Home Blog Pagina 932

Cosa recuperare (e sapere) del congresso di Sinistra Italiana. I video

Nicola Fratoianni al congresso nazionale fondativo di Sinistra Italiana, Rimini, 18 febbraio 2017. ANSA/ PASQUALE BOVE

Mentre a Roma andava in scena l’assemblea del Pd – quella della scissione che non è ancora scissione – a Rimini nasceva ufficialmente Sinistra italiana, che finora era un gruppo parlamentare e adesso è invece anche un partito con tanto di segretario, Nicola Fratoianni, uno statuto (che prevede ad esempio che una quota di risorse del partito sia destinata a progetti di mutualismo), un centro studi e – come avrete sicuramente letto – una sua prima scissione. Immancabile questa, con Arturo Scotto, Marco Furfaro e altri dirigenti, militanti e anche parlamentari, che vanno proprio incontro agli scissionisti del Pd (e un gruppo parlamentare, quindi, che voterà la fiducia al governo).

Sul numero di Left in edicola, con un’ampia intervista proprio a Fratoianni, raccontiamo le ragioni di Sinistra italiana. Presto vi racconteremo come, invece, Sinistra italiana dialogherà con Possibile di Civati, con DemA, il movimento del sindaco De Magistris, con gli stessi scissionisti del Pd, e con tutti gli altri rivoli della sinistra, visto che una delle cose uscita più volte a Rimini è che – come ovvio, nonostante la fine della stagione maggioritaria e il ritorno, ormai scontato, al proporzionale – Sinistra italiana potrebbe anche non avere il proprio simbolo sulla scheda. D’altronde già con noi Fratoianni ha evocato il modello di Podemos, che governa sia Madrid che Barcellona – le due “capitali” spagnole – in una coalizione civica di sinistra, non con una propria lista.

Qualcosa di simile, qui, si è fatto alle ultime Comunali di Bologna. È per questo che il primo intervento che vi segnaliamo da Rimini è quello di Federico Martelloni, che della lista Coalizione civica era il candidato sindaco.

Gli altri offrono una sintesi delle tre giornate di congresso (online c’è la registrazione integrale, se volete), tra la necessità di cronaca e la voglia di segnalarvi (con quello che al momento si trova online) alcuni tra i contenuti e i volti che più ci sono piaciuti. Come Claudia Pratelli, sociologa e sindacalista, che dice «è la prima volta che immagino un partito come uno spazio dove esercitare il mio impegno» e che parla, tra le altre cose, «dell’economia della promessa, che serve a estorcere lavoro gratuito» e dei voucher, «l’italianissima versione della gig economy, l’economia dei lavoretti, l’ennesima delle truffe».

C’è poi la giornalista ed ex sindaca di Molfetta Paola Natalicchio che chiede a «Pippo, a Luigi, a tutti: perché non facciamo una sinistra sola? Cosa ce lo impedisce? Come lo spiegheremo alle persone che non arrivano a fine mese, ai precari senza diritti, per cui chiediamo il reddito minimo garantito, ai giovani senza autonomia, ai disabili che chiedono inclusione, agli omosessuali, agli innovatori, ai migranti; come spiegheremo alla nostra comunità che non siamo in grado di fare una sinistra sola e metterla al servizio delle battaglie che non fa più nessuno? Io chiedo questo a Nicola Fratoianni, di lavorare all’unità della sinistra italiana e non solo di Sinistra Italiana, di prendere per mano tutta la nostra stanchezza».

C’è Giuseppe Civati che risponde anche a Natalicchio e dice, «per questo abbiamo bisogno di dire cosa facciamo noi». «Bisogna avere la stessa follia del M5s, che poi nella follia ha ecceduto e che per mille ragioni non ci ha convinto né ci convince, ma che nel 2013 ha lanciato una sfida su questioni di cui nessuno si faceva carico. Abbiamo la stessa forza e la stessa determinazione?». «L’Italia», dice, «ha bisogno di una sinistra con agenda politica propria. A noi serve un taccuino, preciso negli obiettivi e con i numeri a fianco di ogni voce. Sanders e Hamon che tutti citano non sono la sinistra radicale, sono la sinistra normale: la normale sinistra di chi vuole cambiare le cose, non mantenerle come sono, con falsi movimenti e trucchi da quattro soldi. Orgoglio, ci vuole. Non la nostalgia dei tempi che furono. Ci vuole l’idea di competere come se fossimo alla pari. Gli altri sono al 30% e noi sotto il 5? Chi l’ha detto che finirà così? Si azzererà tutto alle prossime elezioni, lo abbiamo capito, oppure no?».

Da ascoltare è poi l’«avvocata» Cathy La Torre, anche lei bolognese, come Martelloni, che dice: «Vorrei che tutte le nostre sedi si trasformassero in stanze del tempo, dei bisogni, dei sogni, del mutualismo. Qualcuno immagina un campo dei progressisti, io immagino un campo dei mutualismi, immagino di riempire le nostre sedi di banchi alimentari, raccolte vestiti, ludoteche, sportelli legali, attività ricreative per chi non può permettersi neanche un doposcuola. Immagino di illuminare il buio. Così si cambiano i termini del discorso».

E Marco Grimaldi che, venendo da Torino, dove è consigliere regionale, comincia il suo intervento sulle ricadute occupazionali dell’automazione, sui robot che fanno scomparire i posti di lavoro: «Operai? Non solo. La Banca d’Inghilterra ci dice che sarà il settore amministrativo a pagare il prezzo più alto».

Di vita indipendente parla invece Giacomo Di Foggia, in un intervento che si apre con un’interessante considerazione sulla Buona scuola, e su quanto da lontano arrivino i nostri problemi.

Applaudito è stato l’intervento di Luigi De Magistris, che parla dell’esperienza napoletana e di quello che può rappresentare, di cosa succede «quando i cittadini si prendono cura dei luoghi abbandonati», contro l’uso privatistico. E si chiede «perché gli altri sindaci non rispettano il referendum sull’acqua pubblica».

E infine, ovviamente, l’intervento conclusivo di Nicola Fratoianni che tra i vari spunti programmatici («la sinistra deve fare il suo mestiere, e di questi tempi non è poco») rilancia la sfida (già lanciata da Landini) dei due sì ai referendum sul lavoro e stuzzica i nuovi gruppi parlamentari, scissionisti di sinistra italiana e Pd, sulla fiducia al governo gentiloni: «Cosa faranno quando Minniti porterà in aula il suo piano sicurezza?».

Il commercio mondiale di armi? Va benone, grazie

epa05794379 Visitors at the Russian Sukhoi exhibition stall during the 'Aero India-2017' at the Yelahanka air base in Bangalore, India, 15 February 2017. Over 550 defense and aerospace firms, including 279 foreign companies from 30 countries took part in the 11th biennial event being held at the Yelahanka air force base. India is pursuing to scale up its military capabilities and aims to induct new warplanes, next-generation submarines, warships, helicopters, missiles, howitzers, air defense systems, assault weapons and night-vision gear. The event runs from 14 to 18 February 2017, showcasing military aircraft from leading manufacturers across the globe. EPA/JAGADEESH NV

Il volume dei trasferimenti internazionali di armi è cresciuto costantemente dal 2004 con un aumento dell’8,4 per cento tra il 2007-2011 e il 2012-2016, questo è quanto si legge nel rapporto pubblicato dal Sipri (qui la sintesi in italiano) l’International Peace Research Institute di Stoccolma, che confronta i due quinquenni. In particolare, i trasferimenti di armi nel quinquennio 2012-2016 hanno raggiunto il livello più alto dalla fine della Guerra fredda.

Il flusso di armi è aumentato in Asia, Oceania e Medio Oriente tra il 2007-11 e il 2012-16, mentre si registra un calo dei trasferimenti verso l’Europa, le Americhe e l’Africa. I cinque maggiori esportatori – Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Germania –  insieme vendono al mondo il 74% del totale delle armi circolanti.

Il trend dei trasferimenti di armi tra 1950 e 2016 (dal 2000 c’è una crescita quasi costante)

Il boom più clamoroso si è avuto in Medio Oriente:

Negli ultimi 5 anni le importazioni nella regione sono quasi raddoppiate (+86%) rispetto ai 5 anni precedenti. L’Arabia Saudita è stato il secondo importatore mondiale di armi tra 2012 e ’16, con un incremento del 212% rispetto ai 5 anni precedenti. In Qatar l’aumento è del 245%. Anche se a tassi più bassi, la maggior parte degli altri Stati della regione ha comprato più armi che nel passato recente.I fornitori sono in primo luogo gli Stati Uniti e l’Europa.

Asia

Le importazioni in Asia e in Oceania sono aumentate del 7,7% e sono il 43% delle importazioni mondiali. L’India è il più grande importatore al mondo con il 13% del totale. Nel periodo preso in esame le importazioni indiane erano di gran lunga superiori a quelle dei rivali regionali Cina e Pakistan. Gran crescita anche per il Vietnam, economica in grande espansione. In generale, tutti i Paesi asiatici, crescendo, hanno ampliato i loro arsenali. La Cina è sempre più in grado di sostituire le importazioni di armi con prodotti autoctoni mentre l’India rimane dipendente dalla tecnologia straniera e si fornisce soprattutto da Russia, Stati Uniti, Europa, Israele e Corea del Sud. 

Chi esporta? 

Con una quota di un terzo delle esportazioni mondiali di armi, gli Stati Uniti rimane il primo esportatore di armi. L’export nel settore è aumentato del 21%. Quasi la metà delle esportazioni sono finite in Medio Oriente.

La Russia vende il 23% delle armi, soprattutto a India, Vietnam, Cina e Algeria.

La quota della Cina delle esportazioni è cresciuta dal  3,8% del periodo 2007-2011 al 6,2% del quinquennio preso in esame dal nuovo rapporto. Pechino è ormai stabilmente un fornitore di alto livello, come la Francia e la Germania che rappresentano rispettivamente il 6 e  il 5,6 per cento. Il tasso più basso continuo di francesi consegne di esportazione di armi potrebbe finire presto a causa di una serie di importanti contratti firmati negli ultimi cinque anni. La quota tedesca è calata in maniera costante, quella francese anche, ma risalirà nei prossimi anni grazie a una serie di contratti appena firmati.

E l’Italia?

Nel confronto tra i due quinquenni il dato sull’export italiano diminuisce leggermente. Ma in maniera molto relativa: diciamo che basta una commessa in più o in meno per far cambiare il dato generale. Negli ultimi 5 anni abbiamo esportato armi per 3,8 miliardi di dollari con picchi nello scorso anno e nel 2013 (3,9 miliardi nei 5 anni precedenti). I nostri migliori clienti sono stati Turchia, Emirati Arabi, Israele, Algeria e Pakistan. Tra gli altri anche Arabia Saudita, Egitto e molti Paesi europei. In generale, vale per noi come per tutti gli altri esportatori, la geopolitica e il ruolo regionale conta un pochino, ma i soldi contano molto e non hanno odore.

L’Italia dei cervelli in fuga che “puzza di naftalina”. L’esordio da solista di Giorgio Poi

Con i Vadoinmessico cantava “Archaeology of the Future”, ora, come solista Giorgio Poi, novarese di nascita ma romano d’adozione, quella stessa archeologia del futuro la infila nel suo disco d’esordio “Fa niente” appena uscito per Bombasischi/Universal (la stessa etichetta di Calcutta, fenomeno discografico del 2016). Trasferitosi a Londra appena ventenne e diplomatosi in chitarra jazz alla “Guildhall School Of Music And Drama”, aveva fondato i Vadoinmessico (riscuotendo un buon successo di pubblico e girando in tour per l’Europa e per gli States), soprattutto eravamo abituati a sentirlo cantare in inglese. Con “Fa niente” il cantautore sceglie di tornare alle origini, canta in italiano, ripesca sonorità, melodie e atmosfere dai ricordi e dai dischi che era solito ascoltare da bambino, guarda all’Italia e cerca di raccontarla come un amore che si guarda da lontano, con diffidenza e nostalgia allo stesso tempo. La cosa gli riesce piuttosto bene, non solo nel nuovo album, ma anche in interpretazioni come “Il mare d’inverno” cover del famoso brano di Loredana Bertè che è solito cantare durante i concerti.

Modugno diceva: «La lontananza, sai, è come il vento, spegne I fuochi piccoli, ma accende quelli grandi». La frase si adatta perfettamente a “Fa niente”, un disco che convince e che si insinua fra i pensieri con testi e ritornelli. Non stupitevi se già dopo il primo ascolto vi troverete a canticchiare per strada «Hai detto prendo tutto e vado via, con quello che puzza di naftalina», l’attacco di “Niente di Strano”, o “Acqua minerale” ripetendo: «La bocca si trasforma in un groviglio, se il filo del discorso è un rospo da ingoiare con l’acqua minerale». Ma l’esordio da solista di Giorgio Poi (nove brani che vanno dall’indie in stile Dente o Calcutta al cantautorato italiano anni ’70 e ’80 senza tralasciare una buona dose di romanticismo) non è solo terribilmente orecchiabile, ha anche il pregio di raccontare bene le malinconie e le ossessioni di una generazione giovane ma già impolverata e nostalgica.

Quella dei cervelli in fuga all’estero e quella dei bamboccioni rimasti nel Belpaese, gente che spesso si sente (proprio come Poi nel video di “Tubature”, secondo singolo estratto dall’album) parcheggiata lì tra il ciarpame di un negozio di antiquariato, intenta a mettersi a proprio agio strimpellando una chitarra e canticchiando una canzone che “puzza di naftalina”, per poi accorgersi che, dopo tutto, quell’odore “ci piace perché ci ricorda casa”.

«Ho trascorso in Italia tutta la prima parte della mia vita, fino ai vent’anni, e non m’è mai interessato capirla» racconta il cantautore.

«Vista dall’interno somigliava tanto a un ricettacolo di cose ovvie, a un contenitore per la normalità – continua Poi – una nebulosa di noia al di fuori della quale sorgevano le misteriose meraviglie estere. Così sono andato a vivere a Londra, dove proporzionalmente a un grande entusiasmo per quel che scoprivo lì, sentivo avanzare una specie di nostalgia, che nel tempo si trasformò in ammirazione idealizzata e totale per il mio Paese, per il suo cinema, il suo cibo, la sua musica e la sua lingua. Non perché necessariamente mi sembrasse migliore, ma perché era roba mia, la capivo in modo diverso, più radicale. Ascoltavo Vasco Rossi, Paolo Conte, Lucio Dalla, Piero Ciampi, cose che avevo sentito da bambino, ma a cui non ero mai tornato attivamente. Dopo alcuni anni quel sentimento non accennava a smorzarsi, ma anzi si acuiva, spingendomi verso quel “modo”, che un po’ mi apparteneva per diritto di nascita. Così ho iniziato a scrivere alcune canzoni in Italiano, una dopo l’altra, ed è uscito questo disco».

In Tour in tutta Italia dal 24 febbraio 2017

24 febbraio 2017 Pesaro / Circolo Mengaroni
25 febbraio 2017 Savignano sul Rubicone (FC) / Sidro Club
03 marzo 2017 Milano / Serraglio
04 marzo 2017 Bologna / Covo Club
11 marzo 2017 Marghera (VE) / Centro Sociale Rivolta
17 marzo 2017 Ceccano (FR) / Officine Utopia
18 marzo 2017 Montelupo Fiorentino (FI) / Indie is agio | Raduno Diesagiowave 3.0
23 marzo 2017 Firenze / Combo Firenze
24 marzo 2017 Roma / Quirinetta
25 marzo 2017 Torino / Officine Corsare
30 marzo 2017 Monopoli (BA) / Dirockato Monopoli Winter
31 marzo 2017 Taranto / Secret Show
01 aprile 2017 Napoli / Lanificio 25
22 aprile 2017 Tracks / Parma
23 aprile 2017 Genova / Supernova Festival Genova
25 aprile 2017 Padova / En Plein Air – Anfiteatro Del Venda

Ascolta “Fa niente” su Spotify

Storia del Pd, un partito senza identità

Torino, 27 giugno 2007. Walter Veltroni pronuncia il discorso del Lingotto
20070627-TORINO-POL-WALTER VELTRONI L'interevnto di Walter Veltroni. MATTEO BAZZI/ANSA

Una scenografia povera, nella più brutta e angusta sala del Lingotto, niente filmato, qualche fotografia da Atlante De Agostini sullo sfondo, una colonna sonora minima». Curzio Maltese su Repubblica racconta così il discorso del Lingotto del 27 giugno 2007. Il candidato segretario Walter Veltroni, un po’ pallido e provato, pronuncia a braccio, come al solito in modo impeccabile, le parole che scandiscono il programma del Pd, il nuovo partito che aspira a essere maggioritario, “il partito del nuovo millennio”, la forza che unisce l’Italia, che ridà speranza ai giovani, che colma le diseguaglianze ma che non nega il mercato. Un partito in cui vale il principio “una testa, un voto”, in cui non ci devono essere «i difetti della politica preesistente, con i gruppi e le correnti chiuse in conflitto». «Non si comincia un nuovo viaggio con un equipaggio dilaniato da vecchi rancori e preoccupato di gettare dalla nave chi ad essa si affaccia la prima volta», ammonisce Veltroni, come se presagisse già nubi oscure sul partito che unificava i Ds eredi del Partito comunista e la Margherita, l’ala sinistra della Democrazia cristiana.
Esattamente nove anni dopo Walter Veltroni è di nuovo candidato, ma alla presidenza della Lega calcio. Detto così, sembra quasi uno scherzo o un delirio, ma invece è la realtà. Comunque l’impegno nel calcio per l’ex sindaco di Roma – dimessosi nel 2009 da segretario Pd dopo soli 21 mesi – viene per ultimo: prima si era dedicato alla letteratura, al cinema e alla televisione. E la nave Pd? Sempre nove anni dopo – è del 16 febbraio 2008 il Manifesto dei valori approvato dalla Costituente del Pd – naviga a vista, dopo la botta del referendum del 4 dicembre. E in certi giorni assomiglia al Bounty con gli ammutinati che minacciano scissioni.  Che cosa è accaduto? Ma soprattutto che cosa è diventato il Partito democratico?

«Il partito adesso è decisamente in difficoltà perché son venute meno tutte le ipotesi che Renzi avrebbe voluto consolidare attraverso la riforma costituzionale in cui veniva enfatizzato il ruolo del leader», sottolinea il politologo Piero Ignazi. A questo punto, ridotta o sfumata l’ipotesi di cambiamento nel senso renziano, «quella parte del partito che ha seguito più o meno convintamente o coralmente l’impostazione di Matteo Renzi si trova spiazzata, così come lo stesso Renzi del resto», continua Ignazi. La sconfitta al referendum costituzionale, alla distanza, sembra incidere più di quanto non sembrasse al momento, quando il 40 per cento dei Sì veniva sbandierato come un risultato ad appannaggio del solo Pd. L’“implosione” nel partito invece comincia ad avanzare, con una forte impennata dopo la bocciatura da parte della Corte Costituzionale dell’Italicum, la “legge elettorale migliore del mondo”. Ma Renzi si è davvero occupato del partito? «Per nulla», risponde lapidario Ignazi. A tal punto che oggi il Pd secondo lo storico contemporaneo Giovanni De Luna «è una creatura anomala, cresciuta in maniera anomala e adesso che è cresciuta, lo è diventata ancora di più. Una coalizione di feudi tenuti insieme dal potere. Un partito si definisce attraverso un programma, un’identità. Questi non hanno una storia alle spalle: alle primarie del 2012 i candidati segretari citavano nel loro pantheon da Mandela a Papa Giovanni, senza alcuna radice con la tradizione della sinistra italiana.

Questa mancanza di un passato e di un profilo culturale unitario, fa sì che il Pd sia un coacervo di istanze, alcune sono anche positive, ma altre proprio non c’entrano. Credo che a sinistra non ci sia mai stato niente di simile al Pd di oggi» dice amareggiato De Luna. Il “coacervo” si manifestò nel novembre 2013: alle primarie per i segretari provinciali esplosero scandali su scandali a proposito di tessere gonfiate, iscritti fantasma e capibastone che dettavano legge nei territori. Non fu proprio un’immagine edificante. La ricorda un altro storico contemporaneo, Guido Crainz: «Per me quella è stata una fotografia indicativa del Partito democratico. Mentre per le primarie a segretario c’era stata una partecipazione di massa incredibile e un plebiscito per Renzi, quelle fanno molto riflettere». E dopo? «Una volta eletto segretario, Renzi dichiarò di voler cambiare la politica e il Pd, sapeva in modo chiaro che questo era necessario, ma non è stato fatto nulla». Per Crainz questa rinuncia «è stato il fallimento di Renzi, ancor prima della sconfitta alle amministrative del 2015 e del 2016».

L’incapacità di proporre una classe dirigente alternativa però non è solo responsabilità dell’ex premier. «È un fallimento che ha ereditato dal passato, questo è il punto – continua -. Renzi aveva avviato una inversione di tendenza ma il voler agire solo dal punto di vista del governo si è rivelata un’illusione di cambiare la realtà. Non si fa scuola di formazione con i comizi domenicali, è un processo di lungo periodo che significa capacità di amministrare, conoscenza delle regole del gioco». Questa incapacità di formazione della classe dirigente ancor prima della selezione attraversa tutto il Pd. Nel racconto dello storico compaiono alcuni episodi, dalla “non vittoria” di Bersani nel 2013, «frutto dei guasti precedenti» giù giù fino ad arrivare alla deriva dell’Ulivo la coalizione guidata da Romano Prodi che nel 1996 fece vincere il centrosinistra per la prima volta nella sua storia.

Durò solo due anni il governo del professore bolognese, affondato per un voto alla Camera dopo il ritiro dell’appoggio esterno di Rifondazione comunista. Poi presero le redini di Palazzo Chigi D’Alema e Amato. Ma nel marzo 1997 al castello di Gargonza, tra i boschi della Toscana, era andato in scena un incontro che potrebbe considerarsi il nucleo primordiale del Pd. E non andò proprio bene. Il tentativo era quello di allargare la coalizione alla società civile. “Dieci idee per l’Ulivo”, il tema del seminario, con la partecipazione di 10 ministri del governo Prodi, dei leader dell’Ulivo (mancavano solo gli esterni Bertinotti e Dini) e di uno stuolo di intellettuali come, tra gli altri, Luciano Berio, Elvira Sellerio, Paolo Flores d’Arcais, Luigi Nono e Umberto Eco. Quest’ultimo rimase molto colpito dall’atteggiamento di Massimo D’Alema. Lo ha ricordato lo stesso Eco su Alfabeta2 nel 2011, lo cita anche Crainz ne Il Paese reale (Donzelli, 2012). Di fronte alla prospettiva di un coinvolgimento della società civile, D’Alema rivendica il valore della politica “professionale”: «Noi non siamo la società civile contro i partiti. Noi siamo i partiti». E ancora: «L’idea che si possa eliminare la politica come ramo specialistico per restituirla tout court ai cittadini è un mito estremista che ha prodotto o dittature sanguinarie o Berlusconi». Per Eco l’uscita di D’Alema fu «la credenza che un appello alla società civile significasse un appello all’assemblearismo sessantottesco e quindi a una deriva extraparlamentare oppure a una forma di berlusconismo». Crainz nel suo saggio la interpreta come «una vera doccia fredda per chi aspirava a un rinnovamento profondo». La società civile allora – ed eravamo negli anni post Mani pulite – venne respinta da un arroccamento della politica, troppo miope di fronte alla realtà.

Fatto sta che poi il processo innescato nel centrosinistra rallenta, dopo la vittoria del centrodestra nel 2001. Prodi intanto vola alla Commissione Ue che introduce l’Euro, con tutte le conseguenze che ne seguirono.
Dieci anni dopo, nel 2007, dopo una vittoria risicata alle politiche del 2006 della nuova coalizione di centrosinistra, l’Unione, si rompe ogni indugio e inizia l’unificazione dei Ds e Margherita. Fu una scelta opportunistica? Una fusione a freddo? «Credo che sia stata una scelta molto opportunistica – risponde De Luna -. Quando decisero di mettersi insieme Margherita e Ds potevano scegliersi degli antenati, in quale ambito collocarsi. De Gasperi o Togliatti, per esempio, che rispondevano alle loro tradizioni. Ma invece hanno fatto il corto circuito, dicevano “noi siamo nati post, nessuno della nostra generazione sa chi siano quei due”. Non è una questione di lana caprina, scegliersi degli antenati significa definirsi un profilo identitario, rinunciare a scegliere significa accettare di essere un coacervo di spinte diverse e a volte contraddittorie», conclude De Luna. Anche per Crainz quella fusione risulta da «una somma dei partiti precedenti» con una prima fase in cui ognuno è molto guardingo nei confronti dell’altro al punto che prima della riunione comune gli ex Dc e gli ex Pci si ritrovavano ognuno per contro proprio.

Fatto il Pd bisognava fare i piddini, spiega Piero Ignazi. «Quello che caratterizza il Partito democratico non fu tanto una nascita improvvisata quanto una mancata volontà di trovare una identità». Forse anche il crollo del secondo governo Prodi e la sconfitta alle elezioni del 2008 determinarono una battuta d’arresto, ma nemmeno il 2011 con la grande stagione dei sindaci arancioni, i movimenti collettivi come Se non ora quando o i comitati per l’acqua pubblica riuscirono a innescare un movimento, una ricerca politica all’interno del partito democratico che rimase ancora una volta sordo alla società civile. Testimone entusiasta della vittoria di Giuliano Pisapia a Milano, Umberto Eco nel 2011 si augurava sempre su Alfabeta 2 che il tempo perduto da quel lontano 1997 fosse finalmente riannodato, altrimenti, scriveva, andranno sprecati i prossimi quindici anni… Poi venne il governo Monti e stare obtorto collo sotto lo stesso tetto con il centrodestra mentre si decidevano scelte inique come la legge Fornero o il pareggio in bilancio, ingessò il Partito democratico, spalancando le porte al trionfo del M5s del 2013 e, appunto, alla “non vittoria” di Bersani. Se i luoghi hanno un significato, nel giorno della chiusura della campagna elettorale a Roma, mentre Grillo parlava in una piazza San Giovanni affollatissima, Bersani si era rifugiato al teatro Ambra Jovinelli tra vecchi militanti e un Nanni Moretti che non era più quello dei girotondi quando incalzava D’Alema con il celebre “Di’ qualcosa di sinistra”.

Il resto è storia nota. Ma tornando alle origini, tra le parole chiave del Pd c’erano “libertà e dignità”. Di fronte alla politica economica del governo Renzi che ha cancellato l’articolo 18 e ha codificato il lavoro precario con il Jobs act, oppure di fronte alla Buona scuola che ha impoverito l’istruzione pubblica, che ne è di una forza di sinistra che dieci anni fa, in piena crisi economica, ci teneva a presentarsi attenta alle fasce più deboli? «Da allora il Pd ha perso molte cose, non sa bene dove andare – dice Ignazi -. È stato un po’ preda dell’idea che doveva dimostrare di essere un bravo partito riformatore e una specie di costola sinistra del mainstream liberale. Questo è stato veramente il disastro». Il politologo ricorda ancora oggi un video in cui il premier in maniche di camicia irrideva i sindacati. «Oggi si sta facendo una precipitosa marcia indietro – fa notare – sia con i voucher che con la scuola. Finalmente ci si rende conto che una forza di sinistra deve avere un dialogo anche se critico con i sindacati». “Ma abbiamo fatto le unioni civili”, è il mantra del Pd renziano. È vero, non c’era riuscito nessuno prima, nei due governi Prodi, per esempio. Ma dall’aver prodotto una norma che riconosce le coppie di fatto (anche per gli omosessuali) al passare tout court per paladini dei diritti civili, ce ne corre. Le molte leggi “incompiute” che giacciono in un cassetto ne sono una prova. Come quella sul testamento biologico che ancora arranca in aula ma in una forma depotenziata, oppure quella sulla cittadinanza italiana ai bambini stranieri nati nel nostro Paese. Era un cavallo di battaglia di Bersani nella campagna elettorale del 2013, quella dell’Italia bene comune. Nonostante interessi oltre un milione di minori, italiani a tutti gli effetti, è rimasta lettera morta, ferma al Senato. Il sospetto rimane lo stesso: concedere alcune libertà non ha preoccupato troppo il Pd, realizzare l’uguaglianza di tutti, Sì.

(la versione originale di questo articolo è stata pubblicata su Left n.6 dell’11 febbraio)

No go zones, attentati e terrorismo: da dove vengono le leggende di Trump sulla Svezia?

Le No go zones d’Europa sono la leggenda che viaggia sui siti della destra americana, una leggenda a cui ha fatto riferimento indiretto il presidente Donald Trump durante il comizio di sabato scorso in Florida. Che poi ci sia bisogno di comizi in pura modalità da campagna elettorale a un mese dall’insediamento, è un tema di cui sarebbe interessante discutere per cercare di prevedere cosa saranno questi quattro anni di presidenza – ammesso e non concesso che si arrivi alla fine.

Parlando a una piccola folla e sciorinando i terribili pericoli che occorre tenere alla larga, Donald Trump ha più o meno detto: «Guardate cosa succede a Bruxelles, a Parigi, guardate cosa è successo ieri in Svezia!».

Già, cosa era successo in Svezia? Nulla: l’ultima cosa che somigliasse a un attentato terroristico gli svedesi l’hanno vista quando un gruppo di estrema destra ha dato fuoco a una casa-asilo per rifugiati. A cosa faceva riferimento Trump, dunque? Semplice, a un programma Tv andato in onda la sera prima su Fox News, durante il quale Ami Horowitz aveva intervistato due poliziotti e una persona che gli spiegavano come l’apertura ai rifugiati da parte del governo svedese avesse prodotto un’ondata di nuova criminalità e stupri. La confusione su «cosa è successo in Svezia» è un segnale di confusione, è un messaggio che confonde terrorismo e criminalità comune in un unico calderone e, infine, è una bugia: tutti i dati statistici e di polizia svedesi indicano infatti come i livelli di criminalità siano sostanzialmente invariati (lieve aumento nell’ultimo anno, ma stessi livelli che, ad esempio, nel 2005, qui un articolo dallo svedese Aftonbladet che riporta tutte le statistiche).

Un modo come un altro, insomma, di manipolare la realtà, inventarla. Oppure, e questo sarebbe quasi più inquietante, un presidente che guarda programmi di cattiva cronaca in Tv e crede a quel che vede e non cerca di usare la discreta rete di intelligence a sua disposizione per raccogliere in informazioni. Un presidente che riceve lo stesso livello di cattiva qualità dell’informazione di una parte dei cittadini che lo hanno votato. Oppure, ancora, un presidente che parla di cose che i suoi elettori hanno visto in Tv e le rilancia, le rafforza. Anche sapendo che non sono vere.

Ma la leggenda della Svezia, viene da più lontano. Dalle no go zones, appunto. Queste sarebbero aree dove le gang di immigrati dettano legge, vige più o meno la sharia e la polizia o i cittadini normali hanno paura ad entrare. Se ne parla spesso su molti siti di destra o di emanazione russa (express.co.uk, DailyWire, Breibart, RT, sputnik). Queste aree esisterebbero in Svezia, specie nella zona di Malmoe e poi in Francia, Belgio, Germania e ovunque ci siano troppi immigrati musulmani. Una colossale fakenews, desunta dalla designazione da parte della polizia svedese di 55 zone difficili dal punto di vista socioeconomico, un filone di scrittura sull’Europa (dove le no go zones sarebbero ovunque) per questi siti che piegano la realtà a una propaganda di destra senza dichiararlo.

Da cosa nasce il mito? Da un rapporto della polizia svedese di qualche anno fa dove si legge:

«In Svezia, ci sono attualmente 55 aree geografiche in cui le reti criminali locali hanno un effetto negativo sulla comunità locale. Le aree sono distribuite in 22 città – quelle considerate socio-economicamente vulnerabili. L’impatto della criminalità sulle comunità locali sembra essere legato al contesto sociale della zona, piuttosto che da una volontà dei criminali di prendere il potere e il controllo della comunità. […] La situazione in queste zone ha reso difficile indagare il crimine in quei contesti. La polizia ha avuto difficoltà a lavorare in queste aree, tra le altre ragioni, perché durante gli arresti i veicoli vengono aggrediti dalla popolazione locale».

Ovvero, in Svezia ci sono quartieri dal contesto difficile dove la polizia ha difficoltà perché la popolazione locale spesso è solidale con la piccola criminalità. La causa sono i rifugiati siriani? Certamente e quei quartieri si espandono a macchia di leopardo, sono sempre di più e la situazione sta rendendo la situazione al limite. Fa un po’ ridere? Già, ma se googlaste “no go zones” vi trovereste di fronte a un elenco infinito di articoli che fanno riferimento a questi quartieri e alla guerra civile nella quale siamo immersi.

Non è una guerra vera, ma ad alimentarla ci sono il presidente Usa, la propaganda dell’Isis e, in questi giorni, anche i beoti che hanno deciso che Milano si trasforma in Africa per colpa di due palme. Che significa che la propaganda a colpi di notizie distorte ed esagerazioni, di semplificazione dei problemi, è arrivata anche qui. E che invece di proporre la loro ideologia, fascisti e xenofobi, alzano cortine di fumo e alimentano paure irrazionali. Una modalità della comunicazione, come tutti i contenuti del comizio di Trump, desunta direttamente dal modo di fare informazione di Breibart News, il portale di destra gestito da Steve Bannon fino a quando questi non è diventato lo stratega della Casa Bianca.

Non male la presa in giro generata dalla sparata di Trump che fa riferimento a un altro attentato mai avvenuto, quello di Bowling Green, che la stratega Kellyanne Comway ha menzionato a sua volta in televisione: «Dopo Bowling Green gli svedesi si strinsero a noi, oggi siamo al fianco della Svezia»

 

Labour, la Brexit diventa il terreno di scontro tra Corbyn e nostalgici della terza via

Sabato scorso, due settimane dopo il voto del Parlamento sull’articolo 50, Jeremy Corbyn  è tornato a parlare di Brexit. Il leader di Chippenham ha ribadito che il risultato del referendum va rispettato a tutti i costi. Insomma, la linea rimane chiara: per quanto si possa cercare di evitare una Brexit “dura”, non ci sarà nessuna giravolta.

Ma perché Corbyn è tornato a sottolineare la sua posizione? Il motivo è semplice e si traduce in un nome che evoca molti ricordi nella sinistra europea: Tony Blair. L’ex-Primo ministro britannico sta infatti usando la linea “eterodossa” del partito laburista sulla Brexit per tornare sul palcoscenico politico da protagonista.

Venerdì scorso, in occasione di un’apparizione da Bloomberg, a Londra, Blair non ha usato mezzi termini: «Un Labour “debilitato” come quello attuale è il facilitatore della Brexit». Impossibile non leggere una critica pesante alla leadership di Corbyn. Blair ha detto che intorno alla questione dell’uscita del Regno Unito dall’Ue, è necessario «costruire un nuovo movimento che attraversi tutti i partiti e che utilizzi nuove forme di comunicazione». Ma come si fa a ignorare il risultato del referendum? Secondo l’ex leader laburista «le persone hanno votato senza conoscere i termini esatti dell’uscita del Paese dall’Ue» e,  per questo motivo, «hanno diritto di cambiare idea a riguardo».

Insomma, il Labour britannico continua a muoversi in acque agitate. Le parole di Blair sono state accolte con entusiasmo dai liberali di Nick Clegg e Tim Farron, nonché da un gruppo di 47 deputati laburisti che si sono schierati contro l’articolo 50 nel voto di Westminster. La stessa leader del Partito nazionalista scozzese (Snp), Nicola Sturgeon ha reso noto di aver apprezzato «la qualità dell’analisi e gli argomenti di Blair».

Corbyn è quindi rimasto isolato? No. Se una parte dei Labour ammicca a Blair, la maggior parte del partito difende il proprio leader. In particolare, desta più di qualche perplessità la tempistica scelta da Blair per lanciare il proprio messaggio. Tra poco infatti, si voterà infatti nelle circoscrizioni di Stoke-on-Trent e a Copeland. Qui il Labour gareggia contro il Partito indipendentista britannico (Ukip). Molti analisti hanno quindi letto l’intervento pubblico di Blair come un tentativo di spallata definitiva alla leadership di Corbyn.

Leggi anche:

GermaniaDie WeltAndrea Nahles (Spd), Ministro del Lavoro, accusa la strategia politico-economica della Die Linke: «Sono rimasti fermi agli anni novanta»

FranciaLe Monde Si allontana la prospettiva di un’alleanza tra Partito socialista e sinistra radicale. Benoit Hamon: «Non correrò dietro a Jean-Luc Mélenchon»

Gli album e le foto più belle di Kurt Cobain e dei Nirvana a 50 anni dalla sua nascita

epa04132293 Musician Ewan Mackenna as Kurt Cobain performs during a press session about the show 'The 27 Club - Legends Never Die' at Admiralspalast in Berlin, Germany, 19 March 2014. The rock show about the music legend who died at the age of 27 will be at Admiralspalast from 18 to 23 March and afterwards it will travel to Hamburg and Zurich. EPA/JENS KALAENE

Oggi Kurt Cobain, tormentato leader dei Nirvana, avrebbe compiuto 50 anni. Lo ricordiamo con una gallery di foto e “cimeli” cari ai fan, dai dischi, a una delle chitarre del ragazzo di Seattle che cambiò il mondo della musica.

Durante l’Mtv Unplagged

 

Durante un concerto a Francoforte

 

 

 


Quei dubbi sulla morte di Kurt Cobain. Tra marketing promozionale e misteri irrisolti

 


 

 

 

La chitarra di Kurt


Le foto inedite dello Shooting dei Nirvana realizzato per l’album Nevermind

 


Non avete capito bene cosa è successo ieri nel Pd? Tranquilli, neanche loro

(S-D) Ettore Rosato, Michele Emiliano e Matteo Renzi all'hotel Parco dei Principi durante l'assemblea nazionale del Partito Democratico, Roma, 19 febbraio 2017. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Ci sono alcune cose chiare, nella giornata di ieri, dell’assemblea del Pd che ha visto Matteo Renzi formalizzare le dimissioni da segretario e aprirsi quindi la fase congressuale, e altre poco chiare.

Tra le cose chiare c’è che, ancora una volta, come in direzione, Matteo Renzi e i suoi non hanno voluto dare segnali distensivi. Forti di aver comunque «concesso» il congresso, l’atteggiamento è stato invece quello di chi chiede: «Cosa altro volete?». Per loro, evidentemente, non erano affatto scontate né necessarie le dimissioni di Renzi, dopo la batosta referendaria, e aver dato le dimissioni e avviato il congresso è già tanto. Non chiedetegli quindi di svelenire pure il clima: non fa per loro. Non si è anzi ritenuto opportuno neanche smentire le voci di possibili ripercussioni sulle giunte di Rossi e Emiliano, che governano rispettivamente la Toscana e la Puglia. Tant’è che Rossi oggi dice: «Se dovesse esserci una verifica mi presenterò in consiglio con un programma di fine legislatura e, se ci sarà una maggioranza, continuerò. Altrimenti qualcuno si assumerà la responsabilità di spaccare tutto».

Battutine, sfottò, gli immancabili «sorrisi» hanno accompagnato ogni singolo intervento di esponenti della minoranza. In particolare Michele Emiliano, che in assemblea ha fatto un intervento dai toni ben più morbidi di quello che avreste potuto sentire all’iniziativa di Enrico Rossi, giusto il giorno prima, ha avuto un trattamento speciale. Ma di Emiliano parleremo dopo, perché è una delle cose poco chiare. Sul clima riportiamo invece la posizione di Andrea Orlando che è uno di quelli che, anche a detta della minoranza, ha cercato (e sta cercando) di evitare la scissione, che avrebbe preferito che Renzi aprisse a «un momento più programmatico» che precedesse il congresso vero e proprio, e che probabilmente finirà con lo sfidare Renzi.

Con Giovanni Minoli, a Faccia a Faccia su La7, Orlando ha evocato un algoritmo, per spiegare il nodo – francamente incredibile – delle relazioni umane: «Mi hanno spiegato che su facebook l’algoritmo spinge i membri in delle bolle, dove si fanno parlare i simili con i simili. Bolle che poi spesso si rivolgono agli altri e li aggrediscono. Ecco: mi par che le correnti del Pd abbiano funzionato un po’ in questo modo». Ci pare calzi.



L’altra cosa chiara è che c’è un pezzo della minoranza dem che la scissione l’ha già fatta
. Anzi, c’è chi già sta organizzando i gruppi parlamentari (al solito la macchina organizzativa è in mano a Nico Stumpo), riflettendo sul rapporto con la “cosa progressista” di Pisapia (al momento più dialogante con Renzi) e pensa al nome del partito: si va da “Nuova sinistra” a “Diritti e lavoro”. I gruppi dovrebbero nascere mettendo insieme deputati e senatori bersaniani che lasceranno i gruppi del Pd e chi invece, con Arturo Scotto, lascerà il gruppo di Sinistra italiana, rischiando così, però, di trovarsi a dover votare la fiducia al governo Gentiloni (cosa già annunciata da Speranza e Rossi). Alla Camera il gruppo potrebbe così esser composto da una trentina di deputati (i più ottimisti contano fino a 38), mentre al Senato, dove da Sinistra italiana non dovrebbe arrivare nessuno, saranno in 12, massimo 15. Un po’ come Renzi che non ha voluto dare sponde, alcuni di questi hanno deciso da giorni che la scissione era cosa inevitabile, considerando chiusa la stagione maggioritaria. È però lo stesso comunicato firmato da Speranza, Rossi e Emiliano alla fine dell’assemblea che ci dice che la scissione, seppur certa, ha confini ancora incerti, tant’è che si dice solo che «è Renzi ad aver scelto la strada della scissione assumendosi così una responsabilità gravissima», non che la scissione è cosa fatta. E Michele Emiliano, ancora in dubbio, frena anche oggi. D’altronde, potremmo notare, se Enrico Rossi non fa altro che chiedere un ritorno alle radici socialiste, Emiliano è quello che di radici socialiste ne ha meno. Nonostante tutti e tre giurino di non voler fare una ridotta rossa ma un partito dallo spirito ulivista (come conferma la presenza di moderati come Francesco Boccia), quindi, Emiliano tiene ancora il piede in due staffe.



La terza cosa sicura è che nessuno vuole prendersi la responsabilità della rottura
. Gli uni dicono che è colpa di Renzi (preoccupati di passare per “sfascisti”), Renzi dice che è colpa degli altri (non potendo dire che, in fondo, è contento o che sa, almeno, che contenti sono molti dei suoi, liberandosi posti nelle liste). Nessuno si assume la responsabilità della scissione. E non lo fa soprattutto chi si prepara a lasciare la casa democratica, contribuendo peraltro ad alimentare l’impressione (in realtà non del tutto corretta) che tutto sia legato a una questione di burocrazia interna, tra date del congresso e l’esigenza, non riconosciuta da Renzi, di un’assemblea programmatica.

Sempre al Teatro Vittoria, all’iniziativa di Enrico Rossi, avreste invece potuto ascoltare un intervento di Roberto Speranza molto programmatico. Sul lavoro, sulla scuola, sull’ambiente le distanze con le politiche di Renzi sembrano profondissime (scriviamo “sembrano” perché c’è sempre il problema che quelle politiche, a parte la legge elettorale, Speranza&co le hanno votate tutte). È un peccato non puntare tutto su quello, anche se si capisce che la conferenza programmatica dovrebbe servire proprio per arrivare a questo risultato: rompere sui contenuti. Con un paradosso però: perché per ora, infatti, la minoranza scissionista ha chiesto (non ottenendolo) anche che il Pd blindasse il governo Gentiloni fino a fine legislatura. Ancora una volta immaginiamo che l’idea sia di spostare il più possibile a sinistra il governo Gentiloni (tipo sui voucher). Ma il risultato immediato è di passare per quelli che vogliono tenere in vita un governo di larghe intese, mentre Renzi tiene per sé il ruolo di quello che tiene il governo sulle spine.

Il talento di Kurt Cobain che oggi avrebbe compiuto cinquant’anni

Kurt Cobain

«Ridono di me perché sono diverso, io rido di loro perché sono tutti uguali», diceva Kurt Cobain che oggi avrebbe compiuto 50 anni. «Preferisco essere odiato per ciò che sono che essere amato per ciò che non sono», diceva il ragazzo di Seattle dell’infanzia difficile e che, proprio grazie alla psichiatria organicista americana, imparò da bambino a mettere a tacere l’angoscia ricorrendo alle sostanze. Trattato per lunghi anni  con il Ritalin, passò poi all’eroia per tenere a bada la depressione e i dolori lancinanti dell’ulcera.

E ancora: «Ridono di me perché sono diverso, io rido di loro perché sono tutti uguali», diceva rivendicando spazi di poesia e un modo di fare musica cercando di rimanere fedeli alla propria ispirazione, senza infingimenti.

Già qui c’è tutto il mondo di Kurt Cobain, voce sofferta e bellissima dei Nirvana nati lontanto dagli incanti della Grande Mela, nella quotidianità grigia di Seattle. In quella periferia musicale negli anni Novanta è nato il grunge, quel rock ruvido e strappato con cui  lui sapeva toccare corde profondissime.

Come in All apologies, che ha aperto mille domande. Sull’impatto che aveva avuto su di lui l’attenzione ossessiva dei media. Fu un messaggio per sua figlia Frances? Annunciava l’addio? Come è stato notato nella versione unplugged di quel brano, registrata nel novembre del 1993, pochi mesi prima del suicidio, la frase “all in all is all we are” diventò “all alone is all we are”.

Kurt Cobain che sentiva la pressione dello show biz, che viveva nel delirio angoscioso di aver tradito i propri fans, in realtà non era affatto una creatura dell’industria discografica. Aveva talento, ma era anche senza pelle, con tutto ciò che comporta in termini di dolore.  Era una voce solitaria come Jeff Buckley, colorata di rabbia e  struggente malinconia. Ma anche un chitarrista sensibile. «Aveva un tocco per il quale molti chitarristi ucciderebbero», ha detto di lui uno che se ne intende come Chuck Berry.

Non si contano gli omaggi. Da artisti visionari come Gus Van Sant che nel 2005 gli ha dedicato il cortometraggio Gli ultimi giorni di Kurt Cobain  Cronaca (immaginaria) degli ultimi giorni del musicista a e compositore morto suicida a soli 27 anni. E da musicisti sideralmente lontani, come Caetano Veloso  che ha creato la più “sbilenca”, trasversale e inaspettata delle registrazioni di Come as You Are dei Nirvana. Elevando al rango di classico la canzone che già Kurt Cobain aveva intuito essere una delle sue più riuscite. Basta ascoltarne l’intima e bruciante versione unplugged.

TUTTE LE VIGNETTE