Celle vuote e rifugiati che non si sa dove mettere. E così, il carcere di De Koepel ad Haarlem, in Olanda, è diventato un centro di prima accoglienza per rifugiati e immigrati. Male o bene? Le foto qui sotto non rivelano una situazione brutta: i 400 ospiti possono entrare e uscire a loro piacimento, passare la notte fuori e ricevono corsi di lingua e altro. Tutto sommato non male.
Yassir Hajji, 24, yazida di Sinjar, Iraq, sistema le ciglia della moglie Gerbia (AP Photo/Muhammed Muheisen)
(AP Photo/Muhammed Muheisen)
Un giovane immigrato omosessuale marocchino preferisce non essere fotografato a viso scoperto (AP Photo/Muhammed Muheisen)
L’afgano Siratullah Hayatullah, 23 anni, beve un té (AP Photo/Muhammed Muheisen)
La lavanderia (AP Photo/Muhammed Muheisen)
Gli afgani Hamed Karmi, 27, e Farishta Morahami, 25, suonano e cantano nella loro cella/stanza (AP Photo/Muhammed Muheisen)
Il siriano Fadi Tahhan, 23 anni, suona l’Oud. Sullo sfondo lo spazio fumatori (AP Photo/Muhammed Muheisen)
L’afgana Shazia Lutfi, 19 anni (AP Photo/Muhammed Muheisen)
Ijaawa Mohamed, 41 anni, somala (AP Photo/Muhammed Muheisen)
Partita di calcio (AP Photo/Muhammed Muheisen)
Una volontaria insegna ad andare in bicicletta a una donna afgana (AP Photo/Muhammed Muheisen)
L’iraniano Reda Ehsan, 25 anni (AP Photo/Muhammed Muheisen)
#PresaPolitica #DibujantesxMilagro. Con questi hastag un video impazza nella Rete da poche ore, per chiedere la liberazione di Milagro Sala. Sono in 19 gli illustratori che hanno creato un’opera per «esigere» la liberazione di Milagro: Alcobre, Mora, Pintius, Langer, Scafati, Jorh, Viso e altri ancora. Ecco il video:
Banksy per la prima volta a Roma. Il più famoso e misterioso street artist è raccontato dal 24 maggio al 4 settembre nella mostraWar, Capitalism & Liberty che presenta la multiforme opera dell’artista britannico. Una antologica, organizzata da 999Contemporary e dalla Fondazione Terzo Pilastro Italia e Mediterraneo, che promette di far conoscere opere meno note di Banksy perché fanno parte di collezioni private.
Si tratta di ben 150 opere, fra queste anche dipinti, disegni, bozzetti, in cui dipana la sua poetica incisiva e graffiante su temi cardine come la guerra, i nessi che ha con sistema capitalistico e le esigenze insopprimibili di libertà dei cittadini che non si adeguano a questo oridine mondiale. In Occidente come in altri parti del mondo. A Banksy, infatti, si devono immagini entrate nell’immaginario collettivo come la bambina che si alza in volo attaccata a un palloncino scavalcando così il muro che divide Gerusalemme. Ma anche icone che mandano a gambe all’aria le ideologie che temono il disordine e sociale e le proteste, basta pensare all’immagine del poliziotto perquisito da una tenerissima bambina.
Banksy, Think tank
In Palazzo Cipolla, negli spazi espositivi della FondazioneRoma, in via Marco Minghetti 17, non ci saranno opere di Banksy decontestualizzate o staccate dai muri assicura il presidente della Fondazione Emanuele Emanuele. Ci saranno invece opere acquistate da privati attraverso gallerie o scrivendo direttamente alla mail dell’artista, un indirizzo di posta che gli permette di mantenere la scelta di anonimato che connota il suo lavoro fin dagli inizi nei primi anni Novanta. Si dice che Banksy possa essere un inglese di Bristol, sulla quarantina, ma le voci che si sono inseguite in tutti questi anni non hanno trovato mai conferma. E poco importa conoscere la sua identità in fondo. A parlarci sono le sue immagini forti di messaggi politici e sociali, con una strizzatina d’occhio al glamour, come quando Banksy ritrae la modella Kate Moss in chiave pop come la Marilyn di Wahrol. Sarà questo uno dei pezzi forti dell’esposizione romana, insieme alla celebre scimmia in bianco e nero che esclama “Laugh now but one day we’ll be in charge”.
Il gallerista inglese Acoris Andipa, che ha curato la mostra insieme a Stefano Antonelli assicura che questa è la più grande mostra mai realizzata con le opere di Banksy includendo non solo opere grafiche e dipinte ma anche “sculture, stencil e opere realizzate mescolando linguaggi differenti“. Non mancheremo di verificare.
Un murales dello street artist britannico
Da leggere Banksy il terrorista dell’arte di Sabina De Gregori
e Non passa inosservata l’opera di guerrilla urbana che Banksy porta avanti, con una sua coerenza, da una ventina d’anni, difendendo strenuamente la propria libertà di azione e, perciò, anche il proprio anonimato.
Negli anni Novanta a Bristol (la sua città natale), dal 2000 a Londra e poi a Gerusalemme contro il muro che ingabbia i palestinesi e in molte altre aree di tensione. Con la velocità che gli consente la tecnica antichissima dello stencil, Banksy ha disseminato immagini ironiche, sferzanti, antiautoritarie negli angoli più inaspettati del mondo. Pitture e disegni di strada ma anche sculture che, come ricostruisce Sabina de Gregori in un bel libro fotografico Banksy il terrorista dell’arte (Castelvecchi) rivelano un preciso messaggio politico. Fin dagli esordi quando, ispirandosi ai graffiti parigini di Blek le Rat, Banksy riempì Londra di fumettistici ratti di protesta, simbolo di diseredati che, a frotte, uscivano dall’ombra per dire la propria scritta a grandi lettere su bianchi cartelli.
Per arrivare poi a realizzare, con incursioni notturne, graffiti più elaborati per denunciare violenze militari e di regime ma anche religiose. Indimenticabili in questo senso la sagoma di un militare, faccia al muro, perquisito da una bambina oppure una celebre Madonna che “amorevolmente” allatta il bambino con il veleno.
Icone che parlano chiaro. Così come certi interventi di Banksy dentro grandi musei: quando lascia un carrello da supermarket a naufragare in un lago di ninfee alla Monet o furtivamente traccia un topo con il cartello “Tu menti” nel bel mezzo di una mostra di Damien Hirst. Come un Arsenio Lupin al contrario, nota De Gregori, «invece di sottrarre qualcosa, Banksy aggiunge alle opere degli altri nuovi significati». Non lavora per sottrazione e cancellazione ( nonostante le sue opere a Londra siano state spesso coperte da writers rivali), perciò con la giovane critica d’arte autrice di questa appassionate monografia non possiamo non convenire sul fatto che Banksy è un terrorista dell’arte assai anomalo e originale.
Pier Carlo Padoan ostenta ottimismo e nella missiva indirizzata ai commissari Ue Dombrovskis e Moscovici scrive: «Sono fiducioso che una deviazione significativa sarà evitata». Tradotto: grazie per la flessibilità concessa con l’ok alla legge di Stabilità 2016, in cambio già il prossimo anno promettiamo di trovare 3 miliardi in più, facendo tagli, aumentando le tasse o contando sul sostegno della flebile ripresa in corso (l’Istat conferma che per il 2016 è prevista una crescita dell’1,1% e il tasso di disoccupazione scenderà quest’anno all’11,3% dall’11,9% del 2015).
Ora che la Commissione Ue ha ceduto almeno in parte alla proposta italiana, tocca dimostrare che si sta lavorando alacremente per raggiungere il pareggio strutturale di bilancio e nel 2017 l’Italia sarà sorvegliata speciale, dovendo colmare un gap nello sforzo previsto nel Def che vale, appunto, circa tre miliardi. Tanto più che incombono le clausole di salvaguardia, vale a dire un aumento dell’Iva che produrrebbe oltre 15 miliardi di entrate ma che Renzi vuole scongiurare.
Ad ogni modo l’accordo è concluso: all’Italia si riconosce l’impegno a raggiungere un rapporto deficit/Pil dell’1,8% contro il 2,3 che il governo aveva previsto per quest’anno e su riforme strutturali e investimenti 2016 c’è l’ok alle clausole di flessibilità, con un margine fiscale dello 0,1% per sostenere le spese legate all’accoglienza dei migranti. La Commissione ha concesso all’Italia «tutto lo 0,5% disponibile per le riforme, lo 0,25% per gli investimenti, lo 0,04% per l’aumento dei costi legati al flusso di migranti e lo 0,06% per le spese eccezionali legate alla sicurezza», recita la lettera dei commissari.
In totale, uno 0,85% di flessibilità che vale circa 13,5 miliardi di euro e che fa gridare al successo il premier Renzi: «Dire che la flessibilità non è ancora abbastanza è tecnicamente vero, ma è contemporaneamente un’incredibile sottovalutazione del punto di partenza: non volevano che citassimo la parola flessibilità».
Per le opposizioni di tratta di poco più di «un piatto di lenticchie» (Brunetta) che pagheremo a caro prezzo nei prossimi anni con manovre lacrime e sangue. Una cosa è certa: la coperta è ancora corta e l’Europa non consente altri sforamenti del deficit. Se l’aumento Iva si potrà eventualmente evitare con la spending review e la rivisitazione delle agevolazioni fiscali – che dovrebbe produrre entrate per almeno 9 miliardi – resta da capire con quali soldi si finanzia la crescita.
Mentre i risultati del Kentucky e dell’Oregon dicono che la corsa di Bernie Sanders non è affatto arrivata al capolinea, mostrando anche che la Clinton in Kentucky ce l’ha fatta di un soffio, diventa virale il video in cuisono state montate in fila tutte le dichiarazioni contraddittorie di Hillary Clinton. Colpisce l’incalzante sequenza in cui con disinvoltura la candidata alle presidenziali americane passa dal sostenere e poi negare il matrimonio egualitario per coppie omosessuali, ma anche la sequenza di capriole sulle email coperte da segreto e finite sul suo server privato quando era capo della diplomazia americana. Ne scrive il Washington Post in unarticolo di Kathleen Parker, dall’attacco fulminante: “Potreste dire che tutto dipende da cosa si intenda per bugia o che le registrazioni video sono una maledizione, ma questo resumé di esternazioni pubbliche e di incongruenze di Hillary Clinton è tale da rincuorare i repubblicani e non solo….”
Il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin in una foto di archivio .Il ministro Lorenzin dovrebbe essere confermata alla Sanià.ANSA/CLAUDIO PERI
Un complotto dell’Isis. Il ginecologo Severino Antinori si lancia in un’autodifesa delirante, mentre si affida alla difesa dell’avvocato Taormina. E’ accusato di aver prelevato con l’inganno ad una ventenne alcuni ovociti per la fecondazione assistita. A denunciarlo è stata una infermiera professionista di origine marocchina. Una denuncia che ha strappato il velo sul commercio di gameti, che è illegale in Italia. E su un panorama di cinici mercanti di speranze, che speculano sulla speranza dei malati.
Uno scenario aperto in Italia dall’entrata in vigore della Legge 40/2004,una norma zeppa di anti scientifici divieti che – come è ben noto – ha costretto migliaia di coppie italiane a recarsi all’estero per sottoporsi a trattamenti medici che prima di quel fatidico 2004 si potevano fare negli ospedali italiani. Il divieto di eterologa, era uno dei punti qualificanti (in senso negativo) della legge italiana sulla fecondazione assistita. Un divieto che nel 2014 è stato giudicato incostituzionale dalla Consulta. Ma – ecco il nocciolo del problema- quella sentenza resta ancora oggi largamente disapplicata a causa della politica.
Solo tre Regioni infatti offrono la possibilità di accesso a tecniche di fecondazione eterologa in centri pubblici. Sono la Toscana, l’Emilia Romagna e il Friuli Venezia Giulia. Mentre tutte le altre Regioni italiane aspettano ancora il varo dei nuovi Lea ( livelli essenziali di assistenza) che il ministro della Salute Beatrice Lorenzin non ha ancora varato e che garantirebbero alle Regioni la possiblità di accogliere le richieste di fecondazione eterologa in centri pubblici. Il ritardo del Ministero determina per conseguenza quello della conferenza Stato Regioni. E il risultato è che, nonostante quella importante, storica, sentenza della Consulta che riconosceva il diritto delle coppie di accesso alle terapie, dall’aprile 2014 a oggi in Italia sono stati fatti solo circa quattrocento trattamenti.
E questo perché, come accennavamo, in tutta la penisola solo tre Regioni hanno le condizioni perché l’eterologa sia offerta dalla sanità pubblica, pagando, in media, circa 500 euro. Un fatto che mette in chiaro l‘attendismo irresponsabile della politica che in due anni non ha adempiuto alla piena applicazione della sentenza della Consulta. Aprendo così lo spazio alla speculazione privata.Mentre tante coppie continuano ad essere obbligate ad andare all’estero. Anche perché nei pochi centri pubblici funzionanti per l’eterologa in Italia le liste di attesa sono di oltre un anno. Quando in casi come questi la tempestività di intervento è un fattore importante nella riuscita della terapia, specie se la donna chevi si sottopone non è più giovanissima.
Se poi si va vedere che cosa ha fatto per esempio la Regione Emilia Romagna per rendere esigibile immediatamente il diritto delle coppie riconosciuto dalla Consulta si scopre che il procedimento è stato semplicissimo. Dopo la sentenza della Corte costituzione la giunta ha fatto una semplice delibera in cui si rendeva accessibile l’eterologa per analogia con quanto già accadeva per la fecondazione omologa. In altri termini è stata normata l’eterologa equiparandola all’omologa, rendendola altrettanto gratuita, fatti salvi i normali esami di controllo come l’ecografia ecc. Ma poi si scopre che anche in questa Regione – e non per cattiva volontà della politica – l’accesso alle tecniche di fecondazione in vitro per l’eterologa resta un diritto difficile da esigere, dal momento che due soli centri pubblici sono attivi in tutta la regione. Gli altri quattro restano fermi perché mancano donatori di gameti. Per ora i due centri pubblici attivi usano, con il consenso dei donatori, i gameti crioconservati. A questo limite si aggiunge anche quello della possibilità di accesso alle tecniche fino a 43 anni perché poi le possibilità di rimanere incinta scemano moltissimo. Ma anche su questo si potrebbe discutere dal momento che la stessa Legge 40 non fissa un limite temporale ben preciso. Perché spetta al medico decidere trattandosi di una vera e propria terapia.
Di fronte all’inerzia del Ministero nell’aggiornamento dei livelli di assistenza ( inspiegabilmente dal momento che una sentenza della Consulta non può non essere recepita e non c’è alcun vuoto normativo) per cercare di risolvere la questione della mancanza di gameti in Toscana ed in Friuli Venezia Giulia sono stati fatti bandi per gameti che arrivano dell’estero. Le donatrici sono pagate in molti altri Paesi. In Italia invece la donazione di gameti è parificata a quella dei donatori di sangue, anche se la donatrice di ovuli deve sottoporsi a trattamenti più invasivi. Su tutti i gameti i centri sono obbligati a fare controlli e deve essere resa possibile la tracciabilità dei gameti, pur nel rispetto dell’anonimato dei donatori. In Emilia Romagna, per esempio, la Regione svolge un lavoro di certificazione e di controllo dei centri privati (in Italia ce ne sono circa 80 e si paga dai tremila euro in su) per verificare che abbiano i requisiti. L’esempio dell’Emilia Romagna, della Toscana e del Friuli dimostra che se c’è la volontà politica è possibile sul piano pratico garantire un equo accesso alle cure come ha stabilito la Consulta. Che cosa aspetta ancora il governo Renzi? Intanto i centri stranieri si attrezzano per aprire succursali in Italia.
In Kentucky e Oregon è finita uno a uno, Hillary Clinton avanti di una manciata di voti nel primo Stato e Bernie Sanders meglio (54% a 46%) nel secondo, tendenzialmente più di sinistra. Ma siccome i delegati si distribuiscono in maniera proporzionale, il risultato non cambia la dinamica della corsa: i due candidati alla nomination democratica guadagnano un numero simile di voti alla convention e la distanza tra loro rimane inalterata. Contando i superdelegati, ovvero gli eletti, in gran maggioranza con lei, a Hillary ne mancano meno di cento per ottenere la nomination. Non contando quelli, l’ex first lady è comunque avanti di circa 300.
I veri problemi per lei e per Sanders non arrivano dagli Stati dove si è votato ma dal Nevada, dove lo scorso weekend si teneva la convention statale dei democratici. Bene, qui alcuni delegati di Bernie Sanders sono stati respinti perché non registrati come elettori del partito. Ogni Stato ha un suo processo di invio dei delegati alla convention nazionale, in alcuni casi si può non essere registrati, in altri invece è obligatorio. In Nevada è obbligatorio. La campagna Sanders ha cercato di far cambiare le regole con un voto. E ha perso, pur contestandone il risultato. L’effetto è stato il caos in sala, urla, proteste, litigi.
La verità è che dal punto di vista formale hanno ragione quelli del partito: le regole non si cambiano in corsa. L’altra verità è che in Nevada molti che hanno votato per Bernie non saranno rappresentati alla convention a causa delle regole. Un classico della vita di partito contemporanea: un candidato nuovo e diverso raccoglie consensi oltre i confini degli iscritti – in Usa essere registrati non è la stessa cosa, è di meno, ma ci siamo capiti – me le regole statutarie lo danneggiano. E la sua base non capisce e si infuria. La base di Bernie, poi, è giovane e radicale, più pronta alla protesta e a dare giudizi definitivi sulla vita di partito. Qualcuno anche qualcosa in più: i supporters di Bernie hanno diffuso alcuni numeri di telefono delle persone che presiedevano la convention del Nevada, che hanno ricevuto centinaia di sms e messaggi vocali di insulti e minacce. È un tema grosso e delicato.
Il problema per i democratici è che se una cosa così succedesse alla convention, il partito che è in netto vantaggio – si trova come avversari dei repubblicani che voteranno un candidato che non è dei loro come Trump – rischia di finire diviso come il Grand Old Party. E qui entrano in gioco proprio Bernie Sanders, Hillary Clinton e le figure importanti del partito. Specie quelle di sinistra.
Sanders e Clinton dovrebbero avere la capacità di parlarsi e trovare una via di uscita: il primo dovrebbe ammettere la sconfitta e la seconda promettere alcune cose e fare in modo che la convention sia anche una celebrazione di Bernie, della sua campagna e delle idee che porta avanti. Per adesso non va così: il comunicato di Sanders suona un po’ come una minaccia. «Il partito ha davanti una scelta: aprire le sue porte a chi vuole il cambiamento economico e sociale per davvero, gente che vuole colpire Wall Street e l’industria degli idrocarburi che sta distruggendo il pianeta oppure può scegliere lo status quo, facendo conto sui grandi donatori ed essere il partito della scarsa partecipazione e privo di energia».
«Il partito ha una scelta» suona male: anche se Sanders tocca un punto cruciale – energia, partecipazione, rottura con i poteri forti – non può decidere a tre quarti della gara che il processo delle primarie è sbagliato, suona un po’ “se perdo buco il pallone”. Al contempo i suoi elettori la pensano in larga parte come lui e questa frattura, se non sanata con intelligenza e a metà strada tra le due campagne, rischia di danneggiare i democratici a novembre. Dana Milibank, columnist del Washington Post titola la sua rubrica: Sanders vuole essere il nuovo Nader? (il candidato che nel 2000 prese il 4% dei voti e assieme alla corte della Florida, privò Al Gore della presidenza).
La verità è che i temi di Sanders hanno influenzato e influenzano la campagna Clinton e molto si potrebbe ancora fare. Specie per costringere Hillary a prendere alcune posizioni nette sulle regole da metetre alla finanza. Su questo Bernie avrebbe anche alleati potenti nel partito come Elizabeth Warren. Ma adottare un linguaggio e una modalità come quella di questi giorni rischia di fare male a Clinton, al partito democratico e anche a Sanders e ai temi che gli sono cari. A meno di non pensarla come Susan Sarandon, che ha dichiarato che Trump alla Casa Bianca sarebbe un bene perché provocherebbe la rivoluzione. Meglio non fare la prova.
A proposito di paninari al governo: a Lodi dopo l’arresto del sindaco PD Simone Uggetti per turbativa d’asta è stato convocato per domani, giovedì’ 19 maggio, il primo consiglio comunale dopo la vicenda che ha inevitabilmente scosso la città. Fin qui nulla di strano. Ma seguitemi: sarà probabile che le opposizioni chiedano che il sindaco (al momento agli arresti domiciliari) abbia il buon cuore di dimettersi. Tutto normale, direte voi. E cosa fa la segreteria lodigiana del Partito Democratico? Invia una mail, questa:
In pratica, dice il PD, siccome quegli altri verranno presumibilmente a chiedere le dimissioni cerchiamo di radunarci anche noi. Una guerra tra bande, insomma. Nessun cenno alla politica, non sia mai, e nemmeno un rigo per “entrare nel merito”, come dice il grande capo Matteo.
C’è da capire chi porterà i fischietti, le trombette a forma di lingua, le bibite, i bicchieri di plastica e la carbonella per cucinare qualcosa durante l’attesa: i tifosi di supporto probabilmente saranno numerati, da una parte i democratici e dall’altra la squadra dei gufi. Una cosa del genere. Oppure una partita nella meravigliosa piazza della città a palla avvelenata. E chi perde si dimette. Oppure, perché no, il consiglio comunale si aprirà con una gara di rutti. Una cosa così.
Però sono due le cose che colpiscono su tutte: la prima è che questi sono gli stessi che accusano di “populismo” tutti gli altri (e intanto sono un partito da adunate serali) e la seconda è che ancora insistono nell’invitare “anche amici e simpatizzanti del centro-sinistra”. Hanno scritto proprio così. Chissà come ci rimane male Verdini.
A proposito: ma quale sarà lo slogan dei piddini? Ciaone?
«Quando sono partita per la Siria avevo appena finito la prima liceo turistico aziendale. Lavoravo in una cartolibreria per l’estate, ma quando andai a firmare il contrattino, dopo il periodo di prova, mi accorsi che non potevo farlo perché c’era una lettera sbagliata sul mio mio passaporto. Mia madre allora colse l’occasione di propormi una viaggio di qualche giorno in Siria, per conoscere il Paese dove sono nata ma ache conoscevo pochissimo». Partita il 24 agosto 2006 Amani El Nasif è riuscita a rientrare in Italia solo nell’ottobre 2007. «Avevo sempre vissuto in Italia, non sapevo nulla della situazione siriana. I miei genitori amavano il loro Paese. Che all’epoca era governato da Hafez Al Assad, padre dell’attuale presidente siriano. Mancando da molti anni, penso non immaginassero nemmeno loro di trovare là una vera dittatura».
Non ci fu nemmeno il tempo di preoccuparsi di questo prima di partire. «Saremmo dovute restare là solo pochi giorni, giusto il tempo di mettere a posto i documenti e salutare i parenti». Ma le cose non andarono così. Quei cinque giorni diventarono 399. La sedicenne Amani si trovò in una trappola. A sua insaputa i suoi genitori le avevano combinato un matrimonio con un cugino più grande di dieci anni. Che prese a umiliarla e a picchiarla perché non voleva portare il velo e soprattutto non voleva sposarsi con un uomo che non amava.
In Italia, a Bassano del Grappa, aveva lasciato Andrea di due anni più grande con il quale aveva una storia. Attaccandosi al cellulare italiano aveva cercato di contattarlo e di comunicare con le amiche. Non appena il ragazzo capì la situazione andò chiedere aiuto ai cervizi sociali. Ma non pottetero fare nulla perché Amani non aveva la cittadinanza italiananonostante frequentasse ancora le scuole italiane e abitasse in Italia ormai da molti anni. «Quello che avevo vissuto in Siria, e che Andrea aveva subito indirettamente, trasformò inevitabilmente il nostro rapporto. Il giorno del mio compleanno il 20 Gennaio 2008, quando diventai maggiorenne, scappai di casa per andare a vivere con Andrea. Ma lui era terrorizzato, temeva che qualcuno della mia famiglia mi portasse via a forza e non mi faceva più uscire di casa da sola. Per me era un dramma. Non mi potevo permettere di perdere la libertà per la quale avevo tanto lottato. Anche se amavo quel ragazzo. Purtroppo quella era diventata una storia malata, una di quelle storie che ti fanno soffrire, che ti succhiano la vita e ti impediscono di viverla. Due anni dopo il mio ritorno in Italia, la storia con Andrea finì. Trovai un lavoro in un bar, il primo che mi era capitato dopo quella rottura dolorosa. Nel frattempo avevo rivisto mia madre, per risolvere un problema con le buste paga, su consiglio dei vicini, mi indirizzò allo studio di Massimo, che era un bravo commercialista. Da lì è cominciata un’altra storia».
Amani oggi ha 26 anni lavora come coordinator marketing per una holding italiana e ha una figlia. La sua storia è diventata un libro Siria mon amour (Piemme) e lo presenta in giro per l’Italia, soprattutto nelle scuole, per parlare con ragazze che potrebbero venirsi a trovare in situazioni come la sua.
«Quello che mi sento di dire a tutte le giovani è di parlarne, superando la paura. Solo così si può mettere in moto il cambiamento. Certo i problemi burocratici da affronatre sono tanti. Per colpa di mio padre che non aveva richiesto la cittadinanza italiana per me e per i miei fratelli sono ancora in mezzo a un guado. Se fossi stata cittadina italiana, in Siria sarei potuta andare all’ambasciata italiana e certamente sarei riuscita a tornare molto prima. I requisiti per ottenere la cittadinanza andrebbero rivisti – sottolinea Amani -. Nel frattempo i miei fratelli sono riusciti ad ottenerla, io ancora no, nonostante sia madre di una bambina e lavori qui in Italia. Per lungo tempo in passato ho lavorato senza contratto che è un requisito indispensabile. “Se ti sposi ottieni la cittadinanza facilmente”, mi sento ripetere spesso, ma io non voglio farlo per risolvere questo problema. Mi sento italiana al cento per cento. Vivo e lavoro in Italia, qui è nata mia figlia, credo di averne tutto il diritto».
Dopo questa dura esperienza legata a tradizioni religiose e oppressive Amani El Nasif come legge il fenomeno delle donne europee che vanno a vivere in Siria al fianco dei foreign fighters?
«Credo che una persona disposta a lasciare tutto quello che ha, compresa la famiglia e gli amici e il lavoro, per andare a combattere con loro, sia una persona folle. La cosa mi addolora di più è che queste giovani donne accettino di diventare un oggetto in tutti i sensi, non solo sessuale, come moglie dovranno eseguire gli ordini, ubbidire, stare in silenzio, accettare qualunque cosa senza mai ribellarsi. Con tutto quello che vediamo, mi indigno anche perché tutti dovremmo essere i prima fila per cercare di interrompere questa spirale di morte e distruzone, tutti dovremmo cercare di cambiare la drammatica situazione Siriana che purtroppo ha raggiunto un punto drammatico di abbandono e di indifferenza agli occhi del mondo intero».
Amani El Nasif sarà il 22 maggio a Gorizia, al Festival E’ storia, quest’anno dedicato alle nuove schivitù, n un incontro intitolato Sottomissione? La questione femminile e il Medio Oriente. A colloquio con la giovane scrittrice ci sarà Farian Sabahi.