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Mairead Maguire (Premio Nobel per la pace): Migranti? Non c’è nessuna invasione

Alunni della II B della scuola elementare di Bottego di Bologna in un'immagine diffusa dall'UNICEF nell'ambito della Campagna ''IO come TU'' per la promozione del diritto alla non discriminazione dei bambini e degli adolescenti di origine straniera che vivono in Italia. ANSA / UNICEF/ITAL2011/Lombardi +++NO SALES - EDITORIAL USE ONLY+++

La sua vita è stata dedicata al dialogo quando questa parola sembrava perdersi nel clamore delle armi. Mairead Corrigan Maguire ha praticato la non violenza negli anni in cui in Irlanda del Nord la violenza era pane quotidiano. Ha praticato e non predicato. Nel fuoco di quel conflitto che sembrava infinito, lei, cattolica nordirlandese, dette vita con Betty Williams, protestante, alla Community of Peace People, un’organizzazione a favore della pace in Ulster, dimostrando che l’appartenenza religiosa e le spinte irredentiste o quelle lealiste non portavano inevitabilmente a imbracciare le armi gli uni contro gli altri. Insieme alla Williams, vinse il premio Nobel per la Pace nel 1976. La sua lotta per i diritti umani nasce anche da una dolorosa storia personale: tre suoi nipoti furono investiti e uccisi da un’auto, alla guida c’era un militante del Provisional Irish Republican Army, che era stato colpito dal fuoco di un soldato. Mairead Corrigan Maguire è anche presidente della Nobel Women’s Initiative, la fondazione che unisce le donne con questo prestigioso riconoscimento («Le donne sanno unire al meglio idealità e concretezza»).
«Da cittadina europea – afferma la Nobel per la Pace in questa intervista esclusiva concessa a Left – mi ribello a chi costruisce i muri, a chi riduce una immane tragedia umanitaria a un problema di ordine pubblico. Mi ribello in nome di quei valori umanistici che sono alla base della civiltà europea e che oggi vengono calpestati. Ho visitato i campi di accoglienza dei profughi siriani in Libano e Giordania, due piccoli Paesi che, insieme, ospitano più di due milioni di rifugiati. Due milioni su una popolazione complessiva che, tra Giordania e Libano, non supera i 14 milioni di abitanti. Nei miei incontri non c’è stato nessuno che ha usato la parola “invasione”, nessuno. Mentre in Europa di questa parola si abusa per giustificare frontiere blindate e respingimenti forzati. Di fronte a questo scempio, occorre una rivolta morale, l’esercizio del diritto-dovere all’indignazione. Non siamo in questo all’anno zero. L’Europa della solidarietà è molto più vasta, ricca, plurale, di quanto si pensi. Dobbiamo dare voce a chi non ne ha, e battersi perché venga finalmente adottato il diritto d’asilo europeo».
Quella del 2017 rischia di passare alla storia come l’estate dei respingimenti, oltre che del sanguinoso attentato nel cuore di Barcellona. Muri e terrore sono il segno dei tempi?
Ne sono parte, ma non sono il tutto. Guai ad arrendersi ai seminatori di odio, a quanti concepiscono le diversità come una minaccia e l’altro da sé come un nemico. Molto si discute…

L’intervista di Umberto De Giovannangeli al premio Nobel per la PaceMairead Corrigan Maguire, prosegue su Left in edicola


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Razzisti sì, ma con stile: arriva il design anti-povero

Grossi blocchi di cemento, disposti uno a fianco all’altro, sui quali insistono dei pezzi di ferro a forma di piramide. Sono stati disposti sotto ad un cavalcavia nella città – a guida Pd – di Bolzano. Lo scopo di questi oggetti così apparentemente bizzarri? Impedire ai senza tetto di poter sostare o dormire al riparo del ponte. L’oggetto, che ha suscitato numerose polemiche e la difesa del sindaco Caramaschi («è un intervento dettato da ragioni di sicurezza a garanzia dell’incolumità di chi cerca riparo sotto i ponti», «sotto i ponti passano i cavi dell’energia elettrica, le tubature del gas…»), potrebbe in effetti sembrare un marchingegno bizzarro e isolato ma basta aguzzare la vista nei centri delle città italiane per capire che si tratta dell’ultimo ritrovato di un inquietante catalogo di “dispositivi anti povero”, che stanno letteralmente riempiendo gli spazi pubblici.

Panchine con braccioli che impediscono di potersi sdraiare, spunzoni anti seduta disposti davanti a vetrine, pensiline del bus arredate con listarelle di legno inclinate a 45° su cui poter sostare solo pochi minuti, dissuasori sonori che emettono un sibilo deterrente, appena distinguibile per gli over 25 ma insopportabile per i più giovani (si, esistono davvero: è stato usato a Trento sul portale di Santa Maria Maggiore): tutto ciò viene chiamato “architettura ostile”, o “architettura difensiva”.

Che i centri urbani italiani siano sempre più inospitali verso chi si trova in stato di povertà assoluta non è certo una novità, lo dimostra anche il recente e drammatico sgombero della palazzina occupata da 800 richiedenti asilo eritrei in via Curtatone a Roma. Ma questi arredi, che richiamano (non troppo) vagamente strumenti di tortura medievali, sono una spia, un segnale rivelatore, che consente di disinnescare almeno per un attimo l’ideologia del “decoro” e le chiacchiere sulle “città vetrina”, e capire quanto siano diventate crudeli nei confronti della popolazione più in difficoltà i centri urbani – grandi e piccoli – in cui viviamo.

«I sociologi in Francia hanno dato una definizione per questi oggetti: “arredo a vocazione disciplinare”. Cioè, arredi vocati a disciplinare l’accesso agli spazi pubblici», spiega a Left Ilaria Agostini, ricercatrice di Tecnica urbanistica all’Università di Bologna.

«La panca senza schienale, le fontane che escono a getto da terra, per impedire lo stazionamento, tutte quelle forme di metallo a piramide che ti impediscono la seduta sui gradini – prosegue la ricercatrice – sono strumenti utilizzati non più solo dai privati ma anche dai comuni». Al contrario di quanto potrebbe sembrare, si tratta di una svolta importante a proposito di diritti. «Si sta applicando in città quello che i giuristi chiamano lo ius excludendi alios, ossia una facoltà connaturata da sempre alla proprietà privata – per cui posso escludere un terzo dall’uso di una cosa in mio possesso». Inoltre, «lo si fa in nome di una sicurezza che è una sicurezza “proprietaria”, è la tutela di una proprietà da difendere e non dell’incolumità dei cittadini. Perché a chi si impedisce di sedersi in genere? A un senza fissa dimora, non stiamo parlando di gente armata. Il sindaco in questi casi – sostiene Agostini – si comporta come il proprietario di un centro commerciale».

Si tratta di quel processo che lo storico dell’architettura Iain Borden ha definito mallification, centrocommercializzazione, la dottrina urbana a causa della quale è sempre più difficile trovare un posto per sedersi in uno spazio pubblico, senza essere costretti a consumare beni o servizi. In particolare nelle location nei luoghi in cui la povertà deve essere nascosta, messa sotto al tappeto. Località queste – direttrici principali, vie dello shopping, piazze storiche, ma anche stazioni dei treni – che diventano vere e proprie “zone rosse”, il cui accesso è regolato: se sei un turista o un acquirente sei il benvenuto, se sei un senza fissa dimora oppure vorresti solamente vivere la città senza spendere, allora la scomodità è garantita.

Ad assicurarla ci pensa un design “antipatico”, come scrive il blogger di cultura e tecnologia Flavio Pintarelli sulla rivista online The Towner, design dichiaratamente pensato per «limitare gli usi di un elemento di arredo urbano soltanto a quelli che il committente ritiene siano leciti e accettabili». Ma, prosegue Pintarelli, «il problema, alla sua radice, sta tutto qui ed è una questione di definizione: chi giudica se un comportamento (e non si parla di illeciti, ndr) è accettabile o meno? A chi spetta l’onore e l’onere della decisione?». I comportamenti accuratamente attaccati da tecnici e urbanisti – è chiaro – rappresentano tutta quella gamma di posture e atteggiamenti tipici della povertà: sia perché questi non hanno solitamente nulla a che fare con il consumo, sia perché potrebbero disturbare la vista del consumatore, e violare il suo “diritto” a fare shopping in metropoli vetrina senza essere disturbato dalla visione oscena dell’indigenza. Perché è il povero, e non la povertà, ad essere presa di mira, in questa lotta di classe dall’alto verso il basso a colpi di design, che provoca uno “sgombero continuo” di persone “indesiderate” dalle polis postmoderne occidentali.

Secondo il professor Enzo Scandurra, docente di Sviluppo sostenibile per l’ambiente e il territorio all’Università La Sapienza di Roma ed autore di Città morenti e città viventi (Meltemi editore, 2003), siamo di fronte al tramonto di una idea “ospitale” di città. Questi arredi – spiega – «sono la manifestazione più evidente di come il concetto di città sia cambiato, a partire dalle prime leghe dei comuni, quando essi gareggiavano fra loro per la costruzione di architetture di accoglienza». «Le prime grandi opere urbane come gli spedali lungo le rotte dei pellegrinaggi – prosegue il professore – in cui il pellegrino si fermava per avere soccorso e poi riprendere il proprio cammino, erano opere pensate per dare ospitalità a tutti. Questa tradizione architettonica è stata del tutto smantellata, oggi siamo appunto all’opposto. I comuni gareggiano tra loro per chi fa opere di “inaccoglienza”, per chi caccia l’estraneo, lo straniero».

Il grimaldello ideologico che ha permesso di compiere quella che Scandurra definisce una «mutazione genetica» dei comuni italiani è la cosiddetta “ideologia del decoro”. Il decoro, termine sempre più tirato in ballo dalle amministrazioni pubbliche: dai comuni con la galassia di ordinanze “per il decoro”, allo Stato col decreto Minniti Orlando sulla sicurezza urbana del febbraio 2017, nel quale il termine compare ben sette volte.
Ma cosa significa veramente la parola decoro? Come scrive Tamar Pitch, docente di filosofia del diritto all’Università di Perugia e autrice di Contro il decoro (Laterza, 2013) il decoro è «sinonimo, appunto, di “dignità, contegno, convenienza, discrezione”… Ma se i ricchi possono essere “discreti”, forse “dignitosi”, ben difficilmente saranno definiti “decorosi”. Decoroso è chi sta nei limiti… e dunque una analisi dei limiti può dire molto riguardo ai processi del controllo sociale».

«Decoro è una parola fascista – chiosa in modo tranchant Scandurra – e rappresenta la distorsione securitaria dell’idea di bellezza, idea che la città contemporanea ha rifiutato e che con il decoro non ha nulla a che fare». La bellezza, appunto. Forse la “riconquista” del senso di ospitalità nelle città potrebbe ripartire da qui.

 

L’articolo di Leonardo Filippi è tratto da Left n. 35 del 2 settembre 2017


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Jonas Hassen Khemiri: «La paura dell’altro avvelena la Svezia»

«La testa del vicino sbuca da dietro la siepe e mi chiede chi sono e cosa ci faccio lì… si scusa, mi spiega che dopo tutto quello che è successo è normale che siamo diventati un po’ sospettosi con gli estranei». Tutto quello che non ricordo (Iperborea) di Jonas Hassen Khemiri ci porta subito, fin dalle prime righe, nel cuore del problema. Si chiama sospetto, paura dell’altro, razzismo. Un tarlo nascosto dentro villette disseminate di allarmi, dentro un linguaggio educato che si rivolge all’altro in guanti bianchi per evitare ogni contatto, dietro una normalità razionale e ordinata. («La Svezia è l’unico posto al mondo dove anche i neonati imparano a evitare lo sguardo dell’altro»).

In questo romanzo lo scrittore svedese svela questa violenza invisibile in modo magistrale raccontando una città ideale, all’apparenza democratica e cosmopolita, come Stoccolma. E ne indaga gli effetti in modo sottile e profondo, spingendo il lettore a interrogarsi sulla vicenda di Samuel, giovane immigrato di seconda generazione, all’apparenza perfettamente integrato, che lavora all’ufficio immigrazione (come in passato il suo autore) ed è innamorato di Laide, attivista per i diritti umani. Più grande di lui, forse un po’ rigida, ha scelto di occuparsi di donne abusate, lo fa in modo militante, tenendo ossessivamente il conto degli stupri. Anche l’amica di Samuel, la Pantera, indossa una maschera dicendo di essere un’artista underground. Più scoperto è invece Vandad, che ha sperimentato il carcere, e ne porta i segni. È attraverso le loro voci, a cui se ne aggiungono via via altre, che veniamo a sapere che Samuel è morto. Un incidente? O «come certi dicono, era depresso e lo progettava da tempo»? Khemiri non ci dà la soluzione, ma ne tratteggia un ritratto sfaccettato e complesso attraverso una straordinaria polifonia di voci, dalle quali emerge la sensibilità, “l’innocenza” contagiosa di questo ragazzo che s’interroga sull’amore.

L’intervista di Simona Maggiorelli allo scrittore Jonas Hassen Khemiri, prosegue su Left in edicola


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Povera Liguria, tra cemento e red carpet

Il presidente della regione Liguria Giovanni Toti (s) e il sindaco Marco Bucci (d) durante l'inaugurazione del 'red carpet' sul molo d'attracco Navebus dal mare fino al Parco di Villa Pallavicini, nel quartiere di Pegli a Genova, 21 luglio 2017. ANSA/ LUCA ZENNARO

«I red carpet sono una meritoria iniziativa di promozione territoriale e la loro installazione è regolare, al punto che la Sovrintendenza non ha emesso alcun provvedimento». Giovanni Toti, governatore della Liguria da maggio 2015, non retrocede. L’ex direttore del Tg4, ex consigliere politico e probabilmente anche ex uomo di fiducia del Cavaliere, ex europarlamentare, continua a promuovere «La Liguria dei red carpet – emozioni da star», come si spiega sul sito web #LamiaLiguria, «un tappeto rosso da stendere sull’intera regione, su quella nota, conosciuta, famosa in tutto il mondo, ma anche su quella quotidiana, vissuta tutti i giorni da migliaia di persone».

La trovata ad effetto per l’estate 2017 è questa. Andare alla scoperta della Liguria passeggiando sul tappeto rosso, attraverso borghi, percorsi costieri e Comuni. Quelli che «che intendono valorizzare le loro eccellenze, sia gastronomiche che culturali e turistiche». Una striscia di circa 50 chilometri dall’entroterra al mare, che unisce simbolicamente tutta la regione. «È un simbolo, ma aiuta a cambiare la mentalità», secondo il governatore Toti. «I red carpet sono stati autorizzati come “installazioni temporanee”, secondo le normative sulle autorizzazioni paesaggistiche: significa che dopo l’estate ce li lasceremo alle spalle. E l’anno prossimo spero che non se ne parli più», dice invece il Soprintendente unico della Liguria Vincenzo Tiné.

Già, perché la questione fa discutere. Quelle strisce rosse srotolate in molti dei luoghi simbolo della Liguria corrono il rischio di omologare piuttosto che esaltare. Proprio per questo la Soprintendenza è corsa ai ripari decidendo che i red carpet non possano finire a ridosso di monumenti di pregio architettonico e storico. Così sono stati accorciati quelli di Cervo, di Portovenere, fino alla spianata antistante la chiesa di San Pietro e di Dolceacqua, fino all’inizio della salita che porta al castello. Pensare che il pericolo per la Liguria sia scampato sarebbe un’illusione. Anche qui, come altrove, spesso si prova a forzare la mano…

L’articolo di Manlio Lilli prosegue su Left in edicola


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Giulio Regeni, le tracce da seguire sono in una nota riservata inviata dall’Onu all’Italia

People hold signs depicting Giulio Regeni and reading ''365 days without Giulio'' as they attend a march in memory of the Italian researcher at Sapienza University on the first anniversary of his disappearance in Egypt, Rome, Italy, 25 January 2017. Italian President Sergio Mattarella on the same day called for cooperation to bring the killers of Regeni in Egypt to justice. 'Italy has mourned the killing of one of its studious young people, Giulio Regeni, without full light being shed on this tragic case for a year, despite the intense efforts of our judiciary and our diplomacy', Mattarella said on the first anniversary of Regeni's disappearance. 'We call for broader and more effective cooperation so that the culprits are brought to justice'. Guilio Regeni was an Italian PhD student researching the independent trade unions in Egypt, he disappeared on 25 January 2016 in Cairo, then his body was found in a ditch on Cairo-Alexandria road outside of Cairo on 03 February 2016 with signs of torture. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

C’è una linea sottile che unisce l’omicidio di Giulio Regeni, ucciso al Cairo tra il gennaio e il febbraio 2016, e quello di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, ammazzati a Mogadiscio il 20 marzo 1994. Non si tratta, ovviamente, di un’analogia nei due fatti di cronaca. Ma della reazione che entrambi hanno provocato nell’opinione pubblica: la voglia di verità, di conoscere, di sapere.

Purtroppo chi reclama trasparenza non pare voglia la verità oggettiva, ma miri invece a far riconoscere come verità la sua tesi precostituita. Una pretesa che non porta a nulla, se non ad allontanare sempre più la verità vera. Non conosco tutte le sfaccettature del mistero Regeni (quelle del caso Alpi invece sì). Ho letto soprattutto il reportage del New York Times, scritto dal Declan Walsh con cui ho lavorato a lungo quando, qui a Nairobi, era il corrispondente dell’Irish Times. Declan è un collega scrupoloso e puntiglioso come ce ne sono tanti anche in Italia. Solo che nel nostro Paese pare che non ci sia nessun editore (di quelli ricchi e facoltosi) disposto a spendere un consistente gruzzolo di denaro e impegnare per quasi tre mesi un suo giornalista in un’inchiesta che riguarda il misterioso omicidio di un ricercatore. In Italia si preferisce fare un gran polverone indicando genericamente un complotto da svelare, usando toni più scandalistici che seri.

E allora Regeni viene presentato via via come studioso al soldo dei servizi segreti britannici o, dalle autorità egiziane, come un drogato o un omosessuale dalle cattive frequentazioni ucciso da un compagno geloso. E si risponde con accuse rivolte ai servizi segreti del dittatore egiziano Abd al-Fattah al-Sisi, quelli ufficiali e quelli deviati. Io non so se sia stato Al Sisi ad aver armato la mano dei servizi segreti, ma mi domando perché nessuno si è preso la briga – almeno ufficialmente – di chiamare in causa i servizi segreti britannici e francesi, che al Cairo hanno una rete notevole di informatori arabi.

Sappiamo che in Egitto gli interessi italiani dell’Eni si scontrano con quelli delle compagnie petrolifere britanniche e francesi, soprattutto dopo che il cane a sei zampe ha messo le mani su un enorme giacimento di gas naturale (850 miliardi di metri cubi, pari a 5.5 miliardi di barili di petrolio) a Zohr a poco meno di 200 chilometri al largo della costa mediterranea del Paese arabo. L’annuncio della scoperta è stato dato qualche settimana prima dell’arrivo al Cairo del ricercatore italiano…

L’articolo di Massimo Alberizzi prosegue su Left in edicola


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Stato di Polizia

Italian law enforcement officers use water cannons to disperse about a hundred migrants protesting at Indipendenza square after the evacuation, on 19 August, of an occupied building in Rome, Italy, 24 August 2017. The building was mainly occupied by asylum seekers and refugees from Eritrea and Ethiopia. ANSA/ANGELO CARCONI

Franco Fedeli, fondatore della pionieristica rivista Polizia e democrazia, nei cruciali anni Settanta propose con forza l’immagine del “lavoratore-poliziotto” e ne fece una leva decisiva per arrivare alla riforma che nel 1981 smilitarizzò il corpo. Gli agenti non dovevano più essere “sbirri”, mero braccio armato del potere, bensì lavoratori fra lavoratori e quindi cittadini. Fedeli se n’è andato nel 1997 e non può commentare l’evoluzione della polizia di Stato e degli altri corpi di sicurezza dell’ultimo ventennio, ma è difficile pensare alla figura del lavoratore-poliziotto e cittadino-fra-cittadini mentre scorrono le immagini del brutale sgombero delle famiglie di profughi e richiedenti asilo da piazza Indipendenza a Roma. Come fu difficile, nell’estate del 2001, collegare il progetto della “nuova polizia” con le violente scorribande, gli abusi, le torture, i falsi praticati da centinaia e centinaia di agenti nelle piazze, nelle strade, nelle caserme, nelle scuole di Genova durante il vertice G8.

Nel 2001, increduli e scioccati, ci chiedevamo: che cos’è successo nei venti anni trascorsi dalla riforma? Che ne è stato della “polizia democratica” che dialoga con i cittadini e privilegia la prevenzione? Non c’erano risposte a disposizione: né il potere politico, né i sindacati e tantomeno i vertici di polizia seppero offrire spiegazioni convincenti circa la caduta di legalità costituzionale che caratterizzò le giornate genovesi e anzi si alzò rapidamente un muro di protezione – fatto di silenzi e di omertà – che a malapena la magistratura, negli anni successivi, è riuscita a scalfire.

Nel luglio scorso il nuovo capo della polizia di Stato, Franco Gabrielli, in virtù di un’intervista fin troppo celebrata, è stato accreditato del merito di avere messo un punto fermo nel lungo e irrisolto dopo Genova-G8. «La gestione dell’ordine pubblico fu una catastrofe», ha dichiarato…

Lorenzo Guadagnucci è portavoce del Comitato Verità e giustizia per Genova

L’articolo di Lorenzo Guadagnucci prosegue su Left in edicola


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Non solo Nereto: il senso (di ospitalità) delle amministrazioni Pd per le camicie nere

Un paio di giorni fa, come riportato anche dal nostro giornale, il piccolo comune abruzzese a guida Pd di Nereto è finito nell’occhio del ciclone per la notizia della concessione della sala comunale “Salvador Allende” a Forza Nuova e all’associazione di estrema destra Nuove sintesi, per un incontro sulla Repubblica di Salò. Uno gesto – denunciato dapprima dagli scrittori Wu Ming – dal significato simbolico forte (poi il Sindaco Giuliano Di Flavio ha negato di avere approvato richieste di Forza Nuova, ma in genere gli spazi erano prenotati da Nuove sintesi, stando a numerosi precedenti).

La scoperta di quell’episodio ha scoperchiato una realtà ben più ampia: l’ospitalità a forze di estrema destra da parte di giunte dem non è limitata al perimetro di Nereto, ma è prassi consolidata anche a Bellante (a 10 km di distanza, sempre in provincia di Teramo, sempre un piccolo centro di alcune migliaia di anime). Come riportato anche sul blog Giap, risultano almeno 8 delibere della giunta bellantese, con le quali non solo si concedono spazi comunali a Nuove sintesi, ma si opta anche per il patrocinio. Queste delibere partono dall’agosto 2016, fino ad arrivare a maggio 2017.

 

 

Ma quale è stato, in passato, il tenore degli incontri di Nuove sintesi? Bastano pochi esempi per intuirlo.

Stando a questo volantino, il 14 novembre 2015 nella sala consiliare del municipio di Bellante il tema all’ordine del giorno era “Socialismo nazionale. Nuova prospettive!?”.

Socialismo nazionale, appunto.

 

 

 

L’anno precedente – siamo al 25 ottobre 2014 – sempre nello stesso luogo, si sarebbe tenuta invece la presentazione della rivista “L’uomo libero” e del saggio “Logiche olocaustiche”, dal titolo piuttosto eloquente.

Dal blog: pocobello.blogspot.it

Onde evitare qualsiasi ambiguità (se mai ve ne siano, anche ad uno sguardo rapido), gli organizzatori specificano online che si trattava di una conferenza revisionista.

Ciononostante, come si può apprezzare in questa foto – scattata nel 2012 nella sala del consiglio comunale di Bellante – pare che i rapporti tra il sindaco Pd Mario Di Pietro, Nuove Sintesi e Forza Nuova non fossero di aperta ostilità.Da Giugno 2016 il sindaco di Bellante si rinnova, e viene eletto l’avvocato Giovanni Melchiorre, con più del 50% dei voti. L’ospitalità nel palazzo comunale e i patrocini della giunta ad iniziative di Nuove Sintesi, però, non sembrano mutati, stando a questa immagine che immortala il neosindaco insieme al vice-responsabile di Nuove sintesi. La location è sempre il palazzo comunale, some si evince facilmente anche dalla foto del presidente Mattarella sullo sfondo.

Abbiamo contattato dunque l’attuale primo cittadino Melchiorre.

«Mi riserverò di approfondire», ma «non mi risulta che, ad oggi, sia tra le iniziative patrocinate sia tra quelle in cui si è semplicemente concesso spazi pubblici , siano stati presentati eventi in cui si è stata violata la Costituzione,  oppure nelle quali sono state rilanciate tesi negazioniste»

E poi, sulla associazione in questione, precisa: «Conosco Davide D’Amario (responsabile della associazione Nuove sintesi nda), è un signore che fino a qualche anno fa andava in giro con le magliette di Che Guevara, e ora va in giro con magliette nere. Ma io non sto a pormi il problema di dove voti o di cosa propugni».

Del caso si sono interessati anche il deputato Pd Emanuele Fiano, che ha ringraziato gli scrittori Wu Ming per la segnalazione

e Andrea Catena del Pd Abruzzo, che ha parlato di una circolare inviata ai sindaci Pd, per cercare di mettere un freno a questa situazione

Ma il sindaco, per il momento, resta sulle sue posizioni: «Finche questa associazione non verrà dichiarata contra legem io intendo concederle spazi pubblici, in tutti i casi in cui verranno affrontati argomenti che io riterrò degni di essere affrontati in uno spazio pubblico».

Dei numerosi contatti fra Partito democratico e forze della galassia neofascista ne abbiamo parlato anche qui.

Articolo aggiornato alle 19.13 del 1 settembre 2017

«I libici ci vendono come schiavi». Ecco cosa succede ai migranti dopo il Codice Minniti anti Ong

«Quando la Guardia costiera libica ci prende in mare, non ci rimanda nel nostro Paese. Ci vendono tutti come schiavi a Sabratah e a Tripoli». È la drammatica testimonianza di un ragazzo camerunense di nome Prince, raccolta da InfoMigrants in un reportage in Libia svolto nelle settimane successive al varo del cosiddetto “Codice Minniti” imposto alle Ong che si occupano di salvataggio in mare dei migranti partiti dalle coste nordafricane.  «Sappiamo che non è più possibile attraversare il Mediterraneo – dice il ragazzo nel video – e siamo consapevoli di quello che sta succedendo in mare». A quanto pare la guardia costiera, o quanto meno delle persone in uniforme, che bloccano le navi dei trafficanti dicono alle persone imbarcate che le avrebbero riportate sulla terra ferma prima di rimandarle nel Paese d’origine. In realtà, afferma Prince, vengono tradotte in prigione e Sabratah e a Tripoli. «Qui, dopo alcuni giorni arrivano i mercanti di schiavi che li comprano».

La vicenda raccontata da InfoMigrants sembra fare il paio con un’altra storia emersa in questi giorni che chiama in causa il governo italiano. Secondo un’inchiesta svolta dall’Associated Press, il governo italiano avrebbe stretto accordi con due milizie libiche implicate nel traffico di migranti per bloccare le imbarcazioni dirette verso le coste europee. Le due milizie, scrive Nicole Winfield, autrice dell’inchiesta rispondono al nome di Al-Ammu e Brigata 48 e hanno sede a Sabratah: uno dei principali punti di partenza per i migranti che vogliono attraversare il Mediterraneo. Le milizie sono guidate da due fratelli della famiglia Dabbashi conosciuti a Sabratah come i “re del traffico”. Grazie alla tratta di esseri umani, dalla caduta di Gheddaffi nel 2011 sono diventati sempre più potenti riempiendo una parte del vuoto di potere che si è creato dopo la morte del dittatore. Stando a quel che racconta il portavoce di Al-Ammu, Bashir Ibrahim, il governo italiano e quello libico guidato da Al Serraj avrebbero raggiunto un accordo verbale circa un mese fa con le due milizie per bloccare la tratta in cambio di denaro, attrezzature e imbarcazioni. Il ministero degli Esteri italiano riporta AP ha negato ogni coinvolgimento: «Il governo italiano non negozia con i trafficanti».

Benvenuti nella (presunta) villa segreta di Putin

Alexei Navalny, leader dell’opposizione civile russa, ha pubblicato un video diventato virale da Mosca a Vladivostok, visto in meno di 24 ore più di due milioni di persone. Protagonista delle riprese dall’alto di una villa al confine finnico è il suo proprietario, che la usa per le vacanze in segreto: Vladimir Putin.

La mansione – nota come Villa Segren, conta 50 acri e si trova sull’isola di Lodochny nel Golfo di Finlandia – veniva usata come set per una serie tv su Sherlock Holmes negli anni 80. Oggi la villa è stata espansa, si trova sotto stretta sorveglianza delle guardie, ai residenti è vietato avvicinarla, non si può rimanere nelle sue vicinanze in possesso di cellulare, perché è uno spez objekt, un oggetto speciale sotto osservazione, è sotto sekretnij rezhim, regime segreto.

Dal settimo minuto in poi, per chi volesse vederla, è qui:

Nel video Novalnij riferisce che è di proprietà di un amico di Putin. «Tutte le prove dimostrano come siamo davanti a uno schema standard corruttivo messo in atto da Putin. Le sue proprietà private sono registrate a nome dei suoi amici più cari, che sono diventati incredibilmente ricchi negli ultimi 17 anni» dice Navalny. La villa in questione è dell’uomo d’affari Sergey Rudnov, a suo volta amico del violoncellista Sergey Roldugin, altro amico del presidente, il cui nome è apparso nei Panama Papers accanto a quello di compagnie offshore del valore di oltre un miliardo di dollari.

Una piscina interna, pista d’atterraggio per elicotteri, un molo, un’aquila simbolo della Russia placcata in oro: in Russia la chiamano già la “dacha segreta del presidente”, con il nome delle case di campagna usate dai russi. Questo è il secondo episodio video dell’investigazione dell’oppositore Navalny che riguarda le proprietà dei politici russi. Il primo era stato dedicato alle proprietà del primo ministro Medvedev, alla sua mansione da 5 miliardi di rubli vicino Mosca e al suo vigneto. Il video su Medvedev su Youtube è stato visto 24 milioni di volte. Poi – qualche giorno dopo – Navalny, al termine di una marcia organizzata, era finito un’altra volta in prigione.

Cecità

È necessario ringraziare il funzionario di polizia che ha detto le parole esatte.
«Devono sparire. Se qualcuno oppone resistenza spaccategli un braccio».
Tutti i commentatori si sono concentrati sullo “spaccategli un braccio”.
No. Non è questo il problema. Perché un braccio rotto si aggiusta. È una lesione fisica e basta. Senz’altro non auspicabile e deprecabile. Ma si guarisce.
Quello che il funzionario ha rivelato è la vera volontà dei suoi superiori, con questo intendendo non solo i suoi diretti superiori. Come ogni bravo impiegato, attento a fare quello che gli viene richiesto, anche senza che questo venga detto esplicitamente, ha interpretato il loro pensiero: “DEVONO SPARIRE”.
Gli immigrati, i richiedenti asilo, i rifugiati, i non italiani. Devono sparire. Devono scomparire dalla vista.
È la soluzione più semplice e veloce. Si fa sparire il problema. Non c’è. Gli immigrati non esistono, non devono esistere. Meglio: non sono mai esistiti.
Poco male si dirà. Meglio che spaccare un braccio…
No. È la violenza più terribile. Perché non è fisica. Perché non è contro il corpo. È la sparizione la violenza più grande. Perché una cosa sparita è come se non fosse mai esistita.
Come se il problema posto da quella esistenza non fosse mai esistito.
Più facile che affrontare la crisi dell’esistenza di una realtà diversa da noi stessi.
Devono sparire.
Pensaci, caro lettore. Quante volte semplicemente facciamo sparire qualcosa che ci crea angoscia. È la soluzione facile, la più comoda, la più economica.
Ha un solo grave, gravissimo inconveniente. Se realizzata nei confronti di un altro essere umano rende stupidi e ciechi. Perché c’è un po’ meno di umanità dentro noi stessi. Poi rimane solo il problema pratico, razionale.
Come in questo caso: un problema di ordine pubblico, un problema legale, un problema patrimoniale… tutte cose legittime. Solo che gli esseri umani, in tutto ciò, non ci sono più. Sono spariti.
Pensaci caro lettore. Cosa era in fondo la persecuzione nazista degli ebrei? Era solo un problema di ordine pubblico, al limite un problema patrimoniale e legale. Perché loro non erano più esseri umani.
Far sparire l’altro essere umano, o meglio il suo essere un essere umano, è la realizzazione della pulsione di annullamento, scoperta e teorizzata da Massimo Fagioli in Istinto di morte e conoscenza. È la violenza invisibile alla base di ogni razzismo e nazismo.
È ciò che fa sparire l’umanità dell’altro rendendolo oggetto. Che quindi si può buttare via. Si comprende allora anche l’uso delle parole come cleaning, pulizia. Va fatto sparire lo sporco. Non ci sono più degli esseri umani.
Il funzionario di polizia ha detto quello che gli è stato chiesto di fare. Realizzare la pulsione di annullamento verso… chi non è uguale a noi.
La teoria della nascita di Fagioli in fondo è semplice:
c’è prima l’uguaglianza di base che è universale e che ci rende tutti esseri umani. È la dinamica della nascita.
Poi ognuno sviluppa le proprie specifiche capacità realizzando una identità che è unica e che è realizzazione di una libertà personale di essere e di fare ciò che ognuno di noi è.
Poi c’è il rapporto con il diverso da sé che mette alla prova l’identità faticosamente realizzata.
I vari Salvini & co. sono persone impaurite da fantasmi creati da loro stessi. Credono che mandando via il diverso, facendolo sparire, la loro libertà sarà finalmente riconquistata. In realtà peggiorano la loro condizione.
Sono i ciechi di Saramago.
Come potremo salvarci dalla cecità? Saramago lo ha scritto: è la donna che è indenne alla cecità. È lei che salva l’umanità.
Fagioli lo ha scritto in Bambino, donna e trasformazione dell’uomo: il diverso della società razionale sono la donna e il bambino. Sono loro che possono salvare gli esseri umani dalla condanna cui la società li ha destinati: essere Olimpia o Nathaniel come nella favola de L’uomo della sabbia.
È il rapporto con la donna, sempre annullata nella sua realtà umana, ciò che può salvare l’umanità dalla cecità verso la realtà umana.
È il rapporto con la donna che permette di vedere la realtà umana del bambino che esiste fin dalla nascita.
È il rapporto con la donna e la realizzazione della propria nascita, il bambino interno, che permette di affrontare e superare la crisi del rapporto con il diverso.
Che permette di vedere che l’altro è un essere umano. Uguale e diverso da noi.

L’editoriale di Matteo Fago è tratto da Left in edicola


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