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Cosa c’è di più violento di un attacco agli affetti?

Il disastro lo spiega benissimo Riccardo Magi, segretario di +Europa: “È arrivata la notizia del primo annullamento, una conseguenza di questo clima di persecuzione che c’è contro le coppie omogenitoriali. La procura di Padova ha impugnato 33 atti di nascita, non sono pezzi di carta ma bambini, esseri umani: ecco cosa produce l’omofobia di Stato di questo governo e di Piantedosi”. Intervistato da La Stampa Magi è assolutamente convinto che malgrado a parole il governo continui a dire che non vuole colpire i bambini, siano proprio i minori a essere discriminati. “Come si fa a dire che non si vogliono discriminare i bambini? È il ritornello che abbiamo sentito dalla maggioranza in queste settimane: oggi si vede che c’è una discriminazione forte. C’è una volontà di sterilizzazione delle persone Lgbtq+”. “Non possono adottare, non possono accedere alla gestazione per altri, vengono annullati atti di nascita che sono stati registrati in Paesi dove la Gpa è legale. Ci sembra uno scenario molto pesante e ci chiediamo anche se questi prefetti non abbiano altro di meglio da fare. È una vera e propria persecuzione. Una caccia a queste famiglie e a loro bambini, parliamo di famiglie consolidate, con bambini non neonati ma di sei anni”.

Di decisione “crudele e disumana” parla il deputato del Pd Alessandro Zan che la definisce una “diretta conseguenza della politica persecutoria del governo contro le famiglie arcobaleno. Questi bambini rimarranno orfani di una madre per decreto”. “Ma come si fa a cancellare una mamma per decreto? Il tentativo della procura di Padova di cancellare il diritto al riconoscimento di 33 bambini avvenuto già nel 2017, mi sembra un accanimento ingiustificato, in linea con un governo che vorrebbe controllare le vite, i destini e le scelte personali di tutti noi. Ci vogliono riportare al Medioevo, ai confini dell’Europa come le peggiori destre”, dice l’eurodeputata dem Alessandra Moretti.

Chissà cosa ne dicono quelli che da mesi sminuiscono la violenza di questo governo (nelle parole e nelle azioni) della politica che mette le mani negli affetti già cari, giustificandosi con “le carte a posto”. Chissà cosa serva più di qualche decina di bambini che si svegliano orfani per decreto.

Buon martedì.

Voi vi fidereste di Galeazzo Bignami?

foto di Caterina Spadoni

Come siamo messi sulla ricostruzione in Emilia Romagna? Il ministro per la Protezione Civile Nello Musumeci qualche giorno fa ci aveva spiegato che “il governo non era un bancomat”. Dopo giorni di promesse, dopo 2,2 miliardi di euro che si sono magicamente ridotti a 1,6, dopo una nomina del commissario per l’emergenza che non arriva per mero calcolo politico la situazione è peggio di quanto si possa credere.

“Ad oggi ancora la Regione non ha trasmesso al governo, benché richiesto, nessun elenco degli interventi da eseguire. Ha chiesto 2,3 miliardi subito, sulla fiducia. Voi vi fidereste di Schlein e compagni? Ps: la cura del territorio colpito era competenza loro”, ha scritto sui social l’esponente di Fratelli d’Italia, Galeazzo Bignami. Sottotesto: avete votato a sinistra e quindi oltre a non darvi i soldi vi offendiamo mentre siete con i piedi in mezzo al fango.

Quanto la frase di Bignami sia stupida l’ha spiegato molto bene Davide Baruffi, sottosegretario alla presidenza della giunta regionale: “Bignami sa, o dovrebbe sapere – aggiunge Baruffi – che la ricognizione puntuale dei danni è attivata dal commissario per l’emergenza così come disposto dall’ordinanza del capo del dipartimento della Protezione civile dello scorso 8 maggio, nei 90 giorni successivi. Tuttavia – continua – per rappresentare al meglio al ministro competente lo stato dell’arte, nell’incontro di giovedì scorso al tavolo col governo il presidente Bonaccini ha già prodotto una prima stima, frutto dell’inteso lavoro condotto da sindaci e presidenti di Provincia, agenzia regionale di protezione civile e consorzi di bonifica, associazioni imprenditoriali e professionisti. Un lavoro estremamente importante che ci ha già consentito di presentare da un lato l’ammontare complessivo dei danni subiti dal sistema dell’Emilia-Romagna, dall’altro – in modo ancor più accurato e dettagliato – individuare e quantificare gli interventi urgenti e necessari per mettere in sicurezza – conclude – i fiumi entro la fine dell’estate, quelli per riparare le infrastrutture che ancora isolano le comunità e impediscono a diverse imprese di operare, quelli per le prime misure di sostegno alle attività economiche”.

Galeazzo Bignami è l’esponente meloniano di Fratelli d’Italia famoso (solo) per essersi travestito da nazista “a una festa”, come ha spiegato dopo per giustificarsi. Galeazzo Bignami è l’emblema di questo governo che al posto di governare fa opposizione all’opposizione perché è l’unica cosa che sa fare. Galeazzo Bignami tra l’altro viene da quella Regione: dopo la settimana corta a Roma in Parlamento torna presumibilmente ogni fine settimana in mezzo a quei cittadini su cui sputa. Bignami è un nome ancora “caldo” per la nomina di commissario straordinario.

Voi vi fidereste di Bignami?

Buon lunedì.

La lezione delle mondine per combattere lo sfruttamento dei lavoratori

Alla fine dell’Ottocento, le mondine che lavoravano nelle risaie della bassa Valle Padana erano certamente tra le lavoratrici più precarie e vulnerabili di quegli anni. Donne per lo più giovani, lavoravano stagionalmente, quasi sempre lontano da casa, sfruttate con arbitrio e prepotenza dai padroni.
La loro controparte era particolarmente agguerrita. Si trattava della nuova borghesia agraria che aveva investito nel passaggio dalla risaia stabile in quella avvicendata con colture asciutte, tra cui le foraggere. Quest’ultime avevano incrementato l’allevamento di stalla garantendo ulteriori, non piccoli profitti.
Eppure le mondine furono protagoniste di lotte epiche e capaci di ottenere risultati straordinari. Insieme agli altri lavoratori stagionali delle campagne, e non solo, avevano la necessità di reagire ad una disoccupazione endemica, aggravata proprio dalle trasformazioni produttive in atto. Necessità che le indusse ad auto-organizzarsi in leghe di resistenza.
Già nei primi anni Novanta dell’800 si batterono per il riconoscimento delle loro organizzazioni e per ottenere, con questo strumento, una trattativa collettiva delle condizioni d’impiego, prima dell’inizio dei lavori.

Lo sciopero era reato e i sindacati, allora ancora agli inizi, erano considerati organizzazioni antistatali. I padroni avevano tutte le armi: ricattarle, licenziarle e sostituirle, far intervenire la polizia. Ciò nonostante, le mondine, in non pochi casi, li costrinsero a cedere; perché per i proprietari l’alternativa era perdere tutto il raccolto e compromettere anche le foraggere necessarie all’allevamento. Per le mondine il punto di forza era rappresentato essenzialmente dalla solidarietà delle altre lavoratrici e lavoratori dei campi ed anche di altre categorie che vivevano in condizioni di sfruttamento ed oppressione non molto dissimili, ma anch’esse organizzate in leghe di resistenza. Solidarietà pronta a scattare contro crumiraggio o repressione.

Nei primi anni del Novecento col riproporsi sistematico delle lotte nelle campagne e nell’industria, specie negli epicentri, le organizzazioni sindacali si rafforzarono fino ad obbligare i proprietari a trattare e ad ottenere, dove erano più forti, come nella bassa pianura emiliana, che non fossero assunte risaiole o altri lavoratori non iscritti alle leghe. Inoltre intervenivano non solo nella contrattazione delle tariffe, ma anche nella distribuzione del lavoro. La conflittualità divenne sempre più aspra giacché comportava un mutamento radicale dei modi d’intendere i rapporti di lavoro da parte dei padroni, consolidati da molto tempo.
Non mancarono effetti politici, anche nazionali, come quelli provocati dallo sciopero generale del 1904 e dalle altre agitazioni di quegli anni. L’acme della conflittualità fu raggiunto nel ciclo di lotte del 1910-13, quando assunse carattere pressoché generalizzato la rivendicazione di attribuire alle organizzazioni di classe la completa gestione del collocamento della manodopera, nonché del controllo delle forme del suo impiego. Rivendicazione portata avanti anche nelle lotte delle mondine e che ebbe larga risonanza politica sia perché provocava contrapposizioni irriducibili, sia perché favoriva i collegamenti fra varie categorie, anche di lavoratori dell’industria. Le mondine non furono in seconda fila neanche nelle lotte contro la disoccupazione nel primo dopoguerra. Infatti nel 1920 anch’esse raggiunsero un obiettivo straordinario: l’imponibile di manodopera. Furono, cioè, capaci d’imporre ai proprietari un determinato numero di lavoratrici in rapporto all’estensione delle risaie in cui venivano impiegate. Conquista straordinaria ed estesa dalla bassa pianura emiliana al Vercellese.

Queste, pur sintetiche, considerazioni inducono lo storico ad un confronto con quanto sono costretti a subire, oggi, gli strati più precari e poveri di lavoratori nei Paesi del tardo capitalismo. Pur in presenza di grandi organizzazioni sindacali, della completa liceità di scioperare e manifestare, nonché con una potenziale influenza politica ben maggiore dei lavoratori di fine Ottocento e primo Novecento, essi sono soggetti a ricatti, precarietà, sfruttamento e perfino peggioramento delle proprie condizioni di lavoro e di vita. Condizioni che per milioni di loro toccano nuove soglie di insostenibilità.
In realtà, specie con la ristrutturazione tardo capitalista dell’ultimo quarantennio, si è determinata una nuova grande sproporzione nei rapporti di forza tra capitale e lavoro a tutto vantaggio del primo. Sproporzione che permette ai gruppi dominanti di esercitare una ancor più forte pressione al ribasso nelle condizioni delle classi lavoratrici.
Tale ristrutturazione, infatti, è stata caratterizzata da tre strategie dagli effetti particolarmente dannosi per i lavoratori.

La prima di tali strategie è consistita nel fatto che nell’ultimo quarantennio imprese transnazionali grandi e medie di tutti i settori hanno delocalizzato parti crescenti delle loro produzioni in Paesi che offrivano grandi riserve di forza lavoro a basso costo e dove essa poteva essere sfruttata senza particolari vincoli legislativi o sindacali. L’entità del fenomeno è stata molto più grande di quanto si è soliti pensare. Ed è andata crescendo fino ad oggi. Infatti nel 2020 lo stock di capitali investiti all’estero da imprese con sede in Italia ha raggiunto il 31,6 % del Pil. In Germania è stato del 52%. In Francia è giunta al 66%. Questo dirottamento di capitali in Paesi con ampie riserve di forza lavoro a bassissimo costo ha comportato il venir meno di grandi numeri di posti di lavoro potenziali nei Paesi d’origine. Infatti, una delocalizzazione pari al 31,6 % del Pil, come quella dall’Italia, corrisponde a 2.865.488 di posti di lavoro potenziali. Il 52% della Germania equivale a 8.681.920 posti di lavoro. Il 66 % della Francia è pari a 7.201.920 posti di lavoro (calcoli basati sulla legge di Okun).

In secondo luogo, grazie ad alcune applicazioni della microelettronica, si è determinato un elevatissimo grado di automazione nella produzione industriale e nella informatizzazione dei servizi. Una forte automazione non era certo un obiettivo nuovo nella storia del capitalismo industriale, che è cominciata proprio con l’introduzione del telaio meccanico e a vapore, ed è proseguita con la catena di montaggio, ecc. Ma nuovi e prima impensabili sono stati i livelli dell’automazione resi possibili dalla rivoluzione microelettronica. Come e molto più delle precedenti, questa automazione ha consentito grandi risparmi di manodopera per produrre una stessa quantità di beni e servizi. Inoltre, essa ha favorito ulteriormente la delocalizzazione in paesi con forza lavoro poco o per nulla qualificata.

La terza strategia è consistita in un’accentuata finanziarizzazione del capitale che ha determinato una rapida crescita di potere ed autonomia delle istituzioni finanziarie. Sicché esse hanno assunto una posizione dominante nell’intero sistema economico. Fenomeno che, a sua volta, ha influito non poco nell’aggravare la mercificazione e marginalizzazione del lavoro.

Tutto ciò ha provocato profondi mutamenti nel mercato internazionale del lavoro.
Conseguenza primaria è stata che imprenditori di tutti i settori hanno avuto mano libera, come mai prima, nel perseguire una forte concorrenza al ribasso delle condizioni di lavoro, della sua retribuzione e regolamentazione.
Inoltre, la delocalizzazione, congiunta all’automazione spinta, resa possibile da determinate applicazioni della microelettronica, ha consentito un’ulteriore dequalificazione, intercambiabilità e, quindi, precarietà del lavoro. Tale precarietà rappresenta un netto peggioramento dei rapporti di lavoro nei Paesi più sviluppati. Ma pesa anche, come un vincolo quasi obbligato, nei Paesi del Sud del mondo destinatari della delocalizzazione, nei quali il super-sfruttamento del lavoro costituisce il maggior fattore “attrattivo” della delocalizzazione produttiva e degli investimenti provenienti dall’estero.

Nei Paesi di più antico sviluppo la crescente mercificazione e precarizzazione del lavoro ha ridotto drasticamente decenni di conquiste sindacali e politiche, che riguardavano non solo le condizioni dei lavoratori, ma la qualità sociale nel suo complesso.
D’altra parte, una delle conseguenze più vistose del rafforzamento dei gruppi di potere dominanti è stata, appunto, una decisa accentuazione della precarietà e intercambiabilità della forza lavoro.
Tale fenomeno è stato il risultato, scientemente perseguito, di nuove forme d’impiego e sfruttamento dei lavoratori, tali da renderli più facilmente dipendenti dagli andamenti di mercato.

Che fare allora? Come riprendere il filo delle lotte per l’affermazione di nuovi diritti sociali, politici e civili che caratterizzarono i “trent’anni gloriosi” in Europa occidentale e negli Usa e che sembrano ora del tutto tramontate?
La riflessione dello storico non può che riandare all’insorgenza della prima conflittualità di massa e ai suoi soggetti, a cominciare proprio da quelli che sembravano i più deboli, ma che si dimostrarono capaci di maggior coraggio e determinazione, come le mondine. E non c’è dubbio che la loro lezione consiste, appunto, nella capacità che ebbero di colpire i punti sensibili dei sistemi produttivi.

La storia insegna anche che un sistema produttivo, pur coeso e potente – anzi tanto più in quanto tale – presenta punti di vulnerabilità. E sono proprio le dimensioni, interdipendenze, complessità che caratterizzano i modelli produttivi del tardo capitalismo a renderli ancor più esposti ai colpi che si sappiano infergere ai suoi modi di funzionamento.
Ma occorre il coraggio, la determinazione di una lotta sistematica, indeflettibile e sostenuta dal consenso di larghe fasce della popolazione. Condizioni, tutte queste, che possono darsi solo se e quando quelle lotte si dimostrino effettivamente in grado di migliorare, anche di poco o poco per volta, le condizioni di lavoro e di vita di chi le conduce.

In altri termini, non basta limitarsi a proclamare obiettivi, pur giusti, di una lotta. Non basta esporre e divulgare programmi politici, per quanto credibili e coerenti possano essere. Per poter cambiare i rapporti di forza nell’agone sociale e produrre trasformazioni non si può prescindere da una conflittualità efficace e sistematica. Una conflittualità che sia in grado di colpire il sistema, e modificarne il modo di funzionamento in modo tale da migliorare le condizioni sociali di chi se ne fa protagonista.

L’autore: Ignazio Masulli è uno storico contemporaneo e saggista, già professore ordinario di Storia del lavoro

Nella foto: mondine al lavoro, anni 40

Ma la Romagna?

foto di Caterina Spadoni

Il post alluvione in Romagna non si è risolto, nonostante sia scomparso dal dibattito pubblico. Molte le case inagibili, molte le infrastrutture fuori uso, molte le attività che ancora non vedono la luce. Poiché non ci sono più foto disperate da usare come corredo di articoli che descrivano la criticità della situazione la notizia scivola nelle seconde pagine, scritta piccola, in basso, come se fosse semplicemente una diatriba politica e lì in mezzo con i piedi nell’acqua non ci fossero ancora le persone.

Ieri il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini ha spiegato che la priorità sarebbe almeno ricostruire le strade comunali. «Ma per queste i soldi non ci sono», ha spiegato. «I fondi per l’emergenza sono già stati spesi tutti», dice Bonaccini  e i sindaci hanno già anticipato migliaia di euro che comunque non sono bastati.

Incredibile ciò che raccontano il sindaco di Cesena Enzo Lattuca e il sindaco di Ravenna Michele De Pascale: «I cantieri che abbiamo aperto – dicono – e per i quali siamo stati oggi redarguiti sono cantieri di somma urgenza”. Lattuca afferma che il governo ha avuto da ridire. «Ci hanno detto che prima di aprire i cantieri dovevamo concordare gli interventi col governo. Noi abbiamo risposto – conclude Lattuca – che questi interventi non si concordano prima, si effettuano perché sono di somma urgenza a prescindere dal fatto che non siano finanziati dal decreto». Sono stato “sgridato”, aggiunge, perché ci siamo permessi di ricostruire.

Sullo sfondo rimane la nomina non ancora arrivata di un commissario che potrebbe sciogliere gli inghippi avendo mano libera. La nomina non arriva perché sulla ricostruzione in Emilia Romagna la maggioranza di governo vuole giocarsi la possibilità di capitalizzare il disastro per le elezioni che verranno. Ma poiché la maggioranza è molto più sfilacciata di quel che dice non riesce o trovare una sintesi nemmeno nello sciacallaggio politico.

Siamo a metà giugno. L’alluvione è iniziata il 2 maggio.

Buon venerdì.

foto di Caterina Spadoni

I prezzi aumentano: è la speculazione, bellezza

Bisogna elogiare e ringraziare intellettuali come il professor Alessandro Volpi che attraverso libri, articoli su riviste come Altreconomia e presenza costante nello strumento di controinformazione messo su da Giuliano Marrucci, già collaboratore di Report, che risponde al nome di OttolinaTv (che potete vedere su varie piattaforme come Facebook, Youtube, Twitch e Tik Tok) si è assunto l’impegno e l’obiettivo di demistificare la propaganda del pensiero mainstream sulle tematiche economiche e sociali.
Utilissima a questo proposito la pubblicazione per la collana Tempi nuovi dell’editore Laterza di Prezzi alle stelle. Non è inflazione, è speculazione.

Qual è infatti la spiegazione dell’inflazione a due cifre che imperversa in un Paese in recessione come l’Italia? Colpa di Putin, che invadendo l’Ucraina avrebbe fatto aumentare i prezzi delle materie prime energetiche ed alimentari, direttamente con l’aumento del grano, indirettamente con l’aumento del costo dei fertilizzanti. Volpi conduce una operazione di pulizia intellettuale ricordando al proposito alcuni elementi. Il prezzo delle materie prime energetiche era aumentato da prima della guerra in Ucraina e non vi è stata una sostanziale diminuzione della produzione e distribuzione delle stesse, o comunque non in maniera tale da essere comparabile con gli aumenti verificatisi. Ancora più clamorosa la propaganda rispetto al grano dell’Ucraina, che sembrava essere divenuto il primo ed unico Paese produttore del cereale quando invece si trattava di un produttore, se non marginale, sicuramente meno rilevante di altri Paesi assolutamente non toccati dalla guerra. Abbiamo dunque una dinamica che non vede ridursi la disponibilità sul mercato delle materie prime a fronte di una domanda che non aumenta. Che è accaduto dunque?

Brutalizzando, anche per non togliere il piacere della lettura ricca di dati da utilizzare a piene mani, la finanziarizzazione dell’economia con le sue logiche di scommesse assolutamente speculative ha soppiantato il mercato nella determinazione dei prezzi. Da qui due filoni di ragionamento e di riflessione che a noi appaiono decisivi. Il primo è una rilettura delle politiche della globalizzazione. Se l’austerità aveva contraddistinto le scelte della controffensiva neoliberista di Reagan e della Thatcher, la finanziarizzazione dell’economia – ottenuta rimuovendo le limitazioni che risalivano alle risposte date dal sistema alla crisi del 1929 – è da ascriversi ai democratici americani che hanno inaugurato la stagione dell’ulivo mondiale ibridato con le terze vie di blairiana memoria. Quale era l’assunto di fondo, al netto della teoria dello sgocciolamento: garantire i consumi delle classi lavoratrici e popolari senza aumentare i salari, perché l’aumento dei salari non solo limitava i profitti ma costituiva un accumulo di forza politica che poteva mettere in discussione l’ordinamento capitalistico come si era verificato nel punto più alto dei “Trenta gloriosi”.

La finanza per tutti, il credito al consumo, la possibilità per i piccoli risparmiatori di misurarsi pensando di arricchirsi hanno costituito la base di consenso “a sinistra” per la nascita di concentrazioni finanziarie mostruose che movimentano masse fittizie di danaro superiori al Pil delle economie avanzate ed assolutamente sottratte ad ogni controllo democratico. Una concentrazione che rapina e devasta milioni di uomini in carne ed ossa e la stessa riproduzione delle risorse da parte del pianeta. La parola d’ordine di un’agenda progressista non può essere dunque che quella di definanziarizzare l’economia, rilanciare i mercati interni, aumentare con meccanismi di indicizzazione salari e pensioni e soprattutto ripubblicizzare, rinazionalizzare i settori strategici dell’economia come i settori energetici, le reti infrastrutturali materiali ed immateriali, gli ambiti della sanità e dello stato sociale assieme a beni comuni come l’acqua.

La seconda riflessione è di natura più profonda. Mercato e capitalismo sono sinonimi? Adesso che il capitalismo finanziarizzato distrugge le stesse logiche ed obiettivi del mercato, così come definiti a partire dagli economisti classici, è paradossale pensare un mercato che pre-esiste al capitalismo e che può essere utilizzato per esperimenti e pratiche di fuoriuscita dal capitalismo medesimo. Ed è questo un tema che rimanda altresì alle società del baratto e del dono, indagate da Polanyi e da Mauss, nonché all’esperienza della Nep di Lenin ed al socialismo con caratteristiche cinesi.

Insomma, un libro da presentare e discutere pubblicamente, utilissimo per resistere alla propaganda di regime e che apre altresì riflessioni sulla natura stessa delle formazioni economico-sociale dove ci è stata data in sorte la possibilità di vivere ed operare, intravedendo percorsi per il suo superamento, perché quello che non sempre è stato potrà cedere il passo a quello che potrà essere.

L’autore: Maurizio Brotini, segreteria Cgil Toscana

Mare nostro, dacci oggi la nostra Cutro quotidiana

L’ennesima Cutro, questa volta al largo della Grecia, sta adagiata in fondo al mare a 47 miglia da Pylos, a sud ovest del Peloponneso. Con un giorno in più sarebbero arrivati in Italia se Adriana, quel vecchio peschereccio di 30 metri, non se li fosse mangiati mentre l’Europa ancora una volta ha girato la faccia dall’altra parte.

Poiché quelle rotte fanno rima con la morte ancora prima di affondare la barca conteneva 6 salme, 2 erano bambini. Erano partiti cinque giorni fa da Tobruk, in Cirenaica, e diretti in Italia verso le coste ioniche, erano 750. Ne sono stati salvati 108 portati a Kalamata e i cadaveri ripescati sono 79. È un calcolo semplice. Sono più di 500 morti. Di fronte a una strage del genere cadono le remore sull’usare una sola parola: ecatombe.

L’anima nera dell’Europa si ritrova nella ricostruzione di Frontex. Li avevano avvistati martedì, avevano avvisato la Guardia costiera greca e due mercantili di passaggio. Dicono i greci che “non hanno voluto aiuto perché volevano proseguire verso l’Italia”. La bugia è talmente grossa che la condanna morale non ha nemmeno bisogno di processi: nella foto aerea dell’imbarcazione alcune ore prima di affondare ci sono persone disperate che sollevano le mani implorando aiuto e lanciano bottigliette d’acqua per attirare l’attenzione dei soccorsi.

In quelle ore si ripetevano gli appelli a Italia, Grecia, Malta. L’attivista Nawal Soufi racconta: “Le loro voci sono impresse nella mia mente – si dispera Nawal Soufi rimasta 24 ore a telefono con i migranti a bordo – Decine e decine di chiamate, pianti, urla… Tra questi morti recuperati ci sarà la donna che mi ha chiamato all’inizio? Ci sarà quell’uomo che aveva in mano il Turaya? Sembrava assetato. Non riusciva più a pronunciare le parole. Mi supplicava, mi diceva di comunicare a qualsiasi Paese europeo di venirli a prendere”.

È una Cutro ancora peggiore. I morti però sono lontani dalle nostre spiagge e la strage si potrà raccontare come “evento esterno”. Invece quei morti sono l’appendice dello sciagurato patto che l’Europa ha avuto anche il coraggio di festeggiare qualche giorno fa fingendo di non sapere che nonostante il nome di “patto di asilo e immigrazione” sia semplicemente una strategia mortifera di respingimenti e morti conseguenti. Grecia, Malta e Italia sono gli avamposti di questa tortura organizzata.

Siate dannati. Buon giovedì.

Nella foto: il peschereccio nel frame del video di Euronews

Ora più che mai è necessario reagire ai sonniferi che ci propinano

Giulia Ingrao

Non bisogna più aspettare, non c’è più tempo. Bisogna reagire a questi sonniferi che ci propinano in continuazione. E le possibilità, grazie alla nostra storia, ci sono. La mia è cominciata molti anni fa, nella Resistenza al nazifascismo. Mi sono anche opposta a Palmiro Togliatti. La sua responsabilità nella sconfitta della sinistra è stata non solo grandissima ma anche consapevole. Cioè lui sapeva che bisognava fermare qualcosa, e che solo fermando quel qualcosa, che poi era il pensiero e l’operato di Gramsci, c’era la possibilità di portare avanti “riforme”, al fondo, reazionarie, anti umane, che andavano contro le prospettive per il futuro. Faceva parte della sua politica cercare di controllare il pensiero degli altri. Era una cosa tremenda perché era difficile da combattere, molto difficile.

Quell’impostazione togliattiana in qualche modo ha reso possibile l’arrivo del renzismo. Gli ha aperto la porta, o meglio, è stato fatto un lavoro di sterramento per appianare la strada. Il risultato è che in questi anni ci siamo trovati un Matteo Renzi presidente del Consiglio e ad avere a che fare con il suo modo di fare politica.
Togliatti, ripeto, è stato deleterio per la sinistra perché non aiutava a pensare, a formarsi un pensiero critico autonomo. Non solo, addirittura chi lo faceva, passava per anti democratico. Ma se si blocca il pensiero, la possibilità di approfondire e di criticare, si impedisce qualsiasi forma di opposizione non solo concretamente ma soprattutto mentale. Questo allora era il problema vero. Oggi potrebbe sembrare un fenomeno di poca importanza invece così si fermava la ricerca e la speranza.

Quell’impostazione ti portava a pensare che a di là dell’esistente non si potesse andare, provocando un atteggiamento di rassegnazione. Insomma, era come se dicesse “State tranquilli, c’è chi pensa a voi, voi fatevi il più possibile gli affari vostri e lasciateci il campo libero”. Esattamente il contrario di quanto sosteneva Gramsci. La stessa dimensione di rassegnazione si ritrova oggi, quando si sente dire “speriamo che passi questa legge, speriamo che arrivi Renzi…”.

Se la storia della sinistra è andata così è anche perché c’è stata l’alleanza con la religione cattolica. È stata una cosa brutta e diseducativa, le conseguenze si vedono anche oggi, con questo papa che viene visto come uno che fa le lotte, un papa bravo. Ma non esistono papi bravi. Il papa è papa. Con Togliatti quindi è stata sancita anche la vittoria della religione senza che ce ne rendessimo conto. Allora come oggi pensare che la Chiesa possa essere alleata in una battaglia per l’emancipazione umana era il colmo, eppure la gente ci ha creduto.

Non capisco come Enrico Berlinguer che aveva una famiglia cattolica alle spalle, non ci pensasse: è una contraddizione in termini. Come faceva a non preoccuparsi? La religione riguarda il pensiero e il modo di affrontare i problemi della società. Ripeto, questa alleanza, blocca qualsiasi pensiero oltre a togliere qualsiasi consapevolezza, per cui uno che tenta di opporsi arriva a pensare di essere lui a sbagliare.

Ma oggi come uscirne? È questo il problema. Per noi che abbiamo vissuto la storia e la ricerca dell’Analisi collettiva e della teoria di Massimo Fagioli il giudizio su quello che è stato è chiaro. Ma non basta.
Il pericolo adesso è costituito da quelli che io chiamo falsi democratici, che agli occhi di molti non appaiono come tali. Il messaggio che passa è che non c’è da lottare per il cambiamento, c’è da fare un’operazione per acquietare le cose, per non creare sconquassi, perché in fondo, pensano, si può sopravvivere abbastanza bene! Questo atteggiamento ha fatto comodo a molti perché altrimenti si sarebbe trattato di riconoscere non solo gli sbagli ma le rinunce che sono state fatte. Renzi, insomma, ha fatto comodo a molti. E ci si abitua a tutto, alla notizia della fabbrica che chiude, alle trattative in corso, tanto la vita continua… Ma che facciamo, aspettiamo Godot?

Noi della sinistra, intendo noi che abbiamo una storia alle spalle e abbiamo realizzato dei cambiamenti epocali pensiamo che l’uomo e la donna abbiano la possibilità di cambiare. Cosa possiamo fare? Coinvolgere i giovani insieme anche a noi anziani. La nostra storia ha bisogno di iniezioni non solo di energia ma di coraggio, di fiducia, di certezza. E quindi di forza. Ci vuole un pensiero nuovo, ma non è un fatto miracoloso. È qualcosa che non nominiamo e poi domani, forse, accade. Bisogna avere i piedi per terra e pensare ai cambiamenti che vogliamo e che si possono e si devono fare.

La sinistra deve ricominciare a interessarsi ad alcune questioni fondamentali. La prima è la scuola. È un terreno pronto, ideale, e lo posso dire dopo tanti anni di lavoro. Certo, per il cambiamento le lotte devono essere fatte in tutte le sedi, ma la scuola è fondamentale. Perché quelli che una persona passa tra i banchi sono anni cruciali. Non solo. È come se la scuola adesso aspettasse idee. Se non rispondiamo ci prendiamo una grande responsabilità perché i giovani sono quelli che ci rimetterebbero di più.

Dobbiamo pensare alle nuove generazioni e a che cosa gli possiamo lasciare. Per farlo dobbiamo partire dalla realtà e dalle sue contraddizioni per poi trovare le soluzioni. Cercheranno di dirci che tutto è difficile, perché si tratta di cose complesse, ma quante cose complesse abbiamo visto nella storia dell’umanità e nelle storie individuali? Le abbiamo affrontate sempre, basta che ci sia una consapevolezza di operare umanamente e concretamente, rifiutando ciò che è disumano, è la paura che blocca.

Centrale è anche la questione delle donne, sembriamo emancipate, ma non è vero del tutto. Certo, molte cose sono cambiate, ma il rapporto tra l’uomo e la donna ancora oggi è un rapporto monco, chi ci rimette e rimane emarginata è sempre lei. Qui non si tratta di ripetere le battaglie femministe. Si tratta di lasciare agli esseri umani la possibilità di vivere in quanto uomo o donna, ognuno con la propria identità, qualsiasi sia il lavoro che fanno. Bisogna fare uno sforzo per trovare la strada e i sistemi per modificare la società con pieno rispetto della realtà umana.

Ora non si tratta più di fare battaglie epocali specialmente per noi donne, ma di acquistare una propria identità, imparando a saper fare dei rifiuti. A vedere bene, infine, questo è un momento molto bello perché c’è tutto da costruire e le possibilità ci sono. Oggi, c’è già una realtà in cui ci sono tanti segnali, tanti fermenti, fatti sociali che sono avvenuti. Dobbiamo solo muoverci subito ognuno per sé stesso e collettivamente.

da Left n. 22 del 3 giugno 2017

Cecchini travestiti da prefiche

Ingresso di Villa San Martino ad Arcore, residenza ufficiale di Silvio Berlusconi dal 1974 al 2013 fonte wikipedia commons

“Spiace per Bindi e soci, ma il funerale di Berlusconi non è affatto divisivo”, titola oggi un quotidiano che non merita di essere citato. Che aggiunge: “Né il Re Sole né la Thatcher, il Cav. ha unito l’Italia molto più di quanto si creda: anche in politica, è stato il leader più in sintonia con le classi popolari della storia repubblicana”. Sullo stesso quotidiano l’editoriale del direttore titola: “Perché la vera eredità del Cav. è la sua trasversalità. Lo hanno attaccato. Lo hanno combattuto. Lo hanno detestato. Poi gli hanno dato ragione, sulla giustizia e non solo”.

Il “rispetto” intorno a Silvio Berlusconi non esiste. È una truffa tutta politica che politicamente va trattata. L’umana pietà per l’uomo invocata dai suoi sgherri (in Parlamento e sui giornali) e dai suoi aspiranti eredi (in Parlamento e sui giornali) ha cominciato a puzzare dopo i primi cinque secondi. Sta accadendo quello che Berlusconi ha insegnato, inquinando questo Paese: usare qualsiasi cosa, anche la più tragica o fragile, per produrre soldi e consenso. L’eredità morale di Silvio Berlusconi è l’immoralità con cui si pretende che un Paese sospenda il giudizio politico su un leader della maggioranza del governo, sulla maggioranza di governo e quindi sul governo mentre quelli politicamente brigano per trasformare un funerale nell’ennesimo ultimo mendace comizio.

Se qualcuno si permette di riportare la  questione su un piano politico viene impallinato. Ieri Rosy Bindi ha espresso un concetto banalissimo, definendo “inopportuna” la scelta del governo di dichiarare il lutto nazionale per una figura politica così divisiva. È stata attaccata con le stesse spregevoli parole con cui Berlusconi la attaccò offendendo –  come era solito fare –  le donne che per lui e la sua masnada erano solo corpi. Eccola la sua eredità.

Ieri il Rettore dell’Università per per stranieri di Siena Tomaso Montanari ha scelto di non aderire alle bandiere a mezz’asta per i suo ateneo e gli sgherri berlusconiani hanno proposto di farlo condannare. Si professano garantisti e liberali mentre invocano la punizione della libertà di pensiero. Sono gli stessi che hanno assistito silenziosamente allo stropicciamento della Giustizia per salvare il loro padrone.

Se il populismo consiste nella strumentalizzazione degli istinti bassi degli elettori per incamerare consenso allora siamo di fronte a un capolavoro di lutto populista. Il primo lascito di Silvio Berlusconi è già qui, sotto i nostri occhi. Mentre nell’ipocrisia generale la politica nazionale si ferma per corroborare la santificazione di Silvio Forza Italia si riunisce, approva il rendiconto, mette Tullio Ferrante e Alessandro Battilocchio (uomini vicini a Fascina e Tajani) al settore elettorale e al tesseramento e trova il tempo anche di commissariare alcune città. Possibile che non si veda il tranello ipocrita in cui stanno cadendo in molti?

Buon mercoledì.

In foto, ingresso di Villa San Martino ad Arcore, residenza ufficiale di Silvio Berlusconi dal 1974 al 2013 da Wikipedia commons

Guerra e armi atomiche: mai così vicini

Le testate nucleari pronte all’uso sono aumentate tra il 2022 e il 2023 di 86 unità a 9.576, con circa duemila tenute in stato di massima allerta, per la maggior parte da Stati Uniti e Russia. È quanto emerge dal rapporto annuale sugli arsenali strategici elaborato dall’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma (Sipri). Secondo lo studio, a seguito della guerra mossa dalla Russia contro l’Ucraina e del generale deterioramento della situazione della sicurezza su scala globale, le potenze nucleari stanno investendo nella modernizzazione dei loro armamenti.

Mentre aumentano quelle pronte all’impiego, diminuiscono di circa 200 a 12.512 le testate nucleari dispiegate nel mondo. Tale declino è in corso da diversi anni e ora il totale è pari a meno di un quinto di quello al culmine della Guerra fredda negli anni Ottanta. Tuttavia, la contrazione è dovuta principalmente al fatto che Usa e Russia smantellano gradualmente le testate dismesse. Al riguardo, il Sipri osserva che “le riduzioni globali delle testate dispiegate sembrano essersi arrestate e i numeri sono in risalita”. Allo stesso tempo, sia gli Stati Uniti sia la Russia hanno avviato programmi di modernizzazione estesi dei loro arsenali strategici.

Inoltre, “la maggior parte” delle potenze dotate di bombe atomiche “sta inasprendo la propria retorica sull’importanza delle armi nucleari e alcune stanno persino minacciando esplicitamente di utilizzarle”. Come sottolineato da Matt Korda del Sipri, “questa accresciuta concorrenza nucleare ha notevolmente aumentato il rischio” di impiego delle armi strategiche per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale.

Secondo l’Istituto internazionale per le ricerche sulla pace di Stoccolma, sono nove le potenze nucleari: Russia, Stati Uniti, Cina, Francia, Regno Unito, Pakistan, India, Corea del Nord e Israele. I primi due Paesi detengono circa il 90 per cento di tutte le testate atomiche. Segue la Cina con 410 unità, ossia 60 in più tra il 2022 e il 2023.

Buon martedì.

Libertà in Iran. La lotta laica e non violenta non si ferma

Foto di Renato Ferrantini

Attivista per i diritti umani, curatrice della rubrica Lo Stato di diritto su Radio Radicale e tesoriera del Partito radicale Irene Testa è autrice di un toccante libro Azadi, libertà in Iran che raccoglie le voci di chi lotta contro l’oscurantista regime iraniano. E’ il racconto di una straordinaria lotta non violenta, laica e progressista che vede in prima linea le donne. Ecco un estratto dal volume che viene presentato il 13 giugno nella sede della Fondazione Marco Pannella, a Roma.

«Uno degli aspetti più difficili è dover sottostare a un potere militare strumentalizzato dalla religione. Questo è diventato un mezzo di oppressione e soppressione del suo stesso popolo.Non puoi vivere, non puoi godere della nazione che ti appartiene. Per anni il regime si comporta come fosse proprietario del paese e dei suoi cittadini», racconta l’iraniana Fari Alizadeh.

Tu hai partecipato alla marcia per i diritti umani che si è tenuta lo scorso 10
dicembre, sei venuta a Roma dall’Abruzzo perché essendo iraniana hai particolarmente a cuore questa battaglia e mi raccontavi che in questi mesi ti ha tenuto compagnia in modo particolare l’informazione di Radio Radicale rispetto a ciò che sta accadendo.

Con la rivoluzione in atto, i social e mass media sono stati fondamentali e ho riscontrato grande coerenza con ciò che sta accadendo in Iran e i fatti riportati sulla tua Radio.
È importante ma difficile diffondere la realtà e dare voce del popolo iraniano fuori dai confini. Negli ultimi tre mesi il regime ha cercato di limitare internet per evitare che le notizie fossero trasmesse fuori dall’Iran, la rivoluzione iraniana è irreversibile, è stato versato troppo sangue. C’è stata una grande rottura tra il regime e il popolo iraniano, in 43 anni il regime islamico ha cercato di creare un nemico immaginario per poter sopravvivere.
Alla fine abbiamo capito che per il regime il popolo iraniano è il primo nemico perché non ha avuto un minimo di pietà per la sua gente e per i suoi giovani. Per i manifestanti di recente hanno chiesto l’impiccagione senza un processo. Sono assolutamente d’accordo con la decisione dell’espulsione del regime iraniano dalla Commissione delle Nazione Unite sullo status delle donne, questa è la nostra prima vittoria. Noi chiediamo la fine di questo regime in modo che il nostro paese possa avere le porte aperte verso il mondo, possa essere parte della vita all’estero, parte della libertà di pensiero e di espressione sia a livello economico, sociale che politico. Il popolo iraniano è amico con tutti i popoli del mondo…

Qual è stata per te la cosa più fastidiosa che hai dovuto subire nel tuo paese da parte del regime?

Il potere militare. Questo è strumentalizzato dalla religione come mezzo di oppressione e soppressione di un popolo. Non puoi vivere, non puoi respirare e non poter godere della nazione che ti appartiene, loro si comportano come fossero i padroni del Paese.

Nei giorni scorsi c’è stata l’ennesima condanna a morte di un manifestante che tra le sue
volontà prima di essere impiccato non voleva che facessero la lettura del Corano.
Vorrei capire da te, perché sono in tanti a prendere le distanze sul Corano.

Io penso che libertà voglia dire anche la libertà del proprio credo religioso, perciò chi vuole credere alla religione islamica e al Corano è libero di farlo. Noi da 43 anni subiamo il Corano perché è diventato un mezzo per sottometterci e soprattutto non lo capiamo, non fa parte della nostra tradizione e della nostra cultura.

Spieghiamolo perché in molti non sanno che i persiani non sono arabi e non riconoscono il Corano, puoi spiegare la differenza.

Noi abbiamo una storia di 7.500 anni, una storia scritta, chiara, vera, riconosciuta.
Il Corano e l’Islam ce lo hanno imposto con la guerra. All’epoca chi aveva i soldi per risarcire ha mantenuto il suo credo che è lo zoroastrismo. Chi invece non aveva i soldi ha dovuto convertirsi all’Islam. La religione dovrebbe fare la sua parte e non entrare nell’economia, nella in politica e nella società, invece per 43 anni ci ha tolto le nostre feste persiane, le nostre ricorrenze, la nostra cultura e tradizioni, le nostre festività.
Per oltre 40 anni ci hanno maltrattato, arrestato, ci hanno tolto tutto, sembrava di vivere nel medioevo….

Foto di apertura di Renato Ferrantini