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Così il governo Meloni dice sì al patto di stabilità e vara una manovra lacrime e sangue

Questo fine anno si chiude con il sì del governo Meloni al patto di stabilità. Dopo tante dichiarazioni muscolari, il governo si è piegato all’asse dei rigoristi e ha avallato un patto che nei fatti segna il ritorno alle regole di austerity che credevamo di esserci lasciati alle spalle; quelle regole che erano state finalmente sospese durante la pandemia, quando l’Europa aveva messo in campo politiche più solidali, che facevano sperare in un futuro diverso, in una Ue che non fosse solo un’unione di mercati.

Ora purtroppo si torna indietro. Certo, non d’un colpo solo, ma entro il 2027. Del resto nel 2027 scade il mandato di questo governo di destra e il messaggio è forte e chiaro: tiriamo a campare poi saranno problemi del governo che verrà dopo di noi e che, dopo questo patto, non potrà fare una manovra in deficit come quella passata il 29 dicembre.

Per cercare di coprire la magagna dell’avallo al nuovo patto di stabilità che obbliga a ridurre un punto di debito ogni anno (ma incoraggia investimenti sulle spese militari !) Fratelli d’Italia e Lega hanno guidato le truppe del no alla riforma del Mes, il meccanismo europeo di stabilità che il governo Berlusconi aveva avallato nel 2011, quando Giorgia Meloni era ministra. A favore della ratifica del Mes si è espressa Forza Italia. Comunque la si pensi sul Mes la spaccatura nel governo è palese. Ma l’opposizione non ne ha approfittato. Di più: il M5s ha votato con il governo, evitando che andasse sotto.

Il 29 dicembre ecco il varo della legge di Bilancio, una manovra blindata, con uno stillicidio di emendamenti bocciati. La maggioranza, a partire dal parere negativo del governo, ha respinto pressoché ogni emendamento dell’opposizione, anche quando erano volti a richiamare il governo alle sue stesse premesse elettorali riguardo all’abolizione della Riforma Fornero (addirittura peggiorata con quota 103 e con le limitazioni ad Opzione Donna e Ape sociale), riguardo al sostegno delle fasce sociali più fragili (su cui pesa la cancellazione del reddito di cittadinanza e il no del governo al salario minimo), perfino riguardo agli aiuti alle donne che decidano di avere figli.

Così, mentre la senatrice Mennuni di Fratelli d’Italia, riportandoci al ventennio, sostiene impunemente in tv che “servono uteri per fare nuovi italiani”, durante la discussione in Aula la maggioranza boccia perfino l’emendamento Pd per estendere il congedo parentale ai padri su modello spagnolo.

E intanto il governo taglia i progetti del Pnrr per rafforzare la rete degli asili pubblici e aumenta le tasse sui beni di prima necessità per l’igiene e l’alimentazione della prima infanzia. E premia con decontribuzioni sul lavoro le donne ma solo se hanno due figli. I diritti delle donne in quanto donne non esistono per il governo Meloni.

Ma veniamo al cuore della legge di Bilancio, in estrema sintesi: La manovra prevede drastici tagli alla spesa pubblica, alla sanità (in manovra sono previsti solo 3 miliardi di cui una parte destinati alla sanità privata per abbattere le liste di attesa), alla scuola, al welfare, alle pensioni.

Intanto il governo Meloni trova (anche a spese della Regione Sicilia e della Regione Calabria di centrodestra) 12 miliardi per finanziare il ponte sullo stretto, nonostante sia un progetto già vetusto e che, bene che vada, permetterebbe ai viaggiatori di approdare nell’isola dove non c’è alta velocità, dove le ferrovie sono a binario unico e da innumerevoli anni si attende la costruzione di strade come la Siracusa Gela.

I soldi ci sono per opere faraoniche e inutili come il ponte di Messina, ma non ci sono per politiche sociali. La manovra non prevede niente neanche rispetto alla transizione ecologica né rispetto alla lotta al consumo di suolo e alla messa in sicurezza del territorio, benché anche l’ultimo rapporto Ispra ci ricordi che più del 15 per cento della popolazione italiana vive in territori ad altissimo rischio alluvioni.

Esponenti del centrodestra, con retorica vittimistica, giustificano questa manovra “lacrime e sangue” lamentando la difficile congiuntura internazionale, il rialzo dei tassi della Bce, due guerre…

Che la coperta fosse corta fra deficit e debito si sapeva, ma perché il governo Meloni che rivendicava una propria tradizione di destra sociale e di attenzione ai ceti più fragili non è passato all”incasso degli extra profitti delle banche e difende gli extra profitti delle grandi imprese energetiche? Perché non ha agito contro l’evasione fiscale (che ammonta  a circa 100 miliardi) preferendo la strada di innumerevoli condoni?

Anche a questo proposito il dibattito in Aula è stato serrato. Chi vuole, lo può riascoltare anche su Radio Radicale. Le forze di opposizione hanno parlato di una manovra senza visione del futuro, senza politica industriale, che non investe un euro per il diritto allo studio e all’alloggio dei giovani e per creare posti di lavoro, che non fa nulla per l’occupazione delle donne (L’Italia è il fanalino di coda fra i Paesi avanzati dell’Europa riguardo al lavoro delle donne). C’è solo il taglio del cuneo fiscale, ma solo per un anno.

Il centrodestra, con Borghi e altri hanno infierito sul centrosinistra ricordando provvedimenti come il Jobs act, la cancellazione dell’articolo 18. Questo centrodestra, che finge di stare dalla parte dei lavoratori senza rappresentanza (partite Iva, autonomi, ecc.) ha comunque  buon gioco passando come il coltello nel burro nelle contraddizioni del centrosinistra, che nonostante l’impegno della segretaria Pd Elly Schlein, sconta ancora gli enormi danni dell’era Renzi, che ha svuotato la sinistra dei suoi valori e contenuti. Il lavoro da fare per ricostruire la sinistra è tanto, sia sul piano dei diritti sociali che civili, ma per fare un salto di qualità serve una cultura nuova e molta determinazione.

Una piccolissima nota positiva in chiusura: Fa onore alle opposizioni aver deciso di destinare alla lotta alla violenza contro le donne i 40 milioni di tesoretto a loro assegnato dal Parlamento. Invitato a fare altrettanto destinando i propri 60 milioni di tesoretto al medesimo scopo il centrodestra ha preferito suddividerlo fra mance e mancette, destinandolo a golf club, circoli sportivi e iniziative di amici degli amici.

 

C’è un giudice a Firenze: annullati i licenziamenti dei lavoratori ex Gkn. Ora la politica batta un colpo

La sentenza emessa dal Tribunale del lavoro di Firenze contro QF (ex Gkn) che annulla di fatto i licenziamenti di 185 lavoratori non è solo una vittoria della Fiom/Cgil, dei lavoratori e della comunità fiorentina, è anche una vittoria della democrazia e della Costituzione.
Ai sensi della legge 234/2021 si impone all’azienda di informare le parti sociali in caso di chiusura o licenziamenti e di passare da una discussione con i sindacati, da ammortizzatori e dall’elaborazione di un piano alternativo.

Questa decisione della giudice Anita Maria Brigida Davia ci ricorda i fondamentali della nostra Costituzione, la sua sentenza infatti attraversa per intero l’articolo 3: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Per ben due volte, nel settembre 2021 contro la multinazionale inglese Gkn e oggi contro QF SpA in liquidazione, di proprietà di Francesco Borgomeo, il ricorso presentato dalla Fiom/Cgil per condotta antisindacale, previsto dall’ex art.28 dello Statuto dei lavoratori, conferma che tutti i cittadini davanti alla legge hanno pari dignità sociale e che il più debole non sempre soccombe al più forte.
L’annullamento dei licenziamenti, inoltre, rimuove gli ostacoli di ordine economico e sociale che pendevano sul futuro di 185 famiglie: un atto importante che rientra tra le facoltà di un Tribunale della Repubblica in uno Stato democratico.

Purtroppo negli ultimi anni tutti i governi che si sono succeduti hanno indebolito le difese immunitarie contro le ingiustizie sociali che colpiscono coloro che per vivere devono lavorare. E indebolire le tutele sul lavoro significa indebolire la struttura democratica del nostro Paese.
I padri e le madri Costituenti non hanno scritto in Costituzione che il lavoro debba essere precario, sottopagato, insicuro ma anzi hanno voluto dargli un ruolo centrale, tanto che nella Carta la parola Lavoro è richiamata molte volte in più articoli.

Naturalmente la sentenza ci consegna adesso una responsabilità non banale: tentare il rilancio industriale del sito produttivo ex Gkn, ricostituendo 422 posti di lavoro, pari a quelli di luglio 2021 quando il fondo Melrose, che controllava le quote della multinazionale dell’automotive, annunciò la chiusura dello stabilimento.
La cassa integrazione scade con la fine dell’anno e per questo la Fiom/Cgil chiede un tavolo urgente al ministero delle Imprese e del Made in Italy per trovare ammortizzatori sociali che coprano il reddito di questi lavoratori.

Le condizioni per poter ripartire segnando una controtendenza ci sono: l’azienda metta a disposizione lo stabilimento, il governo e le istituzioni territoriali sostengano con tutti gli strumenti a disposizione il progetto di cooperativa dal basso ideato dai lavoratori e a questo si accompagni la ricerca di altri soggetti industriali che potrebbero condividere nello stesso sito anche attività diverse in una sorta di condominio industriale.
Servono volontà e impegno. La politica adesso passi dalle parole (di solidarietà), ai fatti e ci aiuti a rendere possibile questo progetto perché finora i lavoratori Gkn hanno avuto al loro fianco gli altri lavoratori fiorentini, gli studenti, il mondo della cultura e dell’associazionismo e la Fiom/Cgil ma la politica, quella con la P maiuscola, non l’hanno mai vista.

Daniele Calosi è segretario generale della Fiom Cgil di Firenze Prato e Pistoia

Nella foto: una manifestazione dei lavoratori ex Gkn a Firenze (da facebook Collettivo di fabbrica)

Il poco senso dell’attendibilità di Giorgia Meloni

Con la consueta e analitica pazienza nella redazione di Pagella Politica si sono messi a verificare la veridicità di un anno di dichiarazioni della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, in attesa della conferenza stampa di fine anno che si svolgerà all’inizio dell’anno nuovo per problemi di salute (il 4 gennaio ndr). 

Le 182 dichiarazioni analizzate da Pagella Politica permettono di cogliere una tendenza che a conti fatti non pare proprio volgere nel lato della verità. Complessivamente, le dichiarazioni «attendibili» sono state 59 (il 32,4 per cento sul totale), quelle “imprecise” 53 (29,1 per cento), mentre quelle «poco o per nulla attendibili» 70 (38,5 per cento). In altre parole, quasi il 70 per cento delle dichiarazioni di Meloni, tra quelle che abbiamo sottoposto al nostro fact-checking, è risultato impreciso o poco o per nulla attendibile.

Non è difficile immaginare che Meloni abbia commesso meno errori sul tema del lavoro, con circa il 54 per cento delle dichiarazioni verificate attendibili mentre si sia lasciata prendere dalla propaganda mendace quando ha parlato di immigrazione con oltre il 70 per cento di dichiarazioni verificate poco o per nulla attendibile. 

Come spiega Pagella Politica nel 2023 la presidente del Consiglio ha fatto dichiarazioni più attendibili nei discorsi ufficiali, come le comunicazioni in Parlamento in vista delle riunioni del Consiglio europeo, l’organo che raccoglie i capi di Stato e di governo dei 27 Paesi membri dell’Unione europea. Meloni è stata invece più imprecisa negli “Appunti di Giorgia”, la video rubrica sui social network in cui racconta le misure adottate dal suo governo. Perché sia allergica ai giornalisti è facile immaginarlo.

Buon venerdì. 

Fiumicino non è Dubai

grandi navi a Dubai

Altre grandi colate di cemento e inutile consumo di suolo sono in arrivo sulla costa laziale. A farne le spese è il litorale di Fiumicino, luogo ricco di testimonianze storico-artistiche e paesaggistiche. Un’area affascinante e incantevole che si snoda, oltre il ponte levatoio e lungo il mare, fino al vecchio faro militare dove si assisteva, fino a poco tempo, fa allo spettacolo delle bilance, palafitte costruite sugli scogli per la pesca occasionale. Lì il Tevere sfocia nel mare e poco oltre c’è l’idroscalo dove Pasolini ha trovato la morte. Un piccolo giardino con pietre a inciampo ricorda il poeta.

In questa area affascinate e selvaggia è previsto un progetto (inserito nelle opere del Giubileo) della Fiumicino waterfront srl, società in gran parte partecipata del gruppo Royal Caribbean per un costo complessivo di circa 440milioni di euro. Le criticità del progetto sono moltissime e già denunciate dalle oltre trenta associazioni di residenti che ne contestano la realizzazione. Prime tra tutte le infrastrutture inadeguate, i fondali bassi e limacciosi e il vicino aeroporto che non consente un traffico marino con altezze superiori ai 48 metri.

Tutto per accogliere le grandi navi da crociera, quegli orribili palazzi galleggianti e inquinanti che deturperebbero uno dei più bei spettacoli costieri ancora non contaminati. Un altro porto accanto sarebbe destinato a commercio. Il che comporterebbe un enorme dragaggio dell’area i cui fondali non superano i 5 metri, con rischio di insabbiamento nel tempo per gli apporti del Tevere la cui foce è proprio in quell’area.

È stato fatto un’appello al sindaco Roberto Gualtieri (sindaco anche della Città metropolitana, nonché commissario straordinario di governo per le opere del Giubileo del 2025) per il ritiro di questo progetto. Appello firmato da un centinaio di persone, intellettuali, insegnanti, registi, mondo dello spettacolo.

Per ribadire che Roma non ha bisogno di grandi eventi, quanto piuttosto di interventi nei settori dei trasporti pubblici, dello smaltimento dei rifiuti, dell’accoglienza, del fabbisogno di case per studenti e senza casa, dei servizi e della cura delle periferie e, soprattutto di idee all’altezza del suo ruolo capitale. E per dire che la cultura non può essere isolata; cultura e politica non sono cose separate come ci ha insegnato Gramsci e la politica non può essere espropriata dall’economia delle false illusioni di modelli fantasmagorici di città come nei Paesi Arabi o nel fallimentare “modello Milano”.

Firmatari dell’appello

E. Scandurra, P. Bevilacqua, R. Musacchio, V. De Lucia,T. Montanari, L. Ferrajoli, D. Maraini, L. Castellina, L. Marchetti, M. Acerbo, S. Brai, Vauro, A. M. Bianchi, Federico M. Butera, S. Zuppello, P. Berdini, P. Sentinelli, P. Cacciari, M. Fabbri, P. Favilli, P.Ippolito Armino, P. Spirito, G. Principe, R. Bertuzzi, R. Palmieri, G. Saponaro, I. Agostini, M. Bersani, A. Ziparo, G. Liquori, R. Pazzagli, B. Pizzo, F. Trane, S. Medici, E. Mazzoni, I. Masulli, S. Morelli, L. Decandia, L. Marchini, L. Speciale, C.M. Amici, V. Vita, F. Sebastiani, G. Gallozzi,  P. G. Arcangeli,  G. Pallottino, M. Dentici, F. Wetzl , M. Pellegrini, B. Buccellato, S. Maira, V. Agnoletto, C. Mineide, R. Budini Gattai, G. Greco, F.Lozzi, P. Modugno, G. Lucini, M. Asunis, C. Amoroso, P. Caprari,  N. Greco, R. Giannarelli, M. Mercatali, I. Benci, B. Gaudino, I. Sandri, M. Conforti, T. Perna, D. Rizzo, T. Passerelli, G. Aragno, D. Ruggiero, C. Lancia, R. Rifici, G. Panizzi, M.P. Rosati, G. Piccioni, D. Monterosso, T. Francescangeli, G. Reitano, S. Scoccia, M. Filippi, A. Cassaro, F. Messineo, ML Arena, L. Mozzati, M. G. Meriggi, A. Veneroso, G. Martini, M. Dapporto, U. Radicchi, L.L. Liso, R. Luise, F. Cioffi, F. Novelli, A. Zucaro, M. Russo. G. Emilio, M.G. Villani, C. Marotta, L. Pieralli, F. Alberti, R. Mordenti, P. Loche, F. Fornario

(per ulteriori firme adesioni a: [email protected])

 

foto: Dubai di Balou46, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=99818247

Sulla legge bavaglio a fare spavento è la mollezza che si respira intorno

Come ha fatto notare in un suo intervento sul quotidiano Domani il professore ordinario di Diritto processuale penale all’università La Sapienza di Roma Glauco Giostra l’emendamento bavaglio del deputato di Azione Enrico Costa è anche inutile. La norma votata di gran carriera dai partiti di destra e dai calendiani di Azione e dai renziani di Italia viva secondo Giostra “oltre che inutile” sarebbe anche “controproducente”: “Non si comprende per quale ragione, infatti, dovrebbe risultare meno pregiudizievole – scrive Giostra – per l’immagine dell’indagato una sintesi giornalistica dei motivi che ne hanno determinato la custodia cautelare rispetto alla motivazione del giudice. Tanto più che il provvedimento legislativo – prosegue il giurista – emanato in attuazione della stessa direttiva europea vieta all’autorità giudiziaria e non all’operatore dell’informazione «di indicare pubblicamente come colpevole» l’indagato «fino a quando la colpevolezza non sia stata accertata con sentenza irrevocabile»”. Per Giostra “infine, inquieta la tendenza a coprire con le paludate vesti del garantismo insistenti proposte di segreto; di quel segreto che per Beccaria è il più potente scudo della tirannia”. 

Oggi il sindacato dei giornalisti organizza una protesta simbolica che coinvolgerà i presidenti e i segretari delle Associazioni regionali, i cronisti e giornalisti tutti. A seguire, il 3 gennaio prossimo sarà convocata la Conferenza dei Comitati di redazione per stabilire la scansione temporale delle azioni che dovranno portare allo sciopero generale, “uno sciopero contro la censura di Stato e per rivendicare l’identità e la dignità della nostra professione”, scrive Fnsi. A fare spavento è la mollezza che si respira intorno. 

Buon giovedì. 

Nella foto: immagine dal sito dell’Ordine nazionale dei giornalisti

Adelmo Cervi al ministro Valditara: l’Anpi ha il dovere e il diritto di entrare nelle scuole

fratelli Cervi

Il 28 dicembre 1943, 80 anni fa, i sette fratelli Cervi, catturati dai repubblichini fascisti nella notte tra il 24 e 25 novembre e rinchiusi nel carcere politico dei Servi a Reggio Emilia, vennero tutti fucilati, in quanto antifascisti e partigiani, dai repubblichini presso il poligono di tiro di Reggio Emilia. Tutti e sette verranno decorati con la medaglia d’argento al valor militare. Anni dopo la guerra, presso la casa colonica dove la famiglia Cervi arrivò nel 1934, è sorto il Museo Cervi per ricordare la loro storia. Il padre dei sette fratelli, Alcide Cervi, scrisse il libro “I miei sette figli” che fece conoscere questa storia in tutto il mondo grazie alla traduzione in molte lingue. Per questo triste ma importante anniversario abbiamo inetrvistato Adelmo Cervi, figlio di Verina Castagnetti e Aldo Cervi terzogenito dei sette fratelli fucilati, molto attivo nel preservare la memoria storica della sua famiglia.
Adelmo Cervi, qual è stato il suo rapporto con suo nonno, Alcide Cervi, e come le ha raccontato l’episodio, ormai divenuto una tradizione, della “Pastasciutta antifascista”?
Eravamo tanti nipoti quindi non è stato e non poteva essere certo un nonno esclusivo. Era un uomo buono, saggio, ed abbastanza severo sulle cose perché voleva che si facessero bene, ed io ho avuto un rapporto di grande affetto con lui. Mi ricordo che il 25 aprile 1965, per il ventesimo anniversario della liberazione dai nazifascisti, io lo accompagnai a Milano, lui ormai era diventato un mito “papà Cervi”, dove gli fecero fare una sfilata su una macchina scoperta, come fanno ad esempio col papa, e venne sommerso di affetto con strette di mano e abbracci, tanto che si schermì con alcuni imbarazzato da tanto slancio. Comunque mio nonno era sempre molto disponibile, non diceva mai di no, e andava dovunque lo chiamassero. L’idea della Pastasciutta antifascista nacque da mio padre Aldo, che propose di offrirla a tutto il paese per festeggiare la deposizione di Mussolini il 25 luglio 1943. Così andarono a un caseificio presero due caldaie, usate per il formaggio, e fecero quintali di pasta con burro e formaggio da distribuire alla popolazione. Sono contento che sia diventata una tradizione, l’anno scorso per esempio l’ho chiamata “la pastasciutta dell’Adriatico” perché sono partito dalle Marche fino ad arrivare a Reggio Calabria, facendone una dietro l’altra e sono anche ingrassato un po’.
Il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, ha deciso di non rinnovare l’accordo con l’Anpi, che permetteva all’associazione di entrare nelle scuole con suoi membri, partigiani e storici, per fare lezioni su Costituzione e Resistenza. Il ministro si è poi giustificato promettendo di aprire un nuovo protocollo con l’Anpi aperto a tutte le altre associazioni partigiane. Ad oggi però è tutto fermo. Lei cosa ne pensa?
Penso che non si possa lasciar passare questa cosa come se fosse indolore. Non possiamo permettere che questo governo faccia una cosa del genere; io la reputo inconcepibile. L’Anpi dovrebbe avere il dovere e il diritto di entrare nelle scuole così come tutti quelli che si rifanno alla lotta antifascista. Non trovo neanche le parole per dire quanto mi indigni questa decisione del ministro Valditara. Certo, mi rendo conto che da governo come questo, il più a destra dalla fine della seconda guerra mondiale, ci potesse essere il rischio che si verificasse una cosa di questo genere. Se il ministro non ci ripensa e non cambia posizione, a mio modo di vedere, come Anpi, dovremmo organizzare grandi manifestazioni di piazza contro questa decisione, perché non si può lasciar passare una cosa così senza fare una battaglia democratica.
Lei ha scritto un libro “I miei sette padri”, sulla storia della sua famiglia, da cui quest’anno è uscito un docufilm omonimo. Dove nasce l’idea del libro e l’idea di trasformarlo in un docufilm? Dove sarà possibile vederlo?
Inizialmente avevo scritto un libro su proposta della casa editrice Piemme Voci, dal titolo “Io che conosco il tuo cuore, Storia di un padre partigiano raccontata da un figlio”, ma poi chi mi aveva coinvolto se ne è andato dalla casa editrice, così ho deciso di scriverne un altro dal titolo “I miei sette padri”, che da diversi anni  ormai presento in giro per l’Italia. Per l’80° anniversario dell’eccidio di mio padre e dei miei zii, i fratelli Cervi, ho deciso di trasformare il libro in un docufilm. Dura 55 minuti, la regia è di Liviana Davì, mentre la produzione è di Grabinski Point APS insieme a oltre 600 coproduttori: istituzioni, associazioni, gruppi e compagni e compagne antifascisti che hanno reso possibile la sua realizzazione. Giro l’Italia, assieme alla regista Davì, per presentare il docufilm anche in molti cinema, però non ha una distribuzione siamo noi le sue gambe quando veniamo invitati. Io non dimenticherò mai il 28 dicembre 1943, l’obiettivo è non farlo dimenticare nemmeno alle nuove generazioni al fine di fargli capire gli orrori del fascismo, contro chi ancora oggi non riesce a dire di essere antifascista o magari dice che il fascismo ha fatto cose buone.

Quanto è importante, e cosa significa, essere antifascisti oggi?
Essere antifascisti dovrebbe essere un obbligo per ciascuno di noi. Dobbiamo pensare, che tutte le persone che hanno combattuto e/o hanno perso la vita, nella lotta contro il nazifascismo, lo hanno fatto per consegnare la libertà e la democrazia al popolo italiano. Quindi essere antifascisti oggi, secondo me significa anche lottare contro le ingiustizie esistenti, essere contro una società di ricchi/straricchi gente opulente mentre c’è gente molto sfruttata a lavoro, quando ce l’ha, e non riesce a far quadrare i conti, significa essere dalla parte dei migranti, da quella delle donne, da quella degli ultimi e in definitiva dalle parte di tutte quelle persone che subiscono sopraffazioni. Servirebbe equità, ed invece viviamo all’interno di una società con straricchi che si arricchiscono sempre di più e poveri che si impoveriscono ogni giorno di più. Io dico sempre che mio padre ha combattuto per avere anche una società più giusta rispetto a quella capitalistica. Di conseguenza essere antifascisti oggi significa combattere non solo contro i nuovi possibili fascismi e per evitare che la storia venga stravolta o dimenticata, ma significa lottare anche contro le ingiustizie che ho detto, e soprattutto rispettare ogni giorno la Costituzione e battersi affinché possa venire davvero attuata. Purtroppo devo constatare che siamo ancora ben lontani dalla società che si prefigurava mio padre o da quella che dovrebbe nascere da una seria attuazione della nostra Costituzione.

foto di apertura di Alcide Cervi – Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=59694472

Andrea Vitello è specializzato in didattica della Shoah e graduato a Yad Vashem. Ha scritto il libro, con la prefazione di Moni Ovadia, intitolato Il nazista che salvò gli ebrei. Storie di coraggio e solidarietà in Danimarca, (Le Lettere 2022). Scrive su Pressenza e su Left

Link trailer docufilm https://www.youtube.com/watch?v=d9fJzqkoZ44  

La chiamano guerra ma è anche una cancellazione culturale

Lo scrittore Shady Amadi li mette in fila, uno dopo l’altro. Sono gli artisti palestinesi (scrittori, poeti, pittori) che hanno perso la vita sotto le bombe a Gaza e sono la sindone del tentativo di cancellare una cultura chiamandola terrorismo.

C’è Refaat al Areer, poeta, professore all’Università Islamica di Gaza, che poche settimane prima di morire il 6 dicembre scorso aveva scritto “se io dovessi morire, tu devi vivere, per raccontare la mia storia”. Il 7 ottobre muore il poeta Omar Faris Abu Shaweesh a causa del bombardamento del campo profughi di Nuseirat a Gaza. Passano due giorni e il 13 ottobre nella sua casa a Gaza viene uccisa la pittrice Heba Zaqout insieme ai suoi due figli. Come racconta nel suo articolo Amadi “nel 2020, Zaqout aveva finito una serie di dipinti di donne con in mano una colomba, una chiave e un liuto a simboleggiare rispettivamente: la pace, il ritorno e la cultura”. Il 16 ottobre viene ucciso lo scrittore Abdullah Al-Aqad, il giorno successivo muore storico Jihad Al-Masri per una bomba. 

Il 20 ottobre a 32 anni viene ammazzata durante un raid israeliano la scrittrice e poetessa Heba Kamal Saleh Abu Nada nel 2017 aveva pubblicato il romanzo L’ossigeno non è per i morti. Su X l’8 ottobre aveva scritto “La notte di Gaza è buia se non per i bagliori dei missili; tranquilla se non per il rumore delle bombe; terrificante se non per la tranquillità delle preghiere; nera se non per la luce dei martiri. Buona notte, Gaza”. Il 23 ottobre muore lo scrittore Abdul Karim Hashash. Il 20 ottobre la pittrice Halima Al-Kahlout. Poi la regista  Inas al-Saq, il poeta Shahadah Al-Buhbahan, lo scrittore e giornalista Mustafa Al-Sawwaf, il poeta Nour al-Din Hajjaj, il musicista Yousef Dawas, il poeta Saleem Al-Naffar. 

Rientra nella definizione di genocidio l’annullamento dei valori e dei riferimenti culturali. 

Buon mercoledì. 

Nella foto: un’opera di Heba Zaqout

Fine della narrazione americana

Fito di Gaza scattata da Motaz Azaiza @azaizamotaz9

La condotta del governo degli Stati nella guerra di Israele contro Hamas, trasformata in un indiscriminato massacro della popolazione palestinese, segna una svolta profonda e radicale nella rappresentazione pubblica della democrazia americana. Le esortazioni alla moderazione rivolte dal presidente Biden a Netanyahu, le iniziative di mediazione di Blinken, gli interventi dei vari esponenti dell’amministrazione statunitense, appaiono moine ciniche, fumo negli occhi dell’opinione pubblica, che nascondono una verità non più occultabile. Gli Usa hanno sostenuto l’intera operazione di Israele a Gaza, vale a dire il bombardamento indiscriminato della popolazione civile, la devastazione degli ospedali e delle scuole, la distruzione degli accampamenti, la sottrazione dell’acqua e del cibo alla popolazione sfollata, il blocco dell’energia e del carburante per i bisogni civili.

Essi hanno cioè condiviso, sia inviando le proprie armi, sia con la presenza di due grandi portaerei collocate nel Mediterraneo orientale – volte a scoraggiare chiunque potesse osteggiare l’esercito di Israele – sia con i ripetuti veti ai Consigli di sicurezza e alle Assemblee generali dell’Onu per un cessate il fuoco, l’uccisione, a oggi, di circa 20 mila civili di cui 7 mila bambini.

Gli Usa portano dunque, di fronte all’opinione pubblica mondiale, la responsabilità politica, militare e morale di una vera e propria pratica di genocidio. Per la più antica democrazia del mondo è davvero un gran risultato.
Tale corresponsabilità non è tuttavia una sorpresa. Le amministrazioni americane hanno sempre sostenuto la politica israeliana nei confronti della Palestina, anche quando, a partire dai governi di Ariel Sharon, la destra più oltranzista ha mirato deliberatamente a mettere all’angolo gli esponenti moderati e dialoganti della dirigenza palestinese e a favorire l’insorgere e l’iniziativa disperata degli elementi estremisti. Una minuta cronistoria dello stillicidio di provocazioni condotte dall’esercito di Israele sotto il governo di Sharon mostrerebbe nitidamente la filigrana di una strategia: portare all’esasperazione i Palestinesi e indurli ad atti di terrorismo.

Tutta la condotta dei successivi governi ha puntato a questo fine, con ogni probabilità sotto l’astuta guida dell’amministrazione americana, che conosce la potenza emarginante dell’accusa di terrorismo: spostare la reazione dei gruppi palestinesi più attivi verso la strada della violenza armata. Gli appoggi, venuti di recente alla luce, di Netanyahu ad Hamas, mostrano soltanto la continuazione di una lunga strategia. Sul piano militare i Palestinesi non possono mai vincere, perciò è facile indurli ad azioni armate senza speranza, farli apparire dei terroristi, far perdere loro per sempre la simpatia e il favore dell’opinione pubblica mondiale.

Questa è la strada per fornire a Israele la giustificazione morale per ogni suo sopruso, la manipolazione della storia del suo insediamento, ma anche la segregazione di 2 milioni di persone in una prigione a cielo aperto. L’eccidio compiuto da Hamas il 7 ottobre è stato – viene da pensare- per i dirigenti del governo israeliano di ultra destra, il programmato prezzo da pagare per poter poi realizzare la “soluzione” della questione palestinese. Anche perché 20 anni di vessazioni e anche di massacri, inflitti a una popolazione prigioniera in una striscia di terra, non potevano prima o poi non produrre un’esplosione di violenza disperata.
Ma oggi, sul campo, nella striscia di Gaza ci sono i corpi di decine di migliaia di morti, feriti, sepolti sotto le macerie, ammalati, affamati, la devastazione delle infrastrutture, degli abitati, l’annichilimento di un intero territorio, una popolazione di quasi 2 milioni di abitanti senza un luogo in cui vivere.

E né gli Usa né Israele indicano una via d’uscita, un piano, se non lo sterminio per bombe o per fame dell’intero popolo di Gaza. A questo punto, comunque vadano a finire le cose, la disfatta della strategia Usa non poteva essere più conclamata e inoccultabile. Gli statunitensi appaiono agli occhi del mondo corresponsabili di un eccidio senza precedenti e non possiedono un pur minimo progetto, neanche per la sicurezza di Israele, per la pacificazione di una intera regione dove essi si trovano oggi senza nessuna giustificazione se non quella della prevaricazione imperiale.

Ma tale vicenda segue, anzi è contemporanea, di un’altra sconfitta, quella a cui gli Usa hanno trascinato l’Europa e i Paesi Nato: la guerra in Ucraina. Perché il racconto della difesa di un Paese democratico dalla inaccettabile aggressione dell’imperialismo russo, a base del supporto a Kiev, ha la stessa fondatezza delle critiche di Biden a Netanyahu. Una ben orchestrata messa in scena che poco a cuore le sorti dei civili ucraini aggrediti da Putin. Quella guerra, lungamente preparata, a mio avviso, non è che l’esito finale della prosecuzione della guerra fredda vinta dagli Usa sull’Urss nell’ 1989 e che oggi appare perduta. E in questo momento gli Usa e i loro alleati, i piccoli governanti europei, devono rispondere delle centinaia di migliaia di uomini e donne ucraini morti inutilmente, per una guerra che poteva essere evitata, non proponendo l’ingresso dell’Ucraina nella Nato – al fine di completare l’accerchiamento della Russia coi missili americani – e che poteva essere fermata subito, com’è risaputo, senza l’opposizione del Regno Unito (e degli Americani) fra marzo e aprile del 2022.
Ora è noto che gli Stati Uniti, uno Stato liberal-democratico, hanno sempre curato, finché hanno potuto, la propria immagine, e la loro rispettabilità. Sia perché devono rispondere a un’opinione pubblica che, per quanto ampiamente manipolata, è pur sempre libera e reattiva, sia perché l’aureola della democrazia e del rispetto dei popoli deve brillare sulla testa dei loro governanti. Ne va di mezzo la reputazione con gli alleati occidentali, prima di tutto, e la credibilità della loro politica imperiale, che deve essere coperta sotto lo smalto della democrazia e della libertà. E infatti solo a posteriori, e spesso grazie a giornalisti e funzionari americani, abbiamo scoperto le segrete infamie di cui si sono storicamente macchiate le loro amministrazioni.

Qualcuno ricorda i Pentagon Papers che svelarono le menzogne con cui i governanti ingannarono i loro cittadini sulle ragioni e sull’andamento della guerra in Vietnam? Rammentiamo di passaggio i ripetuti bombardamenti segreti di villaggi inermi della Cambogia ordinati da Kissinger negli anni Sessanta e scoperti solo di recente, il sostegno alle dittature sanguinarie in America Latina, il contributo al soffocamento del governo di Allende in Cile nel 1973, e così via. Oggi grazie al Washington Post si è scoperto che la controffensiva ucraina è stata progettata a tavolino da Usa e UK, addestrando le truppe di Kiev in Germania, e valutando la sua possibilità di successo al 50%, ma al prezzo previsto tra il 30 e 40% di perdite umane, circa 100 mila morti. (vedi Domenico Gallo, Nato e Ue han mandato gli ucraini al massacro, Il fatto quotidiano, 22, dicembre 2023).

Com’è noto, nel nuovo millennio le campagne militari finalizzate all’espansione imperiale sono state accompagnate dalla copertura narrativa, dalla nobilitazione ideologica della guerra al terrorismo e della esportazione della democrazia. Uno sforzo di manipolazione propagandistica che ha toccato vertici di ridicola protervia il 5 febbraio 2003. Quando, si ricorderà, l’allora segretario di Stato Colin Powell esibì alle Nazioni Unite una provetta di polvere bianca, probabilmente borotalco, per certificare il possesso da parte dell’Iraq di armi di distruzioni di massa.
Ma oggi la copertura ideologica volta a camuffare il dispiegato progetto di dominio mondiale è andata in pezzi. L”impressionante serie di campagne militari condotte dagli Usa negli ultimi 20 anni, con esiti nefasti e fallimentari, è ormai evidente a tutti. L’Afghanistan è tornato in mano ai Talebani, l’Iraq dopo i bombardamenti del 2003 e l’uccisione di circa 150mila iracheni, è dilaniato dalla lotta tra fazioni terroristiche e ridotto in miseria, la Libia è regredita alle sue antiche faide tribali. Dunque, dopo la sconfitta in Ucraina e il massacro dei Palestinesi, gli Usa hanno irrimediabilmente perduto ogni giustificazione ideale e morale alle loro imprese, che non risolvono alcun problema, mostrandosi in tutto il loro splendore di agenti primari del disordine internazionale, impero in declino che diventa sempre più sanguinario. Oggi non a caso minacciano apertamente una guerra contro la Cina per bloccare la sua espansione economica.

Questo rapido bilancio storico, ha qui un fine particolare. Esso mostra come oggi, dicembre 2023, l’atlantismo delle élites europee, comprese quelle di gran parte dei socialisti – a vergogna e disonore della loro storia – non può più essere rappresentato e giustificato come appartenenza a un campo di valori democratici, alla difesa dell’Occidente, agli ideali della pace. Tutto questo armamentario retorico, di cui il nostro presidente della Repubblica è uno stanco mentore, è da portare dal rigattiere. Con ogni evidenza l’atlantismo si presenta oggi come una politica di fiancheggiamento e complicità con i misfatti di un impero. Gli intellettuali del campo progressista, perfino oneste figure del mondo culturale della sinistra, che hanno, anche comprensibilmente, teorizzato la necessità di sostenere l’Ucraina in lotta, devono rivedere al più presto le loro posizioni. Sostenere la politica di estensione e rafforzamento della Nato vuol dire lavorare contro il progetto dell’Europa democratica e agente di pace in cui avevamo creduto. A nessuno può sfuggire che l’ubbidienza all’alleato americano, che conduce una politica in danno aperto dell’economia europea, spinge i dirigenti Ue a scelte generali che distruggono la democrazia nei Paesi del vecchio continente. L’aumento delle spese militari, la loro messa fuori bilancio comunitario, sottrarrà sempre più risorse al welfare e andrà a combinarsi con il ritorno delle politiche di austerità. In questo modo i peggiori dirigenti europei dal dopoguerra condannano al suicidio le economie del Continente, facendo prosperare le destre estreme. Un fenomeno verificabile da ogni osservatore. E ricordo che dal 2024 la Nato, destinata a difendere la nostra democrazia e la nostra libertà, sarà molto probabilmente capeggiata da Donald Trump.

Foto di Gaza scattata il 5 dicembre 2023 dal reporter Motaz Azaiza Please follow @azaizamotaz9

Lo scontro è culturale

Come orientarsi nella realtà attuale? Quali punti di riferimento possiamo trovare o sperare di avere?
Ciò che fino a qualche anno fa sembravano scenari da film di fantascienza si sono materializzati. L’Europa abituata a vivere in una pace e in una prosperità che sembravano resistenti a qualunque crisi, si è ritrovata prima con una pandemia che ha messo a dura prova il sistema economico e culturale e poi con due conflitti, uno dei quali mai pensato veramente possibile e un altro che ripropone uno scontro che va avanti da decenni per non dire da secoli senza che si sia ancora delineata veramente una possibile via d’uscita.

Pandemia e poi guerra. Prima abbiamo dovuto far ricorso al nostro essere esseri umani per collaborare tutti insieme alla soluzione di una crisi che coinvolgeva tutti gli esseri umani, a prescindere da ogni linea di frontiera. Poi ci siamo ritrovati a dover capire come orientarci, come comprendere questo fenomeno di ritorno della volontà di potenza delle grandi potenze internazionali. In questo certamente realizzando che le velleità europee di poter contrastare la potenza militare solo con l’economia.

Sicuramente gli storici comprenderanno quali sono stati i motivi più o meno latenti di queste guerre. E certamente verranno alla luce grandi interessi economici, come sempre è accaduto con le guerre.

A me interessa però sottolineare l’aspetto culturale di questo ritorno al passato.
Le guerre, con le loro assurde atrocità, con l’unica logica possibile dell’uccidere per non essere uccisi, ha bisogno di ideali di supremazia e potenza per essere alimentata.
Ha bisogno di propagandare la non umanità degli altri, dei nemici. E anche chi è al di fuori del conflitto viene trascinato inevitabilmente nel prendere posizione.

L’aspetto culturale di una guerra è allora la proposizione di una ineluttabile e naturale disumanità degli esseri umani. La proposizione di una supremazia di un gruppo, di un’etnia o di una popolazione che vive in un determinato luogo rispetto a quelli che vivono al di là di una linea immaginaria, perché gli altri non sono realmente esseri umani. Lo sono meno.

La guerra ha bisogno di un dio che sancisca la giustezza delle posizioni. Qualcosa di completamente astratto che dia il consenso ai soldati nell’obbedire agli ordini disumani di distruggere e uccidere altri esseri umani.

Noi che siamo fuori dal conflitto che possiamo fare? Siamo costretti a subire quanto accade facendo la nostra vita, la nostra storia quotidiana fatta di piccole cose, non sapendo come reagire.

Siamo costretti a disinteressarci delle atrocità che accadono. Anche se in realtà non è mai del tutto vero. E ci ritroviamo a subire un macabro sottofondo, una continua litania propalata dai grandi media, che la realtà umana è quella della guerra, dell’omicidio dell’uno sull’altro.

Siamo investiti quotidianamente da un continuo flusso di propaganda che ci dice questo. E non conta chi sia il nemico. La cosa che conta è l’idea che c’è sotto: non pensiate che sia possibile un altro mondo, non pensiate che sia possibile un altro pensiero, non pensiate che sia possibile una vita diversa.

Quando in realtà la stragrande maggioranza degli esseri umani vive la propria vita non solo senza mai fare male a nessuno ma nemmeno pensando come ipotesi di far male a qualcuno. Non è vero che la realtà umana è per la distruzione degli altri e questa è una cosa che tutti sappiamo.
Ma poi dobbiamo arrenderci alla realtà dei fatti. E anche nel quotidiano troviamo quella assurda ferocia, quella violenza senza motivo che non riusciamo a capire.
Il drammatico elenco di femminicidi che si sono succeduti in particolare con quello di Giulia che ha scosso profondamente l’opinione pubblica potrebbe farci pensare che non ci sia niente da fare.

In realtà no, io credo che dobbiamo osservare attentamente e più profondamente. L’accusa verso il cosiddetto “patriarcato” non è una semplice critica ai “maschi” della specie umana ma nasconde secondo me qualcos’altro che io ritengo una novità storica.

Non è stato detto chiaramente che quello che si contesta è, in verità, forse il principio cardine più importante della società moderna basata sul logos occidentale: quello per cui l’identità umana sarebbe per identificazione ed in particolare per identificazione con il padre. La critica al patriarcato è la critica ad una società che si basa sul concetto di identificazione con il padre come fondamento della società. Concetto di identificazione con il padre che significa anche che l’unico pensiero esistente sia un pensiero di tipo razionale, escludendo e cancellando ogni altra possibilità di pensiero che non sia logico e razionale. Escludendo cioè il pensiero dei bambini e delle donne.

L’identificazione con il padre significa che l’essere umano non ha una propria identità. Non può sviluppare un proprio pensiero autonomo. La realtà umana sarebbe quella di ripetere all’infinito la vita di qualcun altro. L’irrazionale viene ucciso e relegato ad essere uno “spirito religioso”, un tendere verso la spiritualità, l’assenza del corpo. Ad un essere buoni perché qualcuno ci spiega che è giusto così, non perché sia una tendenza naturale degli esseri umani.

Io penso che questo nuovo millennio si caratterizzerà per questo scontro culturale: è possibile pensare per gli esseri umani, donne e uomini, che ci sia una possibilità di sviluppare una propria identità libera da ogni identificazione con qualcun altro? È possibile immaginare di superare la scissione tra mente e corpo che da più di 2000 anni viene proposta come unica possibilità per esercitare un pensiero? È possibile immaginare un pensiero nuovo che non stabilisca come principio ultimo quello del mors-tua vita-mea?

Sono idee forti e valide per la costruzione di una sinistra nuova. Ed è una vera tristezza vedere la pochezza di pensiero di chi afferma che l’unico reale leader di una sinistra sia il papa che in realtà, anche per come viene chiamato (papa!) è il rappresentante più significativo del patriarcato.

Con Left sono tanti anni che proponiamo alla sinistra proprio un pensiero e una teoria di questo genere. Più volte abbiamo detto che le 4 lettere che compongono la parola Left sono le 3 della rivoluzione francese con la t di trasformazione, intendendo con questa parola ricordare la capacità che hanno gli esseri umani di trasformare se stessi, il proprio pensiero e il proprio essere. Trasformazione che è possibile nel rapporto con gli altri.

L’uguaglianza va affermata stabilendo che essa si realizza alla nascita come formazione di un primo pensiero di rapporto con un altro essere umano. Questo primo pensiero è universale, cioè di tutti gli esseri umani in quanto specie specifico.

La libertà è invece fantasia, possibilità di immaginare un mondo diverso, ed è libertà nella misura in cui è un pensiero che non ha intenzione di ledere gli altri ma è un pensiero di rapporto con gli altri.

La fraternità ci ricorda che siamo esseri sociali. Noi siamo perché gli altri sono e gli altri sono perché noi siamo.

La trasformazione è la possibilità di ricreare se stessi ogni volta diversi, affermando un no verso il disumano che può comparire nell’uomo ma che va, appunto, rifiutato.

 

In foto un’opera di Banksy sul muro tra Gerusalemme e Betlemme all’altezza di Qalandia checkpoint. Foto di Maureen from Buffalo, USA – West Bank wall at Kalandia, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=105353122

L’Italia e l’abuso dei minori stranieri. Ancora

È successo, ancora. La Cedu ha ordinato al Governo italiano di trasferire un minore di 15 anni trattenuto dall’inizio di ottobre nel centro di Restinco in provincia di Brindisi, in un adeguato centro per minori non accompagnati. Lo ha reso noto l’Asgi (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione), specificando che la decisione “si aggiunge alla lunga serie di sentenze della Corte Europea per i Diritti Umani e le Libertà fondamentali contro l’Italia”. Con la decisione cautelare del 19 dicembre, la Corte “ha specificato che tale nuovo centro dovrà garantire al minore i diritti sino ad oggi negati tra cui tutta l’assistenza necessaria, compreso, a titolo esemplificativo, il rilascio di validi documenti di identificazione, il collocamento in condizioni compatibili con l’articolo 3 della Convenzione, l’accesso alle procedure legali e amministrative pertinenti, la nomina di un tutore. Inoltre ha deciso di dare priorità all’esame del ricorso di merito”, spiega l’Asgi in una nota. 

“A fronte della natura sistemica delle violazioni riscontrate, ricordiamo che Asgi – prosegue il comunicato – lo scorso 6 novembre ha inviato una comunicazione al comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa che deve supervisionare l’attuazione delle sentenze della Cedu, elencando le innumerevoli situazioni di mancata tutela e illegittimo trattenimento di cui sono vittima i minori stranieri non accompagnati in Italia. Situazione destinata ad ulteriormente aggravarsi anche alla luce dell’entrata in vigore delle misure previste dal d.l. 133/2023, convertito con modificazioni in L. 173/2023 del 1.12.2023 e dell’ulteriore rischio che, a seguito di procedure superficiali, siano identificati come maggiorenni coloro che, invece, sono minori di età”.

Buon venerdì.