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Cosa si cela dietro un infanticidio: si può fare chiarezza?

È una notizia che non si dovrebbe mai sentire quella della morte di un bimbo di un anno soltanto, ma soprattutto non si dovrebbe mai provare quell’angoscia e quel senso di impotenza nello scoprire che questo bimbo muore per mano della propria madre.

«Venite, ho ucciso mio figlio» sono le parole di aiuto con cui E. accoglie i carabinieri che giungono sul posto, una frase che svela il dramma di una donna nel momento più atroce della sua vita. Tutta questa storia è un dramma, non solo per l’infausto epilogo, ma perché obbliga a pensare e ripensare a come abbattere i muri dello stigma della maternità edulcorata per permettere non solo alle donne, ma ai partner e alle famiglie d’origine di affrontare in profondità il problema e sostenere la maternità in crisi.

Tutti a casa sapevano che E. stava attraversando un periodo di depressione post partum, che a momenti era più agitata e che uno specialista aveva raccomandato di non lasciarla sola. Le maglie della rete familiare si sono sfilacciate per un’ora soltanto, eppure quell’ora è stata fatale. Un gruppo intero di persone si confronta con la malattia mentale e non ne sostiene il peso.

Presidente Mattarella intervenga: le carceri sono diventate manicomi

Illustre Presidente,
chi le scrive è la Garante delle persone private della libertà della Regione Sardegna. Scrivo a lei in quanto garante dei principi costituzionali, in particolare del rispetto della dignità umana che passa anche attraverso il diritto alla salute di tutti i cittadini, anche dei cittadini che hanno sbagliato. Non appena insediata, dal mese di febbraio di quest’anno, ho condotto visite in tutte le carceri dell’isola e in questi giorni ho concluso il primo giro con la visita nel carcere di Uta a Cagliari, avvenuto poche ore fa. Il bagaglio di conoscenza e di esperienza di questi pochi mesi, che mi porto appresso, è molto difficile da trasmettere: quanto hanno visto i miei e occhi e udito le mie orecchie mi risulta difficile da descrivere. Ma so che è mio preciso dovere provare a farlo, anche se questo dovesse suscitarle orrore, cosa per cui mi scuso in anticipo ma che ritengo in un certo modo necessaria. Oggi, ad esempio, ho incontrato, nella sezione transito nel carcere di Uta a Cagliari, un detenuto di soli 18 anni, con problemi psichiatrici, che è stato arrestato perché schiaffeggiava le signore sull’autobus e alcune volte è stato sorpreso a mettere le mani nelle borsette. Con lui non si riesce a parlare – non la sottoscritta, ma neanche gli operatori – e questo rende difficile persino individuare la patologia da cui è affetto.

Mauro Palma, sette anni a difendere la dignità in carcere

Detenuti nelle carceri, autori di reato con patologie psichiatriche nelle Rems, stranieri nei centri per il rimpatrio. Sono coloro che dal 2016 ha incontrato Mauro Palma, presidente del Garante nazionale delle persone private di libertà arrivato adesso allo scadere del suo mandato (le altre componenti del Collegio sono Daniela De Robert ed Emilia Rossi). L’ultima Relazione al Parlamento, corredata da un corposo dossier, non solo rappresenta una fotografia reale delle condizioni di vita di migliaia di cittadini fuori dai radar, ma è anche uno strumento di riflessione sui diritti umani negati. Come scrive Palma, tra i maggiori esperti a livello internazionale in tema di lotta alla tortura e ai trattamenti inumani, l’attività del Garante è un contributo di soft law che, basandosi «sull’esperienza dell’aver visto e del vedere», fornisce «elementi di analisi e interpretazione all’impianto dell’hard law». Il Garante infatti formula precise Raccomandazioni alle autorità responsabili, anche se talvolta non vengono accolte, come per esempio quella, subito dopo le violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, che indicava la necessità di introdurre elementi identificativi sulle divise degli agenti della polizia penitenziaria. Il ministro Nordio, mentre scriviamo, sta decidendo la composizione del nuovo Garante. Qualsiasi sia la decisione, dice Palma, «darò tutto l’appoggio mio e dell’ufficio professionalmente costruito in questi sette anni e mezzo».

Mauro Palma, partiamo dalla visione culturale che traspare dalla sua Relazione. Il Garante, oltre alla funzione di prevenzione e garanzia dei diritti, può contribuire alla consapevolezza collettiva su questi temi?
Sostanzialmente deve dare la consapevolezza. Per carità, la tutela giuridica dei diritti è molto importante, ma questo tipo di controllo non può esistere se non c’è un controllo sulla cultura complessiva, sulla cultura che riconosce il molteplice, cioè riconosce l’essere in tanti modi, le diversità. Riconosce che c’è anche chi ha sbagliato, chi ha una particolare difficoltà di espressione – mi riferisco ad altri luoghi rispetto al carcere – ma lo riconosce come sé, non come un altro che io vado a proteggere. E allora le parole escludenti come “Chiudiamoli e buttiamo la chiave”, il linguaggio che fissa una differenza, sono qualcosa che fanno perdere questa consapevolezza.

Ma i diritti non vanno in vacanza

In questa estate del 2023 sotto l’ombrellone si affolla una quantità di questioni aperte che riguardano l’universo del lavoro. Nell’afa rovente del momento in cui redigiamo questo articolo (la metà di luglio, nda) tutto è fermo, statico, cristallizzato. La ragione è semplice – nella sua enorme complessità – e porta il nome di Bilancio dello Stato.
Bilancio colpito duramente dal peso dell’indebitamento sul quale gravano anche gli effetti dell’inflazione che, da noi, diminuisce più lentamente, a differenza di quello che succede in altri Paesi. Effetti che hanno già provocato un incremento del suo peso per il lievitare dei tassi di interesse perseguito dalla Bce come discutibile strategia anti-ciclica. Con una conseguente crescita degli interessi sullo stesso debito pubblico. La coperta da stendere nel prossimo autunno è, dunque, molto corta.

Si segnala, perciò, l’insistenza del ministro dell’Economia Giorgetti sul piazzare già prima della pausa estiva dei paletti che riguardano le priorità per la legge Finanziaria.
Intanto, sulla credibilità del Paese e del governo e sulla concreta possibilità di operare, pesano i ritardi nell’attuazione della tabella di marcia del Pnrr. La terza rata, l’erogazione della quale era prevista in marzo, è appena stata sbloccata grazie a una modifica del target sugli alloggi universitari. Bruxelles aveva infatti messo in stand-by la tranche dopo che l’Italia non era riuscita ad assicurare entro la fine del 2022 i 7.500 nuovi posti letto negli studentati. E, intanto, ha ricevuto la revisione di 10 obiettivi per la quarta rata, che non arriverà prima del 2024. Con la Commissione europea sono state condivise 10 modifiche su 27.

Quanti tesori da scoprire

Con questo numero daremo il via ad una rubrica che vi accompagnerà in un viaggio tra i tesori sommersi della nostra nazione.
Da oltre 10 anni, il team di Ascosi lasciti e la omonima associazione culturale (ascosilasciti.com), di cui assieme a Davide Calloni sono il fondatore, scopre, documenta e cataloga centinaia di luoghi abbandonati in Italia e nel mondo attraverso la pratica dell’urbex, l’esplorazione urbana. Parlare di esplorazione urbana non è facile. Si tratta di un’attività estrema dalle molte sfaccettature, denotata da visioni personali e comportamenti fortemente contraddittori.
Chi si affaccia a questo mondo per la prima volta non potrà che rimanerne stupefatto, estasiato. Vuoi per l’indiscusso fascino della decadenza, vuoi per la presa di consapevolezza del numero spropositato di edifici abbandonati sul territorio. E così il palazzo nobiliare, ancora arredato, diviene esempio concreto del fascino di quelle che definiremmo “capsule del tempo”, e rappresenta solo il primo di un’infinità di luoghi decadenti di cui la nostra penisola è costellata.

Il miraggio di un tetto

«Non posso stipulare un regolare contratto di affitto perché a lavoro non sono in regola. Così vivo come “ospite” in un appartamento, pago in nero 500 euro per una stanza, più tutte le spese».
Maricica abita nella periferia est di Roma. È una donna rumena che si trova in Italia da 20 anni, lavorando saltuariamente senza contratto come colf in case vacanze o centri sportivi della Capitale. Non ha la certezza di un reddito, ma soprattutto di un’abitazione, vive perciò nella costante paura di rimanere senza “un tetto”. «Non ho alcuna sicurezza riguardo al mio futuro – dice – non posso che sperare».
Maricica si trova in una situazione abitativa precaria, che potrebbe precipitare fino a farla diventare davvero una senzatetto.

Secondo l’ultimo censimento della popolazione pubblicato dall’Istat le persone senza fissa dimora iscritte all’anagrafe in Italia nel 2021 erano quasi 100mila, per essere precisi 96.197. I dati precedenti, che risalgono al 2014, rivelano che le persone erano circa 50mila, la metà. Una contraddizione in un Paese descritto spesso come saldamente legato alla proprietà della casa. Ma come raccontano la storia di Maricica e i numeri rilasciati da Openpolis, vi è una seconda emergenza che sfata questo mito. Il report di luglio della fondazione indipendente infatti sottolinea chiaramente come la questione affitti rappresenti un elemento chiave per la condizione economica delle famiglie. Sempre più nuclei familiari giovani con figli vivono in affitto e fra loro molti sono in seria difficoltà.

L’arte di abitare e di ricreare gli spazi pubblici

Bellezza che spiazza. È un tema che da sempre ci affascina. Ha a che fare con l’idea di città come opera collettiva, come organismo vivente come diceva già Plinio e che, proprio in quanto tale, si può ammalare: di speculazione, di privatizzazioni selvagge e di disuguaglianze. È un tema che ci interroga sul ruolo che l’arte pubblica, non solo un’attenta urbanistica, può avere per contribuire a “curare” queste ferite e promuovere lo star bene insieme. A ben vedere sono proprio le relazioni a disegnare il volto delle città. È la qualità dei rapporti umani a generare quello speciale clima emotivo, ogni volta diverso, che si respira in un ogni agglomerato urbano, metropoli o paese che sia.

È lo stratificato palinsesto di Venezia – in cui si può leggere in filigrana la storia millenaria di generazioni di viaggiatori, artisti, donne di mondo, commercianti – a renderla speciale. Perciò quando la città viene ridotta a scenografia dalle logiche di mercato che puntano a estrarre il massimo profitto dal turismo di massa e gli abitanti vengono messi in fuga (come accade appunto a Venezia e Firenze) la città perde spessore, perde vita, diventa figurina bidimensionale. Si riduce a fortezza di arida bellezza quando in nome del decoro espelle i ceti più fragili e i senza dimora. Di questa perdita di senso e degrado della città ci occupiamo da molti anni, e il tema torna prepotentemente alla ribalta oggi, dopo che ad anni di pandemia è seguita una furibonda accelerazione del turismo di massa e insieme un vertiginoso aumento dello iato sociale. “Ne usciremo migliori”, dicevamo quando le città erano deserte per il lockdown. Purtroppo non è andata così, come scrive l’architetto Ugo Tonietti, cercando semi di un cambiamento possibile, e oggi quanto mai urgente, anche scavando nel passato, nei momenti più alti dell’abitare insieme. Del ruolo che può avere l’urbanistica per favorire la coesione sociale o al contrario per costruire barriere visibili e invisibili ci parla Daniela De Leo dell’università Sapienza analizzando la trasformazione delle banlieues parigine, di recente teatro di imponenti manifestazione dopo l’uccisione di un diciassettenne, Nahel, da parte di poliziotti razzisti a Nanterre. Francesca Cognetti del Politecnico di Milano invece ci porta nella periferia milanese che, pur fra molte difficoltà , può essere un laboratorio intergenerazionale e di intercultura. In questa storia di copertina dedicata alla ricerca di bellezza, di coesione sociale, qualità della vita in città, non potevamo trascurare il tema dell’emergenza abitativa. Lo facciamo con due focus su esperimenti socialmente importanti in Canada e a Roma. Mentre della potenza generatrice dell’arte negli spazi pubblici si occupano in un dialogo a distanza artisti e architetti di differenti generazioni, a cominciare da Michelangelo Pistoletto che dall’alto del suo percorso di ricerca e dei suoi 90 anni ci onora con una lunga intervista che prende le mosse dall’attacco che ha subito la sua Venere degli stracci a Napoli.

E qui veniamo al nocciolo: quando un’opera d’arte svetta in uno spazio pubblico suscita sempre una reazione forte. Pensiamo, per esempio, al David di Michelangelo, ai dirompenti valori repubblicani e civili a cui alludeva e che sono ancora oggi un richiamo fortissimo. Una scultura, una fontana – quando sono arte e non propaganda – innervano lo spazio pubblico in modo vitale, ridisegnano l’intorno, “parlano” a chi quegli spazi li vive e li attraversa quotidianamente. Sono un segno irrazionale, di fantasia, che stimola ad alzare lo sguardo oltre l’orizzonte dell’ordinario, a fare una ricerca personale, a guardare oltre la realtà materiale. Fanno sognare come Malìe della strega ideata dallo psichiatra e artista Massimo Fagioli per la piazza di Avetrana e progettata da Anna Guerzoni e Isa Ciampelletti.

Ma un’immagine d’arte nuova, si sa (la storia dell’iconoclastia insegna) suscita anche crisi in chi non può e non riesce a lasciarsi andare alla bellezza. E capita anche che ragioni economicistiche di ripavimentazione  possano apparire più stringenti del restauro dell’opera, che quanto meno, osiamo dire, poteva essere smontata e conservata altrove. Di questa storia, che ci tocca profondamente, scrive la storica dell’architettura Giulia Ceriani Sebregondi. Dell’atto vandalico subito dalla Venere degli stracci, incendiata dolosamente a Napoli (e non da un clochard come era stato detto dapprima), ci parla il Maestro Pistoletto. Importanti associazioni come Mi riconosci? hanno rimarcato la mancanza di concertazione con la cittadinanza prima dell’installazione. Innegabile. Ma non si può negare nemmeno che sia stata vandalizzata un’opera che parla di identità femminile, di rigenerazione, di rifiuto delle logiche capitalistiche che riducono l’umano a scarto. Anche con il progetto collettivo della Cittadellarte, che accoglie giovani da tutto il mondo, Pistoletto continua a lavorare per portare avanti una ricerca sull’arte negli spazi pubblici e sulla responsabilità anche “politica” dell’artista. Tema caldissimo e di stretta attualità. Una maggiore sensibilità collettiva negli ultimi anni – particolarmente cresciuta grazie al movimento Black Lives Matter dopo l’assassinio di George Floyd – ha portato a contestazioni contro la statua equestre omaggio al generale Lee, che guidò le truppe della confederazione durante la guerra civile. Nel 2020 fu abbattuta a Bristol la statua in bronzo dedicata a Edward Colston, mercante e commerciante di schiavi africani. Il contestato monumento del re belga Leopoldo II ora potrebbe essere trasformato in un memoriale dedicato ai milioni di persone morte in Congo e a tutte le vittime del colonialismo belga. Chi parla di cancel culture, in questo caso, è completamente fuori strada. Statue, che nulla hanno a che fare con l’arte, violente nel contenuto e nell’estetica, devono poter essere rimosse dagli spazi pubblici, come gesto di civiltà e democrazia. Inaccettabili in questo senso gli strali che il Corsera lancia contro le femministe e ora contro i giovani di Extinction rebellion che hanno preso di mira la statua di Montanelli, che comprò una bambina in Etiopia, ne fece quel che voleva e da anziano continuò a insultarla con parole di una violenza indicibile. Perché mai la statua che ricorda costui dovrebbe stare in un parco pubblico frequentato da bambini? Perché invece fa scandalo se la compagna di Pistoletto di fronte al rogo della Venere degli stracci dice che l’ha sentito come un femminicidio?

Illustrazione di Chiara Melchionna

Una casa per tutti: la lezione del Canada

Da un tipì la lotta per il diritto all’abitare. Alla Biennale di architettura di Venezia arriva dal Canada un padiglione sull’emergenza alloggi. E dal collettivo Architects against housing alienation (Aaha) la denuncia di canoni in ascesa, della rendita immobiliare e della spoliazione dei terreni delle minoranze.
«Ogni anno il Canada Council for the arts pubblica un invito a portare progetti, a presentare manifestazioni di interesse per rappresentare il Canada alla Biennale di Venezia», spiega Simon Brault, il commissario della mostra per il padiglione del Canada, direttore e Ceo del Canada Council for the arts. «Abbiamo ricevuto proposte da tutto il Paese, ma il progetto del collettivo Aaha, oltre a soddisfare i criteri dell’invito a presentare idee che ispirassero, sfidassero e rispondessero alle realtà attuali attraverso la lente dell’architettura canadese contemporanea, era unico nel presentare una visione audace per il cambiamento sociale. È molto interessante – continua Simon Brault – anche il lavoro in collaborazione con il team interdisciplinare e geograficamente eterogeneo, composto da organizzazioni di attivisti, associazioni per il diritto alla casa e progettisti. Abbiamo cercato di trasformare il padiglione del Canada ai Giardini in un quartier generale della campagna per l’edilizia equa che rifiuta il concetto di proprietà e della forma finanziarizzata dell’architettura», conclude Brault.

L’oro delle periferie

Per ragionare di periferie bisogna darsi tempo; un tempo lungo di pensiero e di azione, dove le interpretazioni e le idee non vengono da un giorno all’altro. Vengono dal costruire una relazione lunga coi territori, legata a una idea di vivere la prossimità, che allude alla disponibilità a “muoversi verso”, pur esprimendo alterità. Bisogna sviluppare curiosità e la capacità di farsi sorprendere. Perché le periferie talora sono disarmanti; a volte spiazzano anche gli “esperti” come architetti, urbanisti, scienziati sociali, per essere il luogo del fallimento del progetto. Ci lasciano con un senso di inadeguatezza. Dall’altra parte c’è invece la sorpresa di trovarvi tantissime risorse, quindi di non sentirsi da soli. Spesso, infatti, si scoprono importanti reti di associazioni, comitati, gruppi, istituzioni locali, con le quali è fondamentale sviluppare una relazione. La “marginalità” delle periferie sollecita fortemente il ruolo dei saperi: ha un carattere generativo, perché è capace di offrire una prospettiva radicale da cui guardare, creare, immaginare alternative. Io penso però che oggi le periferie più che marginali, rischino di essere marginalizzate; cioè subiscono un processo per cui la città le mette ai confini delle dinamiche di sviluppo.

Nanterre chiama, le città rispondano!

Per interpretare le recenti vicende francesi è utile inquadrare le criticità e il ruolo delle città e degli spazi attraversati dalle rivolte e dai disordini seguiti all’uccisione di Nahel Merzouk a Nanterre. Lo spazio urbano non è, infatti, solo uno sfondo inanimato o ininfluente ma un punto di osservazione privilegiato per aiutare a comprendere questi eventi. E, se si volesse, anche per provare a intervenire cercando di indirizzare un qualche cambiamento. Ovviamente non si possono ignorare le cruciali e tutt’altro che inusuali violenze delle forze dell’ordine sospese, non solo Oltralpe, tra senso di impunità e razzismo. Né si possono trascurare le storiche criticità di un modello di assimilazione che non ha mai fatto fino in fondo i conti con il recente passato coloniale (e, quindi, con la presunta superiorità usata per giustificare sopraffazioni e rapine). Tuttavia, questi fatti avvengono in luoghi di segregazione e marginalizzazione – come molte aree periferiche (non solo geograficamente) di tante città del mondo – nei quali il legame tra degrado fisico degli spazi e degli edifici si combina con un contesto economico e sociale deprivato, nella spesso totale assenza di politiche mirate e di interventi pubblici in favore dei cittadini in difficoltà o anche solo “left behind”, lasciati indietro.