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Per la riforma delle pensioni aspettiamo settembre

«Cercate di promettere un po’ meno di quello che pensate di realizzare se vinceste le elezioni». È un’affermazione di Alcide De Gasperi che, è innegabile, ben si intendeva di politica, di governo e anche di elezioni. E che comprendeva perfettamente – lo testimoniano le tante scelte difficili e pagate anche a caro prezzo – il valore della credibilità.
Questa semplice lezione di uno dei più grandi politici della nostra storia sembra non faccia parte del bagaglio culturale della politica corrente.

Per fare un esempio, il “superamento della legge Fornero” attraverso una riforma del sistema pensionistico, è un argomento standard di campagna elettorale. Esso richiede l’introduzione di forme di flessibilità che permettano un anticipo rispetto ai 67 anni resi, generalmente, obbligatori per il ritiro dal lavoro da quella normativa. Con le dovute eccezioni di anticipo: lavori usuranti, Ape Sociale, Opzione Donna, Isopensione, Contratto di Espansione e Quota 103. Lo è di sicuro per la Lega. Che ha più volte rivendicato il compimento di questa azione attraverso le cosiddette “Quote” – da 100 a 103 – che sono, in realtà, “finestre” per lavoratori che abbiano avuto una carriera lunga e continua e rientrino in parametri anagrafici e contributivi di un certo spessore: Quota 103 richiede 41 anni di contributi versati e 62 anni d’età.

Ora, la maggioranza Meloni si è trovata fin dall’inizio di fronte a una situazione del Bilancio pubblico gravata dal peso di un enorme indebitamento e, sulla spinta possente dell’inflazione, da una crescita dei tassi d’interesse che moltiplica il peso di quel debito. E, ancora una volta, la promessa elettorale della riforma del sistema pensionistico è andata a sbattere contro la realtà.
La realtà non è una colpa politica; l’overpromising, l’eccedere in promesse, come ricorda l’affermazione di De Gasperi, sì. Overpromising che può trasformarsi in ansia da prestazione. Con la conseguenza, come hanno denunciato i sindacati, in particolare lo Spi-Cgil, di incappare in un “infortunio”. Un infortunio denominato “Aumento pensioni basse 2023”. Di che si parla? Nel 2007, quando ero ministro del Lavoro del secondo governo Prodi, introducemmo la quattordicesima mensilità per le pensioni più basse. Misura che è stata prorogata per tutti gli anni a seguire. Così, ha spiegato il 29 giugno il sindacato dei pensionati della Cgil, «dalla verifica effettuata su alcuni cedolini delle pensioni del mese di luglio si evince che l’erogazione della quattordicesima mensilità, frutto di un’importante conquista del sindacato risalente ormai al 2007 e ulteriormente allargata nel 2016, viene indicata sotto la voce ‘aumento pensioni basse 2023’». Passerebbe così il messaggio che dietro quelle somme ci sia una decisione del governo in favore delle pensionate e dei pensionati italiani e che possa trattarsi di un aumento che verrà garantito mensilmente. Nulla di tutto ciò è vero».

L’incidente è rientrato il giorno seguente, quando l’Inps ha annunciato che avrebbe provveduto alla revisione dei cedolini di luglio 2023. «I pensionati che nel mese di luglio 2023 – spiega un comunicato dell’Istituto – percepiranno la cosiddetta quattordicesima mensilità e l’incremento della pensione uguale o inferiore al trattamento minimo possono consultare il loro cedolino in cui sono identificate in modo separato le due voci. Si precisa che nei cedolini le due somme sono ora identificate rispettivamente come quattordicesima – legge 3 agosto 2007, n.127) – credito anno 2023, e incremento legge 197/2022. A ognuna delle voci corrisponde una nota illustrativa riportata in coda al cedolino stesso. La dicitura ‘aumento pensioni basse 2023’, erroneamente riportata per una ridotta platea di pensionati, è stata cambiata al fine di semplificare la lettura dei diversi importi specifici».

L’episodio ha, probabilmente, avuto un impatto più forte perché manifestatosi alla fine di una settimana nella quale il rapporto tra governo e sindacati, sul tema previdenziale, si è fatto, più che mai, teso. Ciò, nonostante la giusta scelta del ministro del Lavoro Marina Calderone, di cercare di mantenere aperto un canale di dialogo sociale attraverso l’incontro con i sindacati tenuto lunedì 26 giugno. Ci sono state distinte valutazioni tra i sindacati. Chi, come il segretario nazionale della Cgil Maurizio Landini ha bollato come “totalmente inutile” l’incontro con l’accordo del segretario della Uil Pierpaolo Bombardieri. Chi, come il leader della Cisl, Luigi Sbarra, ha comunque apprezzato la ripresa del dialogo.

È chiaro però, a tutti, che la partita è rimandata all’autunno, quando, in base agli spazi di finanza pubblica disponibili per la legge di Bilancio per il 2024, potranno essere individuate le opzioni perseguibili. Le intenzioni del governo potrebbero essere la conferma di Quota 103 come forma di anticipo pensionistico, mentre poter andare in pensione con 41 anni di contributi senza vincoli anagrafici proposta in campagna elettorale diventa “obiettivo di legislatura”; l’allargamento a piccole e medie imprese del contratto di espansione, che prevede un regime di aiuti per la riorganizzazione delle aziende, incluso l’esodo anticipato fino a cinque anni (esteso a sette) dei lavoratori con assegno ponte a carico dei datori di lavoro; una qualche forma di promozione della previdenza complementare; la revisione e l’ampliamento dell’Ape sociale. Mentre non sono in vista garanzie in merito al ritorno alla vecchia Opzione Donna.

Nessuna indicazione per quel che riguarda i giovani, che hanno di fronte a sé carriere discontinue in regime contributivo: cioè, pensioni povere che richiederebbero qualche forma di garanzia, come propongono i sindacati.
Su tutto quanto è, intanto, piombata la sentenza della Consulta che ha giudicato incostituzionale il differimento del Tfs, cioè del Trattamento di fine servizio, corrispondente al Tfr per i dipendenti privati. L’erogazione non più rimandabile del quale appesantirebbe ulteriormente i conti dell’Inps. In merito si stanno valutando le ipotesi di intervento.
Ciò che rimane assodato in quest’inizio di estate del 2023 è l’incertezza sul futuro del sistema previdenziale italiano. Adesso, come ci ricorda De Gasperi, il problema è realizzare quello che si è promesso. Vedremo. Il prossimo appuntamento è a settembre.

L’autore: Cesare Damiano, già sindacalista e parlamentare in tre legislature, è stato ministro del Lavoro ed è presidente dell’associazione Lavoro & Welfare

Nella foto: la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e la ministra del Lavoro e delle politiche sociali Maria Elvira Calderone, Roma, 30 gennaio 2023 (governo.it)

 

Gli scontri in Francia e l’esterofilia solo quando serve

All’ombra di una politica che parla di tutto, sentenzia su ogni cosa ed è capace di imballarsi un paio di giorni sui nomi che dovremmo dare ai nostri animali domestici per non togliere il sorriso alla ministra Roccella oppure su Sgarbi che a sorpresa fa lo Sgarbi, le proteste francesi scoprono un nervo del dibattito politico italiano: l’esterofilia solo quando torna utile.

La nostra classe politica commenta con piglio da generale l’invasione dell’Ucraina, indossa stellette da ammiraglio per analizzare (male) gli sbarchi nel Mediterraneo, assume la posa del missionario per rivenderci il “piano Mattei” in Africa, discute di elezioni statunitensi con la sicumera del corrispondente ma sulla Francia spiccica a malapena qualche parola di circostanza.

C’è da capirli. La rivolta dopo i fatti di Nanterre li costringerebbe ad affrontare temi che scottano a Parigi come scottano anche da noi. C’è un poliziotto che dice di “voler mettere una pallottola in testa” a Nahel che – guarda il caso- era un ragazzo di origine franco-algerina e infine gli mette una pallottola nel torace. C’è il depistaggio iniziale delle forze dell’ordine. C’è una legge che nel 2017 ha reso ancora più lasso l’utilizzo delle armi da parte delle forze dell’ordine (un’aspirazione anche molto italiana). C’è un presidente, Macron, che soffia sul liberismo fingendosi progressista che soffia sulla disuguaglianza sociale. Ci sono i poveri che sono sempre più poveri e che non intravedono futuro.

Problemi francesi, certo, ma temi italianissimi. A Parigi come a Roma la xenofobia istituzionale ha reso i francesi di seconda generazione abbastanza poveri per essere incazzati mentre li osserva con la pelle più scura dei francesi conformi. La miscela perfetta per concimare l’ignoranza dei nazionalisti. Così nell’imbarazzo della politica italiana godono gli xenofobi nostrani pregustando il futuro che potrebbe accadere anche qui e balbettano i progressisti che con troppa verve hanno decantato il modello Macron.

Buon lunedì.

Nella foto: frame del video sugli scontri a Nanterre

Dio, patria, famiglia e Tolkien. Così giovani, così vecchi gli under 21 di Meloni

Nostalgia del ventennio, inni alla patria, nazionalismo, xenofobia e saghe, fantasticherie fuori dal tempo. Sono il collante di Gioventù nazionale, la under 21 della presidente Giorgia Meloni, che si è riunita questo fine settimana al laghetto dell’Eur a Roma per la kermesse Fenix omaggiata da interventi di ministri, da Lollobrigida a Crosetto e Sangiuliano e del presidente del Senato La Russa che rimarca «La fiamma nel cuore, questo l’importante». Mentre il vice ministro Cirielli, prova a rilanciare la leggenda “Italiani brava gente”, “dimenticando” i crimini del colonialismo italiano.

Questi giovanissimi di Gioventù nazionale, stretti fra Almirante e fumettoni- senza offesa personale- stando alle loro idee, paiono usciti dalla naftalina delle peggiori pagine di storia. Scollati dalla realtà si infiammano quando il ministro della Cultura Sangiuliano annuncia celebrazioni di Stato per il cinquantenario della scomparsa di Tolkien, lo scrittore cristiano e conservatore, autore della saga Il signore degli anelli. Ed è storia arcinota: l’appropriazione dell’estrema destra italiana di Tolkien prese avvio con la prima traduzione del Signore degli Anelli del 1970, che fu pubblicata da Rusconi. L’esperto di esoterismo e religioni Elémire Zolla ne firmò la prefazione proponendo una lettura centrata sul simbolismo della trilogia e sul conservatorismo di Tolkien, che vagheggiava un astratto mondo antico in contrapposizione al moderno e si ergeva a voce del tradizionalismo contro il progresso.

Emarginate, ostracizzate, superate della storia, dopo la sconfitta del nazifascismo, in mancanza di altre idee, le destre anche in Italia negli anni Settanta si buttarono su un orizzonte da fumetto. A livello di immaginario, s’intende. Mentre concretamente praticavano vie violente. Lo stesso movimento sociale Msi si gettò su quel versante. Ed è in quella cultura che è cresciuta la premier Meloni. Il Fronte della gioventù iniziò così a brandire croci celtiche nere su campo rosso. E non era solo folklore. Fu una scia di violenza. Esponenti del Fronte della gioventù confluirono in gruppi neofascisti come Ordine Nuovo, Terza Posizione e Lotta Popolare. Nacquero così a Roma lo “spontaneismo armato” e i Nuclei armati rivoluzionari, una delle principali organizzazioni terroristiche dell’estrema destra italiana, in cui sono cresciuti Valerio Fioravanti e Francesca Mambro… Questo è il discorso importante che non mancheremo di continuare ad approfondire.

Ma torniamo per ora alla kermesse Fenix che è andata in scena questo fine settimana a Roma e alla confezione culturale, luccicante e apparentemente innocua che l’ha avvolta. Torniamo a Tolkien di cui la stessa Giorgia Meloni in più occasioni si è detta fan. E agli intellettuali organici della destra come il filosofo francese Alain de Benoist che, a sostegno della destra radicale, ha teorizzato una “nuova” destra antimodernista, anticapitalista, nazionalista, xenofoba, in nome di una identità europea cristiana e bianca da difendere a spada tratta. Alla base c’è una nostalgia per un passato mai esistito e la fantasticheria di un fascismo primigenio come quello vagheggiato dal barone Julius Evola.

Quali sono le ricadute culturali in Italia di questo mix culturale fatto di Tolkien, Benoist e Prezzolini e di altri idoli dell’attuale destra al governo vi chiederete? Pressoché nulle, oseremmo dire. Nel suo intervento alla kermesse Fenix il ministro Sangiuliano ha scodellato un “pacciugo” postmoderno citando Verdi, Mazzini e perfino Gobetti e Gramsci. Questi ultimi, antifascisti di chiara fama, che hanno pagato con la vita e il cui pensiero con tutta evidenza non è in alcun modo assimilabile a un orizzonte di destra.

Ma al di là dei discorsi ecumenici e confusi, ben più concreti sono stati gli annunci del ministro Sangiuliano che lasciano trasparire la matrice clerico post-fascista che impronta la politica del ministero.  Mettendo sullo stesso piano Michelangelo, Leonardo, Armani e la Ferrari come brand italiano.

“Da domani l’ingresso al Pantheon sarà a pagamento”, ha aggiunto orgogliosamente il ministro, non contento di aver sostenuto l’aumento esorbitante del biglietto degli Uffizi, teatro in questi giorni di una ondata di scioperi.

E se nel caso del museo fiorentino Sangiuliano aveva annunciato il provvedimento dicendo “tanto i ricchi turisti americani se lo possono permettere” infischiandosene dei pensionati, delle famiglie e dei disoccupati italiani, per quanto riguarda il Pantheon il titolare della Cultura ha detto candidamente che una lauta percentuale degli incassi andrà alla Diocesi di Roma. Altrettanto orgogliosamente il ministro ha annunciato la nascita del museo che accoglierà i bronzi di San Casciano. “Abbiamo già firmato il rogito con il cardinale”, ha detto il ministro fiero di dare 600mila euro alla Chiesa. Un ministero della cultura baciapile, come dio comanda, che sta con i preti e zappa l’orto con le esternazioni del sottosegretario alla cultura Sgarbi al MAXXI, del quale le opposizioni chiedono le dimissioni.

Per approfondire leggi Left in edicola fino al 6 luglio. Non lasciartelo sfuggire.
Left ha bisogno di te e tu hai bisogno di LeftIn foto: Il signore degli anelli, film Da Phyrexian, DVD originale, Copyrighted, 

Quando il rock incontra la musica sinfonica: il nuovo album di Tony Carnevale

Nella seconda metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, si sviluppò in America, nel mondo del Jazz, una corrente musicale chiamata “Third Stream” (Terza Via”) che si proponeva di giungere ad una sorta di “sintesi superiore” tra il jazz e la musica colta di derivazione europea.
Gli esiti dell’esperimento, di cui resta ancora difficile delimitare i contorni, furono e sono ancor oggi assai discussi e controversi e videro protagonisti musicisti di grande valore, sia in piccole formazioni cameristiche – primi fra tutti il Modern Jazz Quartet ed il combo del batterista Chico Hamilton – sia grandi orchestre assai diverse tra loro, come quelle di Stan Kenton e di George Russell.

A partire dagli anni Settanta in ambito rock, ed in particolare intorno al ben noto movimento del “Progressive rock”, la commistione tra sinfonia, percussioni e strumenti elettrici ha prodotto innumerevoli esempi, anche se a ben guardare, si è spesso trattato di una “fusione a freddo” nel quale un gruppo rock veniva semplicemente “vestito” e circondato da un’orchestra classica con archi e legni. Vengono in mente i dischi dei Deep Purple con la London Symphony Orchestra o il celeberrimo “Concerto grosso” dei New Trolls con l’Orchestra diretta da Louis Bacalov.
Tutta questa lunga premessa ci permette di avvicinarci con maggior consapevolezza al lavoro di Tony Carnevale, compositore, pianista e didatta che si è cimentato negli anni nella creazione di musiche per balletti, spettacoli teatrali, cinema e televisione, oltre ad aver a suo tempo collaborato con Francesco Di Giacomo e Rodolfo Maltese del Banco del Mutuo Soccorso.

A distanza di pochi mesi dalla pubblicazione di III Movimento – uscito nell’autunno del 2022 – l’etichetta Soundtrack scommette e rilancia ulteriormente su Tony Carnevale con la pubblicazione di questo nuovo lavoro Tu che mi puoi capire, stampato oltretutto in una lussuosa versione su vinile, che contiene all’interno anche la copia su Cd del medesimo disco.


“Immagini per pianoforte e orchestra” recita il sottotitolo che prefigura da subito un lavoro assai complesso e lungamente meditato, i cui arrangiamenti hanno certamente richiesto un impegnativo e costante lavoro di cesello in studio, curato in prima persona dal Maestro Carnevale, che per l’occasione recupera anche il suo ruolo di solista di pianoforte.
L’autore stesso sottolinea ancora una volta come le sue composizioni non siano facilmente etichettabili e assolutamente non riconducibili alle consuete categorie in campo musicale, tanto è vero che la definizione di “composizione sinfonica in forma di rock” – utilizzata per l’album precedente – anche in questo caso resta la più aderente alla “filosofia compositiva” del progetto.

Mentre III Movimento si qualificava come una nuova edizione “riveduta e corretta”, nonché ampliata, di un lavoro già edito, qui ci troviamo di fronte ad un’opera del tutto nuova, totalmente strumentale, con la sola eccezione di un brano già pubblicato, “La vita che grida”, uscito in una prima versione nel 1995.
La facciata A del disco si apre con “Il suono della tua voce”, una composizione dal respiro sinfonico caratterizzata da un serrato dialogo tra pianoforte, orchestra e percussioni, che si apre poi ad un lirico finale per voce ed archi.
Il pianoforte conduce la calma melodia di “Il discorso che non abbiamo mai finito”, quasi un “secondo movimento” che si riallaccia e amplia liricamente le intenzioni del brano di apertura. “Ad ogni incontro” si apre in un’atmosfera oscura e sospesa sottolineata ancora una volta dalle percussioni e dal registro grave del pianoforte e dell’orchestra. A ben vedere questi tre brani in sequenza vanno mirabilmente a comporre una sorta di “suite in tre movimenti” indissolubilmente legati dal medesimo afflato compositivo, che rimanda spesso a suggestioni sinfoniche di quel periodo carico di tensioni, sospeso tra Ottocento e Novecento, sulle orme di giganti come Musorgskij, Ravel fino a lontani echi di Stravinskij. “Oltre le note”, rappresenta invece un elemento di discontinuità. Il brano – che nell’edizione su Cd compare suddiviso in tre brevi parti – è una composizione concepita per pianoforte solo, nel quale i toni meditativi ed intimistici della prima parte cedono il passo all’approccio percussivo ed inquieto della seconda parte, che si scioglie poi in un onirico notturno finale.

La seconda facciata del disco presenta il brano più lungo e articolato, “Pagine dal libro dei sogni” che si sviluppa nell’arco di nove minuti, e che – parafrasando il grande Jack Bruce – si potrebbe definire una “colonna sonora per un film immaginario”.
Si tratta ancora una volta di una composizione di ampio respiro nella quale emergono le qualità e la lunga l’esperienza di Tony Carnevale in tema di scrittura e produzione di musiche originali per la televisione, il cinema, il teatro e la danza.
In questo caso l’ampiezza e la cantabilità delle melodie suggerirebbero quasi la possibilità di poter inserire dei testi che potrebbero dare ulteriore valore aggiunto alla composizione.
La perfetta fusione tra musica e liriche risalta prepotentemente in “La vita che grida” (musiche di Tony Carnevale e testo scritto a quattro mani insieme a Francesco di Giacomo), il brano viene qui riproposto in una nuova versione sinfonica che illumina ulteriormente il cantato di Francesco Di Giacomo e la chitarra di Rodolfo Maltese – recuperati dalla registrazione originale del 1995 – e impreziosito nel finale dall’assolo vocale di Daniela Soraci.

È certamente questo il pezzo forte di tutto l’album, nel quale la magia della voce di Di Giacomo, la potenza dell’orchestra sinfonica e la lunga cavalcata del fiammeggiante assolo di chitarra elettrica creano un unicum da incorniciare tra le vette espressive del rock italiano di tutti i tempi.
Come è noto, Tony Carnevale, sin da adolescente – ai tempi del leggendario Festival pop di Villa Pamphilj dell’ormai lontano 1974 – è stato un grande ammiratore del Banco del Mutuo Soccorso, ha avuto poi la fortuna, ma soprattutto le capacità e la costanza, di riuscire a coronare il suo sogno segreto, cioè quello di arrivare a collaborare direttamente con i suoi artisti di riferimento.

I due minuti di “…al tempo meravigliosamente perso insieme” chiudono il disco con delicatissimo omaggio crepuscolare ai propri “maestri”, accarezzando sul pianoforte una lieve citazione dell’immortale melodia di “Non mi rompete”.
Dunque, Tony Carnevale ha aperto la via: la strada, ancora incerta ed assai impervia, della ricerca di una “terza via” tra rock e musica sinfonica è stata tracciata, la sfida è aperta, vedremo se ci saranno musicisti di vaglia che abbiano le capacità e il coraggio di proseguire su questo difficile percorso “lungo le creste”, certamente affascinante anche se non privo di insidie.

 

Guerra o pace? Quali scelte politiche per riportare la pace in Europa

Ecco il denso e importante intervento del giurista Domenico Gallo che oggi ha introdotto il convegno “Guerra o pace?”, che potete seguire integralmente su Radio Radicale

 

Vincere! Nel nostro tempo drammatico questa parola d’ordine è ritornata in auge, emergendo dalle nebbie del passato. Ora come allora, essa trasvola e accende i cuori delle élite politiche, attraversa l’Atlantico, l’Oceano indiano, il Mar Baltico, il canale della Manica, il Mar Nero. Si trasmette da Stoltemberg (segretario Nato) a Von der Layen (presidente della Commissione Europea), da Metsola (presidente del Parlamento europeo), a Michel (Presidente del Consiglio europeo), a Borrell (alto rappresentante Ue per gli affari esteri). Plana a Strasburgo, infiammando i cuori dei deputati europei, che esortano gli Stati membri ad incrementare con sistemi d’arma sempre più performanti l’assistenza militare al governo ucraino per avvicinare l’ora della “vittoria”.

La guerra, iniziata il 24 febbraio 2022 con l’aggressione russa, si deve concludere necessariamente con la vittoria dell’aggredito e la sconfitta dell’aggressore. Per vittoria si intende la capacità dell’Ucraina di “riacquistare il pieno controllo su tutto il suo territorio riconosciuto a livello internazionale”, cioè di recuperare manu militari i confini del 1991. Solo in questo modo, secondo la vigente narrazione a reti unificate sarà possibile pervenire ad una “pace giusta”, che ristabilisca il primato del diritto sulla forza. Questa pretesa di ottenere la pace attraverso la “vittoria”, esclude ogni possibilità di negoziato, che Zelensky ha addirittura vietato per legge. La mediazione non contempla vittorie, ma è, per antonomasia, la conciliazione di interessi geopolitici contrapposti, a cui si deve dare identica legittimità.

Il fondamentalismo religioso, lo sappiamo tutti, è fonte di conflitti e di violenze perché indurisce dei principi e li rende assoluti, scagliandoli sulla testa delle persone, incurante del danno che produce. Il fondamentalismo politico di quello che è stato chiamato l’Occidente collettivo non è meno dannoso del fondamentalismo religioso. Le scelte fin qui compiute dalla Ue e dalle Cancellerie di paesi europei a rimorchio di Usa e Gb, sono dettate da una sorta di fondamentalismo cieco: si agitano sopra la testa dei popoli dei principi ammantati di assolutezza, che vengono impugnati strumentalmente, secondo ragioni di opportunità politica, per essere poi rinnegati e messi da parte, quando non più utili. Non è un caso se buona parte dei paesi del Sud del mondo, non si sono fatti influenzare dalle nostre posizioni e non partecipano alla crociata della Santa alleanza occidentale contro la Russia. Quando gli Stati Uniti e la Gran Bretagna si fanno paladini del principio del divieto dell’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato (art. 2, par. 4 Carta Onu), non possiamo ignorare come abbiano calpestato impunemente questo principio con l’aggressione all’Irak nel 2003.

Quando la Nato, vuole farsi paladina dell’integrità territoriale dell’Ucraina, non possiamo dimenticare che ha aggredito la ex Jugoslavia nel 1999 e l’ha bombardata per 78 giorni, con l’effetto di modificarne le frontiere, separando il Kosovo dalla Serbia. Il fondamentalismo politico della santa alleanza occidentale si basa sulla negazione totale degli interessi geopolitici della Russia e sulla cancellazione del passato. Tutti i documenti delle fonti occidentali parlano di ”unprovoked and unjustified military aggression against Ukraine”. Indubbiamente la c.d. “operazione militare speciale” iniziata il 24 febbraio 2022 è un’azione ingiustificata perché non è ammissibile nell’ordinamento internazionale la legittima difesa preventiva (sebbene contemplata nelle dottrine militari degli Stati Uniti), quindi costituisce un atto di aggressione ai sensi dell’art. 2, comma 4, della Carta dell’Onu, e un crimine internazionale, ai sensi dell’art. 5 dello Statuto della Corte penale internazionale. Né si può addurre a giustificazione il fatto che questa operazione sia stata presentata all’opinione pubblica come un intervento umanitario a difesa delle popolazioni del Donbass, sulla falsariga di quanto aveva fatto la Nato per giustificare l’intervento per il Kosovo. Il veleno in questa formula, ripetuta come un mantra, sta nell’aggettivo unprovoked, che annulla tutti gli antecedenti dell’aggressione, fino al punto di falsificare la storia. Il nostro ex ministro degli Esteri (1996-2001) Lamberto Dini in un’intervista a Milano Finanza del primo marzo 2022, ha testimoniato:” Come ministro degli esteri ho partecipato a numerosi incontri con i ministri Primakov e Ivanov ed il Segretario di Stato americano Madeleine Albright e posso affermare che il pensiero dei russi non è mai cambiato. Avere delle basi Nato lungo i 1.500 km del confine ucraino per la Russia è sempre stato inaccettabile. Da qui nascono le richieste di Putin, che invece sono state ritenute irricevibili dagli Usa. Gli Stati Uniti non hanno mai dato spiegazioni sul perché considerassero inaccettabile un’Ucraina neutrale. Si sono limitati a dire che la questione non era all’ordine del giorno, ma per anni hanno continuato ad armare l’Ucraina.

Ora si è scatenato un conflitto assurdo, ma mi domando se Stati Uniti ed Europa non ne siano collettivamente responsabili insieme alla Russia”. Peccato che neanche un granello della saggezza di Dini sia penetrato nella testa dei suoi successori, anzi la sua testimonianza è stata immediatamente rimossa dal dibattito pubblico. Da oltre venti anni gli Stati Uniti hanno coinvolto l’Europa attraverso la camicia di forza dell’Alleanza atlantica, in una insensata politica di scontro con la Russia, che ha sostituito la cooperazione con l’emarginazione, il dialogo con l’intimidazione, col risultato di provocare una pericolosa rinascita dell’orgoglio nazionale russo. A questo disastro ci ha portato la pretesa di trasformare l’Ucraina nella lancia della Nato nel costato della Russia. Mettere il coltello alla gola di una grande potenza non è il modo migliore per assicurarsi la convivenza pacifica. Quando divenne chiaro il disegno dell’amministrazione Clinton di espandere la Nato ad est, il diplomatico americano George Kennan, uno dei massimi interpreti della guerra fredda, lanciò un grido d’allarme, in un articolo sul New York Times del 7 febbraio 1997, osservando che: “ la decisione di espandere la NATO sarebbe il più grave errore dell’epoca del dopo guerra fredda. Una simile decisione avrebbe l’effetto di infiammare le tendenze nazionalistiche antioccidentali e militariste nell’opinione pubblica russa, pregiudicherebbe lo sviluppo della democrazia in Russia, restaurerebbe l’atmosfera della guerra fredda nelle relazioni est ovest, spingerebbe la politica estera russa in direzioni a noi decisamente non favorevoli.” Sottolineare il ruolo negativo dell’espansione della Nato ad est, non significa giustificare le azioni della Russia o condonarle. Si tratta di spiegarle, alla ricerca di una via d’uscita pacifica dalla guerra e di una pace duratura. Significa rendersi conto che il conflitto era prevedibile e, per ciò stesso, prevenibile. Anche da ultimo si sarebbe potuto evitare, ove si consideri che il 15 dicembre 2021 la Russia consegnò le sue proposte di accordo, pubblicate sul sito del Ministero della difesa russo, articolate in due bozze di accordo: uno multilaterale con la Nato, in 9 punti, e uno bilaterale con Washington, in 8 punti. Al centro di queste proposte vi era l’impegno a non espandere la NATO al territorio dell’Ucraina e a effettuare misure di riduzione degli armamenti. Se si fosse aperto un dialogo su queste proposte, difficilmente la Russia avrebbe commesso l’azzardo di muovere i suoi carri armati. Invece irresponsabilmente abbiamo chiuso porte e finestre alle richieste di sicurezza della Russia, invocando il preteso diritto sovrano dell’Ucraina di aderire alla Nato, come se fosse un principio non negoziabile, una sorta di dogma di fede. Salvaguardare il dogma atlantico è stato ritenuto dagli irresponsabili leaders europei molto più importante che sventare il ritorno della guerra sul suolo europeo. Se deve essere condannata l’illegale e ingiustificata aggressione della Russia, uguale biasimo deve essere rivolto a coloro che l’hanno provocata.

Chiamato a testimoniare in una seduta del Consiglio di sicurezza dell’Onu, l’8 febbraio 2023, Roger Waters ha osservato: “L’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione russa è stata illegale. La condanno nei termini più forti possibili. Non si può dire però che non ci sia stata una provocazione dietro a questa invasione; quindi, condanno anche i provocatori nei termini più forti possibili”. La pretesa di ignorare, fino al punto di cancellarli, gli interessi geostrategici della Russia, come ha creato le condizioni per lo scoppio del conflitto, così ha determinato il suo prolungamento e adesso impedisce alla diplomazia di aprire un negoziato che presuppone, pur sempre, qualche forma di mediazione degli interessi in campo. Se si esclude ogni mediazione, ogni riconoscimento degli interessi altrui, la guerra non può finire con un compromesso, l’unica soluzione è la vittoria finale di uno dei due schieramenti e l’annichilimento dell’altro. Ma siamo sicuri che l’ora della vittoria sta per arrivare? In un intervista pubblicata dal Corriere della Sera del primo maggio 2022 l’economista americano Jeffrey Sachs, docente della Columbia University, osserva: “Il grande errore è credere che la Nato sconfiggerà la Russia, tipica arroganza e miopia americana. Difficile capire cosa significhi sconfiggere la Russia dato che Vladimir Putin controlla migliaia di testate nucleari. I politici americani hanno un desiderio di morte? Conosco bene il mio Paese i leaders sono pronti a combattere fino all’ultimo ucraino: meglio fare la pace che distruggere l’Ucraina in nome della sconfitta di Putin.”

Il fondamentalismo politico che guida le Cancellerie occidentali non ammette altra soluzione che la sconfitta e l’umiliazione della Russia di Putin, ma in questo modo è stata cambiata la natura della guerra, che da resistenza legittima ad un’aggressione ingiusta, si è trasformata in qualcosa di molto diverso. Ovviamente non possiamo ignorare, il “diritto naturale di autotutela nel caso abbia luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni unite, riconosciuto dall’art. 51 della Carta dell’Onu. Lo Statuto dell’Onu riconosce il diritto di resistenza con le armi a fronte di un’aggressione in atto, ma ciò non legittima una guerra senza fine e senza limiti. Infatti il diritto di resistenza è valido: “fintantoché il Consiglio di sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale”(art. 51). In questo caso, in mancanza di un intervento autoritativo del Consiglio di sicurezza, tutti gli attori internazionali, a cominciare dai contendenti, devono attivarsi per restaurare la pace, poiché la guerra – secondo il preambolo della Carta – resta, pur sempre un flagello che procura indicibili afflizioni all’umanità. Invece noi sappiamo (ce l’ha rivelato l’ex premier israeliano Bennet) che, dopo nemmeno due settimane dall’inizio del conflitto, il 5 marzo le parti stavano per concludere un accordo di pace.

Il 16 marzo 2022 il Financial Times svelava un piano di pace in 15 punti, fondato sulla conciliazione dei diversi interessi in campo, che le parti avevano concordato nel corso dei negoziati russo-ucraini in Turchia. Adesso sappiamo che le indiscrezioni del Financial Time erano più che fondate: l’accordo di pace era stato raggiunto. Il 17 giugno, ricevendo la delegazione dei leaders africani, guidata dal Sudafrica, il presidente russo Vladimir Putin ha reso noto che durante le trattative tra le delegazioni ucraina e russa svoltesi a Istanbul a fine marzo 2022, si era raggiunto un accordo molto dettagliato che prevedeva come punto centrale la neutralità dell’Ucraina e che, a seguito del ritiro delle truppe russe che circondavano Kiev, la guerra sarebbe finita. Putin ha mostrato il documento, denominato “Trattato sulla neutralità permanente e sulle garanzie di sicurezza per l’Ucraina”, con la firma del capodelegazione dell’Ucraina. Subito dopo l’avvenuto ritiro delle truppe da Kiev e Charkiv, secondo Putin, l’accordo è stato stracciato dagli ucraini e gettato “nella pattumiera della storia”. Ebbene quella possibilità concreta di restaurare la pace nella regione è stata sventata dal veto di Biden e Johnson, che hanno istigato l’Ucraina a respingere ogni mediazione, incoraggiandola a puntare sulla sconfitta militare della Russia, con la garanzia del massiccio sostegno finanziario, militare e di intelligence di Usa, Gb, Ue e di altri Paesi occidentali. Questo veto, altrettanto criminogeno quanto l’aggressione, ha cambiato il volto della guerra. Dalla fine di marzo del 2022, il conflitto ha perso la natura di una resistenza legittima dell’Ucraina ad un’aggressione altrui, ma è diventata una guerra in cui un’alleanza di 30 Stati cerca di infliggere una batosta militare alla Russia, utilizzando il sangue degli ucraini. Una resistenza militare ad un’aggressione si è trasformata in una guerra di posizione, come la Prima guerra mondiale, in cui i belligeranti cercano di distruggersi a vicenda. Sono proprio gli esperti a richiamare il dramma della Prima guerra mondiale. Il capo di Stato maggiore Usa Mark Milley, il già 15 giugno dello scorso anno, ebbe a dichiarare: «L’avanzata russa in Ucraina si è trasformata in una “guerra di attrito” quasi come la Prima guerra mondiale.” Cosa vuol dire una “guerra d’attrito”? Il richiamo alla Prima guerra mondiale fa emergere dalle nebbie del passato la dimensione di uno stallo fra eserciti potenti contrapposti che si consuma in una strage insensata e senza fine. La Prima guerra mondiale dovrebbe averci insegnato che, a fronte di un conflitto così violento, spietato e prolungato nel tempo non esiste la “vittoria”, perché una tale guerra è un male in sé, è una procedura che produce sofferenze indicibili a tutte le parti in conflitto, che nessun obiettivo politico può giustificare. Nel caso del conflitto in Ucraina, il prolungamento della guerra, che ha già provocato centinaia di migliaia di morti, è doppiamente assurdo perché nessuna parte può prevalere sull’altra, come ci ricorda lo stesso gen. Milley, da ultimo, in un’intervista al Financial Times del 16 febbraio di quest’anno. Quando si accetta che la guerra debba continuare per consentire all’Ucraina di recuperare tutti i territori compresi nei confini del 1991 si invoca a sproposito ed in modo strumentale, un principio, quello dell’inviolabilità delle frontiere, solennemente proclamato nell’atto finale della conferenza di Helsinky sulla sicurezza e cooperazione in Europa. Il principio dell’inviolabilità delle frontiere è strumentale al mantenimento della pace, serve ad evitare che gli eventuali conflitti politici sui confini possano degenerare in uno scontro armato. I confini possono essere modificati e lo sono stati più volte dopo l’atto di Helsinky soltanto con l’accordo di tutte le parti interessate, com’è avvenuto con la riunificazione della Germania e la divisione della Cecoslovacchia. Tuttavia anche il principio dell’inviolabilità delle frontiere non deve essere declinato in modo fondamentalista, altrimenti finirebbe per attizzare dei conflitti, invece che prevenirli. Soprattutto non può essere declinato a prescindere dalla realtà determinata da fatti concreti e dalla volontà dei popoli coinvolti. L’inviolabilità delle frontiere può essere difesa di fronte ad una aggressione esterna, ma è molto più difficile da rispettare quando gli Stati si rompono dall’interno per fenomeni di secessione o di guerre civili. Pretendere che l’Ucraina ristabilisca i confini del 1991 è tanto assurdo quanto sarebbe la pretesa di ricostituire la Jugoslavia sulla base dei confini del 1991.

Non possiamo ignorare che i confini sono cambiati dal 2014 per effetto della guerra civile, che ha portato alla secessione di alcune parti del Donbass, e per effetto della dichiarazione d’indipendenza dall’Ucraina, votata all’unanimità dal Consiglio supremo della Repubblica di Crimea. Scelta confermata il 16 marzo del 2014 da un referendum popolare (a cui partecipò l’83,1% degli aventi diritto al voto), che approvò l’annessione alla Russia con il 96,77% di voti favorevoli. Da oltre nove anni la Crimea costituisce una Repubblica autonoma inserita nella Federazione Russa. L’Ucraina non ha mai riconosciuto l’indipendenza della Crimea, come la Serbia non ha mai riconosciuto l’indipendenza del Kosovo. Ma si tratta di situazioni di fatto consolidate che non possono essere modificate con le armi. Se la Serbia invadesse il Kosovo per restaurare la propria sovranità, questa operazione sarebbe qualificata come un atto di aggressione perché non è consentito l’uso della forza come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, lo stesso vale per l’Ucraina. L’obiettivo del governo Zelensky di smembrare la Federazione russa, occupando militarmente la Crimea, esula dalla legittima difesa e trasforma la legittima resistenza militare ad un’aggressione in corso, in una guerra offensiva. La pretesa di pervenire alla pace attraverso la “vittoria”, frutto del fondamentalismo della ragione politica, sta dimostrando tutta la sua tragica impotenza, alimentando una strage insensata e senza fine e danni ambientali incommensurabili, che hanno fatto parlare di “ecocidio”3 E’ in virtù di questa pretesa che la NATO e l’UE hanno bocciato ogni proposta di cessate il fuoco e hanno respinto il piano di pace cinese e, da ultimo, quello indonesiano, chiudendo la porta ad ogni negoziato. Non è questo il modo migliore per manifestare solidarietà al popolo ucraino martoriato dalla guerra. Come ha osservato il generale Mini: “Vedere un paese europeo disastrato, una popolazione europea decimata e offrire la prospettiva di ulteriori distruzioni e massacri non è solidarietà, così come non è patriottismo far annegare la Patria in un mare di sangue per compiacere il più forte, piuttosto che discutere del proprio destino e dei propri interessi”4. Delineare come soluzione del conflitto soltanto l’intensificazione della guerra, comporta un prezzo incalcolabile in termini di perdita di vite umane e di devastazione dell’ambiente e rende massimo il rischio di una catastrofe nucleare. Se le forze armate ucraine dovessero dilagare in Crimea, insidiando la base della marina russa a Sebastopoli, chi ci può assicurare che la Russia si arrenderà, e accetterà di essere smembrata, senza porre mano all’arsenale nucleare? Pretendere di sconfiggere ed umiliare una superpotenza dotata di 6.000 testate nucleari è come giocare a scacchi con la morte. Il fallito push tentato da Prigozhin il 24 giugno, dimostra quanto sia pericolosa l’eventuale implosione della Russia, che consegnerebbe le armi nucleari nelle mani di gruppi criminali ed incontrollabili. Senza volerlo e senza vederlo ci stiamo avviando sulla via per Armageddon dove, secondo l’Apocalisse, gli spiriti maligni partoriti dalla Bestia radunarono i Re di tutta la Terra: «per la battaglia del gran giorno del dio onnipotente». L’apocalisse segnerà la fine della storia, ma noi vogliamo fermamente che la storia continui.

L’autore: Il magistrato Domenico Gallo è stato presidente di sezione della Corte di Cassazione. Già senatore della Repubblica, fa parte del comitato esecutivo del Coordinamento per la democrazia costituzionale

Lucio Libertini e la politica socialista sulla casa, altro che Pnrr

Proseguono anche nel 2023 le iniziative organizzate dal Comitato nazionale riconosciuto dal ministero della Cultura per celebrare il centesimo anniversario della nascita di Lucio Libertini, protagonista della storia della Sinistra italiana del secondo dopoguerra nato a Catania il 1 giugno 1922 e scomparso a Roma il 7 agosto 1993, dal 1968 deputato o senatore per sei legislature, eletto nelle file prima del Psiup, poi del Pci, ed infine del Prc. Lo scorso 27 giugno a Roma, a Palazzo Giustiniani e poi alla Fondazione Basso (Lucio Libertini: il socialismo in azione”) si sono tenute due iniziative per ricordarlo con interventi tra gli altri, di Aldo Agosti, Piero Fassino, Anna Finocchiaro, Giovanni Russo Spena, Claudio Signorile, Fausto Bertinotti, Giorgio Benvenuto, Vincenzo Vita, Roberto Musacchio.
Pubblichiamo l’intervento dell’ex parlamentare europeo Roberto Musacchio.

Il mio contributo a questo importante lavoro sulla memoria e l’attualità di Lucio Libertini lo svolgo avvalendomi di due libri che riportano i materiali di due eventi collettivi.
Il primo è un volume, Casa, un problema per la sinistra, uscito nel 1980 e che contiene gli interventi al convegno nazionale di analogo titolo svoltosi il 17/18 novembre 1979 a Roma per iniziativa del Pdup di cui ero responsabile casa nell’ambito di quelle che chiamavamo “lotte sociali”. Diciamo le lotte di territorio che non erano quelle di lavoro o di scuola anche se potevano incontrarle. Infatti il quadro riformatore sulla casa era stato spinto anche e molto dallo sciopero generale dei sindacati il 19 novembre del 1969.
I principi della casa come diritto, di una politica pubblica per garantirlo, della lotta alle rendite con l’uso pubblico dei suoli e dell’equo canone per affitti equi, erano al centro della mobilitazione che ebbe uno straordinario successo e aprì la stagione delle riforme.
In un ambito, quello dell’uso dei suoli, in cui si annidano rendite e poteri vecchi e nuovi che resistono in ogni modo alle riforme, per impedirle, sabotarle, impostare nuove moderne strategie favorevoli a loro. Un blocco di interessi che pesa da sempre come un macigno sulla stessa politica italiana.

In un Paese in cui la rendita agraria si è trasformata in fondiaria le cementificazioni correranno a ritmi che si confermano anche oggi senza pari in Europa, a partire per altro dalla parte “ricca” del Paese stesso (la Lombardia ha il quadruplo di superficie cementificata della media europea). L’edilizia popolare di contro è ai minimi europei, nonostante sia stata finanziata anche direttamente dai lavoratori con trattenute sulle loro paghe.E c’è il “fenomeno” scandaloso delle case senza gente (sfitte) e della gente senza casa.I processi migratori della industrializzazione impetuosa ma non regolata crearono enormi problemi urbani ma anche enormi occasioni di profitto. Le città, dal dopoguerra agli anni 60, divennero il luogo simbolo di una modernizzazione senza riforme che caratterizza il Paese.

Tra speculazione e baraccopoli.
Si parlerà di un vero e proprio esercito della speculazione edilizia con al centro la grande rendita ma sostenuto da fanterie di interessi anche piccoli. Per fortuna le mobilitazioni erano cresciute, operaie ed urbane, dei senza casa, o di chi vive in condizioni inumane, sovraffollate, malsane.E in più cresceva una cultura urbanistica di prim’ordine.
Il “caso italiano”, come fu chiamato allora, è stato anche questo, una straordinaria partecipazione popolare e organizzata che legava ceti deboli e intellettuali, dava vita ad organizzazioni tematiche che hanno però una visione generale; penso ai sindacati degli inquilini ed assegnatari ma a organismi come l’Istituto nazionale di urbanistica (Inu) che vedrà germogliare una straordinaria cultura specialistica e democratica volta al rapporto con i soggetti sociali e le istituzioni. E penso ad Italia Nostra che anticipava le organizzazioni ambientaliste che poi saranno protagoniste. Penso a nomi come Antonio Cederna che denunciò il sacco del nostro Paese. Ma anche a film come Le mani sulla città che denunciavano gli incroci tra speculazione e poteri anche pubblici. E un partito come il Pci viveva nel rapporto con tutto ciò. Negli anni che avviano il primo centrosinistra si misurava già la durezza dello scontro e si cominciavano ad infrangere tentativi riformisti come quelli di Fiorentino Sullo, ministro dei lavori pubblici nel primo governo Fanfani con dentro Psdi e Pri e ad astensione socialista, nel 1962, che provava, e non riusciva, a fare la prima riforma del regime dei suoli, cioè il chi comanda e a che fine sull’uso dei territori.
Segno di come e quanto il vecchio blocco della rendita agraria, legato anche alle aristocrazie, che tanto aveva influito nel passato stesse transitando nel “moderno” blocco fondiario urbano. Era il 1964, con i socialisti ormai entrati al governo, quando si arrivò a parlare addirittura, lo fece Pietro Nenni, di “tintinnar di sciabole” per dire di trame reazionarie che si opponevano alle riforme. Mano mano, procedendo verso il ’68/’69, la spinta si fece poderosa e di massa, nelle fabbriche e sui territori, con scioperi e nuove lotte urbane e il quadro di riforma prenderà luce intorno agli anni della “solidarietà” nazionale.

Equo canone, regime dei suoli, piano decennale per l’edilizia.
Della solidarietà nazionale questo quadro riformatore rappresenterà uno dei terreni più evidenti ed importanti di scontro concentrando su una parte fondamentale della vita delle persone, l’abitare, tutte le contraddizioni strutturali del Paese e gli scontri che ne derivano.
Dalle rendite, al tipo di settore produttivo edilizio, all’inflazione.
Nel convegno voluto dal Pdup, piccolo partito che perseguiva l’unità e la rifondazione della sinistra, i lavori erano per questo aperti da tre relazioni. Affidate a Libertini che era divenuto responsabile nazionale casa, trasporti, infrastrutture, territorio e telecomunicazioni del Pci dopo essere stato presidente della commissione trasporti del Senato nella legislatura della solidarietà nazionale. A Nevol Querci, suo corrispettivo nel Psi, uomo di sinistra in un partito che si avviava a divenire craxiano. Ed a Eliseo Milani, capogruppo alla Camera del Pdup. A Milani si deve la particolare attenzione per il lavoro della commissione casa del Pdup, che per altro riuniva fior di architetti ed urbanisti.
Era un tema meno consono ad un piccolo partito ma con un lavoro intenso di movimento, di studio e istituzionale ottenemmo anche risultati parlamentari.
Per altro Lucio Magri, che era segretario del Pdup e che concluse i lavori, sfruttò appieno il potenziale della discussione, sia come banco di prova dei limiti del “riformismo”, sia spaziando verso il tema della città. Che è poi quello del secondo evento/libro di cui mi avvalgo e che è “Cambiamo la città” tratto dalla seconda conferenza nazionale del Pci sulla casa e il territorio dall’8 al 10 marzo 1985 con 1500 delegati al Palasport di Roma.

Ma andiamo con ordine.
Il convegno del 1979 si tiene durante il primo governo Cossiga, dopo la fine della solidarietà nazionale, tripartito Dc, Psdi, Pli, con l’astensione di Psi e Pri, e con il ministro Nicolazzi che a colpi di decreti inizia a “rivedere” il quadro riformatore.
Sul quale quadro riformatore si erano già innestate vere e proprie battaglie. Il blocco conservatore alimentava la spinta a fuoriuscire dall’equo canone facendo proliferare contratti atipici e “producendo”, direttamente o per via trasformativa delle destinazioni d’uso, uffici e seconde case.
La sentenza della Corte Costituzionale che “coglieva” un punto non chiaro della legge sul regime dei suoli di fatto apriva un vuoto che il Parlamento non riuscì a colmare.
Continuava la scarsità degli investimenti verso l’edilizia popolare (addirittura si constaterà il non impiego per cavilli di una parte dei fondi Gescal) che, al contrario, si cominciava a privatizzare con la messa a riscatto delle case popolari, e l’indirizzarsi degli interessi verso le nuove rendite immobiliari come le terziarizzazioni, i centri commerciali e i nuovi capannoni. Il settore produttivo edilizio restava “arretrato”, “mordi e fuggi”, con alti costi e ancora più alte aspettative di rendita. Insomma quell’ intreccio tra arretratezza e modernità, tra rendite e profitto, che è tanta parte della storia del capitalismo italiano.
Tema su cui si concentra da sempre una parte significativa del dibattito sul “riformismo” con l’idea di alcuni che si possa/debba farsi carico della modernizzazione che la borghesia non fa. Idea che, oggi lo possiamo vedere bene, non coglieva quanto quella arretratezza fosse funzionale a traghettare e mantenere i poteri e ad impedire un assetto solido di un “compromesso sociale” effettivo. Che restava infatti affidato alla mobilitazione ed alla forza alternativa di modello del Pci. E infatti quel mix difeso con i denti dai poteri italiani si è reso funzionale con estrema rapidità ed efficacia alla resilienza neoliberista. Al contrario la parte declinante del “riformismo migliorista” ha ulteriormente derubricato la propria prospettiva in quella di esercitare meramente il ruolo di funzionalità alla nuova governance neoliberale senza più alcun modello proprio.

La relazione di Libertini al convegno del Pdup era consapevole dello scontro.
Si muove, come sempre, da riformatore reale. Ha in mente che il quadro è condizionato dal capitalismo e che dunque serve sempre avere una prospettiva altra, socialista.
Sa che servono politiche di massa, cioè sostenute da grandi blocchi, capaci di operare verso le istituzioni ma anche verso tutti i soggetti sociali ed economici in campo.
Ci vuole poi concretezza, competenza, efficacia. Per sostenere l’idealità alternativa.
C’è anche la critica al “giacobinismo” che possono rischiare forme “intellettuali” che rischino di non cogliere la portata dei processi. Ma questo non diviene mai “riformismo” o addirittura “migliorismo”. In Libertini l’alternativa di sistema è solidissima, socialista.
La vuole come processo reale e quindi si occupa di tutto e tutti. Articola, differenzia.
Tra il suo testo e quello di Magri ci sono differenze anche evidenti su come approcciare la transizione ma chi legge non può mostrare alcuna sorpresa quando li troverà qualche anno dopo tutti e due nel fronte del no alla “svolta” di Occhetto e a costruire Rifondazione Comunista. La discussione era “ideologicamente e programmaticamente” alta. Comprendeva anche il tema della proprietà privata che su una questione come la casa è quasi un pezzo di antropologia.

La casa come servizio sociale era uno slogan molto ripreso nel 1968 insieme a quello che chiedeva “un affitto proletario, al 10% del salario”. Sono modi che oggi definiremmo “intersezionali” cioè tesi a trovare le connessioni che il capitalismo determina “dominando” l’insieme degli elementi produttivi e riproduttivi, diremmo sempre oggi.
Come detto le impostazioni di Libertini hanno il carattere di un forte impianto riformatore che cerca di evitare i rischi di astrazione, ma sono legate al socialismo come modello alternativo. E, già in quel momento, alla doppia riflessione critica sul socialismo reale e sulle socialdemocrazie. In sostanza quella che Berlinguer avrebbe chiamato terza via (tutt’altra cosa da quella blairiana) e che Libertini provò a proporre sul campo.
Per altro Libertini aveva una serietà, profondità, articolazione di analisi che mal si sposava col nuovismo. Soprattutto a leggere quella relazione e, ancor di più, quella del 1985 che spazia su tutti i temi della città, si mostrava una forza, un impianto riformatore, una concretezza trasformatrice a fronte dei quali provvedimenti come l’attuale Pnrr appaiono per quel che sono, una semplicistica resilienza con cui la controriforma neoliberale prova a perpetuarsi oltre le sue crisi ormai ricorrenti e tutte “usate” dall’alto contro il basso, in quella che è stata chiamata giustamente la lotta di classe rovesciata.

Tra il 1979 e il 1985 c’è l’interregno, quello in cui col pentapartito si avvia un percorso di inversione di tendenza che si fonda sulla marginalizzazione del Pci. E una gestione aggressiva della cosiddetta modernizzazione. Cambiavano paradigmi e alfabeti.
Ci sarà poi l”89 con la fine del Pci. Cui segue, nel 1992, la scelta del Pds di dire sì a Maastricht e dunque ad una costruzione liberale della Ue che era profondamente diversa da quella sociale e democratica pensata ai tempi della relazione tra Berlinguer e Spinelli ma anche della “prudenza” avuta ai tempi della adesione allo Sme. Scelta che si accompagnava a quella dei patti concertativi che anch’essi segnavano la fine del conflitto come variabile indipendente. Sarà poi la stagione del bipolarismo maggioritario quella con cui si consuma la rivoluzione passiva e si afferma il nuovo dominio neo liberale. Con l’accesso al governo degli “eredi” del Pci, ma l’espunsione della possibilità della alternativa di modello.
Nei materiali di “Cambiamo la città”, cui io partecipai da dentro il Pci e da dirigente della sezione ambiente che produsse anche un contributo di Raffaello Misiti, c’è tutto il mondo neo liberale che si sta dispiegando.

Le nuove rendite urbane.
I poteri infrastrutturali e comunicativi. Se guardiamo alle città di oggi vediamo che esse sono quelle dove si sono moltiplicati i centri commerciali mentre si sono chiusi i presidi sanitari. Quelle in cui si convive con tutte le precarietà lavorative e sociali.
Quelle in cui il green washing non lava livelli di inquinamento mai raggiunti prima.
Nel convegno del 1985 c’era ancora la lotta per contrastare questi esiti, allargando lo sguardo, i campi, senza perdere né concretezza né alternatività. Quella conferenza metteva in campo ancora una volta un impianto riformatore imponente.
Si avvaleva di una rete di competenze vastissima e preziosa. Questo era il Pci.
Questo era Libertini, che vi lavorava incessantemente.
Capire, trasmettere, informare, fare conoscere nei mass media dove era presente e bravissimo, stare (per riconnettere e pesare) tra la gente, le competenze, le istituzioni.
Un vero, grande, politico nel senso nobile, alto, prezioso della parola.
Se oggi parliamo di crisi profonda della politica, e dei politici, per cercare soluzioni dobbiamo tornare a queste storie. La politica si è fatta priva di scelte effettivamente diverse e contemporaneamente ha “esternalizzato” i saperi. I cosiddetti “tecnici” hanno assunto un ruolo predominante incarnando quello che non a caso è stato chiamato il pilota automatico.
Libertini aveva in sé, da politico, un bagaglio di competenze che reggeva qualsiasi confronto. E lo aveva in quanto parte di quello che si chiamava intellettuale collettivo e che si avvaleva di competenze che a loro volta volevano essere parte del processo democratico che si chiama politica. Un processo democratico perché mai neutro ed anzi alimentato dal sale della democrazia che è fatto di idee diverse organizzate e anche in conflitto.
Tutto ciò si è voluto, con ferocia, recidere per fare terra bruciata.
Ma se si estirpano le radici, la pianta muore.
Ma si può sempre ripartire dai semi, e Libertini lo è.

Il programma completo delle iniziative per il centenario della nascita di Lucio Libertini è consultabile sulla pagina web all’interno del sito dell’Archivio Roberto Marini “Oltre il secolo breve” di Pistoia

 

E anche questo femminicidio l’abbiamo disinnescato

Ogni volta che una donna viene orrendamente uccisa in questo sbilenco Paese nelle redazioni di (alcuni) giornali e (quasi tutte) reti televisive tra le priorità, insieme alle interviste degli amici e dei parenti, c’è l’appiglio per disinnescare la narrazione.

Delle oltre 40 donne uccise nel 2023 troverete quasi sempre un particolare che viene presentato come “giustificazione” dell’efferato omicidio. Per carità, nessuno ha il coraggio di scriverlo apertamente, si tratta di un lavorio sotterraneo, perfino più vigliacco, che suggerisce vie di condono. Nel caso di Michelle Causo la traiettoria è chiarissima: si è cominciato raccontando il quartiere di Primavalle come “bronx romano” in cui una ragazza fatta a pezzi avrebbe dovuto essere considerata come un ragionevole effetto collaterale, poi hanno raccontato delle risse tra bande, poi hanno descritto Michelle come “una ragazza cresciuta troppo in fretta” e il presunto assassino come “un bastardo” e come un “hacker di telefoni”.

Un rovistare tra i cassonetti della cronaca e delle vite per spegnere l’allarme e per evitare una visuale d’insieme su femminicidi che sono ormai una patologia. Ogni volta a qualcuno dotato di pazienza tocca l’improbo compito di elencare i femminicidi di questi mesi per ricordare che avvengano nelle zone più eleganti della città come nelle zone più periferiche, che includano assassini dalla provenienza difficile come stimatissimi professionisti appartenenti alla borghesia cittadina, che interessino assassini dai 16 ai 90 anni.

Nel caso della povera Michelle qualcuno ha deciso di utilizzare la leva più stupida e vigliacca, sottolineando che il presunto assassino sarebbe “nato a Roma ma di origine srilankesi”, soffiando sulla xenofobia che di questi tempi è sdoganata fin dagli alti vertici di governo. A scriverlo non sono stati solo i quotidiani peggiori – quelli che da anni giocano alla concimazione della xenofobia – ma anche una titolatissima agenzia di stampa e qualche quotidiano distrattamente ancora descritto come progressista. Il soffio sotto l’articolo è chiaro: non è uno di noi, non sono come noi. Così il ragazzo nato a Roma ma con origini srilankesi diventa come il felino ma con origine canine, pronto a essere dato in pasto agli spaventati dall’invasione e ai nemici dell’integrazione.

E anche questo femminicidio ce lo siamo tolti dalle palle, pronto per essere messo nel cassetto dei “confini da difendere”. Che schifo.

Buon venerdì.

Dieci anni senza Margherita Hack. Che ci aveva visto lungo…

Scuola pubblica e ricerca definanziate e affossate dal governo. I rischi della deriva presidenzialista. La mancata separazione fra Stato e Chiesa per “imbrigliare i cervelli”. L’acuta analisi dell’astrofisica Margherita Hack, intervistata da Federico Tulli su Left il 9 aprile 2010, ci aiuta a capire come siamo arrivati a un governo di destra-destra guidato da Meloni.

Quando l’11 febbraio 1950 Pietro Calamandrei pronunciò il suo famoso discorso in difesa della scuola pubblica (v. estratto alla fine di questo articolo, ndr) non immaginava che sessant’anni dopo il governo Berlusconi avrebbe reso il suo discorso ancor più drammaticamente attuale riguardo l’epoca in cui lui parlò. «Il disegno dell’odierno centrodestra aderisce in maniera inquietante al quadro delineato da Calamandrei – osserva l’astrofisica Margherita Hack -. Una scuola pubblica indebolita per favorire scuole private dove formare le future leve di un partito “unico” o di una setta, è fondamentale nel gioco di chi decide di prendersi il Paese e trattarlo a proprio uso e consumo. Non solo. Una scuola pubblica malfunzionante è essenziale per depotenziare l’intero sistema dell’istruzione, compreso quello che sfocia nella ricerca». Perché? «Perché nell’era dell’innovazione un Paese senza ricercatori validi è senza futuro, immobile, inerte. Facile da controllare». Per ricostruire come sia stato possibile arrivare oggi, con la riforma Gelmini, a ritrovare la scuola, l’università, la scienza (e quindi la società civile italiana) nelle condizioni paventate nel 1950 da Calamandrei, la Hack ha pubblicato per Rizzoli Libera scienza in libero Stato. Un breve saggio in cui la famosa scienziata, nota anche per il suo impegno politico (alle ultime regionali del Lazio è stata l’unica eletta nella lista della Federazione per la sinistra), analizza quattro riforme dell’istruzione che si sono succedute sotto altrettanti governi, evidenziando le incongruenze e i grossolani errori, mai corretti, semmai reiterati, che hanno contribuito pesantemente a far colare a picco un sistema, dilapidando in pochi decenni l’eredità dei più grandi pensatori del passato.

Professoressa Hack, come mai in Italia la ricerca non funziona più?
Perché non è libera. Perché, fatte salve alcune oasi, le cosiddette riforme dell’università che hanno portato con sé continui tagli alla ricerca e ai posti dei ricercatori, hanno contribuito a imbrigliarla, ad affossarla.

Perché la scienza deve essere libera?
I motivi sono infiniti. Guardiamo per esempio all’importanza dell’innovazione. Questa si ottiene dalla ricerca applicata che a sua volta non può prescindere dalla ricerca pura, cioè da quella libera. Quella che si fa senza porsi scopi precisi di una resa immediata ma solo per la “curiosità” di conoscere le leggi che regolano il mondo. Magari seguendo una vaga intuizione. Ma poi, a ben vedere, chi più invoca la necessità d’innovare sono quegli stessi politici che producono leggi capaci solo di generare l’effetto contrario.

Una strana contraddizione…
È molto più che strana: è pericolosa. Le prime a non essere libere sono le nostre istituzioni. Succubi del Vaticano, stanno mettendo in pericolo la salute dei cittadini. Penso alla legge 40 sulla fecondazione assistita ma anche all’assurdo divieto di finanziare con fondi pubblici la ricerca sulle cellule staminali embrionali. Eppure, secondo la convinzione unanime della biofisica mondiale permetterebbero di fare progressi straordinari in medicina. Senza contare l’importanza rappresentata dalla possibilità di metterle a confronto con i risultati degli studi sulle cellule adulte.

Lei scrive che la riforma deve partire dal basso.
L’università vive se ci sono gli studenti. E i giovani ricercatori sono la linfa dei laboratori. Sono loro che hanno più entusiasmo, più idee. Le grandi scoperte statisticamente vengono proprio dai giovani. Ma per avere buoni studenti ed eccellenti ricercatori bisogna partire dalle scuole elementari. Erano uno dei fiori all’occhiello dell’istruzione e invece si è cominciato a umiliarle. Mentre ai licei sono toccate riforme vere solo sulla carta. Ogni ministro che arriva fa la sua riforma. A questo si aggiunge il continuo taglio dei fondi all’istruzione pubblica. E il cerchio così è chiuso, specie se al contempo si favoriscono le scuole private. Che non a caso sono in maggioranza cattoliche.

E qui torna il discorso di Calamandrei…
Penalizzare il pubblico per favorire il privato è proprio quanto sta accadendo oggi. Per la scuola ma anche per la sanità, con gli ospedali e le cliniche private, stanno realizzando quello che poi era il programma della P2. Quando parlava Calamandrei le ferite causate dal fascismo erano più che vive. La situazione di oggi è peggiore. All’epoca la Democrazia cristiana era molto più laica. E abbiamo ministri che intervengono su questioni di cui il governo non ha competenze. Decidere su cosa fare ricerca spetta allo scienziato. Imporre cosa andare a ricercare – come nel caso del bando pubblico 2009 per i fondi alla ricerca sulle staminali – è un’invasione di campo che rivela l’esistenza di una forma di dittatura “morbida”.

Se dovesse passare anche il presidenzialismo…
L’opinione pubblica sta perdendo la capacità di indignarsi. Come dimostrano la tranquillità con cui stanno passando da un decennio le leggi ad personam, e pure gli scandali pedofili in cui è coinvolto il Vaticano. All’estero, ovunque si fanno dibattiti aperti tra istituzioni e cittadini. La gente chiede, vuol sapere. Qui invece si ordina di non dare retta ai «chiacchericci» e nessuno reagisce.

Veniamo alla scienza. C’è un’allarmante inerzia anche tra i ricercatori?
È vero. A eccezione di Elena Cattaneo e delle sue due colleghe che si sono esposte con i ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato di fronte al divieto imposto dal ministro Sacconi, pensavo che anche altri avrebbero fatto lo stesso la ricerca sulle cellule embrionali. Ci sono i fondi europei che lo permettono e la legge 40 lascia degli spiragli. E invece no. Non c’è stata alcuna rivolta contro questa assurdità.

Come se ne esce? Nel suo libro propone delle soluzioni…
Sono una cittadina con diritto di parola e finché sarà possibile lo esercito. Ma voci isolate servono a poco se anche gli altri cittadini non si ribellano. Se i partiti politici di sinistra non reagiscono. Più che scrivere e parlare per cercare di risvegliare le coscienze non saprei cosa fare. Meno male che il presidente Napolitano non ha firmato l’ultimo decreto. Il centrodestra avrebbe riportato i diritti dei lavoratori all’inizio dell’800. Ma poi la sinistra si è già dichiarata disposta a discutere sul presidenzialismo. Con dei paletti, è vero, ma sempre di presidenzialismo si tratta. Immaginiamo Berlusconi presidente italiano. Nemmeno nel Paese delle banane…

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«Facciamo l’ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C’è una certa resistenza; in quelle scuole c’è sempre, perfino sotto il fascismo c’è stata. Allora, il partito dominante segue un’altra strada (è tutta un’ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A “quelle” scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private». Pietro Calamandrei

A proposito di quel “bastardi” di Roberto Saviano

Roberto Saviano al Festival del giornalismo di Perugia 2011

Roberto Saviano polarizza. Succede a lui, succede per le parole di Michela Murgia, accade in questo Paese a chiunque abbia un’esposizione pubblica che decide di usare non rimanendo tra le righe di un dibattito che tende a normalizzare, talvolta anche a dignificare ciò che non è degno.

Il processo di una presidente del Consiglio contro uno scrittore (ovvero di una capa di governo che occupa un tribunale per una resa dei conti sproporzionata nei ruoli, anche se legittima) avviene perché nel 2020 in una trasmissione televisiva Saviano parlando della morte di un bambino della Guinea durante una traversata nel Mediterraneo, affermò: “Vi sarà tornato alla mente tutto il ciarpame detto sulle Ong: taxi del mare, crociere… ma viene solo da dire bastardi. A Meloni, a Salvini, bastardi, come avete potuto? Come è stato possibile tutto questo dolore descriverlo così? Legittimo avere un’opinione politica ma non sull’emergenza”. “Dopo l’intervista a Saviano nessuno ha chiesto rettifiche o mandato diffide né tantomeno è stata chiesta la rimozione del video”, ha spiegato ai giornalisti il conduttore di quella trasmissione, Corrado Formigli.

A quel processo non si presenterà la querelante, Giorgia Meloni. È curioso che una presidente del Consiglio che imbastisce un processo contro un cittadino non accetti di presentarsi in Aula ma è anche significativo: Meloni non ha nulla da dire, ciò che le serve è solo la lezione del “punirne uno per educarne cento”. Missione compiuta. Il giornalismo paludato racconta spesso quelle udienze con la vischiosità di chi non ha nemmeno bisogno di essere censurato perché si censura da solo.

Nel frattempo, in quegli stessi anni, il ministro dell’Inferno Matteo Salvini scorrazzava per giornali e televisioni definendo la capitana della nave Sea Watch 3 Carola Rackete “sbruffoncella, fuorilegge e delinquente”. La sua colpa era quella di avere forzato le decisioni del ministro Salvini dopo aver salvato 53 persone. La giustizia italiana ha sancito che Rackete abbia fatto benissimo. Anzi, la giustizia italiana sta processando Salvini per aver costretto 160 persone ad attendere a bordo dell’Open Arms 19 giorni prima di poter sbarcare in un porto sicuro nell’agosto del 2019. Rackete, come Giorgia Meloni, ha chiesto di poter avere un processo per la diffamazione continua del ministro Salvini. Il Senato ha negato l’autorizzazione.

Così siamo al punto in cui una presidente del Consiglio trascina in tribunale uno scrittore e una cittadina deve intascarsi gli insulti di un ministro salvato dai suoi senatori.

Bastardi non so ma vigliacchi di sicuro.

Buon giovedì.

Salvi per miracolo? No. È stata la loro cultura della foresta a salvare i quattro bambini

Le situazioni “limite” spingono a ragionare. In particolare quando una crisi – la scomparsa di quattro bambini nell’Amazzonia colombiana di cui uno di soli 11 mesi – si risolve con il loro ritrovamento a 40 giorni dalla caduta del velivolo che li trasportava al villaggio di origine.
A ben pensarci però niente di nuovo. Si ricorderà quanto nella cultura del Settecento la “figura del selvaggio” sia stata di ispirazione. Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) impostò il suo primo fondamentale saggio Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini (1755) esattamente su questa condizione limite. Porsi in una condizione “limite” porta spesso a nuove e fondamentali scoperte. Il nostro Galileo per desumere la legge generale del moto ha pensato a un mondo senza aria. Scoprì che – eliminato questo accidente – una piuma cade come una pietra.
Da poco ho scoperto David Graeber, professore di antropologia, espluso da Yale, anarchico e attivista autore di fenomenali saggi (tra cui il più famoso Bullshit jobs). Graber ha dimostrato l’influenza profonda del cosiddetto mondo primitivo su quello civilizzato. Non è solo un mito quello del selvaggio di Rousseau, ma i concetti di libertà, eguaglianza, fraternità sono stati portati in Francia con i grandi capi Cherokee, Navajo o Sioux dai più curiosi e attenti intellettuali missionari.
Torniamo allora ai nostri bambini e chiediamoci “Cosa li ha salvati?”. Io vi propongo una parola per capire. La parola è cultura. Nello specifico la cultura della foresta amazzonica di cui la più grande tra loro (tredici anni, una bambina per noi, ma una giovane donna in Amazzonia) era in possesso.
Ma allora sotto questa luce come possiamo definire la parola Cultura.

Definizione. Facciamo un passo indietro. Spesso nel linguaggio comune si fa confusione sovrapponendo due termini alla parola cultura: da una parte “l’accumulo delle nozioni” dall’altro “la conoscenza ” – che si trova a un livello più ricco dell’accumulo delle nozioni. Ma attenzione conoscenza non è “esattamente” cultura. Per avere un risposta generica è ormai buona prassi chiedere a ChatGTP. Risponde :«la cultura è un insieme di valori, credenze, pratiche, usanze e conoscenze condivise da un gruppo di persone e che influenzano la loro vita quotidiana, il loro modo di pensare e di relazionarsi tra loro». Ecco, sembra fatto, invece no. Bisogna andare ben più avanti.
Cominciamo con il ribaltare la questione: la cultura non è una cosa (“un insieme di valori…”) ma, una “facoltà”. Propongo di conseguenza che una maniera più interessante per definirla sia: La cultura è la costruzione di una capacità di orientamento che, basandosi sulla comprensione critica del passato, guardi alla costruzione del futuro.
La definizione che abbiamo appena formulato è una “ipotesi”. Nel campo delle scienze esatte una ipotesi deve essere verificata oggettivamente, ma nelle scienze umane, non potendo superare test oggettivi, essa può essere verificata “sul campo”, anzi meglio in una situazione limite. E torniamo ai bambini nella giungla.
Poniamoci in una situazione estrema: è precipitato l’aereo, sono l’unico sopravvissuto e finisco nella foresta amazzonica. Ho la cultura – uso la parola “cultura” appositamente ora – della foresta amazzonica? No, ovviamente. In quanto tempo allora sopravviverò? Poco di certo. Non so cosa mangiare e magari mi avveleno, mi assalgono animali e insetti, non so come trovare l’acqua. Inoltre saprei dove andare per trovare aiuto? Evidentemente no. Sarei completamente “dis-orientato”.
Adesso immaginiamo la scena dei nostri quattro bambini e in particolare della più grande tra loro. Cosa ha la ragazzina che io non ho? Ha, evidentemente, la cultura della foresta amazzonica: una capacità di orientamento (da quella geografica a quella sulla commestibilità) che “dal passato si proietta al futuro”. Il futuro, in questo caso, è riuscire a sopravvivere. Questo primo test sembra validare la mia definizione.
Funzione critica. Soffermiamoci ora su un altra parola della definizione: la cultura “…basandosi sulla comprensione critica del passato…”, cioè la parola cultura ha costruita dentro si sé una funzione critica.
Torniamo alla bambina: nel cammino si possono presentare situazioni nuove o impreviste. Se la cultura fosse solo accumulo di nozioni, e anche se fosse conoscenza, non potrebbe mai rispondere a una situazione nuova. Siccome invece la cultura ha in sé una componente critica (che si basa sulla selezione di alcune e solo alcune delle esperienza passate) essa ha la “potenzialità” di rispondere anche al non-previsto, al nuovo.
La cultura non è quindi l’accumulo di nozioni impartito da un professore a un alunno, ma riguarda l’elaborazione delle nozioni in funzione critica. È proprio questo ciò che serve. Nell’educazione le nozioni sono degli utensili necessari, ma sono degli utensili. Serve insegnare la capacità di orientamento, e la capacità di orientamento implica un atteggiamento critico. Come si ottiene? Di nuovo ci soccorre Graeber che ci ricorda: è il dialogo! (cfr. Dialoghi sull’anarchia di David Graeber e Alberto Prunetti).
Ibridazione. Affrontiamo adesso un altro discorso. Oltre a quella critica, quali altre funzioni ha la cultura? Ebbene ha la meravigliosa capacità di ibridarsi.
Abbiamo parlato di Rousseau e poi dei pensatori rivoluzionari francesi. Ebbene essi ibridarono il ceppo razionale Cartesiano con i concetti che arrivavano da oltre oceano. E come si sa la miscela accese il mondo e il vecchio letteralmente esplose.
Alla fine voglio fare un’altra verifica?. Chi la pensa quasi come me? Ma è il redattore della Treccani che tra tante possibili definizioni distilla questa:
«Cultura 1. a. L’insieme delle cognizioni intellettuali che una persona ha acquisito attraverso lo studio e l’esperienza, rielaborandole peraltro con un personale e profondo ripensamento così da convertire le nozioni da semplice erudizione in elemento costitutivo della sua personalità morale, della sua spiritualità e del suo gusto estetico, e, in breve, nella consapevolezza di sé e del proprio mondo» da Enciclopedia Treccani on line

Leggi anche Una nuova storia non cinica dell’umanità di Rutger Bregman (ndr)

*Articolo corretto il 2 luglio alle ore 17:03