rampollo di mafia Giovanni Iamonte, che la Procura descrive come «rampollo di un esponente di spicco della locale cosca della ’ndrangheta, soggetto notoriamente violento e spregiudicato», c’è Antonio Verduci, figlio di un maresciallo dell’Esercito e c’è anche Davide Schimizzi, fratello di un poliziotto che al telefono lo istruiva su come affrontare gli interrogatori.

Tutto accade a Melito Porto Salvo, in uno di quei paesi in cui l’arrivo di migranti, seppur minori non accompagnati, viene vissuto come un “rischio per la sicurezza” mentre in realtà la “sicurezza” ha cominciato a marcire da un bel pezzo. La storia, che risale a un anno fa, è stata presto dimenticata poiché cozza con l’idea strumentale dello stupro come arma politica contro il migrante, qualsiasi migrante.

Così vale la pena ripescarla per riportare le frasi degli italianissimi compaesani di quella bambina sfregiata durante la marcia di solidarietà organizzata esattamente un anno fa: «Se l’è cercata!». «Ci dispiace per la famiglia, ma non doveva mettersi in quella situazione». «Sapevamo che era una ragazza un po’ movimentata», «Una che non sa stare al posto suo». Il preside si affrettò a dire che «la scuola non c’entra, ognuno deve pensare alla sua famiglia».

Ed è una storia che provoca nausea e indicibile dolore. Come molte altre. Ma vale la pena esporla ancora perché la ferocia, qui da noi, soprattutto se italiana, ci mettiamo pochissimo a seppellirla.

Buon mercoledì.

Bibihal, 106 anni, la rifugiata più anziana al mondo che la Svezia respinge in Afghanistan

105-year old Afghan woman. Bibihal Uzbeki from Kunduz, Afghanistan, rests in Croatia's main refugee camp at Opatovac, Croatia, near the border with Serbia, Tuesday, Oct. 27, 2015. Centenarian Bibihal Uzbeki, crossed into Croatia on a stretcher from Serbia with a large group of refugees, including her son and several other relatives, among tens of thousands who have traveled across continents, fleeing war and poverty to search for a happier, safer future in Europe. (AP Photo/Marjan Vucetic)

È sopravvissuta alle guerre. Alla fame. Alle bombe. Al suo Paese: l’Afghanistan. La sua città: Kunduz. Poi al viaggio nel deserto. E in Europa è stata portata sulle spalle di suoi figlio, di 67 anni, e suo nipote, 19 anni, attraverso montagne e foreste, insieme ad altri 17 dei suoi parenti. Bibihal Uzbeki ha 106 anni e la sua domanda d’asilo è stata rifiutata dal governo svedese.

È la rifugiata più anziana del mondo e ora le dicono di dover tornare indietro, verso una casa che non ha più.

La sedia a rotella gliel’hanno data solo in Germania, ha detto suo figlio Muhammadhulla, che l’ha trasportata sulle spalle per giorni e chilometri. In Svezia ormai non può più parlare né camminare. A stento si muove. La famiglia si è appellata ai giudici della Corte dei Migranti dopo il rifiuto, ci saranno vari stadi d’appello ma riprocessare la richiesta potrebbe richiedere molto, troppo tempo. «L’età non è di per sé una ragione d’asilo» ha fatto sapere l’agenzia della migrazione svedese, commentando il caso, che ha decretato che deve tornare in Afghanistan o in qualsiasi altro Paese disposto ad accoglierla.

L’anziana – di cui hanno parlato i giornali di tutto il mondo nel 2015, quando è stata intervistata nel capo di Opatovac in Croazia – faceva parte di quel flusso umano che arrivava da Siria, Afghanistan, Iraq, attraverso quella rotta balcanica verso il sogno nordico in un’Europa che adesso dice che no, non c’è posto, né più tempo, per lei, che a 106 anni ancora sogna di vivere.

Sulla Svezia oggi e il rapporto con gli immigrati leggi intervista allo scrittore Jonas Hassen Kemiri

Alfano il cameriere, l’Italia lo zerbino: così si frolla il cadavere di Giulio Regeni

Il ministro degli Esteri Angelino Alfano, tra i presidenti delle commissioni Estero di Camera Fabrizio Cicchitto (D) e Senato, Pierferdinando Casini, nel corso dell'audizione sui rapporti tra Italia ed Egitto, in particolare sul caso Regeni, nella Sala Mappamondo di Montecitorio a Roma 4 settembre 2017. ANSA/MAURIZIO BRAMBATTI

Angelino Alfano ha strizzato il proprio povero vocabolario per difendere la scelta del governo di rispedire in Egitto l’ambasciatore italiano seppur in assenza di qualsiasi passo in avanti nella ricerca della verità sulla morte di Giulio Regeni. “L’Egitto è un partner ineludibile dell’Italia, allo stesso modo come l’Italia è imprescindibile per il Cairo” ha dichiarato ieri di fronte alle commissioni di Camera e Senato riunite ieri per fare il punto sulla vicenda.

In sostanza il Ministro agli Esteri ha preso ispirazione da Il Trono di Spade citando Stannis Baratheon: “Cos’è la vita di una sola persona di fronte a un regno?”. Nulla. Certo.

Poi è riuscito a trattare l’inchiesta del New York Times come se fosse uno spiffero di corridoio.

La chiamano “realpolitik” e invece è la codardia di chi molla il colpo fingendo che ci siano interessi più alti di una verità negata. È la solita Italia: quella che commemora con aule universitarie morti di cui non ci hanno raccontato abbastanza, provando a convincerci che davvero funzioni commemorare una storia che non ci è nemmeno stata raccontata.

Sullo sfondo c’è la Procura di Roma, incagliata in una mancata collaborazione con l’Egitto che è vergogna aggiunta alla vergogna, che ora deve farsi carico anche del peso politico, oltre che giudiziario.

Sullo sfondo gode Al Sisi, governante dalla scarsissima democrazia, che sorride mentre usa l’Italia come lettiera. C’è sempre un motivo superiore, quando i governanti non hanno il coraggio di dichiarare la resa.

Ma ve lo ricordate quando il governo egiziano ci disse che Regeni era morto in un incidente stradale? Ve lo ricordate Al Sisi quando mentì dicendo che Regeni non era conosciuto dai servizi segreti egiziani? Ecco. Non è nemmeno più indignazione: è uno scoramento, che puzza.

Buon martedì.

Ahmad, il pianista di Yarmouk: «Il mio Paese è la musica»

epa05105359 Syrian-Palestinian musician Aeham Ahmad, recipient of the International Beethoven Prize, plays piano at the demonstration 'Syrian refugees say no to the Cologne assaults!' in Cologne, Germany, 16 January 2016. According to police reports, numerous women were sexually harassed and robbed in the throng in front of Cologne central station on New Year's Eve. EPA/MAJA HITIJ

Prima che scoppiasse la guerra, Aeham Ahmad ( che  giovedì 7 settembre suona nel Cortile della Biblioteca civica al Festival Con-vivere a Carrara),  era solito girare in bicicletta per le strade affollate di Yarmouk, andare con gli amici a fare due chiacchiere in qualche caffé della zona, dare lezioni di piano, passeggiare con sua moglie. Yarmouk è un campo profughi palestinese a sud di Damasco nato dopo la Nabka, l’esodo palestinese, del ’48. Ma Yarmouk non è solo questo, è anche il simbolo dell’orrore che ha travolto la Siria con l’arrivo della guerra civile da un lato e l’avanzata di Isis dall’altro, delle barrel bomb lanciate dal governo di Bashar al-Assad contro i ribelli e delle decapitazioni e atrocità portate da Daesh. Soprattutto della complessità della Siria, sempre più dilaniata dalle fazioni. Qui infatti hanno lottato per il predominio sul territorio Hamas, gli affiliati di al-Qaeda, i ribelli siriani, il governo di Assad, i miliziani di Isis. Eppure per Aeham questo campo profughi a sud di Damasco, prima di essere un perfetto esempio da manuale di geopolitica, era soprattutto e nonostante tutto, casa. La sua vita scorreva tranquilla, certo c’erano delle difficoltà, ma lavorava con il padre, un violinista cieco, nel loro negozio di strumenti musicali. Studiava e suonava il suo pianoforte, si era sposato e aveva avuto dei figli. E se è vero che in effetti non aveva una Nazione della quale dirsi cittadino, proprio il padre gli aveva spiegato che: «Il nostro Paese è la musica».

Poi è venuta la guerra. Aeham la ricorda bene la prima volta che un jet del governo siriano ha bombardato Yarmouk: era il 16 gennaio 2012 e ricorda bene, fin troppo, anche tutto il resto, «la follia della guerra, il sangue, i morti». Ma il suo Paese è la musica, si dice come un mantra, e allora non si dà per vinto: trascina il suo pianoforte in strada fra le macerie e suona, qualche ragazzo comincia a cantare, nasce una specie di complesso e, paradossalmente, quella musica, anche se non riesce a coprire il rumore delle bombe, a ricostruire le case o riparare l’ospedale da campo andato distrutto, diffonde un briciolo di entusiasmo e di speranza fra la gente. Ricorda a tutti per un attimo com’era Yarmouk prima della guerra.

«Era la mia piccola rivoluzione, un tentativo di contrastare l’orrore», ci racconta Aeham al telefono «una rivoluzione musicale per restituire alle persone almeno un po’ di speranza, un po’ di forza. Eravamo assediati, mancava tutto… non avevamo acqua, cibo, cure, le persone morivano a centinaia. Ma la speranza era fondamentale per andare avanti, per noi, ma soprattutto per i nostri bambini» e mentre parla sentiamo all’improvviso in sottofondo irrompere una voce e chiamare «papi…». Niente poteva riuscire a rendere più chiaro il racconto del nostro pianista. «A un certo punto siamo stati costretti a fuggire. Volevamo restare, abbiamo lottato in tutti i modi per restare in Siria…»

 

Immigrati, stupri e bugie

A leggere certi giornali italiani parrebbe che il reato di violenza sessuale sia stato introdotto di recente nel codice penale. Quasi in concomitanza con il fenomeno migratorio. Come a ribadire stoicamente che la pratica dello stupro appartiene (storicamente) a tutti gli invasori. Anzi, addirittura, sembrerebbe che “i nuovi barbari siano peggiori di quelli del ‘43/’45, oggi come allora fiancheggiati dai traditori della Patria”.

Tanto da stimolare anacronistici rigurgiti fascisti, risalenti all’epoca della Repubblica Sociale Italiana e riadattabili all’uopo. Campeggia (in rete, con più di diecimila like, undici mila condivisioni e quasi mille e cinquecento commenti a due giorni dalla pubblicazione) un manifesto di Forza Nuova che rielabora la propaganda razzista del periodo: “Difendila dai nuovi invasori, potrebbe essere tua madre, tua moglie, tua sorella, tua figlia” è scritto nel titolo. Perché «gli stupri, si sa, sono il barbaro e infame corollario di ogni guerra di conquista. Le violenze contro le donne dell’epoca del manifesto a cui ci siamo ispirati (Forza Nuova, ndr), furono contestualizzate all’interno della sconfitta che chiamarono ‘liberazione’, quelle di questi anni e di questi giorni le occultano spudoratamente, tacendo il fatto che sono state attuate da nuovi invasori a cui paghiamo vitto, alloggio, bollette, schede telefoniche, cellulari e sigarette».

Criminalizzare intere nazionalità assicura un cortocircuito pericoloso che, nell’opinione pubblica, si traduce in un’equazione alquanto becera, anziché no, violenta, corrispondente a immigrato uguale stupratore. Che, oltretutto, è falsa. E non solo perché la responsabilità penale è personale. Stando a un dossier elaborato dall’istituto di ricerche Demoskopika, il numero di stranieri denunciati o arrestati per stupro è più basso dei toni farciti d’odio: negli anni che vanno dal 2010 al 2014, il 61 per cento delle violenze sessuali è stato compiuto da italiani contro il 39 per cento degli stranieri. Una ulteriore conferma viene da una recente nota del Viminale secondo cui i crimini contro le donne perpetrati da italiani sono aumentati passando da 1474 del 2015 a 1534 del 2016, mentre quelli di cui sono responsabili persone straniere oltre a essere diminuiti sono anche numericamente inferiori (904). In soldoni, in sei casi su dieci, il colpevole è italiano. Ma fin qui il cortocircuito non è del tutto scongiurato.

Perché si potrebbe obiettare che la popolazione di stranieri residenti in percentuale è di molto inferiore al 39 per cento (circa 11%), e quindi i dati confermerebbero la validità dell’equazione. Ma è sufficiente scorporare le percentuali in base alla nazionalità per riportare tutto nei binari della realtà e della correttezza. Dopo quel 61% di italiani, denunce e arresti hanno riguardato romeni (8,6), marocchini (6), albanesi (1,9) e tunisini (1,3%). Ripensiamo per un attimo al manifesto di Forza Nuova e all’“invasione” di immigrati propagandata non solo dai partiti di destra. Anche il governo parla in continuazione di invasione (dai luoghi di guerra del Medio Oriente e dall’Africa sub sahariana) per giustificare il Codice Minniti anti Ong e gli accordi con il governo libico. Ebbene in questa “speciale” classifica la nazionalità non coincide con nessuno dei Paesi da cui partirebbero i presunti invasori. Infine un ultimo elemento ma non per questo meno importante.

È cosa nota che differenza di altri reati le denunce per stupro sono solo una piccola percentuale di quelle compiute. La violenza sulle donne è un fenomeno in gran parte ancora sommerso. Come nel caso della pedofilia, moltissimi stupri avvengono in famiglia per opera del partner o di una persona conosciuta (spesso l’ex marito o fidanzato). Questo rende difficilissimo per la persona violentata trovare la forza di denunciare. Ovviamente la difficoltà vale sia in contesto “italiano” sia in un contesto non italiano. Ma, vale la pena riportare una dichiarazione di Lella Palladino dell’associazione “Donne in Rete contro la violenza”, a cui aderiscono 80 centri antiviolenza in tutta Italia. La quale intervistata da Repubblica ha detto: «Attenti al sommerso, cioè alle violenze tra le mura di casa, che arrivano raramente a livello di denuncia. Tra le donne che si rivolgono ai nostri centri, gli episodi di violenza domestica si rivelano infatti nell’80% dei casi anche episodi di violenza sessuale. E qui parliamo di situazioni in cui vittime e stupratori sono in stragrande maggioranza italiani».

Non fare i conti con le statistiche esistenti e con le storie personali degli immigrati – alle quali, peraltro, è destinato solo il 3 per cento dei servizi giornalistici italiani, interpellandoli, per giunta, soltanto nelle cornici di degrado, stigmatizzati in gruppi massificanti, senza facce, interscambiabili fra di loro e, perciò, senza identità – (dis)orienta verso una figura stereotipata dell’immigrato, estraneo, non conosciuto, che violenta la donna italiana. Senza considerare che ogni accentuazione veemente e bolsa della nazionalità di un colpevole – così come di quella della vittima – è, quantomeno, strumentale. Perché non fa altro che alimentare l’orientamento razzista travisando che, certamente, non aggiunge maggiore rilevanza al reato né maggiore responsabilità al criminale.

E dimenticando che fino a quando l’orrore e l’indignazione dipenderanno dalla cittadinanza dell’autore, allo stupro non sarà mai imputata la giusta gravità.

«Dalla mia Africa prendete tutto… ma rifiutate gli esseri umani»

Mentre mandiamo in stampa questo numero di Left è ancora viva l’eco dal vertice di Parigi sui migranti e il diritto d’asilo. I giornali mainstream hanno parlato di “europeizzazione” dell’azione italiana. All’Eliseo, il padrone di casa, Macron, la cancelliera Merkel, il primo ministro spagnolo Rajoy, il premier Gentiloni e i tre leader africani di Ciad, Libia e Niger hanno parlato di «necessario contenimento dei flussi migratori». Di fatto, non è emersa alcuna azione concreta. Al di là delle promesse di questo e di altri vertici internazionali nulla è stato fatto finora per costruire corridoi umanitari legali e sicuri. Autorevoli commentatori come Paolo Mieli parlano di grande successo leggendo il calo degli sbarchi (nei primi 25 giorni di agosto: 3mila nel 2017, 21mila nel 2016) come diretta conseguenza dell’«aver dichiarato guerra alle organizzazioni delinquenziali». Una guerra agli scafisti e alle Ong “ree” di non aver firmato il codice Minniti che l’ex direttore del Corsera non esita a paragonare alla «nobile battaglia inglese» contro i trafficanti di uomini, che il 23 febbraio 1807 portò il Parlamento inglese ad approvare a larga maggioranza l’abolizione della tratta degli schiavi. Ora, tralasciando che gli anti schiavisti inglesi ingaggiarono quella importantissima lotta per vendere macchine non per fini umanitari, mi domando come si fa a non vedere la differenza abissale che c’è fra gli intenti degli operatori umanitari e quelli di sanguinari mercanti di uomini.

Continua così, anche attraverso l’uso strumentale della storia, l’inaccettabile criminalizzazione dell’azione delle Ong e prosegue l’ipocrita riproposizione dello slogan «aiutiamoli a casa loro». Quando è ben noto (basta leggere le numerose denunce di Amnesty) che fermare gli sbarchi dei migranti significa ricacciarli in Libia a marcire in centri di dentenzione dove non c’è alcun rispetto dei diritti umani, oppure vuol dire mandarli a morire nel deserto. Nel frattempo anche il Niger rischia di diventare un grande lager sul modello della Libia, come ha denunciato Marco Bertotto di Medici Senza Frontiere ai microfoni di Tutta la città ne parla su Radio3. L’ottica neocolonialista che si nasconde dietro lo slogan «aiutiamoli a casa loro» appare sempre più evidente, così come l’uso strumentale della questione migranti per fini elettorali. Il segretario del Pd, Matteo Renzi, pensa davvero di poter rincorrere le destre sul loro terreno, senza pagare il prezzo di aver drammaticamente abdicato ad ogni valore e ideale di sinistra? La stretta securitaria imposta dall’attuale esecutivo di centrosinistra guidato da Gentiloni (in linea con il precedente governo Renzi) non ha prodotto solo la guerra contro i migranti e contro le Ong. Il 19 agosto scorso si è tradotta nello sgombero del palazzo occupato di via Curtatone a Roma dove, dal 2013, vivevano circa 800 rifugiati; seguito dal violento sgombero di piazza Indipendenza dove si erano radunate le persone rimaste senza casa e costrette a dormire all’aperto. Le immagini che tutti abbiamo visto e che in questo numero di Left abbiamo deciso di riproporre, parlano da sole. Richiamano le drammatiche sequenze della macelleria compiuta alla Diaz dalle forze dell’ordine nel 2001.

Lorenzo Guadagnucci del comitato Verità e giustizia per Genova in queste pagine lancia una precisa denuncia. Il lessico usato dal prefetto di Roma che ha parlato di «semplice» operazione di «cleaning» fa venire i brividi. La copertina di Left parla chiaro: pulizia etnica. È questo lo spettro evocato dallo sgombero coatto della scorsa settimana a cui si aggiungono, purtroppo, molti altri esempi di ostracizzazione dei migranti in altre parti d’Italia. Durante l’importante e pacifica manifestazione del 26 agosto quei rifugiati scappati dal feroce regime del dittatore Isaias Afewerki e sgombrati con la forza hanno risposto al prefetto con parole ben diverse dalle sue. I loro cartelli e quelli di tanti altri manifestanti dicevano «Siamo migranti non criminali», «Protect people not borders», e il più eloquente di tutti: «Dalla mia Africa prendete tutto: petrolio, gas, oro, ferro, diamanti, banane… ma rifiutate gli esseri umani».

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola


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Usa e Corea: 64 anni in 30 minuti. Breve storia di un conflitto (nucleare?) irrisolto

A pedestrian looks at a huge screen displaying a TV news program reporting North Korea's launching a ballistic missile over Japan's territory in Tokyo, Japan, 29 August 2017. According to the Japanese government, North Korea launched a ballistic missile over Japan that crashed in the Pacific Ocean, 1,180 km east of Hokkaido's Cape Erimo. No damage has been reported. The Japanese government issued a warning to its citizens after the launch of the North Korean missile. ANSA/KIMIMASA MAYAMA

Mezz’ora: è il tempo che impiegherebbe un missile intercontinentale lanciato dalla Nord Corea per raggiungere Los Angeles. In 30 minuti sono racchiusi 64 anni: perché per i nordcoreani la guerra non è mai finita. Anzi, va avanti dal 1953. «Anche se i bombardamenti sono finiti nel 1953, Pyongyang insiste: la guerra non è mai finita e tra i suoi obiettivi ufficiali c’è la riunificazione della penisola coreana sotto la dinastia di Kim» scrive Mark Bowden sul magazine The Atlantic. Ma quella che verrà, se verrà, non sarà come l’ultimo conflitto degli anni ’50: «Si crede che i nordcoreani abbiano scavato tunnel ovunque verso la Corea del Sud. Ed essendo dotati di sottomarini piccolissimi, potrebbero far detonare la bomba sotto la stessa Seul».

La Nord Corea ha un esercito con un milione di soldati, armi biologiche e chimiche. Può raggiungere gli Strati Uniti con un’arma nucleare – le uniche altre nazioni a poterlo fare sono Russia e Cina – ed è per questo «la più grande minaccia nei confronti degli Stati Uniti esistente in questo momento. Secondo la logica trumpiana, il costo della all-out war, la guerra totale, potrebbe essere accettabile perché rimarrebbe dall’altro lato del mondo. Gli America firsters – quelli dell’America prima di tutto – potrebbero vedere le vittime asiatiche come accettabili».

Secondo gli esperti interpellati dal giornale ci sono quattro opzioni per mettere fine alla questione. La prima è la prevenzione: un attacco per eliminare l’arsenale di Pyongyang e le armi di distruzione di massa, once and for all, una volta per tutte; la seconda è aumentare la pressione e usare forze aeree e navali per danneggiare e distruggere la loro capacità militare, compresi i piani missilistici; la terza è l’accettazione: accettare che Kim sviluppi le armi ma per contenerne le intenzioni; la quarta è la decapitazione: eliminare solo il leader con un assassinio e ripiegare su un Capo di Stato nuovo che «aprirà la Corea al mondo. Ma tutte le opzioni sono cattive», scrive the Atlantic.

Nonostante abbia fatto i suoi giuramenti spregiudicati, «Trump non ha detto niente di significativamente diverso rispetto ai politici americani del mezzo secolo precedente nei confronti della Nord Corea. Fare in modo che la dinastia di Kim abbandoni le nuke, le armi nucleari, era una priorità già prima che Pyongyang facesse il suo primo test missilistico nel 2006, durante l’amministrazione Bush. Poi i missili sono stati detonati quattro volte durante il governo di Obama. È da quando era al potere Richard Nixon che gli Usa tentano di porre fine alle minacce, alle esercitazioni di Kim facendo pressione sulla Cina, introducendo sanzioni, e più recentemente commettendo cyber sabotaggi. Nel 1969 il presidente Nixon è stato timido quando due caccia nordcoreani hanno abbattuto un aereo spia Usa». All’epoca nel mare del Giappone morirono 31 nord americani.

Il mondo si interroga sul suo futuro mentre nel regno autoritario di Kim Jong Un le provocazioni sono missili, in quello di Trump sono tweet. Il loro prezzo dovremmo però pagarlo tutti. Risalgono a luglio le ultime sanzioni contro Pyongyang dell’Onu. Subito dopo seguirono le parole del presidente americano che hanno indispettito quello nordcoreano: problema risolto, «la Corea del Nord ha imparato a rispettarci». Se da una parte c’è la promessa Usa di fire and fury, fuoco e furia di Trump, come in un film sull’apocalisse di Hollywood, dall’altra ci potrebbero essere armi biologiche e chimiche nascoste in tutto il paese. Robert D. Kaplan lo scrisse sull’Atlantic più di dieci anni fa, nel 2006: «Potrebbe essere per il mondo – ovvero, realmente, per l’esercito americano- l’operazione di stabilizzazione più grande dalla fine della seconda guerra mondiale».

La mappa delle atomiche nordcoreane pubblicata su The Atlantic

L’apologia dell’antifascismo è un dovere. Mica un reato

È un giochetto sporco che si ripete ciclicamente: appena qualcuno prova a sottolineare l’intensificarsi del puzzo fascista (che sia sui giornali, nei modi, nelle parole, nei gesti, nei manifesti o nei soliti squallidi editoriali di squallidi editorialisti) questi rispondono invocando la libertà. Peggio: invocando il fascismo e la censura in chi, secondo loro, non lascia “libertà di espressione”.

Giochetto semplice che si svolge solitamente in tre atti.

Primo: negare. “Vedete fascisti dappertutto” scrivono i maleodoranti editorialisti dei soliti giornali. Volete un esempio? Eccolo:

E fa niente che gli esempi degli ultimi giorni siano roba da mettersi le mani nei capelli. Volete un esempio? Eccoli:

Secondo: invocare la libertà d’espressione. Ieri Giuseppe Cruciani su Libero (e dove, altrimenti) si è sperticato in un articolo intitolato “voglia di censura” in cui si ululava “la sinistra vuole denunciare Forza Nuova (ma va?) per un cartellone contro l’invasione ispirato al Ventennio (l’hanno scritto loro, eh).  Ma se accettiamo di zittire un partito mettiamo fine alla libertà di opinione”.

E infatti è il terzo atto quello fondamentale: ignorare o fingere di ignorare. La legge 20 giugno 1952, n. 645 (cosiddetta legge Scelba) in materia di apologia del fascismo, sanziona «chiunque fa propaganda per la costituzione di una associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità» di riorganizzazione del disciolto partito fascista, e «chiunque pubblicamente esalta esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche»

Insomma, piaccia a meno a quelli di Libero o a Cruciani, l’apologia di fascismo è un reato in Italia non perché siano fissati gli antifascisti ma perché a essere ossessionata (a ragione) è la nostra Costituzione.

Non solo: l’apologia di fascismo è vietata mentre l’apologia dell’antifascismo è un dovere, mica un consiglio.

Buon lunedì.

Luigi Ferrajoli: «La legge elettorale non è la panacea»

LUIGI FERRAJOLI DOCENTE

Professor Ferrajoli, all’inizio di settembre la legge elettorale sarà di nuovo al centro del dibattito politico. Adesso, dopo il fallimento del patto elettorale a tre, Pd, M5s e Forza Italia, quali prospettive vede?
Ho sempre pensato che il sistema elettorale più democratico, quello che meglio garantisce la rappresentanza politica, è il sistema proporzionale. Questo è tanto più vero nelle condizioni attuali: l’Italia, come gran parte degli altri Paesi europei, soffre di una crisi radicale della rappresentanza. Il nostro ceto politico non rappresenta quasi più nulla: il 50 per cento dell’elettorato non vota e l’altra metà è costretta a scegliere tra partiti che, nel loro insieme, come dicono i sondaggi di Ilvo Diamanti, non raggiungono il 4 per cento di gradimento. È perciò crollata non solo la quantità, ma anche la qualità del voto: si vota prevalentemente il partito meno penoso, per paura o disprezzo di tutti gli altri. Questo crollo della rappresentanza, mentre non danneggia la destra e le forze di governo, essendo perfettamente funzionale alle politiche liberiste – dato che consente la massima e indisturbata onnipotenza del ceto di governo nei confronti della società, in ossequio alle direttive dei mercati – a sinistra è letteralmente distruttivo, dato che equivale all’emarginazione di qualunque politica anti-liberista in difesa dei diritti sociali e del lavoro. Per questo, i sistemi maggioritari sono funzionali all’attuale crisi della rappresentanza: perché sono fondati sulla personalizzazione e sulla verticalizzazione dei sistemi politici e sulla passivizzazione dell’elettorato.
I sistemi maggioritari allontanano dalla politica?
Naturalmente sono solo uno dei fattori della distanza tra sistema politico e società. Sicuramente, grazie anche allo sradicamento sociale dei partiti, tali sistemi favoriscono la trasformazione delle elezioni in concorsi di bellezza e in gare di demagogia tra i diversi capi che litigano in televisione. Solo il sistema proporzionale garantisce invece, con l’uguaglianza del voto, la rappresentanza di tutti gli interessi, di tutte le forze politiche, di tutte le opzioni, di tutti i diversi progetti nella società. Solo il sistema proporzionale rende possibile la rifondazione dei partiti quali portatori di interessi e politiche diverse: perché, paradossalmente….

L’intervista di Donatella Coccoli al giurista Luigi Ferrajoli prosegue su Left in edicola


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