A Carnevale voglio travestirmi da Michele Emiliano. Voglio indossare una giacca bianca ma nera, continuando a ripetere a tutti che avrei preferito una camicia a scacchi ma alla fine il gilet è casa mia. Voglio fermare una persona a caso per strada, dirgli in faccia quello che penso, ovvero nulla, poi aspettare che si allontani per descriverlo agli amici come la causa di tutti i mali. Quando torna quell’altro smentisco la smentita, mi scindo abbastanza scisso e confermo la fiducia.
Se quella a cui assistiamo nel Pd è una scissione allora Michele Emiliano ne è il grumo: tutta retorica consistente, ha lanciato il guanto di sfida demolendo il suo partito per poi fingersi responsabile e tornare a cuccia. Lui, intanto, si sgola per spiegarci che “è la politica, bellezza” e che alla fine vuole “giocarsi la partita”. Aveva chiesto un congresso aperto, spostato in là nel tempo e un ripensamento sulle politiche degli ultimi anni; non ha ottenuto nulla di tutto questo e quindi eroicamente ha abbassato la testa come un bimbo sgridato e mandato a letto senza cena. Fantastico.
Eppure il polso del leader s’era già tastato durante l’assemblea nazionale di qualche giorno fa: un pirata via comunicato stampa pronto a diventare mozzo dal vivo e trovarobe al primo battito di ciglio di Renzi e i suoi. Si potrebbe chiamare “addomesticamento schizofrenico” ma forse, chissà perché, si potrebbe pensare che l’utile abbia vinto come sempre sul dilettevole.
«Farò una campagna contro Renzi durissima» ha dichiarato ieri, provando a sembrare stentoreo sotto uno flebile gorgoglio. E sicuramente Renzi avrà cominciato a tremare. Sicuro.
Vai, Michele: dopo Arlecchino e Pantalone la commedia dell’arte delle baruffe democratiche chiozzotte sforna all’improvviso la maschera del banfone, Emiliano lo scisso. Chissà come si divertono quest’anno i nostri bambini. O forse è più semplice di quel che sembra: Emiliano voleva sinceramente andare via ma a Roma non c’era un taxi libero. Nemmeno uno.
(S-D) Michele Emiliano, Enrico Rossi e Roberto Speranza durante la presentazione del manifesto "Idee e proposte per cambiare l'Italia, la sinistra, il Partito Democratico" al Teatro Vittoria, Roma, 18 febbraio 2017. ANSA/ANGELO CARCONI
«Pier Luigi Bersani, Roberto Speranza e i parlamentari della loro area non cambiano idea», così dice il lancio d’agenzia che, nel primo pomeriggio, conferma che la scissione nel Pd ci sarà, ma anche che sarà una scissione a metà, con Michele Emiliano che ha deciso di restare nel Pd e, come annuncia prendendo la parola, tentare la sfida a Matteo Renzi (con l’idea, se vincere è difficile, di diventare così il leader della minoranza). Bersani, Speranza e i parlamentari della loro area, dunque, «non parteciperanno alla direzione di oggi e al congresso del Pd, di cui non condividono le modalità». Che l’agenzia sia ben informata è confermato dal fatto che il lancio viene subito ripreso e socializzato da Chiara Geloni, già donna-comunicazione del Pd bersaniano: «Di fatto, a quanto si apprende, sono così fuori dal partito e dissentono dalla scelta di Michele Emiliano di sfidare Renzi alle primarie. È una scelta personale, sottolineano».
Una scissione con scissione, è dunque quella del Pd. Anche se la distanza tra Bersani e Emiliano era già venuta fuori durante l’assemblea di domenica ed era anche prevedibile, essendo Emiliano un corpo abbastanza estraneo, comunque distante dalla storia che invece accomuna Bersani, i suoi e Enrico Rossi. Anche il presidente della regione Toscana, infatti, ha tenuto il punto. Esce, e va a vedere la crisi di giunta che i renziani già minacciano e che ha sicuramente avuto un peso nella scelta, invece, di Emiliano, anche lui governatore, in Puglia.
Ciao @jaxofficial, hai visto com’è finito il dissing fra Emiliano e Renzi? Ma secondo te spacca ancora?
Aprendo la direzione del Pd, che darà vita alla commissione congressuale, Matteo Orfini si è comunque detto ancora fiducioso. Che anche Bersani, Speranza e Rossi possano rientrare è però ormai difficile, o almeno sarebbe comico. Anche perché Bersani, Speranza e Rossi sono quelli che più hanno posto questioni politiche – pur nella confusione, nella polvere della polemica sulle modalità del congresso, che è evidentemente parte della strategia per addossare la rottura a Renzi. Rossi vuole quasi un ritorno ai Ds (tant’è che l’associazione che ha promosso si chiama democratici e socialisti, Ds), Bersani sono mesi che teorizza la necessità di invertire la rotta rispetto a quella, di fiducia incondizionata nel mercato (perdonate l’estrema sintesi) seguita da Renzi; rispetto alla linea che Renzi, ora in partenza per un giro tra le aziende californiane, non ha mai detto, né fatto intendere, di voler abbandonare.
Però non è una scissione, è il secondo capitolo della rottamazione. Con il quale qualcosa finisce per sempre
Black Muslim leader Malcolm X poses during an interview in New York on March 5, 1964. (AP Photo/Eddie Adams)
21 febbraio 1965, Malcolm X sta per tenere un discorso a Manhattan. Ma non fa neanche in tempo a cominciare. Tre uomini seduti in prima fila gli sparano addosso con fucili e pistole: lo raggiungono 16 proiettili, di cui tre mortali. Era rientrato in città da una settimana. E, dopo un tentato avvelenamento al Cairo, ad attenderlo a New York aveva trovato la sua casa incendiata da un attentato dinamitardo. Chi ha ucciso Malcolm X? Ancora oggi, 52 anni dopo, ci sono diverse ipotesi. Se tre membri della Nation of Islam furono arrestati come esecutori (Talmadge Hayer, Norman 3X Butler e Thomas 15X Johnson), ma chi sono i mandanti? Per qualcuno sono da ricercare tra i suoi stessi collaboratori – di recente, una delle figlie, Qubilah Shabazz, ha accusato l’attuale capo della Nazione dell’Islam, Louis Farrakhan, di essere il mandante di quell’assassinio -, per qualcun altro tra le divise dell’Fbi e per altri ancora nel mondo della malavita organizzata e del traffico di droga che sarebbe stata colpita dal lavoro di Malcolm X subendo un calo del giro di affari. Quello che resta, è l’immagina di un milione e mezzo di persone che sfilano ai suoi funerali, il 27 febbraio ad Harlem. Malcolm X – nato El-Hajj Malik El-Shabazz – avrà sempre 39 anni, il suo corpo è sepolto al Cimitero di Ferncliff, ad Hartsdale, New York.
Da malvivente a pensatore, da predicatore a rivoluzionario
Settimo di 11 figli, Malcolm è nato a Omaha, nel Nebraska, il 19 maggio di un 1925. figlio di un pastore battista, Earl Little, e di un’immigrata antillana, Louise Norton, che aveva lasciato Grenada con la sua famiglia quando l’isola era ancora parte dell’impero britannico. Lo spirito di liberazione Malcolm lo respira appena nato, entrambi i genitori infatti aderiscono all’Universal Negro Improvement Association, un movimento pan-africanista di liberazione dei neri che il giamaicano Marcus Garvey aveva fondato nel 1914. Sono i tempi del Ku Klux Klan, l’organizzazione che, fondata nel 1867 nel Tennessee viene messa fuorilegge nel 1869 ma rinasce in Georgia nel 1915. Ed è proprio al Ku Klux Klan che, nel 1931, viene attrobuito l’assassinio del padre di Malcolm. Senza Earl Little, con pochi soldi e la madre malata, la famiglia di Malcolm si comincia a sgretolare. Nel 1937 viene affidato ad alcuni amici, un anno dopo viene espulso da scuola per “cattiva condotta e comportamento anti-sociale”, un provvedimento che gli vale il trasferimento nella casa di correzione di Lansing, nello Stato del Michigan. Malcolm ha 15 anni quando, anche per sua madre si prepara un destino di reclusione. Louise, sempre più grave, viene rinchiusa in manicomio per decisione di giudice e assistenti sociali.
Boston, tra ghetto e galera
Lustra le scarpe dei passanti o serve ai tavoli di ristoranti e sui treni. All’inizio degli anni 40 Malcolm si stabilisce nel ghetto nero di Boston. Qui, entra a far parte di un’organizzazione di scommesse clandestine. Nel 1945 è ricercato dalla polizia che lo accusa di essere a capo di una banda di rapinatori, un anno dopo viene tratto in arresto durante una rapina e condannato a dieci anni. Ha inizio la sua conoscenza con il carcere: da quel febbraio del 1946 al luglio del 1952 Malcolm soggiorna in tre carceri del Massachussetts. In una di queste, tra le mura della colonia penale di Norfolk avviene la sua trasformazione, tra il 1948 e il 1951. Malcolm ha poco più di vent’anni. Studia, legge e fa proselitismo. È, infatti, entrato in contatto con la Nazione dell’Islam di Elijah Poole (che aveva già preso un nuovo nome, Elijah Muhammad), è stato suo fratello Reginalda metterlo in contatto. Predica il separatismo autosufficiente dei neri dai bianchi, denuncia il razzismo della religione cristiana, lotta contro droga, tabacco, alcol, cibi impuri e ogni vizio. In carcere sta diventando un’autorità, le autorità decidono di liberarlo.
Una X in memoria dell’Africa
Quello che va a vivere a Inkster, nel ghetto nero di Detroit, non è più solo Malcolm, ma Malcolm X. Malcolm decide di prendere una “X” accanto al suo nome, a perenne memoria della privazione del suo vero nome africano. Non è più un predicatore, e alle galere adesso si sono sostituite le fabbriche. Prima la catena di montaggio di un’industria automobilistica, poi passare la fabbrica di camion Gar Wood. Finché torna sulla costa orientale, e riprende a predicare per la Nazione dell’Islam. Con Malcolm X, l’organizzazione non si limita ad aprire e organizzare nuove moschee, ma diventa il gruppo politico-religioso di «musulmani di colore, separatisti e rigidamente organizzati». Gli anni 50 stanno per finire, Malcolm sposa Betty Shabazz, una compagna del suo movimento, e si stabilisce a New York. È il 1958.
L’evoluzione politica
È il momento di viaggiare. Europa, Medio Oriente, Africa. Malcolm X modella le sue idee che pian piano cominciano a prendere forma: vuole stringere l’intesa con i gruppi antisegregazionisti del Sud e nel resto del paese e capisce di dover internazionalizzare il “problema dei neri”. Per farlo è necessario stringere intese anche con i Paesi arabi, soprattutto con quelli africani, e con le ex colonie. Tra il 1963 e il 1964, decide di fondare “l’Organizzazione dell’Unità Afroamericana”. Le sue posizioni contro il governo degli Stati Uniti si fanno sempre più decise, tanto in politica estera quanto in quella interna. In quegli anni c’è un altro leader che si aggira per il mondo: Martin Luther King. Ma Malcolm X non ne condivide il pacifismo, la rottura arriva subito dopo la marcia su Washington, una delle più grandi manifestazioni per i diritti civili nella storia degli Stati Uniti (agosto 1963). «La farsa su Washington», la definì Malcolm X senza mezzi termini. Del resto, la sua ostilità nei confronti di King non fu mai un mistero, così come le sue critiche alle teorie della non-violenza che, sosteneva Malcolm X, facevano il gioco dell’oppressore istigando i neri a non reagire. Nel 1964 Malcolm X lascia la Nazione Islamica. Due anni prima era venuto a sapere che il leader dell’organizzazione, Elijah Muhammed, aveva diverse cause in corso con due sue segretarie che gli chiedevano di riconoscere i figli avuti da relazioni illegittime. Malcolm X si allontana e parte per un pellegrinaggio alla Mecca. Secondo alcuni biografi in quel viaggio in Arabia Saudita comincia a non considerare tutti i bianchi come dei nemici. Vede pregare insieme musulmani dalla pelle scura e chiara.
La rivoluzione anticoloniale
L’unità etnica e di condizione dei neri è il collante per gli oppressi di tutto il mondo. È questa la convinzione che matura nella testa e del core di Malcolm X: «Gli afro-americani non sono una minoranza degli oppressi dagli Stati Uniti, ma sono una parte minoritaria di tutti gli oppressi dal Colonialismo», dice durante uno dei suoi discorsi. Il suo è un discorso politico internazionalista che pianta le radici su su una certezza: il razzismo a cui sono sottoposti i neri americani è connaturato all’essenza stessa del capitalismo. «In passato pensavano al loro problema come una questione di diritti civili, il che la rendeva una questione nazionale, confinata alla giurisdizione degli Stati Uniti d’America, in cui i neri potevano solo cercare l’aiuto dei liberal-progressisti bianchi. Oggi i negri dell’emisfero occidentale si rendono conto che il loro è un problema di diritti umani, piuttosto che di diritti civili. E quel problema, nel contesto dei diritti umani, diventa una questione internazionale. Cessa di essere un problema negro, un problema americano, diventa un problema internazionale». Per Malcolm X la lotta anticapitalista internazionale è una lotta al razzismo. Perché il nemico che bombarda il Congo è lo stesso che arma i cittadini contro i negri ed è lo stesso che crea i ghetti e la povertà etnica. Ecco che la decolonizzazione ha una funzione strategica. Malcolm X legge Lenin e Marx, e capisce che la debolezza dei negri d’America è direttamente proporzionale al loro essere un ingranaggio della produttività americana. I Ghetti, per Malcolm X, non sono solo il frutto dell’ignoranza dei bianchi, ma richiami alla divisione del lavoro internazionale, che si replica sul contesto nazionale. Malcolm X, intravede i processi di etnicizzazione del lavoro, quelli che oggi noi vediamo alla luce del sole. Ed è nella rivoluzione anticoloniale che intravede la via d’uscita. Come Thomas Sankara, come Ernesto Guevara.
La sua eredità. I Black Panthers
La lotta politica di Malcolm X è un insegnamento essenziale per le black communities, oltre le marce per i diritti civili. A raccogliere la sua eredità Huey P. Newton, Bobby Seals ed Eldrige Cleaver: fondatori del Black Panthers Party. Un partito in cui il pensiero del leader si fonde alle teorie marxiste. Per quattro o cinque anni, il movimento infiamma le tutte le città d’America. Seguono la persecuzione e la repressione. L’Fbi recluta infiltrati e organizza un’operazione diretta da Edgar Hoover, capo dell’agenzia federale nonché uomo legato al Klan. I Panthers vengono sconfitti, ma il pensiero di Malcolm X è ancora un passaggio vitale nella storia americana. Molto più attuale di quanto non si possa pensare.
Italian Five Stars Movement Beppe Grillo leaves Campidoglio Palace after the meeting with Rome mayor Virginia Raggi to discuss in particular the project for the new AS Roma Stadium in Tor di Valle area on which much controversy arose. ANSA/ ANGELO CARCONI
Nuova puntata della travagliata vicenda Stadio della Roma. La parola finale è nelle mani del sindaco pentastellato, certo: «Decide Raggi», ha sancito ieri Beppe Grillo, a Roma per discutere col primo cittadino proprio della questione. Ma l’autonomia di Virginia Raggi è costellata di vincoli. Non da ultimo, la lacerazione interna al partito del blog – nonostante, sempre ieri, Grillo ribadisse: «Il Movimento 5 stelle è compatto». Cerca di mediare e ricompattare, il garante: «non faremo una scelta tra un palazzinaro e un altro: sarà un altro tipo di scelta, di più non posso dirvi», ma, assicura, si tratterà di «scelte in sintonia con il Movimento». Una sintonia difficile da distinguere, attualmente, visto che il movimento è letteralmente spaccato in due, come dimostrano post come quelli della deputata Roberta Lombardi, avversaria dichiarata dell’operato di Raggi.
Non è andata benissimo la manifestazione anti-cemento di oggi degli attivisti M5s contro la loro stessa giunta. Si sono presentati in una cinquantina in piazza Madonna di Loreto (affianco al Campidoglio), cartelli alla mano, per consegnare al primo cittadino le motivazioni del loro “no allo stadio”. Oltre alla lettera, un fac-simile della delibera che annullerebbe l’interesse pubblico dichiarato dalla giunta Marino. Il messaggio da recapitare è chiaro: «Cara Virginia, sulla vicenda stadio state prendendo una cantonata».
Il sit in di un gruppo di attivisti a 5 Stelle critici nei confronti del progetto dello stadio della Roma, il 21 febbraio 2017 a Roma. ANSA/GIORGIO ONORATI
Il sit in di un gruppo di attivisti a 5 Stelle critici nei confronti del progetto dello stadio della Roma, il 21 febbraio 2017 a Roma. ANSA/GIORGIO ONORATI
Il sit in di un gruppo di attivisti a 5 Stelle critici nei confronti del progetto dello stadio della Roma, il 21 febbraio 2017 a Roma. ANSA/GIORGIO ONORATI
Non sono stati ricevuti – anche perché Virginia Raggi è impegnata, forse non per caso, a dare la sua solidarietà alla protesta dei tassisti romani. Questo però non scoraggia Francesco Sanvitto, coordinatore del Tavolo Urbanistica per il M5s capitolino, che si scaglia perfino contro il Garante del Movimento: «Grillo? Chi è?», attacca: «Quando va in una città che non conosce sarebbe interessante che si domandasse se esiste una base preparata e se esistono dei tavoli tecnici preparati. E invece siamo stati circondati da peracottari poco tecnici che non fanno neanche parte del movimento». E ancora: «Piuttosto ci dica chi è l’avvocato Lanzalone, che si occupa di diritto societario e fa parte di consigli di amministrazione di banche e va a trattare chissà cosa con il proprietario della società che deve fare lo stadio che per l’80% è una banca». E non pago, incalza: «Grillo non sa leggere tutte le carte del progetto come le so leggere io. Io valgo cento rispetto a Grillo, lui varrà più di me se dovessi fare uno spettacolo da qualche parte», ha dichiarato a ForzaRoma.info (la sezione giallorossa della Gazzetta dello Sport), e non ci va certo leggero: «Questa è una truffa, non ha altro nome».
Ma, come abbiamo scritto su Left in edicola questa settimana, Grillo ha già deciso tempo fa. E soprattutto, annullare la delibera ereditata con una contro-delibera costerebbe alla giunta – e ai romani – una causa multimilionaria. Ipotesi che a noi era stata smentita da tutte le parti coinvolte, perché “nessuno vuole arrivare a quello”, ma che col passare dei giorni sta diventando sempre più imponente. Testimonianza ne è la presenza dell’avvocato di Grillo (a cui fanno riferimento gli attivisti ribelli) appositamente calato da Genova Luca Lanzalone, a ogni tavolo tecnico. Un motivo questo che potrebbe valere ben più di tutti i valori ambientalisti. Proprio per questo, Raggi ha chiesto un parere all’Avvocatura capitolina.
Sul terreno di Tor di Valle, inoltre, è inoltre calata la scure della Sopraintendenza, che ha richiesto il vincolo per l’Ippodromo. Cosa che imporrebbe una rivisitazione del progetto, e una probabile ulteriore riduzione delle cubature facendo saltare le tre torri del Business Park – che dopo del 20 % quella ottenuta nell’ultima seduta plenaria, sarebbe difficile da far mandare giù al manager italo-americano James Pallotta e al costruttore Luca Parnasi. Anche se, per il Movimento, potrebbe essere una via di salvezza niente male: niente stadio, niente penale e soprattutto niente responsabilità.
In ogni caso domani, all’ennesima riunione con la società giallorossa e Parnasi, il Comune potrebbe presentarsi con una controproposta. Alla quale seguirebbe, con ogni probabilità, un nuovo slittamento della conferenza dei servizi (prevista per il 3 marzo) che dovrebbe sancire le sorti dell’operazione, e stavolta su richiesta dei proponenti.
Molto lontana l’era in cui a decidere erano gli attivisti M5s tramite votazione on-line. Non sarà una consultazione degli iscritti sulla piattaforma dedicata, stavolta, a dare il via libera, ma gli abitanti della zona. In che modo, è ancora tutto da studiare. Resta il fatto che si tratta di un coinvolgimento molto marginale e sicuramente ben lontano dalla democrazia partecipata. Della quale, per Sanvitto e gli altri attivisti, è rimasto poco: «Fin quando hanno fatto opposizione i tavoli di lavoro erano utili. Ora che sono diventati governo invece di usare i loro strumenti di persone particolarmente informate e capaci si sono circondati di mercenari opportunisti che non fanno parte del Movimento e che per di più sono anche ignoranti».
Il post sulla pagina Facebook di Filippo Roma, relativo all'inchiesta delle Iene sui fondi pubblici erogati dall'Unar, (Ufficio nazionale antirazzismo) ad associazioni per lo svolgimento di attività tra le quali, come scoperto dalla trasmissione, ci sarebbe anche un circolo che offriva il servizio di "dark room" ai suoi iscritti. Roma, 20 febbraio 2017. +++ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA+++
Che sarebbe uscito il servizio delle Iene, Francesco Spano, lo sapeva o meglio lo temeva da qualche settimana. Ed era preoccupato perché sapeva che, con ogni probabilità, gli sarebbe costato il posto e che sarebbe stato soprattutto un colpo durissimo per lo stesso Unar, l’ufficio nazionale contro le discriminazioni che dirige. O meglio dirigeva.
L’Unar è un dipartimento di palazzo Chigi, ed è per questo che le Iene, raccogliendo una segnalazione – che Left sa esser arrivata dallo stesso mondo Lgbt, composto ovviamente da anime diverse e molte associazioni, di orientamento politico diverso tra loro e spesso in competizione – può titolare “Orge e prostituzione, e palazzo Chigi paga”.
Nel servizio si accusa l’Unar, che si occupa di tutte le discriminazioni, sia razziali che di genere e sessuali, di aver finanziato, o meglio finanziato un progetto, di un’associazione, la Anddos, di cui fanno parte anche alcuni circoli ricreativi, dallo spiccato profilo commerciale, nei quali oltre a organizzare serate hard si praticherebbe però prostituzione maschile (qui la replica dell’Anddos). Spano, poi, l’ormai ex direttore dell’Unar, sarebbe socio di questa associazione e – è il teorema – sarebbe dunque in conflitto di interesse per i 55mila euro assegnati per «la realizzazione di centri di ascolto e supporto contro la violenza omofobica».
Nel riportare la vicenda – che ha subito innescato una girandola di reazioni politiche – si può notare che Le Iene nel servizio indugiano molto sui dettagli piccanti, come loro solito, non risparmiando battutine omofobe, a commento delle immagini raccolte nelle dark room di alcuni locali o notando persino l’«appariscente cappottino arancione» di Spano. E si può notare che avere la tessera di un’associazione di quel tipo non dimostra affatto un conflitto di interessi, perché il modello di Anddos è simile a quello dell’Arci e a quelle reti di associazioni dove tutti quelli che entrano anche solo una volta in uno dei locali affiliati vengono registrati («Potrei aver fornito i miei dati per l’ingresso in un locale di tutt’altro tipo, ma associato a quel circuito», dice infatti Spano, che nel video è comunque evidentemente imbarazzato).
Il più crudo fatto però, che in alcuni circoli si pratichi la prostituzione e che questi circoli siano parte dell’associazione finanziata da palazzo Chigi, resta. E andrà verificato nel merito. A restare però è anche la sospensione dell’intero bando in questione, decisa da palazzo Chigi per reagire alla polemica. Una sospensione che colpisce molti progetti (un milione, in totale, i fondi assegnati), peraltro prevalentemente diretti all’integrazione di migranti, rom e sinti, e destinati a realtà come la Croce Rossa e la Comunità di Sant’Egidio.
Si è dimesso il direttore dell’Unar, Francesco Spano. Ma doveva dimettersi con lui il suo capo, la Boschi.
Ed è qui che arriviamo agli attacchi politici. Perché a poco servono le parole e le dimissioni di Spano: «Mi sono dimesso, sì», dice al Corriere, «ma questa bufera che hanno creato è infondata, mi hanno messo in mezzo. La procedura seguita è trasparente, esiste una graduatoria. Inoltre era il primo bando e quei fondi non sono stati assegnati o spesi, ma tuttora in cassa». A poco servono perché il servizio delle Iene è ghiotto per Giorgia Meloni, che chiede la chiusura dell’Unar e che con l’Unar si era già scontrata, richiamata a maggior prudenza nell’uso propagandistico degli stereotipi sull’immigrazione. Ed è buono per Mario Adinolfi, per Gianni Alemanno, per Forza Italia. È buono per la Lega, e cade proprio in un momento in cui l’Unar, guidato da Spano, non certo esponente della sinistra radicale, stava promuovendo, l’incontro tra le cause del movimento Lgbt – e in particolare quelle delle persone transgender – con pezzi del mondo cattolico e della curia. Un peccato.
Maria Elena Boschi, titolare della delega alle Pari opportunità, ha però chiesto e ottenuto la testa di Spano. Ma l’Unar, tornato così senza guida (dopo che già l’anno scorso aveva girato a vuoto per mesi), rischia di dover restituire oltre venti milioni di euro di fondi europei, oltre lasciare in difficoltà chi contava sui fondi (tutti a consuntivo) del bando ora sospeso, fondi che dovrebbero esser spesi entro dicembre e che erano attesi, ad esempio, tra i progetti Lgbt, per aprire – ad aprile – a Bologna una residenza per persone trans, rifugiati che scappano da Paesi dove li attenderebbe morte certa.
Il 27 marzo si terrà la serata di premiazione dei David di Donatello organizzata dalla Accademia del Cinema Italiano. In attesa di sapere i nomi dei vincitori ecco le candidature ai premi principali.
Edoardo De Angelis con Indivisibili e Paolo Virzì con La pazza gioia ottengono 17 candidature. Li segue il giovane Matteo Rovere con Veloce come il vento che avevamo intervistato qui in occasione dell’uscita del film. Per la miglior attrice protagonista candidate entrambe le attrici del film di Virzì, Micaela Ramazzotti e Valeria Bruni Tedeschi. Nella categoria Miglior attore protagonista si sfidano Stefano Accorsi, Valerio Mastrandrea e Toni Servillo. Ecco le nomination complete per le principali categorie
Quest’anno coincidono le candidature per le categorie MIGLIOR FILM e MIGLIORE REGISTA
FAI BEI SOGNI regia di: Marco BELLOCCHIO
FIORE regia di: Claudio GIOVANNESI
INDIVISIBILI regia di: Edoardo DE ANGELIS
LA PAZZA GIOIA regia di: Paolo VIRZI’ VELOCE COME IL VENTO regia di: Matteo ROVERE
MIGLIOR ATTRICE PROTAGONISTA
Daphne SCOCCIA per il film: Fiore
Angela e Marianna FONTANA per il film: Indivisibili
Valeria BRUNI TEDESCHI per il film: La pazza gioia
Micaela RAMAZZOTTI per il film: La pazza gioia
Matilda DE ANGELIS per il film: Veloce come il vento
Lui dice di essere il più «fantastico super cattivo di internet», altri lo definiscono un razzista qualsiasi. Volendo storicizzare potremmo definirlo la versione web, contemporanea e provocatoria di Theo Van Gogh, il regista ucciso in Olanda nel 2004 dopo aver prodotto un film documentario sul trattamento delle donne nell’Islam. Certo è che negli ultimi due anni Milo Yannupoulos, 32enne nato in Grecia da padre greco e madre britannica e cresciuto in Gran Bretagna, si è distinto per la capacità di vendere il proprio brand: gay (issimo), razzistissimo, scorretto, britannico fino al midollo, nel look come nel modo di provocare. In rete Yannupoulos sbeffeggia, insulta, incita all’odio ma sempre con toni sarcastici, come se si trattasse di uno scherzo. Il suo canale YouTube ha 550mila follower. Negli anni se l’è presa con Leslie Jones, attrice nera del nuovo Ghostbusters, la cui pagina su Tumblr è stata presa di mira da insulti a sfondo razziale – la foto di un gorilla morto postata ripetutamente. La campagna contro l’attrice nera gli costò l’espulsione in forma definitiva dal social network a 140 caratteri. Nel frattempo però è cresciuto in popolarità su YouTube, autodefinendosi “Troll King” fino a quando il suo successo non lo ho portato ad essere ingaggiato dalla redazione di BreibartNews, sito gestito da Steve Bannon, oggi stratega della Casa Bianca.
Yannupoulos sbeffeggia le altre culture
La sua popolarità in rete comincia nel 2014 con il GamerGate, movimento d’opinione violento e aggressivo, fatto di insulti, attacchi personali e minacce contro le sviluppatrici di giochi donne. L’hashtag #GamerGate usato per la prima volta dall’attore Adam Baldwin, voce del videogioco Halo, è stato usato per denunciare la campagna di trollaggio contro la sviluppatrice Zoe Quinn, accusata (dall’ex compagno) di aver fatto sesso in cambio di buone recensioni per il suo videogioco, Depression Quest, un gioco che faceva immedesimare l’utente in una persona depressa. Il tema all’epoca era l’intrusione delle donne in un mondo chiuso ritenuto di prerogativa maschile, perché fatto di codici e dati. Finì con minacce di stupri e morte che attivarono anche le autorità federali e costrinsero diverse sviluppatrici a cambiare identità sul Web e addirittura abitazione.
Da giornalista su BreibartNews Yiannopoulos ha scritto articoli titolati «Il controllo delle nascite fa andare le donne fuori di testa e le rende brutte» e «Preferireste che vostro figlio avesse il cancro o il femminismo?». Posizioni provocatorie e di estrema destra dunque quelle portate avanti da questo giovane gay che negli ultimi giorni è finito nei guai. O meglio, ha ricevuto uno stop alle sue provocazioni dopo la diffusione di un’ultima intervista, dove Milo si è spinto davvero troppo oltre.
L’editore della sua autobiografia “Dangerous”, che ha già anticipato 200mila dollari per la sua pubblicazione, prevista per il giugno prossimo, ha annunciato che il libro non verrà stampato né commercializzato. E la Conservative Political Action Conference, l’appuntamento annuale dei conservatori più conservatori, ha cancellato la sua partecipazione tra gli speaker. Il motivo è semplice: una settimana fa è spuntata una audio intervista nella quale Yiannopoulos difende in forma velata la pedofilia come relazione nella quale «l’adulto aiuta il ragazzo a capire chi è». Apriti cielo: se gli insulti alle donne, ai neri, ai transgender, ai musulmani andavano bene ai conservatori, la pedofilia è peccato. Quanto al libro, è evidente che chi gli aveva fatto firmare un contratto non è preoccupato per i contenuti del libro – che aveva letto – ma delle ripercussioni: riviste avevano annunciato che non avrebbero più parlato dei libri di Schuster e Schuster e autori avevano stracciato i contratti.
Yiannopoulos è finito nel fango, costretto a scusarsi, spiegare che la sua era una battuta. Con un video sulla sua pagina facebook, ora rimosso, Milo dice di essere disgustato da quei crimini e dalle persone che li commettono. Ha quindi capito di aver fatto un passo troppo lungo, che la popolarità si paga. Questo è il terzo libro della star destrorsa del web che finisce al macero o non viene finito – uno su Gamergate e un secondo contro i “socipoatici della Silicon Valley” – ma, scrive lo stesso Yiannopoulos, «la cosa non mi fermerà» giura. Neppure gli scontri che gli hanno impedito di parlare a Berkeley, dove era stato invitato nei mesi scorsi, del resto lo hanno fermato. Sembra di capire che persino a BreibartNews ci siano dei giornalisti in rivolta contro il loro collega: se non lo cacciate ce ne andiamo, hanno detto diversi di loro alla proprietà. Vedremo cosa deciderà Steve Bannon.
Una della ragioni per cui si parla tanto di questo giovane guastatore della rete è perché è un fan della prima ora di Donald Trump, che nei suoi video e podcast chiama “Daddy”, papino. La ragione principale del suo amore per Trump, oltre alla guerra dichiarata all’Islam e ai messicani, è la fine del politically correct e la difesa della libertà di parola. In America questa è sacra, grazie al primo emendamento della Costituzione, ma Trump, con i suoi discorsi sopra le righe ha portato la scorrettezza sul podio più alto. Basta civiltà e buone maniere, ognuno dice quel che vuole e come vuole perché è giusto così. Una modalità che incoraggia ed esalta Milo. Nei mesi prima delle elezioni, Donald Trump junior, il figlio del presidente, aveva condiviso su instagram la foto qui sotto, un meme che scherza sulla frase pronunciata da Clinton sui sostenitori di Trump, dipinti come un basket of deplorables (Banda di miserabili). Nel meme vediamo Milo (a destra), Pepe the Frog, simbolo involontario (è un fumetto adottato dalla destra ma che di destra non aveva nulla), e poi Trump e suo figlio, oltre al governatore del New Jersey Chris Christie. Ora, il fatto di condividere quella foto, per il figlio di un candidato presidente impegnato per altro nella campagna elettorale del padre, è una dimostrazione di gradire eccome il fatto di essere accostato alla destra estrema, agli ambienti di alt-right, che Bannon ha collegato al suo sito.
La relativa debacle di Yiannopoulos non sarà un problema per lui. Per ora il suo brand viaggia a gonfie vele e la sua scorrettezza piace a una parte di società americana giovane e infuriata contro i maledetti liberal e la diversità. Certo è che, con lui e tutti gli altri personaggi che Trump ha imbarcato, l’estrema destra e certi discorsi sono stati definitivamente sdoganati entrando a pieno titolo nel mainstream. In parallelo, come segnala il Southern Poverty Law Center, che ogni anno pubblica un rapporto sugli attacchi a sfondo razziale e i gruppi di estrema destra, cresce il numero di gruppi di destra attivi negli Stati Uniti. Il SPLC ha verificato che il numero di gruppi attivi nel 2016 è salito a 917 – da 892 nel 2015, 101 in meno del record del 2011, dopo l’esplosione del Tea Party, ma comunque un numero molto alto. L’SPLC ha anche condotto un’inchiesta tra 10mila professori per constatare che le relazioni tra gruppi e i toni e insulti a sfondo razziale e sessista sono in aumento nelle scuole d’America.
La mappa degli hate groups del SPLC (link sulla mappa)
epa05564419 Socialist Party (PSOE) general secretary Pedro Sanchez speaks during a press conference held at the party headquarter in Madrid, Spain, 30 September 2016. Up to 17 members of PSOE's board of directors resigned on 28 September 2016 to force current leader to resign after mixed-up feelings about the party's direction in the negotiations to form Government. The People's party (PP) won the 26 June second general elections but without the needed majority to form Government. The socialist party is divided between those who prefer a negotiation with the People's Party, or making easier PP's access to government, and those who prefer third elections before allowing current acting Prime Minister, Mariano Rajoy, lead the country. EPA/JAVIER LOPEZ
«Serve un’unità di azione» tra le forze politiche di sinistra e i sindacati. Il messaggio di Pedro Sánchez, ex Segretario generale del Partito socialista spagnolo (Psoe), è chiaro e strizza l’occhiolino a Podemos.
E non si tratta di una dichiarazione una tantum, ma del messaggio programmatico contenuto nel documento strategico di 33 pagine, “Per una nuova socialdemocrazia” (“Por una nueva socialdemocracia”), presentato lunedì, a Madrid, e di cui parla stamani El Pais.
Il documento diventa quindi l’opzione “di sinistra” all’interno del Psoe. Durante la presentazione del piano strategico, Sánchez ha richiamato anche altre parole che sono state usate molto durante l’Assemblea Vistalegre II, di Podemos. Tra tutte, spicca quella di “umiltà”, usata dal leader socialista lunedì: «Credo di sapere, con umiltà, ciò di cui ha bisogno il Psoe e la sinistra per incarnare di nuovo un’alternativa rispetto al governo popolare».
Sánchez ha anche detto che il Psoe deve tornare a rappresentare la sinistra nel Paese. Il che, in un certo senso, la dice lunga sul profilo del partito durante gli ultimi anni. «Il nostro avversario è il neoliberalismo e il conservatorismo, incarnati dal Partito popolare», ha aggiunto.
Oltre a Podemos, chi sono gli interlocutori che si immagina Sánchez? Soprattutto l’alleato “storico”, ovvero il sindacato dell’Unione generale dei lavoratori (Unión General de Trabajadores, Ugt).
Sánchez si era dapprima dimesso da Segretario del Psoe, dopo aver perso il sostegno della classe dirigente del suo partito. Successivamente, aveva anche lasciato il suo incarico da deputato, per non dover seguire l’indicazione del partito di “astenersi” rispetto all’investitura dell’ultimo governo Rajoy.
Lex presidente del consiglio Matteo Renzi durante l'assemblea nazionale del Pd all'Hotel Parco dei Principi, Roma, 19 febbraio 2017. ANSA/ANGELO CARCONI
Giuro che mi ci sono messo di impegno. Ho fatto cose inimmaginabili come cercare contenuti politici nel balletto di Emiliano, ho anche sopportato tutto questo smemorato neo tifo per D’Alema, ho cercato le interviste degli scissionisti annotandomi le parole ufficiali insieme a quelle dette e a quelle scritte e provando a tradurre anche i retroscena ma continuo a non comprendere quale siano le inconciliabili visioni di Paese che sostengono l’uscita della minoranza dal PD.
Sia chiaro: non concordo in quasi nulla con le politiche di Renzi, non mi piace questa sua tiepida coda a forma di Gentiloni e credo che non ci sia nemmeno un’ombra di sinistra nel governo che fu dello scout paninaro e della sua accolita. Personalmente credo che ci sarebbero quintali di motivi per non concordare con lui ma da qui, da fuori, non mi pare di coglierne chiaramente uno che sia uno da questi eterni transfughi che non transfugano mai. Perché si rompe il Pd?
Il congresso, ad esempio. Ma davvero qualcuno crede che la leadership di Renzi sia contendibile nel contesto attuale? Dai, su, non scherziamo. E quindi? Qualcuno crede anche da sconfitto di poterne condizionare le politiche? Suvvia, no. E allora? C’è chi pensa di riversare nel PD, per il tesseramento buono per la conta congressuale, la “sinistra” per modificare gli equilibri del partito? Certo che no. E quindi? Cosa significa “un congresso veramente aperto” come chiede la minoranza? Che Renzi debba correre con un giro di penalità? Che la vittoria si decida con una lotteria alla Festa dell’Unità di Pocapaglia? Spiegatemi, vi prego.
Il programma, mi dicono. Ma non è il programma proprio il nucleo fondante di una candidatura alla segreteria? Posto che vinca Renzi come si può pensare di costringerlo a supportare politiche che non gli appartengono? Mistero. Nero.
E concretamente che “segnali di apertura” si stanno aspettando? Perché Emiliano, Bersani, Speranza o qualcuno di loro non sprecano un minuto per spiegare anche a noi qui fuori?
C’è una dichiarazione illuminante del senatore PD Giorgio Tonini che ieri ha scritto: «È dunque evidente e comprensibile che le modalità di selezione dei cento capilista siano al centro della contesa. La minoranza di sinistra del Pd considera infatti certa la rielezione di Matteo Renzi alla guida del partito e teme che la scelta, da parte del segretario, dei cento capilista premi in modo abnorme i suoi fedelissimi e lasci a loro, alla minoranza, solo le briciole. A quel punto, dicono in molti, tanto vale rischiare la scissione: se ci va male non ci andrà comunque peggio che se restassimo nel Pd, se invece ci andasse bene…»
Di sicuro c’è solo che anche oggi la scissione la facciamo domani.