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Marga Ferré (transform! Europe): La sfida della nuova coalizione di sinistra alle elezioni in Spagna

Col cuore e la testa sta in Spagna dove, tra poche settimane, ci sarà un’elezione cruciale che potrebbe riportare gli eredi del franchismo al governo. Lei è Marga Ferrè, appassionata dirigente della sinistra spagnola, due volte deputata all’assemblea regionale di Madrid ed ora copresidente di transform! Europe. La incontriamo a Roma dove ha partecipato a varie iniziative.

Marga Ferré all’incontro “La pace, le lotte, la sinistra e la destra, in Italia e in Europa”, Roma, Casa Internazionale delle donne, 14 giugno 2023

Marga Ferré, che succede in Spagna dove il 23 luglio si terranno le elezioni anticipate?

Io sono spagnola e in Spagna la possibilità, che non mi auguro, che il fascismo torni a governare il mio Paese, mi fa ricordare quando negli anni Trenta la sinistra organizzò i fronti popolari per fermare il fascismo e la necessità dell’unità come costruzione collettiva di fronte al nemico che ci minaccia. Oggi non siamo come negli anni Trenta ma siamo tuttavia in un momento molto particolare della storia, in una situazione di allarme. Il problema è che c’è un’ondata reazionaria, che in Italia conoscete bene, e che in Spagna è rappresentata dall’arrivo della destra e dell’estrema destra di Vox che tra l’altro è il partito fratello di FdI. Giorgia Meloni e Santiago Abascal, presidente di Vox, sono molto amici e la vittoria di Abascal alle recenti elezioni comunali e regionali rende un’ipotesi reale la possibilità che ci possa essere un governo con ministri fascisti. Inoltre penso che l’astensione alle elezioni comunali e regionali, come è avvenuto in Italia, sia un fenomeno che deve essere analizzato. Occorre capire qual è la causa della smobilitazione di una parte della sinistra e quanta di questa smobilitazione possiamo recuperare per fermare la destra, come abbiamo detto ricordando l’appello del Fronte Popolare, e usare Sumar, la nuova coalizione progressista delle sinistre alternative (alleata con i socialisti ndr), come costruzione collettiva.

Ci parli della coalizione progressista.
Il fatto è che i tempi della politica non sono mai decisi dalla classe operaia. Avevamo una proposta per creare un ombrello unitario, Sumar, che raccogliesse forze politiche e singole persone, cittadini, intorno a una proposta progressista, però alcune elezioni comunali e delle autonomie in Spagna hanno dato la vittoria alla destra e questo ha costretto il presidente Sànchez a convocare immediatamente le elezioni generali il 23 luglio. Quindi non c’è stato quel processo che avevamo ideato, tutto ha subìto una accelerazione, credo troppo veloce, anche se comunque al processo di costruzione di Sumar partecipano 13 partiti politici, fondamentalmente i più importanti, Esquerda Unida, Podemos, Cataluña in Comune con alcuni piccoli partiti verdi. Questa è stata la proposta di Yolanda Diaz, che, come tutti sapete, è la ministra del Lavoro e uno dei ministri più apprezzati dal popolo spagnolo, la politica più apprezzata in Spagna per le sue azioni concrete, per alcune leggi sul lavoro e il modo in cui ha operato. Il problema è cosa succederà il 23 luglio: io sono a favore di Sumar e voterò per Sumar e spero che avremo un buon risultato elettorale. Sono convinta che il pensiero progressista della sinistra abbia un ruolo da svolgere non solo per costruire alternative, ma anche per negare la possibilità della barbarie. Anche per questo l’incontro che abbiamo promosso qui in Italia come transform Europa e Italia è stato molto importante per noi, per me stessa.

Cosa pensa della discussione sull’Italia che abbiamo svolto nella giornata organizzata da transform! Europe e Italia?

In transform! Europe abbiamo pensato da molto tempo di fare una riflessione sulla questione italiana. Per noi non è possibile immaginare un’Europa e una sinistra europea senza la presenza italiana. Questo è qualcosa in cui crede tutta la rete di transform! Europe, ed io in particolare, come tutta la sinistra spagnola, ho un punto di riferimento enorme nella sinistra italiana, sia a livello teorico che dei grandi dirigenti che fanno parte della cultura politica di molti Paesi in Europa. È molto difficile immaginare un disegno europeo senza una proposta italiana. Per questo abbiamo pensato che ogni iniziativa che aiutasse ad aprire dialoghi, a creare ponti per costruire un’alternativa italiana per le elezioni europee, o almeno a parlarne, ci sembrava importante. Siamo qui per aiutare un po’, come sta facendo transform! Italia, a far interloquire tante persone in un momento molto particolare dell’Europa e della storia d’Italia come questo. Non so se ho capito male, ma non credo, ma mi pare che in tutte le persone e in tutte le distinte sensibilità che ho sentito, ci sia stata un’enorme quantità di terreno comune. Dalla proposta di Michele Santoro ai rappresentanti politici che hanno partecipato, non ho sentito lingue diverse, e non sono naif – capisco quando ci sono cose tra le righe. Penso quindi che si possa aprire una possibilità di unità, che dal mio punto di vista è una necessità storica, per il ritorno della sinistra italiana nel Parlamento europeo. Chiaramente nel modo in cui gli italiani decideranno, farlo non è il mio ruolo, ma faccio mie le parole di Manon Aubry che in quella iniziativa, come copresidente del gruppo della sinistra al Parlamento europeo, ci ha detto che una sinistra europea senza una presenza italiana è monca, come la mancanza di un braccio, la mancanza di un po’ di cervello, io direi. Penso dunque che sarebbe bene che mettessimo tutto l’impegno possibile perché ci siano voci della sinistra italiana nel Parlamento europeo il prossimo anno.

Transform! Europe ha anche organizzato tre giorni di incontri, seminari e workshop dal suggestivo titolo “la Fabbrica del futuro”. Ci può dire qual è l’intenzione e perché è stata promossa qui a Roma?

L’intenzione è quella di contendere al capitalismo la distopia del futuro. Il capitalismo contemporaneo nega la possibilità non solo di un’alternativa, ma di un futuro diverso che non sia capitalista. La famosa frase “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo” non è la verità. L’idea che ci muove quindi è quella della disputa del futuro, ecco perché abbiamo voluto organizzare una “fabbrica” per pensare ad un futuro diverso, a partire da vari temi del pensiero accademico. È la contesa del futuro, con la creazione di nuove utopie, del ritorno dell’utopia, del ripensare alla possibilità di mondi diversi. Davanti al cambiamento climatico, alla lotta delle donne e naturalmente della classe operaia, ad un nuovo uso del tempo, al capitalismo digitale, abbiamo bisogno di idee nuove, molto avanzate e molto necessarie per noi, da condividere. Questa era l’idea originale della Future factory. La guerra in Ucraina ha reso necessario concentrare i nostri sforzi sull’analisi della situazione dei rifugiati dalla guerra e delle politiche di sicurezza, che è al centro di ciò che stiamo discutendo e che inizialmente avevamo previsto di fare a Sarajevo come atto simbolico. La scelta di Roma ha a che fare con la grandezza del movimento pacifista in Italia che è stato l’unico Paese europeo a realizzare grandi manifestazioni unitarie per la pace. Credo che dobbiamo valorizzare questo aspetto ed è per questo che siamo qui per la prima volta come laboratorio. Un esperimento, e ne siamo molto felici.

L’appuntamento La Pace, le lotte, le destre e le sinistre in Italia e in Europa, questo è stato il titolo dell’iniziativa che transform! europe e transform! italia hanno promosso il 14 giugno scorso presso la Casa Internazionale delle Donne di Roma e a cui ha preso parte Marga Ferré. Un appuntamento che ha visto due momenti di discussione sulla situazione italiana. Il primo, con una introduzione di Fausto Bertinotti, e la partecipazione di diversi rappresentanti sociali come il presidente dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo, Salvatore Marra (Cgil), Walter Massa (Arci), Camilla De Simone (Paese Reale), Maria Luisa Boccia (Crs), Franco Russo (Osservatorio Ue), Giovanni Russo Spena (Lab Sud), Patrizia Sentinelli (Altramente). Il secondo momento, più dedicato alle vicende politiche della sinistra in Italia introdotto da interventi della co-presidente di transform! europe Marga Ferrè e di Manon Aubry co-presidente del gruppo the Left al Parlamento europeo e moderato da Roberto Musacchio in cui hanno preso parola Michele Santoro, Maurizio Acerbo (Rifondazione comunista), Giuseppe de Cristofaro (Sinistra Italiana), Giuliano Granato (Potere al Popolo), Yana Ehm (Manifesta), Mauro Alboresi (Pci), Eleonora Forenza (ex deputata europea) e con le conclusioni di Cornelia Hildebrandt (co-presidente di transform! Europe) e Walter Baier (presidente del Partito della Sinistra europea).

Nella foto: frame del video in cui Yolanda Diaz presenta i candidati di Sumar alle elezioni del 23 luglio, 21 giugno 2023

In Senato va in onda la verità calunniata

“Quando Berlusconi decide di scendere in campo, accanto ai grandi successi e cambiamenti che impone alla politica, si crea un problema che lui denunzia come persecuzione, che è un problema non solo giudiziario ma a suo avviso anche mediatico, che durerà parecchi anni. Non si è mai sottolineato, però, che un giudice a Berlino Berlusconi lo troverà sempre, se è vero che tutte le accuse più gravi – tranne una, quella per cui è stato condannato- cadranno nel nulla“. Parole del presidente del Senato Ignazio La Russa. Si è dimenticato di dire che gran parte dei 36 procedimenti penali a cui Berlusconi è stato sottoposto sono stati evitati grazie a leggi ad personam, prescrizioni, codicilli aggiunti pro domo sua.

“Aveva sempre il sole in tasca. Odio e invidia non sapeva dove stessero di casa. La sua mancanza è un vuoto difficile da colmare ma i suoi insegnamenti resteranno un faro. Grazie presidente. Il suo spirito continuerà a vivere nei nostri cuori”, dice Licia Ronzulli. Discorso agiografico al limite del ridicolo di Antonio Tajani: “Berlusconi era un uomo di Stato e di governo che metteva sempre al centro la persona. Era un combattente ma ha sempre rispettato tutti gli avversari”. Del resto come non ricordare quando definì “coglioni” gli elettori degli altri partiti.

“Il ricordo è soprattutto per la sua umanità: la capacità di mettersi in sintonia con i capi di Stato e con la gente più comune. Ha avuto la capacità di essere un combattente senza mai usare parole di odio per nessuno, neanche contro coloro che l’hanno espresso, anche recentemente, nei suoi confronti”, dice invece il capogruppo di Fratelli d’Italia Lucio Malan. Ne sa qualcosa la magistratura italiana, definita di volta in volta “metastasi”, “mentalmente disturbati” e così via.

Il nuovo Berlusconi, Matteo Renzi, come Silvio non riesce a non parlare di sé stesso ogni volta che parla di altri: “Mi viene in mente il primo incontro con lui, il famoso “pranzo di Arcore“, quando andai a chiedergli i soldi per Firenze: lui volle che al pranzo ci fossero anche i figli. Io da lui ho capito che il più grande lusso della vita sono i rapporti umani. È questo che mi porto dietro di Silvio Berlusconi: uno statista, ma soprattutto un uomo capace di rapporti umani“, dice.

Applausi scroscianti.

Buon mercoledì

Nella foto: frame del video di Senato tv, 20 giugno 2023

Viaggio nella Romagna alluvionata che ancora aspetta risposte

Pier Luigi Fagioli

L’alluvione che ha flagellato la Romagna tra il 16 e il 17 maggio ha lasciato conseguenze pesanti in tutta la Regione. A un mese di distanza, l’emergenza è solo parzialmente rientrata e lascia il campo a dubbi e incertezze dal punto di vista economico, ambientale e sanitario.
La cosa che più sorprende, a detta dei testimoni, è la varietà di forme con cui l’acqua ti sommerge. A volte la vedi arrivare di colpo, con un’ondata furiosa. A volte cresce poco a poco, come una coltre che si dispieghi inesorabile, avvolgendo, uno strato dopo l’altro, i campi, le ferrovie, le strade, le case. Il paesaggio scompare sotto un manto color fango che si insinua in ogni fessura. Rotto l’argine, qualsiasi gesto di resistenza di fronte alla gravità dell’acqua è inutile. L’unico scampo è fuggire, trovare un riparo, correre in alto il più veloce possibile.
Gli occhi di chi racconta hanno ancora il riflesso di questa marea inarrestabile o delle frane che hanno tempestato i declivi. E sarà difficile dimenticarsene. Perché l’alluvione avvenuta in Romagna a maggio è stata davvero un evento eccezionale, che nessuno, da queste parti, aveva mai sperimentato. Nemmeno i più vecchi ricordano un disastro tale. A leggerli, i dati sono impressionanti: in sole 36 ore sono piovute sulla regione precipitazioni che in media cadono in una stagione, provocando oltre 400 frane in Appennino, da Rimini a Bologna, e l’esondazione di 23 fiumi in pianura, con 16 vittime e migliaia di sfollati. La furia della pioggia ha travolto tutto: rive, colline, città e campagne. E a guardarlo ora, a quasi un mese di distanza, il territorio romagnolo appare uscito da una guerra. Crivellato di crolli sui pendii, impastato di argille in pianura, il paesaggio ha cambiato forma, come sconvolto da un ordigno di incommensurabile potenza.

Dalla montagna alla pianura
Il viaggio dall’Appennino alle pianure è uno zigzagare continuo tra frane e fangose carrarecce. Molti paesi e borghi in collina sono rimasti a lungo isolati. Altri, a settimane dall’evento alluvionale, sono ancora raggiungibili a stento, con complesse circonvoluzioni per strade secondarie. Ranchio, Modigliana, Sorrivoli, Monteleone: ecco alcuni dei nomi della miriade di paesi e borghi colpiti da frane e smottamenti. Ad attraversarli, si tocca con mano l’entità del disastro. Strade incrinate dal furore delle acque; ponti sbriciolati lungo forre e pendii. Gli abitanti hanno continuato a resistere nelle settimane di isolamento, e ora si affaccendano puntellando qua e là la terra che cede. Uno sforzo enorme, in cui i macchinari, date le condizioni spesso impervie, svolgono solo una parte dei lavori di ripristino.

Il compito più duro, del resto, è ora fare il conto dei danni, delle attività perse e di quelle da ricostruire. La distruzione è vasta e molteplice, e va dalle coltivazioni abbattute o sepolte al danneggiamento di magazzini, allevamenti, ristoranti e strutture di ospitalità turistica. Per quanto sia ancora prematuro fare un bilancio definitivo, si può intuire quanto l’economia delle regioni collinari e montane, già messa a dura prova da decenni di spopolamento, sarà ulteriormente incrinata dal disastro.
«Turismo e ristorazione colmavano i vuoti di un’agricoltura e di un allevamento che non rendono più come un tempo», dice Fabio, gestore di un agriturismo sulle colline di Cesena. «Ma quest’anno, con le strade interrotte e i danni alle coltivazioni, sarà molto difficile ripartire».
Mano a mano che si scende verso la pianura, i crolli e le frane lasciano posto alle croste di argilla nei campi e ai refoli di melma ridotta in polvere ai bordi delle strade. A quasi un mese dall’alluvione, alcuni quartieri di Forlì e Faenza hanno ancora acqua e fango nelle cantine e nei garage. A estrarre gran parte della melma dalle case, con abili passamano di secchi, sono state squadre di volontari e volontarie pervenute da tutta Italia, che hanno lavorato per giorni e giorni, armate di pale, carriole e secchi, nel tentativo di supplire alla scarsità di macchinari e pompe idrovore. Un bel gesto di solidarietà, che non cancella però dalla memoria di molti le manchevolezze istituzionali e che appare ancora più rivelatore nel momento stesso in cui il governo ritarda lo sblocco dei finanziamenti per gli aiuti.
«Con i mezzi giusti, in tre ore potremmo avremmo potuto compiere il lavoro fatto in tre giorni da tre squadre di volontari», dichiara Stefano, uno degli abitanti. «Ma mezzi e risorse erano sempre pochi, e dobbiamo davvero ringraziare tutti coloro che ci hanno dato una mano».
La stessa sensazione è ribadita da Marcella, mentre smista pacchi di alimenti e prodotti igienizzanti a famiglie alluvionate nell’hub dove si raccolgono le tante donazioni allestito alla periferia di Faenza: «Senza la fatica dei volontari e delle volontarie, la situazione sarebbe peggiore», afferma. «Molto peggiore».
Intanto, nelle vie più colpite, dove il livello dell’acqua, a ridosso degli argini, è arrivato talora a 3 o 4 metri, si affastellano ancora cumuli di masserizie, resti di mobilia, spaccati di vita a cui il fango ha sottratto dignità e memoria. La reazione degli abitanti è varia: c’è chi ripassa minuziosamente gli oggetti, cercando di salvarne il più possibile, e chi invece lascia perdere, gettando tutto come fosse un capitolo chiuso. Ad ogni modo, il loro destino è certo. Finiranno nelle immense discariche create attorno alle città e ai paesi colpiti: ettari di rifiuti accatastati, che chiazzano il territorio agricolo come marchi ingombranti di una perdita irreparabile.

foto di Pier Luigi Fagioli, come l’immagine in apertura

Verso la foce
Conselice si annuncia a chilometri di distanza. L’odore acre e pungente penetra le narici già da Sant’Agata del Santerno, un altro dei paesi della provincia di Ravenna alluvionati, e si fa sempre più intenso mentre ci si avvicina. Per una sciagurata coincidenza di fattori, il paese, balzato alle cronache come emblema di quest’alluvione, è stato allagato da una coltre di acqua stagnante per più di dieci giorni. Un’enormità di tempo, che ha messo in allarme le autorità sanitarie e spinto a proporre l’evacuazione degli abitanti. Ora le acque si sono ritirate, ma la loro presenza rimane in quest’aria che sa di argilla, fogna e gasolio.
«Fino a qualche giorno fa, la puzza era ancora più intensa», afferma Luca, uno dei volontari accorsi. «E ci dovevamo muovere con molta circospezione, armati di occhiali e mascherine. Ora il pericolo è meno visibile, ma sempre presente. Chissà quanta porcheria c’era in quest’acqua. E adesso il fango diventa polvere, e vola dappertutto».
Quello dell’inquinamento residuo sarà uno dei problemi più importanti da affrontare. Fertilizzanti, pesticidi, gasolio, liquami tossici e altre sostanze presenti nei magazzini agricoli e nelle aziende colpite sono stati dispersi dalla furia delle acque nei corsi d’acqua e nei campi coltivati. E le prime stime sono inquietanti. Circa il 40% dei campi coltivati in Romagna è stato compromesso dall’alluvione. Per ora, i danni accertati sono quelli più visibili: la spessa crosta di fango rimasta nelle campagne, che impedisce la percolazione delle acque e mette a rischio migliaia di ettari di colture. Ma molti sanno che il vero pericolo è nello sversamento sui campi di sostanze tossiche. E verificare la salubrità dei suoli e dei prodotti agricoli sarà un lavoro lungo e paziente, di cui nessuno, finora, ha compiuto una stima concreta.
Proseguendo verso la foce, i fiumi continuano a trasportare fango e liquami, e così sarà ancora per giorni. In riviera, nel frattempo, aleggia la preoccupazione. Lo scarso ricambio d’acqua nell’alto Adriatico e i fondali bassi e sabbiosi favoriscono la sedimentazione di reflui e contaminanti. E a rischio, oltre alla salute di ecosistemi costieri già messi a dura prova da decenni di cementificazione, inquinamento ed erosione, ci sono le economie della pesca e dell’acquacoltura.
«A pochi chilometri di qui, nel Destra Reno, una decina di giorni fa sono morte migliaia di pesci. Nelle piallasse di Ravenna, c’è stata una morìa di cozze e vongole. Pensi che la gente avrà voglia di fare il bagno, ora?», si chiede Marta osservando l’acqua torbida sulla spiaggia di Casalborsetti. Siamo appena all’inizio della stagione turistica. E nessuno, nonostante i proclami ottimisti della Regione, ha il coraggio di fare pronostici.

Un bagno di lucidità
Con una metafora forse spietata ma efficace, c’è chi parla del disastro alluvionale come di un bagno di lucidità. A pensarci bene, la provocazione non pare esagerata. Al di là della reazione degli abitanti e della solidarietà di tanti volontari, gli eventi accaduti in Romagna sono la tangibile testimonianza di quanto i nostri territori siano impreparati ad affrontare eventi meteorologici o geologici estremi. Più che in cielo, allora, è a terra, nelle ferite aperte, che occorre guardare. Individuare errori e manchevolezze, e partire di qui per pianificare un uso diverso dei territori, anche in vista delle mutate condizioni del clima e della biosfera.
Gli strumenti non mancano. In un bel libro uscito nel 2019 (L’equazione dei disastri, Codice edizioni), ad esempio, il fisico e climatologo Antonello Pasini descrive il rischio di un territorio come il prodotto di vari fattori: la pericolosità, ovvero l’intensificarsi di eventi atmosferici estremi; l’esposizione, ovvero la presenza di centri abitati in aree esposte a pericoli atmosferici o idrogeologici; la vulnerabilità, ovvero l’inadeguatezza degli insediamenti e delle infrastrutture rispetto all’intensificarsi di eventi estremi. Tra il 16 e il 17 maggio del 2023, la Romagna ha concentrato, elevandoli a potenza, tutti questi fattori di rischio. Un evento meteorologico violentissimo, generato forse dai mutamenti del clima in corso, si è abbattuto infatti su uno dei territori più densamente abitati e fragili dal punto di vista idrogeologico dell’intera penisola. I suoli impermeabilizzati dalla siccità che aveva flagellato la regione nei mesi precedenti hanno favorito il ruscellamento delle acque. Le tante aree cementificate in collina e in pianura, pure, facendo aumentare la massa d’acqua e la sua velocità di scorrimento. L’alterazione degli alvei fluviali operata negli ultimi decenni, con la canalizzazione in alvei sempre più angusti, ha fatto il resto. Il risultato è un territorio estremamente vulnerabile, esposto come mai prima alla volubilità del clima e dei fenomeni idrogeologici.
A fronte di questa vulnerabilità e dei numerosi avvertimenti, fa impressione constatare quanto poco si sia fatto in questi anni per adeguare e mettere in sicurezza i territori. Pochi adeguamenti, nessuna misura significativa di riduzione del rischio. E un’ostinazione pervicace nel promuovere investimenti nell’economia fossile, in nuove urbanizzazioni, grandi opere e infrastrutture. Nella regione con il maggior tasso di consumo di suolo in aree ad alta e media pericolosità idraulica, anche le leggi specifiche, da questo punto di vista, possono diventare armi a doppio taglio: l’articolo 53 della legge 24/2017 dell’Emilia-Romagna sul consumo di suolo prevede infatti una deroga alle limitazioni per ragioni di pubblico interesse. E tra queste ragioni, figurano la costruzione di nuove arterie stradali e di grandi poli logistici.
Resta così aperto il dibattito su quale modello di gestione territoriale si debba promuovere dopo la catastrofe. Da una parte c’è un fronte compatto di forze politiche e attori economici, che intende proseguire sullo stesso solco dei decenni passati, conferendo alla produzione e distribuzione di merci e alla rendita immobiliare la massima priorità. Dall’altra movimenti che esigono un cambio di rotta, fatto di attenzione per le dinamiche degli ecosistemi e la sicurezza dei territori. Quest’ultima è l’idea che ha portato migliaia di persone a manifestare a Bologna. E questa è l’idea che comincia a serpeggiare anche tra le migliaia di abitanti alluvionati.
«Dicono che ricostruiranno tutto come prima. Ma se siamo qui a leccarci le ferite e a fare il conto dei danni, non sarebbe opportuno pensare a costruire meno e meglio?», si chiede Franco, mentre osserva l’acqua che risale dai tombini intasati dal fango dopo un temporale alla periferia di Forlì. Una domanda sensata, la sua. Che riassume, con logica esemplare, una serie di problemi con cui società e politica dovranno prima o poi fare i conti.

Gli autori:
Andrea Fantini ha studiato scienze geografiche, ambientali e agro-forestali alle università di Bologna e Barcellona. Ricercatore, fotografo e comunicatore scientifico, è autore del libro Un autunno caldo: crisi ecologica, emergenza climatica e altre catastrofi innaturali (Codice Edizioni, 2023).

Pier Luigi Fagioli è un fotografo impegnato da tempo nella documentazione di questioni ambientali e sociali.

L’Afghanistan delle donne che resistono, raccontato da Barbara Schiavulli

Ha scritto dal Medioriente ma anche dall’Africa, Darfur, Malesia, Sudan, Venezuela. Barbara Schiavulli è stata dovunque la guerra alzava le sue polveri. Scrive di Afghanistan da ventidue anni documentando le fasi della ripresa del dominio talebano, dando voce a quanti non sono ascoltati dal potere ufficiale. Collabora con Bbc Arabic e dirige Radio Bullets. Da poco è uscito il suo libro Burqa Queen, a metà tra il romanzo e il documento, mutuato dalla realtà della donna afgana, ma con un intreccio appassionante. In vista della sua partecipazione agli Emergency days a Ferrara in un talk mercoledì 21 giugno dedicato alle donne afgane e iraniane con la ricercatrice italo-iraniana Farian Sabahi e Laura Castigliani, ostetrica di Emergency in Afghanistan, coordinato da Simona Maggiorelli di left le abbiamo rivolto alcune domande.
Barbara Schiavulli, free lance per passione e forse per elezione, sei stata presente in tutti i teatri di guerra degli ultimi vent’anni, dalla Malesia all’Iraq allo Yemen, perché hai scelto la forma più dura di corrispondenza: inviato di guerra?
Ho sempre desiderato essere un’inviata, mi piace viaggiare, sono curiosa, ho un forte rispetto della diversità, delle persone, delle loro storie e naturalmente la scrittura è la forma di espressione nella quale mi trovo più a mio agio. Ma non posso nascondere che avere dei genitori appassionati di “cause” con una madre di colore che mi ha trasmesso un forte senso di giustizia, mi ha reso in parte la persona che sono, motivo per il quale oggi buona parte del mio lavoro guarda più ai diritti delle persone che agli interessi della politica.
Il libro Burqa queen, malgrado il titolo possa risultare ironico, ha una forte drammaticità, sono storie di donne in una situazione di prigionia: Si percepisce che l’Afghanistan è la terra che ami di più, che ti è rimasta nel cuore. Cosa rappresenta per te?
La considero la mia “terra gemella”, il posto al quale mi sento sicuramente più legata e non ho una ragione precisa, potrei parlare delle storie che ho scritto, delle persone che ho incontrato, degli eventi che ho vissuto, perfino dei pericoli che ho affrontato, ma la verità è che è una cosa di pelle. Amo quelle persone, la loro arguzia, la loro resistenza, le risate nonostante l’immensa sofferenza che hanno e continuano a vivere. In particolare le donne. Mai dire che le donne sono deboli, le donne possono essere vulnerabili ma sono la forza trainante di quello che rimane di una società che trascorre la propria esistenza in guerra.
Tu scrivi: “siamo in guerra. Una guerra non dichiarata ma che miete continuamente vittime. Da secoli e non solo in Afghanistan” e sottolinei che calpestare il diritto di studiare, lavorare, di decidere del proprio corpo, ma prima di tutto il diritto di essere non è negoziabile. Come vinciamo questa guerra?
Con l’istruzione. La pace si costruisce e lo si fa passando attraverso la cultura. Tutte le comunità estremiste, che siano politiche, etniche o religiose, tentano di sabotare la cultura, l’unico mezzo con il quale diventa difficile controllare un popolo. I talebani non solo non hanno avuto paura di combattere contro i migliori eserciti del mondo, ma li hanno battuti. E quale è stata la prima cosa che hanno fatto quando hanno conquistato il Paese? Impedire a metà della popolazione di studiare. E quindi invece che in armi e guerre investirei nell’unica cosa che tutti i dittatori e populisti temono: la scuola. E poi serve anche che gli uomini si attivino, una donna viene stuprata ogni 6 secondi nel mondo, non riguarda solo noi. Non può essere solo la nostra battaglia. E non basta essere uomini perbene, bisogna impegnarsi a cambiare il mondo e distruggere il patriarcato che non ci rappresenta più.

“sangue, sempre sangue” si legge nell’epilogo del tuo libro. E aggiungi: “per qualcuno che non sei tu e che non siamo noi.” Sempre contro la guerra e la violenza. Ci racconti qualcosa di più della tua visione?
Per me la guerra è il male assoluto. L’ho vista e l’ho vissuta, spesso chi la scatena lo fa da dietro una scrivania senza rischiare. Non conosco nessuno che ha veramente scatenato una guerra per salvare qualcuno. Le guerre uccidono. La guerra è fatta di interessi, non da persone.
“I medici curano, gli operatori aiutano, noi, atleti delle parole le rendiamo reali, non permettiamo che le parole nostre e di chi attraversa la guerra, vengano dimenticate” Ti chiedo :”Quanto possiamo incidere con il nostro lavoro (il vostro duro lavoro di inviati) sulla situazione politica? Come possiamo contribuire al cambiamento?

Il nostro lavoro è informare, è creare una società consapevole che possa decidere il proprio futuro. Serve la pluralità del pensiero, non la “mononotizia” a cui vanno tutti dietro. Ci sono decine di guerre, di oppressioni e abusi. Di prigionieri politici, di giornalisti imbavagliati, o uccisi. Dovremmo parlare più del mondo che ci aspetta che di cani e gattini. Il giornalismo per me è un servizio e pilastro della democrazia. Deve controllare il potere e se necessario sfidarlo. Poi sarà la gente bene informata, a fare la differenza.

Il libro di Barbara Schiavulli: Burqa Queen affresca un teatro di guerra che già basterebbe da solo come materia di racconto, ma all’interno della Storia c’è un’altra storia, quella di tre donne: Farida ,con l’amore per Najib, prima suo insegnante di inglese e poi soldato, della bambina Noor, nata dalla loro unione, brutalmente interrotta dai genitori di lui, di Layla maritata, secondo costume locale, soli 16 anni, proprio con Najib, che non si è sottratto ad un matrimonio combinato, come da tradizione, rinunciando a Farida, e di Faruz, la poliziotta, fiera di difendere l’ordine del suo Paese ma che è stata spodestata da ogni suo compito e costretta a casa. Nel finale le tre si ritrovano in quella che potrebbe definirsi un “enclave” di donne che, fingendo di cucire, per proteggersi dall’ira talebana, leggono e studiano, preparando la fuga. Fino all’epilogo finale altamente drammatico: Najib, scopre l’esistenza di Noor, la figlia nata dal rapporto con Farida e che per legge appartiene a lui. Decide così di denunciare le donne per riaverla a nulla servirà l’amore mai dimenticato per Farida, l’affetto per la timida moglie Layla. Faruz, la più forte, userà la sua pistola d’ordinanza…..

Qui il video di Left al Festival di Emergency del 2022 con Enrico Galiano

Cosa c’è di più violento di un attacco agli affetti?

Il disastro lo spiega benissimo Riccardo Magi, segretario di +Europa: “È arrivata la notizia del primo annullamento, una conseguenza di questo clima di persecuzione che c’è contro le coppie omogenitoriali. La procura di Padova ha impugnato 33 atti di nascita, non sono pezzi di carta ma bambini, esseri umani: ecco cosa produce l’omofobia di Stato di questo governo e di Piantedosi”. Intervistato da La Stampa Magi è assolutamente convinto che malgrado a parole il governo continui a dire che non vuole colpire i bambini, siano proprio i minori a essere discriminati. “Come si fa a dire che non si vogliono discriminare i bambini? È il ritornello che abbiamo sentito dalla maggioranza in queste settimane: oggi si vede che c’è una discriminazione forte. C’è una volontà di sterilizzazione delle persone Lgbtq+”. “Non possono adottare, non possono accedere alla gestazione per altri, vengono annullati atti di nascita che sono stati registrati in Paesi dove la Gpa è legale. Ci sembra uno scenario molto pesante e ci chiediamo anche se questi prefetti non abbiano altro di meglio da fare. È una vera e propria persecuzione. Una caccia a queste famiglie e a loro bambini, parliamo di famiglie consolidate, con bambini non neonati ma di sei anni”.

Di decisione “crudele e disumana” parla il deputato del Pd Alessandro Zan che la definisce una “diretta conseguenza della politica persecutoria del governo contro le famiglie arcobaleno. Questi bambini rimarranno orfani di una madre per decreto”. “Ma come si fa a cancellare una mamma per decreto? Il tentativo della procura di Padova di cancellare il diritto al riconoscimento di 33 bambini avvenuto già nel 2017, mi sembra un accanimento ingiustificato, in linea con un governo che vorrebbe controllare le vite, i destini e le scelte personali di tutti noi. Ci vogliono riportare al Medioevo, ai confini dell’Europa come le peggiori destre”, dice l’eurodeputata dem Alessandra Moretti.

Chissà cosa ne dicono quelli che da mesi sminuiscono la violenza di questo governo (nelle parole e nelle azioni) della politica che mette le mani negli affetti già cari, giustificandosi con “le carte a posto”. Chissà cosa serva più di qualche decina di bambini che si svegliano orfani per decreto.

Buon martedì.

Voi vi fidereste di Galeazzo Bignami?

foto di Caterina Spadoni

Come siamo messi sulla ricostruzione in Emilia Romagna? Il ministro per la Protezione Civile Nello Musumeci qualche giorno fa ci aveva spiegato che “il governo non era un bancomat”. Dopo giorni di promesse, dopo 2,2 miliardi di euro che si sono magicamente ridotti a 1,6, dopo una nomina del commissario per l’emergenza che non arriva per mero calcolo politico la situazione è peggio di quanto si possa credere.

“Ad oggi ancora la Regione non ha trasmesso al governo, benché richiesto, nessun elenco degli interventi da eseguire. Ha chiesto 2,3 miliardi subito, sulla fiducia. Voi vi fidereste di Schlein e compagni? Ps: la cura del territorio colpito era competenza loro”, ha scritto sui social l’esponente di Fratelli d’Italia, Galeazzo Bignami. Sottotesto: avete votato a sinistra e quindi oltre a non darvi i soldi vi offendiamo mentre siete con i piedi in mezzo al fango.

Quanto la frase di Bignami sia stupida l’ha spiegato molto bene Davide Baruffi, sottosegretario alla presidenza della giunta regionale: “Bignami sa, o dovrebbe sapere – aggiunge Baruffi – che la ricognizione puntuale dei danni è attivata dal commissario per l’emergenza così come disposto dall’ordinanza del capo del dipartimento della Protezione civile dello scorso 8 maggio, nei 90 giorni successivi. Tuttavia – continua – per rappresentare al meglio al ministro competente lo stato dell’arte, nell’incontro di giovedì scorso al tavolo col governo il presidente Bonaccini ha già prodotto una prima stima, frutto dell’inteso lavoro condotto da sindaci e presidenti di Provincia, agenzia regionale di protezione civile e consorzi di bonifica, associazioni imprenditoriali e professionisti. Un lavoro estremamente importante che ci ha già consentito di presentare da un lato l’ammontare complessivo dei danni subiti dal sistema dell’Emilia-Romagna, dall’altro – in modo ancor più accurato e dettagliato – individuare e quantificare gli interventi urgenti e necessari per mettere in sicurezza – conclude – i fiumi entro la fine dell’estate, quelli per riparare le infrastrutture che ancora isolano le comunità e impediscono a diverse imprese di operare, quelli per le prime misure di sostegno alle attività economiche”.

Galeazzo Bignami è l’esponente meloniano di Fratelli d’Italia famoso (solo) per essersi travestito da nazista “a una festa”, come ha spiegato dopo per giustificarsi. Galeazzo Bignami è l’emblema di questo governo che al posto di governare fa opposizione all’opposizione perché è l’unica cosa che sa fare. Galeazzo Bignami tra l’altro viene da quella Regione: dopo la settimana corta a Roma in Parlamento torna presumibilmente ogni fine settimana in mezzo a quei cittadini su cui sputa. Bignami è un nome ancora “caldo” per la nomina di commissario straordinario.

Voi vi fidereste di Bignami?

Buon lunedì.

La lezione delle mondine per combattere lo sfruttamento dei lavoratori

Alla fine dell’Ottocento, le mondine che lavoravano nelle risaie della bassa Valle Padana erano certamente tra le lavoratrici più precarie e vulnerabili di quegli anni. Donne per lo più giovani, lavoravano stagionalmente, quasi sempre lontano da casa, sfruttate con arbitrio e prepotenza dai padroni.
La loro controparte era particolarmente agguerrita. Si trattava della nuova borghesia agraria che aveva investito nel passaggio dalla risaia stabile in quella avvicendata con colture asciutte, tra cui le foraggere. Quest’ultime avevano incrementato l’allevamento di stalla garantendo ulteriori, non piccoli profitti.
Eppure le mondine furono protagoniste di lotte epiche e capaci di ottenere risultati straordinari. Insieme agli altri lavoratori stagionali delle campagne, e non solo, avevano la necessità di reagire ad una disoccupazione endemica, aggravata proprio dalle trasformazioni produttive in atto. Necessità che le indusse ad auto-organizzarsi in leghe di resistenza.
Già nei primi anni Novanta dell’800 si batterono per il riconoscimento delle loro organizzazioni e per ottenere, con questo strumento, una trattativa collettiva delle condizioni d’impiego, prima dell’inizio dei lavori.

Lo sciopero era reato e i sindacati, allora ancora agli inizi, erano considerati organizzazioni antistatali. I padroni avevano tutte le armi: ricattarle, licenziarle e sostituirle, far intervenire la polizia. Ciò nonostante, le mondine, in non pochi casi, li costrinsero a cedere; perché per i proprietari l’alternativa era perdere tutto il raccolto e compromettere anche le foraggere necessarie all’allevamento. Per le mondine il punto di forza era rappresentato essenzialmente dalla solidarietà delle altre lavoratrici e lavoratori dei campi ed anche di altre categorie che vivevano in condizioni di sfruttamento ed oppressione non molto dissimili, ma anch’esse organizzate in leghe di resistenza. Solidarietà pronta a scattare contro crumiraggio o repressione.

Nei primi anni del Novecento col riproporsi sistematico delle lotte nelle campagne e nell’industria, specie negli epicentri, le organizzazioni sindacali si rafforzarono fino ad obbligare i proprietari a trattare e ad ottenere, dove erano più forti, come nella bassa pianura emiliana, che non fossero assunte risaiole o altri lavoratori non iscritti alle leghe. Inoltre intervenivano non solo nella contrattazione delle tariffe, ma anche nella distribuzione del lavoro. La conflittualità divenne sempre più aspra giacché comportava un mutamento radicale dei modi d’intendere i rapporti di lavoro da parte dei padroni, consolidati da molto tempo.
Non mancarono effetti politici, anche nazionali, come quelli provocati dallo sciopero generale del 1904 e dalle altre agitazioni di quegli anni. L’acme della conflittualità fu raggiunto nel ciclo di lotte del 1910-13, quando assunse carattere pressoché generalizzato la rivendicazione di attribuire alle organizzazioni di classe la completa gestione del collocamento della manodopera, nonché del controllo delle forme del suo impiego. Rivendicazione portata avanti anche nelle lotte delle mondine e che ebbe larga risonanza politica sia perché provocava contrapposizioni irriducibili, sia perché favoriva i collegamenti fra varie categorie, anche di lavoratori dell’industria. Le mondine non furono in seconda fila neanche nelle lotte contro la disoccupazione nel primo dopoguerra. Infatti nel 1920 anch’esse raggiunsero un obiettivo straordinario: l’imponibile di manodopera. Furono, cioè, capaci d’imporre ai proprietari un determinato numero di lavoratrici in rapporto all’estensione delle risaie in cui venivano impiegate. Conquista straordinaria ed estesa dalla bassa pianura emiliana al Vercellese.

Queste, pur sintetiche, considerazioni inducono lo storico ad un confronto con quanto sono costretti a subire, oggi, gli strati più precari e poveri di lavoratori nei Paesi del tardo capitalismo. Pur in presenza di grandi organizzazioni sindacali, della completa liceità di scioperare e manifestare, nonché con una potenziale influenza politica ben maggiore dei lavoratori di fine Ottocento e primo Novecento, essi sono soggetti a ricatti, precarietà, sfruttamento e perfino peggioramento delle proprie condizioni di lavoro e di vita. Condizioni che per milioni di loro toccano nuove soglie di insostenibilità.
In realtà, specie con la ristrutturazione tardo capitalista dell’ultimo quarantennio, si è determinata una nuova grande sproporzione nei rapporti di forza tra capitale e lavoro a tutto vantaggio del primo. Sproporzione che permette ai gruppi dominanti di esercitare una ancor più forte pressione al ribasso nelle condizioni delle classi lavoratrici.
Tale ristrutturazione, infatti, è stata caratterizzata da tre strategie dagli effetti particolarmente dannosi per i lavoratori.

La prima di tali strategie è consistita nel fatto che nell’ultimo quarantennio imprese transnazionali grandi e medie di tutti i settori hanno delocalizzato parti crescenti delle loro produzioni in Paesi che offrivano grandi riserve di forza lavoro a basso costo e dove essa poteva essere sfruttata senza particolari vincoli legislativi o sindacali. L’entità del fenomeno è stata molto più grande di quanto si è soliti pensare. Ed è andata crescendo fino ad oggi. Infatti nel 2020 lo stock di capitali investiti all’estero da imprese con sede in Italia ha raggiunto il 31,6 % del Pil. In Germania è stato del 52%. In Francia è giunta al 66%. Questo dirottamento di capitali in Paesi con ampie riserve di forza lavoro a bassissimo costo ha comportato il venir meno di grandi numeri di posti di lavoro potenziali nei Paesi d’origine. Infatti, una delocalizzazione pari al 31,6 % del Pil, come quella dall’Italia, corrisponde a 2.865.488 di posti di lavoro potenziali. Il 52% della Germania equivale a 8.681.920 posti di lavoro. Il 66 % della Francia è pari a 7.201.920 posti di lavoro (calcoli basati sulla legge di Okun).

In secondo luogo, grazie ad alcune applicazioni della microelettronica, si è determinato un elevatissimo grado di automazione nella produzione industriale e nella informatizzazione dei servizi. Una forte automazione non era certo un obiettivo nuovo nella storia del capitalismo industriale, che è cominciata proprio con l’introduzione del telaio meccanico e a vapore, ed è proseguita con la catena di montaggio, ecc. Ma nuovi e prima impensabili sono stati i livelli dell’automazione resi possibili dalla rivoluzione microelettronica. Come e molto più delle precedenti, questa automazione ha consentito grandi risparmi di manodopera per produrre una stessa quantità di beni e servizi. Inoltre, essa ha favorito ulteriormente la delocalizzazione in paesi con forza lavoro poco o per nulla qualificata.

La terza strategia è consistita in un’accentuata finanziarizzazione del capitale che ha determinato una rapida crescita di potere ed autonomia delle istituzioni finanziarie. Sicché esse hanno assunto una posizione dominante nell’intero sistema economico. Fenomeno che, a sua volta, ha influito non poco nell’aggravare la mercificazione e marginalizzazione del lavoro.

Tutto ciò ha provocato profondi mutamenti nel mercato internazionale del lavoro.
Conseguenza primaria è stata che imprenditori di tutti i settori hanno avuto mano libera, come mai prima, nel perseguire una forte concorrenza al ribasso delle condizioni di lavoro, della sua retribuzione e regolamentazione.
Inoltre, la delocalizzazione, congiunta all’automazione spinta, resa possibile da determinate applicazioni della microelettronica, ha consentito un’ulteriore dequalificazione, intercambiabilità e, quindi, precarietà del lavoro. Tale precarietà rappresenta un netto peggioramento dei rapporti di lavoro nei Paesi più sviluppati. Ma pesa anche, come un vincolo quasi obbligato, nei Paesi del Sud del mondo destinatari della delocalizzazione, nei quali il super-sfruttamento del lavoro costituisce il maggior fattore “attrattivo” della delocalizzazione produttiva e degli investimenti provenienti dall’estero.

Nei Paesi di più antico sviluppo la crescente mercificazione e precarizzazione del lavoro ha ridotto drasticamente decenni di conquiste sindacali e politiche, che riguardavano non solo le condizioni dei lavoratori, ma la qualità sociale nel suo complesso.
D’altra parte, una delle conseguenze più vistose del rafforzamento dei gruppi di potere dominanti è stata, appunto, una decisa accentuazione della precarietà e intercambiabilità della forza lavoro.
Tale fenomeno è stato il risultato, scientemente perseguito, di nuove forme d’impiego e sfruttamento dei lavoratori, tali da renderli più facilmente dipendenti dagli andamenti di mercato.

Che fare allora? Come riprendere il filo delle lotte per l’affermazione di nuovi diritti sociali, politici e civili che caratterizzarono i “trent’anni gloriosi” in Europa occidentale e negli Usa e che sembrano ora del tutto tramontate?
La riflessione dello storico non può che riandare all’insorgenza della prima conflittualità di massa e ai suoi soggetti, a cominciare proprio da quelli che sembravano i più deboli, ma che si dimostrarono capaci di maggior coraggio e determinazione, come le mondine. E non c’è dubbio che la loro lezione consiste, appunto, nella capacità che ebbero di colpire i punti sensibili dei sistemi produttivi.

La storia insegna anche che un sistema produttivo, pur coeso e potente – anzi tanto più in quanto tale – presenta punti di vulnerabilità. E sono proprio le dimensioni, interdipendenze, complessità che caratterizzano i modelli produttivi del tardo capitalismo a renderli ancor più esposti ai colpi che si sappiano infergere ai suoi modi di funzionamento.
Ma occorre il coraggio, la determinazione di una lotta sistematica, indeflettibile e sostenuta dal consenso di larghe fasce della popolazione. Condizioni, tutte queste, che possono darsi solo se e quando quelle lotte si dimostrino effettivamente in grado di migliorare, anche di poco o poco per volta, le condizioni di lavoro e di vita di chi le conduce.

In altri termini, non basta limitarsi a proclamare obiettivi, pur giusti, di una lotta. Non basta esporre e divulgare programmi politici, per quanto credibili e coerenti possano essere. Per poter cambiare i rapporti di forza nell’agone sociale e produrre trasformazioni non si può prescindere da una conflittualità efficace e sistematica. Una conflittualità che sia in grado di colpire il sistema, e modificarne il modo di funzionamento in modo tale da migliorare le condizioni sociali di chi se ne fa protagonista.

L’autore: Ignazio Masulli è uno storico contemporaneo e saggista, già professore ordinario di Storia del lavoro

Nella foto: mondine al lavoro, anni 40

Ma la Romagna?

foto di Caterina Spadoni

Il post alluvione in Romagna non si è risolto, nonostante sia scomparso dal dibattito pubblico. Molte le case inagibili, molte le infrastrutture fuori uso, molte le attività che ancora non vedono la luce. Poiché non ci sono più foto disperate da usare come corredo di articoli che descrivano la criticità della situazione la notizia scivola nelle seconde pagine, scritta piccola, in basso, come se fosse semplicemente una diatriba politica e lì in mezzo con i piedi nell’acqua non ci fossero ancora le persone.

Ieri il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini ha spiegato che la priorità sarebbe almeno ricostruire le strade comunali. «Ma per queste i soldi non ci sono», ha spiegato. «I fondi per l’emergenza sono già stati spesi tutti», dice Bonaccini  e i sindaci hanno già anticipato migliaia di euro che comunque non sono bastati.

Incredibile ciò che raccontano il sindaco di Cesena Enzo Lattuca e il sindaco di Ravenna Michele De Pascale: «I cantieri che abbiamo aperto – dicono – e per i quali siamo stati oggi redarguiti sono cantieri di somma urgenza”. Lattuca afferma che il governo ha avuto da ridire. «Ci hanno detto che prima di aprire i cantieri dovevamo concordare gli interventi col governo. Noi abbiamo risposto – conclude Lattuca – che questi interventi non si concordano prima, si effettuano perché sono di somma urgenza a prescindere dal fatto che non siano finanziati dal decreto». Sono stato “sgridato”, aggiunge, perché ci siamo permessi di ricostruire.

Sullo sfondo rimane la nomina non ancora arrivata di un commissario che potrebbe sciogliere gli inghippi avendo mano libera. La nomina non arriva perché sulla ricostruzione in Emilia Romagna la maggioranza di governo vuole giocarsi la possibilità di capitalizzare il disastro per le elezioni che verranno. Ma poiché la maggioranza è molto più sfilacciata di quel che dice non riesce o trovare una sintesi nemmeno nello sciacallaggio politico.

Siamo a metà giugno. L’alluvione è iniziata il 2 maggio.

Buon venerdì.

foto di Caterina Spadoni

I prezzi aumentano: è la speculazione, bellezza

Bisogna elogiare e ringraziare intellettuali come il professor Alessandro Volpi che attraverso libri, articoli su riviste come Altreconomia e presenza costante nello strumento di controinformazione messo su da Giuliano Marrucci, già collaboratore di Report, che risponde al nome di OttolinaTv (che potete vedere su varie piattaforme come Facebook, Youtube, Twitch e Tik Tok) si è assunto l’impegno e l’obiettivo di demistificare la propaganda del pensiero mainstream sulle tematiche economiche e sociali.
Utilissima a questo proposito la pubblicazione per la collana Tempi nuovi dell’editore Laterza di Prezzi alle stelle. Non è inflazione, è speculazione.

Qual è infatti la spiegazione dell’inflazione a due cifre che imperversa in un Paese in recessione come l’Italia? Colpa di Putin, che invadendo l’Ucraina avrebbe fatto aumentare i prezzi delle materie prime energetiche ed alimentari, direttamente con l’aumento del grano, indirettamente con l’aumento del costo dei fertilizzanti. Volpi conduce una operazione di pulizia intellettuale ricordando al proposito alcuni elementi. Il prezzo delle materie prime energetiche era aumentato da prima della guerra in Ucraina e non vi è stata una sostanziale diminuzione della produzione e distribuzione delle stesse, o comunque non in maniera tale da essere comparabile con gli aumenti verificatisi. Ancora più clamorosa la propaganda rispetto al grano dell’Ucraina, che sembrava essere divenuto il primo ed unico Paese produttore del cereale quando invece si trattava di un produttore, se non marginale, sicuramente meno rilevante di altri Paesi assolutamente non toccati dalla guerra. Abbiamo dunque una dinamica che non vede ridursi la disponibilità sul mercato delle materie prime a fronte di una domanda che non aumenta. Che è accaduto dunque?

Brutalizzando, anche per non togliere il piacere della lettura ricca di dati da utilizzare a piene mani, la finanziarizzazione dell’economia con le sue logiche di scommesse assolutamente speculative ha soppiantato il mercato nella determinazione dei prezzi. Da qui due filoni di ragionamento e di riflessione che a noi appaiono decisivi. Il primo è una rilettura delle politiche della globalizzazione. Se l’austerità aveva contraddistinto le scelte della controffensiva neoliberista di Reagan e della Thatcher, la finanziarizzazione dell’economia – ottenuta rimuovendo le limitazioni che risalivano alle risposte date dal sistema alla crisi del 1929 – è da ascriversi ai democratici americani che hanno inaugurato la stagione dell’ulivo mondiale ibridato con le terze vie di blairiana memoria. Quale era l’assunto di fondo, al netto della teoria dello sgocciolamento: garantire i consumi delle classi lavoratrici e popolari senza aumentare i salari, perché l’aumento dei salari non solo limitava i profitti ma costituiva un accumulo di forza politica che poteva mettere in discussione l’ordinamento capitalistico come si era verificato nel punto più alto dei “Trenta gloriosi”.

La finanza per tutti, il credito al consumo, la possibilità per i piccoli risparmiatori di misurarsi pensando di arricchirsi hanno costituito la base di consenso “a sinistra” per la nascita di concentrazioni finanziarie mostruose che movimentano masse fittizie di danaro superiori al Pil delle economie avanzate ed assolutamente sottratte ad ogni controllo democratico. Una concentrazione che rapina e devasta milioni di uomini in carne ed ossa e la stessa riproduzione delle risorse da parte del pianeta. La parola d’ordine di un’agenda progressista non può essere dunque che quella di definanziarizzare l’economia, rilanciare i mercati interni, aumentare con meccanismi di indicizzazione salari e pensioni e soprattutto ripubblicizzare, rinazionalizzare i settori strategici dell’economia come i settori energetici, le reti infrastrutturali materiali ed immateriali, gli ambiti della sanità e dello stato sociale assieme a beni comuni come l’acqua.

La seconda riflessione è di natura più profonda. Mercato e capitalismo sono sinonimi? Adesso che il capitalismo finanziarizzato distrugge le stesse logiche ed obiettivi del mercato, così come definiti a partire dagli economisti classici, è paradossale pensare un mercato che pre-esiste al capitalismo e che può essere utilizzato per esperimenti e pratiche di fuoriuscita dal capitalismo medesimo. Ed è questo un tema che rimanda altresì alle società del baratto e del dono, indagate da Polanyi e da Mauss, nonché all’esperienza della Nep di Lenin ed al socialismo con caratteristiche cinesi.

Insomma, un libro da presentare e discutere pubblicamente, utilissimo per resistere alla propaganda di regime e che apre altresì riflessioni sulla natura stessa delle formazioni economico-sociale dove ci è stata data in sorte la possibilità di vivere ed operare, intravedendo percorsi per il suo superamento, perché quello che non sempre è stato potrà cedere il passo a quello che potrà essere.

L’autore: Maurizio Brotini, segreteria Cgil Toscana

Mare nostro, dacci oggi la nostra Cutro quotidiana

L’ennesima Cutro, questa volta al largo della Grecia, sta adagiata in fondo al mare a 47 miglia da Pylos, a sud ovest del Peloponneso. Con un giorno in più sarebbero arrivati in Italia se Adriana, quel vecchio peschereccio di 30 metri, non se li fosse mangiati mentre l’Europa ancora una volta ha girato la faccia dall’altra parte.

Poiché quelle rotte fanno rima con la morte ancora prima di affondare la barca conteneva 6 salme, 2 erano bambini. Erano partiti cinque giorni fa da Tobruk, in Cirenaica, e diretti in Italia verso le coste ioniche, erano 750. Ne sono stati salvati 108 portati a Kalamata e i cadaveri ripescati sono 79. È un calcolo semplice. Sono più di 500 morti. Di fronte a una strage del genere cadono le remore sull’usare una sola parola: ecatombe.

L’anima nera dell’Europa si ritrova nella ricostruzione di Frontex. Li avevano avvistati martedì, avevano avvisato la Guardia costiera greca e due mercantili di passaggio. Dicono i greci che “non hanno voluto aiuto perché volevano proseguire verso l’Italia”. La bugia è talmente grossa che la condanna morale non ha nemmeno bisogno di processi: nella foto aerea dell’imbarcazione alcune ore prima di affondare ci sono persone disperate che sollevano le mani implorando aiuto e lanciano bottigliette d’acqua per attirare l’attenzione dei soccorsi.

In quelle ore si ripetevano gli appelli a Italia, Grecia, Malta. L’attivista Nawal Soufi racconta: “Le loro voci sono impresse nella mia mente – si dispera Nawal Soufi rimasta 24 ore a telefono con i migranti a bordo – Decine e decine di chiamate, pianti, urla… Tra questi morti recuperati ci sarà la donna che mi ha chiamato all’inizio? Ci sarà quell’uomo che aveva in mano il Turaya? Sembrava assetato. Non riusciva più a pronunciare le parole. Mi supplicava, mi diceva di comunicare a qualsiasi Paese europeo di venirli a prendere”.

È una Cutro ancora peggiore. I morti però sono lontani dalle nostre spiagge e la strage si potrà raccontare come “evento esterno”. Invece quei morti sono l’appendice dello sciagurato patto che l’Europa ha avuto anche il coraggio di festeggiare qualche giorno fa fingendo di non sapere che nonostante il nome di “patto di asilo e immigrazione” sia semplicemente una strategia mortifera di respingimenti e morti conseguenti. Grecia, Malta e Italia sono gli avamposti di questa tortura organizzata.

Siate dannati. Buon giovedì.

Nella foto: il peschereccio nel frame del video di Euronews