Arte e spazio pubblico è il titolo di un recente volume (Silvana editoriale) che contiene gli esiti di una ricerca avviata nel 2021 dalla Direzione generale Creatività contemporanea del ministero della Cultura e dalla Fondazione scuola dei beni e delle attività culturali per raccogliere approfondimenti, testimonianze e riflessioni sull’arte contemporanea nello spazio pubblico.
Un intenso lavoro che documenta l’attualità del tema con un considerevole numero di esperienze, comprendente oltre 100 autori non solo italiani, una ricerca particolarmente interessante perché si propone di cogliere il modo in cui sono cambiate «le premesse teoriche e le pratiche progettuali dal secondo dopoguerra ad oggi» riguardo l’arte nello spazio pubblico.
Questo fenomeno così complesso è stato indagato attraverso la raccolta di più di duecento contributi scritti di autori che rappresentano tutti i soggetti coinvolti con una prevalenza di ricercatori universitari, seguiti da operatori e critici d’arte, funzionari pubblici, rappresentanti di gruppi sociali e artisti.
Il museo senza pareti
Residenze d’artista che fanno la differenza
Il 12 luglio a Napoli, è stata incendiata la monumentale Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto, inaugurata a giugno nell’ambito di “Open. Arte in centro”, programma d’arte pubblica sostenuto dal Comune di Napoli e curato dal critico Vincenzo Trione. Ne è scaturito un ampio dibattito. Quale è il destino dell’arte pubblica? Le opere d’arte contemporanea possono vivere fuori dai musei? Intervenendo a Tutta la città ne parla su Radiotre Trione osserva: «Ho visto tantissime persone, famiglie, stranieri che si avvicinavano all’opera, spesso toccavano gli stracci, si fotografavano, ed è un’opera tra le più ripostate sui social che io abbia visto, pare quasi concepita per il web». Un dato interessante che emerge è che l’arte pubblica ha il merito di riposizionare il lavoro dell’artista nella realtà, fuori dai musei e dalle gallerie, in uno spazio in cui il confronto con il pubblico diventa obbligato. Di norma invece, nel circuito dell’arte contemporanea che si svolge prevalentemente negli spazi privati delle gallerie, la fruizione delle mostre rimane confinata agli addetti ai lavori. L’indifferenza del pubblico, distante e poco presente agli eventi che animano l’arte contemporanea, non sembra mettere in crisi un sistema dell’arte che archivia il problema appellandosi all’ignoranza e all’incompetenza. Ma la realtà forse è più complessa e varrebbe la pena approfondire la questione.
La più grande invenzione umana? La città
Non bisogna essere dei geni per rendersi conto che le città non se la passano bene di questi tempi. Uno sguardo allargato, spaziando dalle banlieue parigine alle città storiche di casa nostra, alle inarrestabili sempre più numerose megalopoli, ci propone quasi esclusivamente visioni allarmanti.
Non era esattamente in questo mondo che speravamo di vivere; abbiamo sempre creduto che la città fosse l’invenzione umana più importante, generatrice di movimento, di complessità, di idee, di bellezza. Ma qualcosa ci sta facendo deragliare.
Cosa sta influendo su questo inarrestabile processo involutivo? Verrebbe da dire: dove ci siamo persi? Ma quest’ultima domanda presuppone l’esistenza di un “prima”, cui attribuire una valenza positiva; ma è veramente così?
Ci stiamo ponendo domande difficili, perché ovviamente la situazione è molto variegata, non tutto è omogeneo, ci sono enclaves di grande fascino, ma è l’insieme che tradisce le nostre aspettative, mette in crisi le nostre speranze… Tornano in mente i versi di Brecht (1934): «Nessuno o tutti – o tutto o niente. Non si può salvarsi da sé».
Un punto di partenza obbligato per costruire alcune riflessioni non può che partire dalla pandemia. In quella lunga stagione di isolamento guardavamo alla città, ma, in verità, al nostro futuro, con apprensione ma soprattutto con speranza (“niente sarà più come prima”).
La magia di quella vela di Avetrana
La pagina Facebook “La Piazza di Avetrana”, dedicata con oltre 7.200 followers a “storia, cultura, tradizioni ed eventi della città di Avetrana”, in provincia di Taranto, ha scelto come immagine di copertina una foto della piazza civica con la sistemazione ideata dallo psichiatra Massimo Fagioli (1931-2017). Anche la pagina di Tripadvisor su Avetrana propone numerose foto di questa realizzazione. E pure il sito del ministero del Turismo www.italia.it (ben noto negli ultimi tempi per la discussa campagna pubblicitaria “Open to meraviglia”), ha scelto come immagine per rappresentare Avetrana proprio una foto di quella piazza con quella fontana. Si direbbe dunque che in pochi anni, da quando era stata ultimata nel 2004, fosse divenuta un elemento identitario forte della città, la sua stessa immagine.
Quindici anni fa feci un viaggio sulle tracce dell’Appia antica partendo da Roma fino a Brindisi e una sera, superata Taranto, mi fermai nella cittadina salentina, forse proprio per andare a vedere quella piazza nel cuore del centro storico che raccontava delle “Malie della strega” (ideazione Massimo Fagioli, progettiste Anna Guerzoni e Isa Ciampelletti, scultura di Alessandro Carlevaro, consulenti Mario Contaldi, Aldo Lazzeri, Leonardo Luciani, Luciano Mantelli, Francesco Mirone, Alfonso Posati, Emilio Rivetti, committente Comune di Avetrana, imprese Schiavoni e Romano, progetto 1993-1995, realizzazione 1998, 2002-2004).
Michelangelo Pistoletto e Il linguaggio universale della fantasia
Maestro Michelangelo Pistoletto, l’incendio in piazza del Plebiscito a Napoli della sua Venere degli stracci è stato un femminicidio, lei ha detto in una intervista. La sua Venere è una immagine femminile che vive e si rigenera dal 1967 e nota in tutto il mondo. Come sta vivendo questo momento?
In realtà non è stata una mia espressione: devo alla mia compagna questa considerazione. Quando abbiamo saputo dell’incendio dell’opera ha reagito dicendo: “l’ho sentito come un femminicidio”. Mi ha colpito il suo commento sensibile, mi è parsa molto significativa questa sua intuizione. Concretamente il fuoco è stato appiccato agli stracci. Ma hanno bruciato la Venere insieme ad essi. L’attacco morale di fondo, oltreché estetico, è la Venere che rappresenta la femminilità, che attraversa tutta la storia dell’umanità come emblema di bellezza, di sensibilità, di amore e di venerabilità.
Ha detto di voler incontrare la persona che è accusata di aver incendiato l’opera. Accadrà?
Avevo chiesto di poterlo incontrare quando era stato ipotizzato si trattasse di un clochard. Ma dalle indagini di polizia sembra emergere qualcosa di diverso. A questo punto non voglio intromettermi nel loro lavoro. Non so quali siano state veramente le motivazioni che hanno fatto scattare questo gesto incendiario e mi rendo conto che non posso in un rapporto così, amichevole, arrivare alla verità.
La strage di Bologna e il treno palestinese
Quarantatré anni fa nella stazione di Bologna dei fascisti provocavano il più grave attentato nella storia d’Italia dopo la guerra. Come esecutori materiali sono stati individuati dalla magistratura alcuni militanti di estrema destra, appartenenti ai Nuclei Armati Rivoluzionari, tra cui inizialmente Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Nel 2020 l’inchiesta della Procura generale di Bologna ha concluso che Paolo Bellini (ex Avanguardia nazionale), esecutore insieme agli ex Nar già condannati in precedenza, avrebbe agito in concorso con Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi, individuati quali mandanti, finanziatori o organizzatori.
Quarantatré anni dopo a Lonate Pozzolo, Comune lombardo su cui sorge l’aeroporto di Malpensa, il leghista Armando Mantovani durante una seduta del Consiglio comunale ci dice che è tutto falso. La strage di Bologna, secondo Mantovani, sarebbe stata provocata da un “vagone palestinese fatto esplodere apposta a Bologna”. Quando i suoi colleghi consiglieri gli fanno notare che ci sono le sentenze lui replica: “Se leggete solo una certa propaganda (le sentenze di tribunale), infatti però il treno era quello dei palestinesi”. E poi insiste: “Macché storia ragazzi, non sapete ancora perché hanno tirato giù Ustica e mi venite a parlare di Bologna?”.
Armando Mantovani non è un mezzo matto eletto per caso. Mantovani è il segretario della Lega di Salvini a Lonate Pozzolo, quasi 12mila abitanti per 30 km quadrati. Qui siamo oltre al negazionismo del suo segretario e ministro Salvini che impartisce ridicole lezioni di clima: qui siamo al revisionismo storico per salvare i fascisti, i neofascisti, i quasi fascisti. Nel giorno della commemorazione un dirigente politico (eh, sì) decide di sputare sulle vittime per concimare il suo elettorato. La morale della storia non ha nemmeno bisogno di essere scritta.
Buon mercoledì.
Lo stato di crisi permanente, ecco ciò che vogliono i capitalisti e le destre
Come funziona il capitalismo reale? In che rapporto stanno Potere e profitto? Le crisi aprono spazi di opportunità: sempre? Il problema della sinistra in Italia è di essere troppo oppure troppo poco “populista”? Machiavelli può essere considerato il padre nobile del populismo? Ma cos’è in fondo il populismo, al netto della repulsa delle tecnocrazie e delle sinistre liblab?
Queste sono solo alcune domande e riflessioni al centro del densissimo saggio di Tommaso Nencioni Crisis. Non c’è che crisi. La permacrisi come modalità di governo delle nostre società uscito recentemente per i tipi di Asterios. Il punto di avvio della serrata argomentazione è costituito dal ribaltamento di un topos pernicioso: che le crisi debbano risolversi sempre positivamente, come sottolineava il sociologo della Scuola di Francoforte Wolfgang Streeck in Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico e soprattutto che le crisi debbano e possano risolversi, prescindendo dell’esito delle stesse, riprendendo alcune riflessioni di Reinhart Koselleck.
La tesi dell’autore è brutale e di grande forza esplicativa: lo Stato neoliberale non si propone di governare la crisi, ma di governare attraverso uno stato di crisi permanente. La crisi non è l’evento traumatico che fonda una nuova realtà statuale che accolga e risponda allo spirito del tempo, come lo furono lo Stato sovietico di Lenin, lo Stato corporativo dei fascismi e lo Stato sociale del New Deal a fronte della Prima guerra mondiale e della crisi del 1929. La crisi è la normalità che informa lo spirito e le leggi del capitalismo reale contemporaneo, caratterizzate dalla impermeabilità alle rivendicazioni materiali delle classi subalterne, resecando l’eccesso di democrazia che, secondo il Rapporto sulla governabilità della democrazie redatto dalla Commissione Trilaterale nella metà degli anni Settanta avrebbe caratterizzato – in negativo dal loro punto di vista – le società post Seconda guerra mondiale attraverso la rottura del nesso dialettico conflitto e istituzioni.
Dalla crisi del 2008 non si è mai usciti perché questa è stata la scelta politica delle classi dominanti nordamericane ed europee e per comprendere teoricamente e politicamente gli anni che stiamo vivendo occorre andare alla crisi degli anni Settanta, quando il socialismo – come citano in una canzone gli Offlaga Disco Pax – era in espansione come l’universo. Nella vittoria conseguita a partire da quello che era stato il punto più basso del consenso al capitalismo sul piano internazionale risalgono le radici del tempo presente. Nella rottura “da destra” del patto sociale socialdemocratico che aveva garantito l’uscita dalla crisi del 1929 e tenuto al riparo il mondo oltre la cortina di ferro dai rischi del socialismo e del comunismo.
I capitalisti avevano infatti compreso ben prima e meglio di gran parte del movimento socialista e comunista occidentale i rischi della trappola di Kalecki. L’economista polacco di origine ebraica già negli anni Quaranta metteva in guardia dal considerare definitive le conquiste che stavano alla base del consenso keynesiano: messe in campo per salvare il capitalismo da sé stesso e per sottrarre le classi lavoratrici e le forze politiche di riferimento dai rischi di rotture rivoluzionarie, le politiche del pieno impiego e del welfare state avrebbero nel medio periodo messo in forse gli equilibri di potere che rendevano possibili i profitti all’interno delle società capitalistiche. È vero che i profitti sarebbero stati elevati in regime di pieno impiego, ma la disciplina e la gerarchia nella fabbrica e nella società, e la conseguente stabilità politica, erano apprezzati maggiormente da parte dei capitalisti rispetto agli stessi profitti. Il successo della politica keynesiana si sarebbe rivelato in ultima istanza una trappola per il capitalismo, poiché pur assicurando ampi profitti metteva in discussione il Potere nella fabbrica, nella società e nello Stato.
Tra il Profitto ed il Potere, i capitalisti hanno sempre scelto il Potere, perché è il Potere che garantisce un assetto sociale che garantisce i profitti. La gigantesca fabbrica fordista-taylorista garantiva profitti enormi nel processo di sussunzione reale della forza lavoro e nelle economie di scala ma produceva elementi di contropotere che da dentro la fabbrica si estendevano all’intera società. Il decentramento produttivo, la catenine che tornavano negli scantinati, la retorica del piccolo è bello, l’esaltazione dei distretti di piccola e media impresa erano la risposta politica delle classi dominanti al ciclo lungo di mobilitazione operaia degli anni Sessanta e Settanta. Come ben scriveva Franco De Felice nel suo saggio nella einaudiana Storia dell’Italia repubblicana, «con la scelta del decentramento la grande impresa acquisisce un ruolo diretto di riorganizzazione sociale, con la costituzione di un polmone che assorbe, filtra e controlla una fascia consistente di lavoro precario e svolge un ruolo oltre che di stabilizzazione, di isolamento delle punte più agguerrite e combattive della classe operaia organizzata». L’iniziativa sul piano economico e sociale della controffensiva padronale era accompagnata e preceduta da una azione che si svolgeva sul piano ideologico e culturale, tesa a riaffermare la centralità dell’Impresa contro la centralità del Lavoro, rinsaldando la scossa identità di classe della borghesia (si veda a questo proposito sul versante italiano la traiettoria del Progetto Valletta della Fondazione Agnelli).
Questa considerazione di Nencioni ripresa da Michal Kalecki ci dice alcune cose importanti: sul piano storico-politico quanto fossero politicamente avanzate sia la strategia della democrazia progressiva del Pci che il ruolo svolto dal Psi nelle prime esperienze di centrosinistra degli anni Sessanta, sia e soprattutto quanto sia oggi stupido e sterile chiedere ai padroni di risolvere la crisi a favore degli strati popolari o degli interessi di un astratto Paese. Un imprenditore investe il proprio danaro, meglio se gli viene regalato dai contribuenti, dove è migliore il rapporto tra redditività e rischi, dove i rischi sono anche quelli di migliorare le condizioni materiali delle classi lavoratrici a tal punto da potersi addirittura sottrarre al ricatto di dover vendere la propria forza lavoro solo al costo della riproduzione bruta della stessa.
La campagna della destra politica e di Confindustria contro il salario minimo orario ed il reddito di cittadinanza è una scelta di natura politico-ideologica preventiva, così come il killeraggio politico effettuato per conto terzi da parte di Matteo Renzi nei confronti del governo Conte II era motivato dall’evitare che il ritorno del bisogno di protezione sociale e del ruolo dello Stato potesse assumere i contorni di una nuova espansione progressiva dei concetti e dei bisogni di sicurezza e protezione, che dalla sanità al bisogno di socialità reintroducesse elementi di economia mista, statale e magari anche affidata al sistema delle autonomie locale, partendo dai servizi pubblici locali per arrivare alle reti logistiche ed infrastrutturali materiali ed immateriali. I padroni sanno cosa fanno, smettiamola di affidare a loro la risoluzione dei nostri problemi fornendo consigli che dovrebbero ascoltare. Se l’obiettivo sistemico della controffensiva segnata dal Rapporto della Commissione trilaterale era tornare a separare il conflitto dalle istituzioni, il nostro compito è riannodarli. È questo il concetto di populismo – e la sua funzione progressiva – che Nencioni propone e rivendica sulla scia delle considerazioni di Ernesto Laclau, riprendendo un filo che da Machiavelli arrivava fino ad Antonio Gramsci. Certo, per superare la china ci sarebbe bisogno di militanza e di Partito, di conflitto e di teoria. Il denso e stimolante contributo con il quale ci siamo confrontati va nella giusta e necessaria direzione, ed è per questo auspicabile una campagna di presentazione e di discussione collettiva.
L’autore: Maurizio Brotini, segreteria Cgil Toscana
Nella foto: il celebre murale di Banksy contro la schiavitù capitalistica, New York, 2018
Come va in Emilia Romagna dopo l’alluvione? Zero
I fondi stanziati col decreto del 6 luglio “sono insufficienti quelli per la ricostruzione pubblica, assenti quelli per i privati. Ad oggi, dopo quasi tre mesi, i cittadini hanno ricevuto solo i primi 3 mila euro che come Regione, insieme alla Protezione civile nazionale, abbiamo stanziato con procedure spedite. Ma è un contributo di primo sostegno”. L’ha detto Stefano Bonaccini, presidente di quell’Emilia Romagna travolta dagli alluvioni e dimenticata per convenienza elettorale.
Alle imprese non è arrivato “nulla, e non sanno ancora come verificare e periziare i danni. Comuni, Province, Consorzi di Bonifica e Agenzia regionale di protezione civile non vedono un euro da settimane. Il governo ha sottovalutato un punto che pure avevamo evidenziato in modo ossessivo fin dal primo giorno: il fattore decisivo è il tempo, perché i lavori per mettere in sicurezza fiumi e frane e ripristinare le strade vanno fatti in estate”. Col governo “non c’è il raccordo che auspicavamo”. Al contrario, “il raccordo con la struttura del Commissario Figliuolo è pressoché quotidiano. Ma con poche risorse e procedure non definite o sbagliate anche il Commissario non può fare miracoli”.
Quello zero alle imprese che dovrebbero (e vorrebbero ripartire) può avere solo due significati. O è una scelta deliberata – e quindi questo è un governo che boicotta le Regioni in mano al centrosinistra per concimare le elezioni successive – oppure è un governo assolutamente incapace di mettere i cittadini e le imprese in condizione di poter ripartire. In Emilia Romagna siamo ancora all’anno zero. Con la solidarietà non si ricostruiscono le strade e le case. Entrambe le ipotesi sono spaventose.
Buon martedì.
Nella foto: il Ponte della Motta sull’Idice crollato
«Io, Madeleine, vittima di tratta in Italia»: una storia di sfruttamento, disperazione e riscatto
«Ci aspetta al capolinea degli autobus, dobbiamo sbrigarci». Alla guida della macchina c’è Marta Mearini, una sociologa di BeFree, cooperativa sociale che opera all’interno di una rete nazionale antitratta. Ha ricevuto una richiesta di aiuto da parte di una ragazza che ha passato tutta la notte in fuga dai suoi aguzzini a bordo di un autobus, viaggiando da un capo all’altro dell’Italia. Non c’è tempo da perdere perché le persone da cui è scappata la staranno già cercando. Dopo qualche decina di chilometri di strade di campagna, la intravediamo al capolinea degli autobus, sul ciglio della strada e lontana dagli altri pochi passeggeri presenti.
Madeleine è una ragazza di 33 anni originaria del Congo Brazzaville, sola, spaventata. È in Italia da meno di 36 ore e con ogni probabilità sono state le peggiori di tutta la sua vita.
Mearini si avvicina con discrezione, qualche scambio in francese per riconoscersi, per fidarsi l’una dell’altra, e poi via verso un luogo sicuro. Quello che sta avvenendo sotto ai nostri occhi si chiama “estrazione” e si mette in moto nel momento in cui una ragazza, vittima prima di tratta e poi di sfruttamento, riesce a sottrarsi alla sua prigionia e a chiedere aiuto. L’obiettivo dell’operazione è di portarla in una struttura protetta nel minor tempo possibile.
Dal 2007 ad oggi la cooperativa BeFree ha supportato oltre 1000 donne sopravvissute a tratta di esseri umani a scopo di sfruttamento, soprattutto sessuale. Più in generale, i numeri ufficiali del Dipartimento per le Pari opportunità dicono che dal 2016, da quando cioè esiste una elaborazione dei dati coordinata a livello nazionale, sono stati 12.500 i casi di donne identificate come vittime di tratta. «E il timore è che questa sia solo la punta dell’iceberg» ci confessa Francesca De Masi, sociologa di BeFree, mentre ci apre le porte della struttura che ospiterà Madeleine. Si chiama “casa di fuga” ed è un luogo dove si da la possibilità a queste ragazze di sentirsi al sicuro e avere il tempo e il sostegno necessari per analizzare cosa è accaduto, elaborare il trauma e provare a ripartire. La prima tappa di un percorso di autonomia che durerà mesi, o addirittura anni.
Madeleine si unirà alle altre ragazze già presenti in casa. «Le loro storie sono molto diverse, terribili ognuna a modo suo – continua De Masi – eppure hanno tutte un minimo comune denominatore. Queste ragazze si sono fidate di qualcuno che ha promesso loro una vita migliore in Europa. E invece nel momento esatto in cui hanno messo piede in Italia, la loro vita è diventata un inferno». Come è successo a Samira, marocchina, che per ottenere un visto ha accettato di sposare un italiano di ottant’anni e si è ritrovata in una condizione di schiavitù, controllata a vista notte e giorno. C’è Florence, dal Ghana, che è persino passata sotto le bombe russe in Ucraina prima di arrivare a Caserta e scoprire una condizione ancora peggiore della guerra, prigioniera di chi le aveva pagato il viaggio per l’Europa. E infine c’è Grace, partita dalla Nigeria con la sua gemella. Ha attraversato il deserto, i lager libici e il Mediterraneo, ma è a Torino che ha incontrato i suoi sfruttatori. Nel frattempo, è rimasta sola, sua sorella è morta in un incendio in Libia. Sono passati tre anni, ma Grace non ha ancora trovato il coraggio di raccontarlo ai genitori e durante le loro videochiamate interpreta entrambi i personaggi, tenendo in vita la sorella, almeno fino alla prossima telefonata.
Nonostante la loro giovane età, tutte queste ragazze hanno già subito una serie impressionante di traumi, da cui all’occhio di un osservatore esterno appare impossibile riprendersi. Eppure succede. Il racconto di quello che è successo è il primo passo verso la risalita, il momento più duro- Lo è anche per Madeleine.
Il suo racconto inizia dall’orgoglio per il titolo di studio, laurea in gestione delle risorse umane con tanto di master. Nonostante la formazione di alto livello però, in Congo Brazzaville non è riuscita a trovare un lavoro nel suo campo, così si arrangia lavorando come commessa in un piccolo negozio di quartiere. La svolta avviene quando un giorno entra in negozio una signora molto elegante. «Ha iniziato a farmi tanti complimenti, per il mio portamento, il mio modo di esprimermi. Mi ha detto che ero speciale, non come le altre ragazze che vedeva in giro. Poi ha aggiunto che lei lavorava in Italia e che laggiù una ragazza in gamba come me non avrebbe avuto problemi a trovare lavoro». Ad ammaliare Madeleine con le sue parole lusinghiere è una cosiddetta “madame”, una donna spesso originaria di quello stesso quartiere, quasi sempre vicina alle famiglie delle ragazze, che forte della fama di una vita in Europa esercita sulle sue vittime una grande capacità di persuasione. Si insinua nelle insoddisfazioni e nelle aspirazioni di una vita migliore di queste giovani donne e basta davvero poco per convincerle a seguirla in un altro continente. Anche la madame che ha agganciato Madeleine ha seguito lo stesso schema. Promette di aiutarla con la richiesta di documenti, si offre di pagarle il viaggio, sottolinea di non preoccuparsi dei soldi, quelli glieli ridarà con calma quando avrà un buon lavoro in Italia. Su quello non ci sono dubbi, ne è sicura. «In quel momento ho sentito di avere una opportunità unica, irripetibile – continua Madeleine – Non mi sembrava vero. Ed infatti non lo era».
Passano poche settimane e, forte anche del suo titolo di studio, Madeleine riceve il visto e un biglietto aereo di sola andata per l’Italia. È tutto pronto, quella che sembrava una vita irraggiungibile e lontana adesso è a portata di mano. Arriva a Roma in un rigido giorno d’inverno, ad attenderla in aeroporto non c’è la madame, ma un uomo incaricato di condurla da lei. Il viaggio non è breve, direzione nord Italia, provincia di Vicenza. «Arriviamo davanti ad una grande casa e vedo subito la madame venirmi incontro, era già lì. Sorridente e accogliente, come me la ricordavo». La madame gli mostra la casa e le presenta le altre ragazze che ci abitano. Hanno l’aria un po’ dimessa, ma sembrano simpatiche, Madeleine è contenta di avere compagnia. Le viene mostrata anche la sua stanza, tutta per sé, dove può sistemare le sue cose e riposarsi dal lungo viaggio. «Quando ho chiuso la porta della mia stanza ho pensato: ce l’ho fatta. Sono in Europa!». Passa solo qualche ora e a quella stessa porta bussa di nuovo la madame. Questa volta è accompagnata da due uomini, uno dei due parla italiano. «Mi si sono avvicinati, mi parlavano con calma. Uno dei due inizia a toccarmi e ho trovato la cosa un po’ strana – riprende il racconto Madeleine – La madame si è accorta della mia resistenza e mi ha detto che dovevo lasciarlo fare, mi dice che questo è il mio lavoro adesso. Devo lasciarmi fare tutto e andrà tutto bene». È in quel momento che crolla il castello nella testa di Madeleine, in un colpo solo. Ha sempre saputo che quel viaggio non era gratis, ma non immaginava che accettando avrebbe contratto un debito di ventimila euro. È quella la cifra pretesa dalla madame e non la lascerà andare via finché non l’avrà ripagata fino all’ultimo centesimo. A prendere il sopravvento è l’ansia di trovarsi in trappola e soprattutto la vergogna per essere stata così ingenua da fidarsi ciecamente di quella donna. È qui che la voce di Madeleine si spezza e il racconto si interrompe.
Quella sera stessa Madeleine fa una cosa che non tutte le ragazze che si sono trovate nella sua condizione riescono a fare: scappa. Lo fa con solo quello che ha addosso, senza un euro in tasca, senza sapere una parola di italiano, sola e in una zona remota di provincia di un paese che non ha mai visto prima in vita sua. Protagonista e vittima di una brutta storia di tratta, una delle tante storie di tratta che avvengono ogni giorno intorno a noi, sul territorio italiano. Una storia di sfruttamento, di paura, di disperazione. Ma anche di riscatto.
Il reportage “Trattamento speciale” nel programma “Il Fattore umano”, 31 luglio
La vita che Madeleine e altri migranti si trovano ad affrontare una volta arrivati in Europa è raccontata nel reportage “Trattamento speciale” di Raffaele Marco Della Monica e Raffaele Manco, in onda lunedì 31 luglio nel programma “Il Fattore umano” (23.15 su Rai3).

“Il Fattore umano” è un format di Raffaella Pusceddu e Luigi Montebello (con la collaborazione di Elisabetta Camilleri e Antonella Palmieri, regia di Luigi Montebello), che fa da fact-checking per monitorare quanto i diritti umani siano realmente rispettati nei Paesi del mondo. La voce narrante di “Trattamento speciale” è quella dello scrittore tanzaniano Abdulrazak Gurnah, Premio Nobel per la Letteratura nel 2021, conferitogli, si legge nelle motivazioni, «per la sua intransigente e compassionevole penetrazione degli effetti del colonialismo e del destino del rifugiato nel divario tra culture e continenti».
NB I nomi delle vittime di tratta e alcuni dettagli biografici sono stati cambiati al fine di proteggere il loro anonimato
In apertura, Madeleine, Congo, foto Raffaele Manco e Raffaele Marco Della Monica
Le prossime commissioni d’inchiesta
Non accontentandosi di avere demolito il Reddito di cittadinanza per il solo gusto di martellare il nemico, ora dalle parti della maggioranza di governo si pensa di istituire una commissione d’inchiesta per martellare l’ex presidente Inps Tridico. Per loro la Commissione d’inchiesta non è altro che la possibilità di fare opposizione stando al governo, continuando a innaffiare il vittimismo che – per ora – li tiene elettoralmente in vita.
Specularmente alla Commissione d’inchiesta sul Covid ciò che conta è semplicemente fingere di accontentare la promessa ai loro elettori più esagitati: “Non solo vinceremo ma gliela faremo anche pagare”. Il governo, da quelle parti, si esercita con il controllo e la vendetta. Sarà per questo che qualcuno si sgola per sottolineare la preoccupante vicinanza con le modalità e il pensiero dei tempi più bui.
Dopo la Commissione d’inchiesta “sui furbetti del Reddito di cittadinanza” Giorgia Meloni potrebbe istituire anche una Commissione d’inchiesta su coloro che la pensano diversamente da lei e si permettono di smentirla pubblicamente; magari potrebbero mettere in piedi una Commissione d’inchiesta su quegli screanzati che si permettono di presentarsi alle elezioni al di fuori della sua coalizione, poi una Commissione d’inchiesta su queste maledette Ong che continuano a essere assolte in tribunale, poi una Commissione d’inchiesta su Libera e l’antimafia, infine una Commissione d’inchiesta su chi scrive articoli d’inchiesta sulle loro Commissioni d’inchiesta.
L’importante è avere ogni giorno un nemico chiaro, facilmente individuabile, da offrire all’altare dell’odio quotidiano. Se riusciranno ad ammansire i loro elettori con una vendita al giorno nessuno di loro gli chiederà “per il resto cosa state facendo”. Devono essere convinti che funzioni. Beati loro.
Buon lunedì.










