Gaza non esiste più, è una terra desolata, dopo un anno e sette mesi di attacchi indiscriminati contro la popolazione civile palestinese, come vendetta su un intero popolo, all’indomani dell’attacco criminale di Hamas del 7 ottobre 2023 contro civili israeliani; un’azione terroristica, in cui furono uccise 1200 persone e 240 prese in ostaggio, che abbiamo condannato da subito.
La risposta del governo israeliano non è stata di legittima difesa. È stata ed è una sistematica azione di sterminio di donne, vecchi e bambini. Indagini dell’Onu, di Ocha, di riviste scientifiche prestigiose come The Lancet, di Human Rights Watch e altre fonti autorevoli, parlano di oltre 50mila palestinesi uccisi, di cui almeno 17mila minori, in gran parte bambini. Come ha detto l’ex generale dell’Idf, Yair Golan, leader del partito di centrosinistra dell’opposizione, criticando duramente la strategia di Netanyahu: «Ormai uccidiamo bambini per hobby».
Le bombe israeliane cadono incessantemente su quel che resta di campi profughi, ospedali, scuole. Il sistema sanitario è collassato, la popolazione è intrappolata, come ci racconta su questo numero il medico di Emergency Andrea Bona nella sua corrispondenza da Gaza, mentre i convogli di aiuti sono bloccati ai valichi come ha potuto documentare l’avvocato Andrea Maestri, tornando a Rafah a un anno di distanza dal suo primo viaggio (da cui è scaturito il suo libro edito da Left, Il penultimo respiro di Gaza). La fame è usata dal governo israeliano come strumento di guerra (dopo aver distrutto completamente il tessuto agricolo e produttivo palestinese) insieme alla deliberata mancata consegna di farmaci e di strumenti sanitari. Come chiamare tutto questo? Già il 26 gennaio 2024, la Corte internazionale di giustizia dell’Aja aveva stabilito che le accuse mosse dal Sudafrica e da molti altri Paesi contro Israele per violazioni della Convenzione sul Genocidio erano «plausibili» e aveva aperto un’indagine, intimando a Israele di «adottare subito tutte le misure possibili per prevenire atti di genocidio». Ma senza esito. Anzi Netanyahu ha fatto l’opposto.
Mentre scriviamo, contractors privati statunitensi, militarizzati e armati, a cui il governo Israeliano ha affidato la distribuzione di aiuti, hanno attirato in zone recintate i civili palestinesi che chiedono acqua e cibo. Sottoposti a sistemi di profilazione digitale (dati biometrici, riconoscimento facciale ecc), vengono schedati. E quando a Rafah la massa di persone disperate ha sfondato le recinzioni, è stata dispersa a colpi di mitra in aria. Secondo le Nazioni Unite, oltre 1,9 milioni di palestinesi, circa l’85% della popolazione di Gaza, sono stati costretti a lasciare le proprie case a causa delle operazioni militari israeliane e delle evacuazioni forzate. Ora saranno attratte in specie di enclave con questo sistema a “calamita”. Per poi essere deportati? Il piano è stato esplicitamente delineato da Netanyahu in un incontro con i riservisti dell’Idf il 13 maggio. «Abbiamo istituito un organo di governo che permetterà [ai civili] di uscire, ma il problema principale è questo: abbiamo bisogno di Paesi ospitanti disposti ad accoglierli. È su questo che stiamo lavorando in questo momento». Come chiamare tutto questo se non pulizia etnica? Questa “soluzione finale” avviene dopo mesi e mesi di attacco fisico e mortale ai civili palestinesi, preceduti da campagne di disumanizzazione. Esponenti del governo israeliano e dei coloni definiscono i palestinesi «animali umani» da eliminare: ipse dixit il ministro della Difesa, Yoav Gallant. Alla luce dei crimini contro l’umanità in corso, quella frase pronunciata mesi fa suona come il manifesto ideologico di un progetto genocidario (secondo la definizione giuridica della Convenzione Onu del 1948, come scrive su Left il giurista Vincenzo Musacchio). Il ministro dell’Agricoltura, Avi Dichter, dice apertamente che è tempo di una nuova “Nakba”, che ricalchi la cacciata dei palestinesi del 1948. Il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, leader dell’estrema destra religiosa aggiunge: «Non ci sarà Gaza senza guerra, Gaza deve essere completamente liberata dai suoi abitanti». Il primo ministro Netanyahu stesso, in più occasioni, ha detto che l’obiettivo è il «completo annientamento di Hamas» anche se comporterà l’eliminazione dell’intera popolazione di Gaza, anche a costo della vita degli ostaggi. Costoro identificano l’intero popolo palestinese con l’organizzazione che governa la striscia dal 2007, non considerando che molta parte della popolazione di oggi è nata dopo la loro vittoria alle elezioni del 2006. Netanyahu è incurante delle proteste che, a rischio della vita, i gazawi hanno portato avanti in questi mesi, e di quelle degli attivisti israeliani di Breaking the Silence e B’Tselem che parlano apertamente di apartheid e genocidio. Messo alla sbarra da accuse di corruzione e per le falle nella security del 7 ottobre 2023, ha orecchie solo per l’estrema destra fondamentalista religiosa che sostiene i coloni armati e che con l’appoggio militare hanno intensificato gli attacchi in Cisgiordania, come racconta nel reportage per Left, Cosimo Pederzoli. Interi villaggi palestinesi sono stati svuotati, agricoltori palestinesi uccisi, perché giudicati un intralcio alla «giudeizzazione completa» dei Territori, in linea con la ebraizzazione dello Stato di Israele avvenuta nel 2018 quando in Costituzione è stato definito «Stato esclusivamente ebraico». Netanyahu si sente forte, specie dopo il ritorno di Trump alla guida degli Usa. Si sente le spalle protette dai suoi aiuti militari e dai suoi annunci di voler prendere possesso di Gaza per farne un resort di lusso, deportando la popolazione palestinese in Libia. Tanto lì, basta pagare per trattenere profughi e migranti in campi lager. Lo sa bene l’Europa, e l’Italia in particolare, che ha stretto accordi con la sedicente guardia costiera libica (fin dai tempi del governo Gentiloni).
Per questo la Ue resta immobile? Da europeisti ci appare inaccettabile. Cosa fa Bruxelles? Si nasconde dietro formule diplomatiche vuote, non censura con forza le violazioni dei diritti umani, i crimini di guerra e le azioni genocidarie dell’esercito israeliano. Non intraprende azioni concrete per fare pressione sul governo israeliano. Che potrebbe fare? Tanto per cominciare potrebbe imporre un embargo militare, interrompere gli accordi commerciali (specie quelli sulle armi), imporre sanzioni, potrebbe sostenere attivamente le indagini delle Corti internazionali sui crimini commessi, potrebbe organizzare una missione internazionale indipendente per garantire accesso agli aiuti umanitari e una conferenza internazionale di pace modello Helsinki. Potrebbe riconoscere lo Stato di Palestina. Più rapidamente potrebbe farsi promotrice del cessate il fuoco e di una conferenza internazionale sulla fine dell’occupazione. Potrebbe proteggere e finanziare gli operatori umanitari sul campo. Anche in risposta alle tante manifestazioni di piazza pro Palestina che in tanti Paesi europei e adiacenti (penso alla Gran Bretagna) in questi lunghi dolorosi mesi hanno visto migliaia e migliaia di persone in piazza; una lunga serie a cui si è aggiunta finalmente quella dell’opposizione italiana indetta per il 7 giugno a Roma. Ed era l’ora, perché peggio della Commissione Ue di Von der Leyen fa il governo di Giorgia Meloni che non ha mai pronunciato parole di condanna dello sterminio e ha stipulato con Israele un accordo per la cooperazione militare mentre a Gaza si scavano fosse comuni. E se i media mainstream si sono allineati facendole da scorta mediatica, per dirla con le parole di Raffaele Oriani, noi no. Continuiamo a fare controinformazione con tutto il fiato che abbiamo. Il genocidio di Gaza non è solo l’annientamento fisico di una popolazione, ma la annullamento della sua esistenza.
Fermare questa strage è possibile. Bisogna farlo. Ora.
Foto di Emergency