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Renzi che se ne scappa e Calenda lasciato solo a spalare le macerie

In politica e in democrazia accade così: contano i numeri. Possono esserci quintali di editoriali o decine di testimonial presunti competenti ma i voti certificano il peso degli attori in campo. Anche quando vince qualcuno che può non piacerci dovremmo ricordarci che i voti sono ancora il primo vero argine a un’oligarchia che vorrebbe istituzionalizzarsi. Non è un caso che a ogni elezione, che sia locale o regionale o nazionale, vengono smutandati decine di presunti esperti di politica e decine di presunti leader.

Le elezioni regionali in Friuli Venezia Giulia per esempio certificano che le regioni del nord sono di destra, come quasi tutto il resto del Paese. Quelle regioni di destra per diversi motivi, primo su tutti l’appeal quasi nullo del centrosinistra che per anni ha inseguito il potere fottendosene dei voti. Quelle regioni sono di destra perché la Lega riesce (in Lombardia, in Veneto, in Friuli Venezia Giulia e in Piemonte) a sopravvivere nonostante Salvini. Quelle regioni sono di destra perché il centrosinistra spesso (Pd in primis) è apparso identico nei desideri con la considerevole differenza di non tirare i fili del governo. Ce ne vorranno parecchi di Majorino per cambiare l’immagine consolidata.

Le elezioni regionali di ieri però ci offrono spunti interessanti. Il primo è che Giorgia Meloni ha trainato il suo partito sull’onda delle ultime elezioni politiche ma la mancanza di una classe dirigente ritenuta capace e davvero radicata sul territorio si fa sentire. Così Salvini può esultare e appropriarsi di un vittoria che è ben poco sua: Fedriga, rieletto presidente della Regione, è la linea opposta di Salvini dentro la Lega e da solo con la sua lista pesa poco meno di tutta la Lega. Salvini ha perso il 16% rispetto alle regionali del 2018 e la lista personale di Fedriga ha guadagnato più dell’11%. Il ministro alle Infrastrutture e ai Ponti esulta ma sa benissimo che la fronda interna cresce giorno dopo giorno.

Elly Schlein per ora è un effetto più mediatico che politico quando si tratta di elezioni. È naturale che sia così: l’onda su Schlein è vincolata a un cambiamento reale del Pd che molti ora si aspettano nei fatti. Queste elezioni dicono pochissimo della nuova segretaria (anche se qualcuno già da oggi le userà contro di lei) ma confermano che l’aspettativa si consolida in voto solo di fronte a un concreto cambiamento. Schlein lo sa, sta lavorando proprio su questo. Resta da vedere se glielo permetteranno. Nel frattempo il M5s, che la neo segretaria del Pd considera partner affidabile per la costruzione del centrosinistra, continua a essere altalenante: avrebbe potuto essere determinante a Udine ma se n’è andato da solo.

Il cosiddetto Terzo polo è un’invenzione letteraria di alcuni giornali che non legge quasi nessuno. Essere superati in Friuli Venezia Giulia da una lista strampalata come quella che tiene insieme Italexit, Movimento 3V, Movimento Gilet Arancioni, Alister e Comitato Tutela Salute Pubblica Fvg significa essere i re degli incompetenti che vorrebbero dare patenti di incompetenza. L’analisi del voto di Carlo Calenda a caldo ieri sera (“Il risultato in #FVG è per noi deludente e purtroppo non si discosta da quello delle altre Regionali, elezioni più polarizzanti fra tutte e difficili per un partito di centro. Complimenti a Fedriga e tanta stima al nostro @MaranAlessandro, persona di grande qualità. Avanti e al lavoro”) è un capolavoro di inettitudine: dentro c’è la colpa data agli elettori e la sindrome del tennista che dà sempre la colpa alla racchetta. Che poche ore prima dell’ennesima disfatta (dopo la Lombardia e il Lazio) Matteo Renzi abbia deciso di “tirarsene fuori” spiegandoci che si sarebbe preso “una pausa” (una pausa televisiva, perché per lui la politica è poco più dell’apparire) conferma quello che si dice da tempo: Renzi e Calenda si scinderanno, uno andrà a destra e l’altro a sinistra, tutti e due stampelle pleonastiche di poli politici che esistono anche nel mondo reale.

Buon martedì.

Nella foto: frame del video dell’apertura della campagna elettorale di Azione-Italia viva, Milano, 2 settembre 2022

Il Politecnico, storia di un collettivo di avanguardia che ha molto da dirci per il futuro

«Mi sono avvicinato al cinema perché figlio unico di un padre lavoratore… La sera, dopo cena, si alzava e invitava mia madre al cinema. Lui sarebbe andato al cinema tutte le sere. Quando si poteva e non c’era scuola, portava anche me. Oggi è molto difficile pensare di andare al cinema ogni giorno. Io appartengo a quella generazione che invece andava al cinema tutte le sere», scrive il noto sociologo Alberto Abruzzese nel volume Il Politecnico, curato da Amedeo Fago e Lia Francesca Morandini per l’editore Timìa.

Anche per la costumista e sceneggiatrice Lia Francesca Morandini il Politecnico, di cui divenne fondamentale animatrice fu «la scoperta di un nuovo cineclub a Roma!», ricorda con un pizzico di auto ironia. Era il 1975, il Politecnico era nato due anni prima per intuizione dell’architetto, drammaturgo, scenografo e regista Amedeo Fago, lei veniva da Milano dove era stata assidua frequentatrice della cineteca di piazza San Marco; dunque benché giovanissima già con una ampia e solida formazione cinematografica, sviluppata anche nel rapporto con Morando Morandini, il più colto e acuto critico cinematografico italiano del secondo Novecento (del quale su Left abbiamo avuto l’onore di pubblicare recensioni fin quasi alla sua scomparsa a 91 anni nel 2015).

Ma torniamo alla storia del Politecnico, come divenne un centro culturale polivalente e progetto pilota per il Paese? Il fatto particolarmente interessante dal nostro punto di vista è che tutto cominciò da un collettivo di artisti, dall’esigenza di realizzare la propria ricerca e di realizzarsi insieme agli altri. «Io lì mi trovai subito a casa- racconta Lia Francesca Morandini-. Non solo vedevo interessanti rassegne di cinema ma il Politecnico era anche diventato un punto di ritrovo tra amici». Non era “solo” cinema, era socialità, e poi il teatro, la ricerca su nuovi linguaggi, l’arte, le nuove strade della tecnologia.

Quello spazio di archeologia industriale di oltre mille metri nel quartiere Flaminio divenne così un luogo di avanguardia, di incontro e di contaminazione dei linguaggi. Il nome – con tutta evidenza – era un omaggio all’avventura culturale del Politecnico di Vittorini, che seppe allargare lo sguardo oltre i confini italiani. Ma modello ispiratore fu anche il Bauhaus, per quella sua idea di interdisciplinarità che negli Settanta tornava a farsi strada in una nuova idea di architettura che, nell’idea di Amedeo Fago, metteva al centro il teatro come luogo di interconnessione fra i vari linguaggi dell’arte.

Non dobbiamo però trascurare il contesto storico e politico in cui il Politecnico prese vita. La Facoltà di architettura a Roma dove Fago si formò fu “teatro” di rivolte e occupazioni ancor prima della rivolta di Berkley del ’64, ben prima del ’68. Poi vennero gli anni Settanta, con tutte le aperture e le contraddizioni di quel periodo. Nonostante l’inaccettabile violenza dei gruppi terroristi e lo sgomento che generavano furono anni anche di grandi cambiamenti, vitali dal punto di vista creativo e sociale, basti pensare alla legge del 1970 sul divorzio, allo statuto dei lavoratori del 1971, alla riforma del diritto di famiglia del 1975 che aboliva la figura del pater familias alla legge sull’aborto del 1978, solo per fare alcuni esempi.

A Roma in particolare dal 1975 salì l’onda della rivoluzione culturale rappresentata dall’analisi collettiva dello psichiatra Massimo Fagioli, a cui Amedeo Fago partecipò per lunghi anni come ricorda in questo libro. «Dopo un incontro a casa di Marco Bellocchio cominciai a leggere  Istinto di morte e conoscenza di Massimo Fagioli e la settimana dopo andai in via di villa Massimo, a vedere in che cosa consistesse l’analisi collettiva. Non sapevo in quel momento che da lì sarebbe iniziato un lungo percorso che avrebbe cambiato la mia vita».

Lasciamo ai lettori il piacere di saperne di più dal libro su questo punto cruciale e torniamo alla storia del Politecnico che prese linfa vitale da questo fatto solo apparentemente privato del fondatore, Amedeo Fago. Torniamo anche al quadro sociale, a quella Roma di sinistra che era stata guidata dal grande storico dell’arte e soprintendente come Giulio Carlo Argan, dal sindaco Petroselli e da Ugo Vetere, come ricorda lo storico e assessore alla cultura di Roma Miguel Gotor nell’introduzione; parliamo di una Roma dove dal 1976 al 1985 fiorì una rigogliosa stagione culturale. Tre anni dopo la nascita del Politecnico, l’architetto Renato Nicolini, ideò l’Estate romana «con la volontà di aprire le piazze a tutta la cittadinanza, coinvolgendo studenti, bambini, anziani e intere famiglie». Non a caso Nicolini, per la programmazione cinematografica a Massenzio, chiese aiuto a Alberto Abruzzese, a Bruno Restuccia e a Giancarlo Guastini del Politecnico. Ma anche questo è solo uno dei fatti, fra i tanti eccezionali che accaddero. È in quella fucina creativa del Politecnico che il futuro editore di Left e della casa editrice L’Asino d’oro, Matteo Fago, all’epoca studente universitario, fondò il giornale del movimento studentesco la Pantera prodotto con una stampante laser e poi cominciò a esplorare le possibilità del web, inventando Venere.com, il primo sito in Italia di prenotazioni alberghiere. «Il Politecnico era una realtà proiettata nel futuro», scrive l’editore in questo prezioso volume.

E la sensazione di un affascinante ritorno al futuro è quella che si sperimenta tuffandosi nelle 565 pagine di quest’opera, composta da un caleidoscopio di testimonianze dirette dei protagonisti, di documenti, foto, fulgide schegge di memoria. Il Politecnico nella Roma degli anni Settanta e Ottanta era un luogo di ricerca artistica collettiva che attraversava e interrogava la politica in maniera aperta, laica e progressista. Ben presto questo complesso e articolato centro culturale divenne un progetto pilota a livello nazionale. Restando al contempo un luogo unico e irripetibile per l’atmosfera che vi si respirava. «In quel bellissimo cortile su cui si affacciavano tantissime attività (studi di architetti, di scultori, grafici, ceramisti, musicisti..). si respirava un’aria molto particolare. L’utopia degli anni Sessanta era la filosofia alla base della creazione del Politecnico», approfondisce Lia Francesca Morandini. «C’era una grande tensione alla ricerca del nuovo. L’esigenza di condividere esperienze creative, il bisogno degli artisti di confrontarsi, discutere e lavorare insieme… c’era l’esigenza di guardare al futuro con occhi nuovi».

L’appuntamento: Con i curatori Amedo Fago e Lia Francesca Morandini, con Alberto Abruzzese e la consigliera del Lazio Marta Bonafoni ne parliamo il 5 aprile alle 17 a Roma, alla Biblioteca Villino Corsini – Villa Pamphilj).



Qualche notizia in più sulla storia del progetto editoriale. La parola alla casa editrice Timìa: «
Il progetto editoriale prende spunto da un documentario di Amedeo Fago, della durata di 72’, (prodotto dalla Famosa s.a.s.) in collaborazione con il dipartimento di architettura e progetto dell’Università di Roma “la Sapienza”, che del progetto stesso è parte integrante come allegato del libro, accessibile tramite link. Il Politecnico, che si insediò nei locali di una vecchia fabbrica artigiana all’interno di un cortile del quartiere Flaminio, fu fondato nel 1973 come “associazione culturale”, su idea e iniziativa di Amedeo Fago, ed è stato l’unico spazio a Roma, e forse in Italia, in cui, accanto ad una sala teatrale, una sala cinematografica e uno spazio espositivo, avevano sede una serie di studi – laboratori, di architettura, di scultura, di pittura, di ceramica, di fotografia, di musica ai quali era stato aggiunto, nei primi anni Ottanta, un “bistrot”, luogo di incontro conviviale e di discussioni culturali per coloro che al Politecnico lavoravano e per coloro che lo frequentavano come “pubblico”. È stato uno spazio che, nella sua struttura originaria, è rimasto attivo per quasi quarant’anni, fino al 2013, e che, specialmente nei primi due decenni della sua esistenza, è stato uno dei motori dell’avanguardia culturale romana sia attraverso la pro-duzione interna, che attraverso l’apertura a esperienze artistiche nazionali e internazionali. Fondamentale in questo senso fu la collaborazione, dal 1977 in poi, con Renato Nicolini e l’assessorato alla cultura del Comune di Roma, per l’ideazione e la realizzazione di progetti per “l’estate Romana”. Dopo la chiusura del teatro e del cinema e l’abbandono degli studi di pittura, scultura e fotografia, quell’insieme di spazi ha, fortunatamente, trovato una continuità con quella trasformazione che era avvenuta agli inizi degli anni Settanta. Vi hanno trovato sede 5 studi di architettura, tra i quali quello di Sergio Bianconcini, architetto che aveva aderito al progetto del “Politecnico” e lo studio Valle 3.0, di Gilberto, Emanuela, Maria Camilla e Silvano Valle. Accanto a questi, dove era il cinema, una scuola di danza e infine “la piccola scuola delle arti” di Stefano Stefa. L’unico spazio che è sopravvissuto con le stesse caratteristiche che aveva negli anni d’oro del Politecnico è il bistrot. Scopo principale del progetto è quello di raccogliere e riorganizzare le memorie della più interessante esperienza culturale tra le tante che avvenivano a Roma in quegli anni Settanta , che sono da qualche tempo oggetto di studio e di rivalutazione, e in tal senso, offrire uno strumento di studio e di conoscenza sia per addetti ai lavori che per il vasto pubblico di cultori di memorie storiche. Nelle pagine interne di questo sintetico layout si può trovare la struttura dell’intera opera, che è suddivisa in 4 sezioni più un appendice documentale. Nel volume, tutte le sezioni sono arricchite da preziose immagini d’epoca (fotografie di luoghi e di spettacoli, locandine, disegni, riproduzioni di opere pittoriche, di sculture, di ceramiche, di progetti architettonici, di scenografie ecc.) che rappresentano la traccia più eloquente di ciò che “Il Politecnico” ha rappresentato nella storia culturale del nostro Paese».

 

In foto, dall’alto, gli spazi del Politecnico con giardini

L’Italia multata per deportazione. Ancora

Giovedì 30 marzo la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) di Strasburgo ha condannato l’Italia per violazione dei diritti umani e ha ordinato alle autorità italiane di risarcire i ricorrenti.

I ricorrenti sono quattro migranti tunisini che tentarono di raggiungere l’Italia a bordo di un’imbarcazione di fortuna nell’ottobre 2017, soccorsi in mare e portati sull’isola di Lampedusa. All’arrivo a Lampedusa, spiegano gli atti del tribunale, i quattro migranti sono stati condotti presso l’hotspot dei migranti per una prima identificazione, registrazione e colloqui.

Secondo il tribunale, i migranti sono stati collocati nell’hotspot per dieci giorni “durante i quali affermano di non essere stati in grado di andarsene e di interagire con le autorità”. I ricorrenti affermano inoltre che il loro trattamento nell’hotspot è stato “disumano e degradante”.

Più tardi, in ottobre, i quattro ricorrenti, insieme ad altri 40 migranti, sono stati portati all’aeroporto di Lampedusa. Dicono di aver ricevuto documenti da firmare, che non hanno capito, e solo successivamente hanno scoperto che si trattava di provvedimenti di respingimento che impedivano loro di rientrare in Italia. Da Lampedusa, il gruppo racconta di essere stato prima trasportato all’aeroporto di Palermo e poi “trasferito con la forza in Tunisia”.

A causa di questo trattamento, la Cedu ha ritenuto che l’Italia violasse gli articoli 3, 4 e 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. L’articolo 3 riguarda i trattamenti inumani o degradanti, l’articolo 5 riguarda il diritto alla libertà e alla sicurezza e l’articolo 4 riguarda il divieto di espulsione collettiva degli stranieri.

In particolare, l’Italia è stata giudicata in violazione dell’articolo 4 in quanto non aveva fatto alcun tentativo di valutare il caso di ciascuna persona separatamente: non ci sono stati colloqui individuali e al gruppo nel suo insieme sono stati impartiti ordini di respingimento.

I quattro migranti, precisa il tribunale, sono tutti cittadini tunisini, nati tra il 1989 e il 1993, e che attualmente risiedono in Tunisia. La loro domanda è stata presentata per la prima volta al tribunale nell’aprile 2018.

Il caso è stato deciso da una camera di sette giudici, di cui uno italiano. La corte ha osservato “che il governo [italiano] non ha contestato le affermazioni dei ricorrenti riguardanti le condizioni (in particolare scarsa igiene e mancanza di spazio) presso l’hotspot di Lampedusa, dove erano stati trattenuti per dieci giorni”.

I ricorrenti, ha affermato il tribunale, sono stati effettivamente privati ​​della loro libertà per tutto il tempo in cui sono stati trattenuti nell’hotspot perché la struttura era “circondata da sbarre, recinzioni e cancelli, e da cui non erano stati in grado di uscire legalmente”.

La loro detenzione di dieci giorni non aveva una “base giuridica chiara e accessibile”, ha anche rilevato la corte, aggiungendo che ai ricorrenti non sono state fornite informazioni sufficienti o non è stata data la possibilità di contestare i motivi della loro detenzione de facto davanti a un tribunale.

Dal momento che sembravano non aver compreso gli ordini né aver avuto tempo tra la loro firma e l’imbarco sull’aereo, la corte ha ritenuto che ai ricorrenti non fosse stata data la possibilità di appellarsi contro le decisioni.

Il tribunale ha condannato l’Italia a pagare a ciascun ricorrente 8.500 euro a titolo di risarcimento danni e 4.000 euro a titolo di costi e spese.

Secondo i dati raccolti dall’organizzazione italiana Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione), tra novembre 2020 e gennaio 2021 sono aumentati i provvedimenti di espulsione nei confronti di cittadini tunisini emigrati in Italia.

Infatti, secondo uno studio Asgi diffuso nel 2022, i cittadini tunisini costituivano l’80,5% dei cittadini stranieri transitati nei Centri di detenzione e rimpatrio (Cpr) in Italia, e il 75,5% dei cittadini stranieri rimpatriati dall’Italia.

L’Ong per i diritti umani Borderline Sicilia ha definito il sistema di rimpatrio dei tunisini in Italia una “macchina perfetta”.

Italia e Tunisia hanno firmato un accordo, secondo il quale la Tunisia è considerata dall’Italia un Paese ‘sicuro’, il che significa che la maggior parte dei cittadini tunisini è esclusa a priori dalla protezione internazionale. Ciò significa che il loro rimpatrio può avvenire attraverso una procedura accelerata.

Durante la pandemia di Covid-19, il rimpatrio dei migranti tunisini sembrava essere facilitato, sostiene l’Asgi. La maggior parte dei migranti tunisini arrivati ​​in Italia durante la pandemia sono stati prima portati in un hotspot per l’identificazione. Da lì, sarebbero stati portati in un Cpr e messi su una nave di quarantena per il periodo di isolamento obbligatorio.

Borderline Sicilia descrive la nave quarantena come “anticamera del rimpatrio per completare la fase di canalizzazione legale della procedura hotspot: il tempo trascorso sulla nave è servito a completare la selezione dei cittadini stranieri, distinguendo tra ‘richiedenti asilo’ e ‘migranti economici, ‘ tra chi ha accesso all’accoglienza e chi viene espulso”.

Una volta che i cittadini hanno lasciato la nave quarantena, organizzazioni come Borderline Sicilia affermano che alla maggior parte dei tunisini è stato chiesto di firmare un documento senza alcuna spiegazione o accesso alle informazioni. Non hanno avuto la possibilità di raccontare la loro storia personale e nemmeno di presentare domanda di protezione internazionale. In genere veniva loro emesso un ordine di allontanamento e gli veniva chiesto di lasciare l’Italia entro sette giorni.

Un articolo del 2022 di Borderline Sicilia ha evidenziato i casi di tre uomini tunisini che erano stati tutti detenuti in Cpr in Italia. Due di loro sono morti durante la detenzione o subito dopo.

Borderline Sicilia scrive che uno di loro è stato detenuto per due mesi in un Cpr vicino Trapani. Durante il suo periodo di detenzione, “Sami si è ripetutamente autolesioniato, cucendosi le palpebre, le labbra e i genitali”. Dopo aver minacciato di impiccarsi, alla fine è stato rilasciato ed è stato in grado di raggiungere la sua famiglia in Europa. Un altro migrante tunisino, Wissem, è morto durante la contenzione psichiatrica all’ospedale San Camillo di Roma. Il 26enne di Kebili in Tunisia sarebbe stato “sedato e legato mani e piedi a un letto d’ospedale, dopo essere passato per il Cpr di Ponte Galeria, dove era detenuto”.

Infine, Borderline Sicilia ha raccontato anche la storia di Bilel, tunisino di 20 anni di Sfax, morto nel maggio 2020 mentre era in quarantena sulla nave Moby Zaza, ormeggiata al largo di Porto Empedocle in Sicilia.

Dall’inizio del 2023, secondo i dati del governo italiano, più di 27.000 migranti in totale sono arrivati ​​via mare sulle coste italiane. 1.862 di loro sono registrati come cittadini tunisini.

Buon lunedì.

Il populismo di mercato e il governo di Giorgia Meloni

Da quando il nuovo governo presieduto da Giorgia Meloni si è insediato, non senza sorpresa alcuni osservatori hanno rilevato come non ci si trovasse di fronte a un esecutivo caratterizzato da un orientamento populista bensì da un progetto del tutto schiacciato sulle ricette neo-liberiste, rispecchiate nell’adesione alla politica estera Ue e Nato. In realtà “populismo” e neoliberismo non sono affatto in contraddizione. Anzi il ciclo neoliberista è stato inaugurato da Thatcher e Reagan proprio all’insegna di un programma neo-liberista proposto attraverso una politica di tipo populista.

Stuart Hall lo registrò tempestivamente per la leader inglese, ma la stessa impronta va riconosciuta per il progetto reaganiano. Si trattò di un populismo di mercato (espressione utilizzata da Thomas Frank nel suo libro One market under good e ripresa anche da Zygmunt Bauman in Homo consumens), ampiamente favorito dallo sviluppo degli oligopoli privati di comunicazione di massa: riduzione del potere di sindacati e partiti sulla società e dell’impegno dello Stato nell’economia, con le sue inefficienze e potenzialità corruttive, flessibilizzazione del mercato del lavoro, facilitazione dell’azione delle imprese e taglio delle tasse e della progressività fiscale, modellando le istituzioni pubbliche sul paradigma aziendale (corporate populism) per aumentare la produttività favorendo lo sgocciolamento della ricchezza verso il basso. Nonostante l’aprirsi della forbice delle diseguaglianze, il consenso è garantito grazie ad una sorta di fiducia nella possibilità residuale di ognuno di poter essere fra gli eletti di successo.
Pensiamo come lo stesso berlusconismo, con la fantasmagoria dell’immaginario veicolato dalla sua tv commerciale, abbia contribuito a trasformare il clima etico italiano distaccandolo da quello legato al costituzionalismo democratico improntato all’idea di una tutela dei diritti sociali accanto a quelli civili e politici.

Assieme alla Lega Nord, Berlusconi ha riattivato le tematiche del populismo reazionario del secondo dopoguerra (dall’Uomo qualunque al poujadismo) mirate a delegittimare il ruolo roussoviano della politica intesa come contratto volto a correggere gli squilibri sociali che emergono nella società civile: elogio dunque del soggetto produttore, autonomo da partiti e sindacati, e di un mercato libero da pastoie determinate dalla collettività. A ben vedere anche l’illusoria catarsi di tangentopoli finì per agitare un mito della società civile contrapposta alla politica, in cui però non uscì fuori vincente la democrazia dei luoghi di lavoro o l’autonomia sociale mutualistica, bensì il capitale privato puro e semplice, ora però impegnato ad aggredire un mercato globalizzato e finanziarizzato, in cui ben poco sarebbe sgocciolato in basso. Molta parte della cultura di sinistra di allora fu come sussunta in questa rivolta contro la politica e lo Stato: rivolta di cui lo stesso abbandono del sistema elettorale proporzionale fu una eclatante rappresentazione
Thatcher, Reagan, Berlusconi (ma anche il peronista di destra Menem) e Bossi sono andati al potere con un programma neo-liberista coniugato con una piattaforma di valori neo-conservatori.

Il ciclo immediatamente successivo ha visto invece affermarsi formule di populismo neoliberista coniugate con i diritti umani e civili: Clinton e Blair, che hanno avuto un ruolo seminale in questo senso, fino a Obama, Renzi (che ha radicalizzato gli orientamenti del Lingotto) e Macron. La scommessa era promuovere i diritti civili senza toccare il modello di sviluppo e anzi accelerarne il dispiegamento sulle ceneri delle istituzioni pubbliche ereditate scomodamente dall’age d’or. Secondo Nancy Fraser (lo scrive in un saggio dal titolo gramsciano: Il vecchio muore e il nuovo non può nascere) la mossa che aiuta la politica liberal-progressista a rendersi accettabile è la sostituzione dell’idea di giustizia sociale con quella di meritocrazia. E tuttavia la parentela fra il populismo mercatista di destra e quello di sinistra si vede anche in questo. Il merito come criterio di giustizia è agitato anche dai neo-conservatori, sebbene in quanto realtà da preservare rispetto alle ideologie del politicamente corretto, e non – come per i liberal-progressisti – in quanto prospettiva da realizzare. Jo Littler (Against meritocracy) ha sottolineato come Trump abbia utilizzato il mito del successo ma anche attaccato i dispositivi di protezione sociale per determinate categorie di assistiti, perché ritenuti responsabili di sottrarre risorse a chi meritevolmente contribuisce alla produttività. Victor Orban nel discorso di Chatam House del 2013 a Londra dice chiaramente che lo Stato sociale è superato e che al diritto va sostituito il merito.
La politica di Fratelli d’Italia rientra a pieno titolo in quest’ultimo quadro e cioè nel populismo di mercato nella sua declinazione neo-conservatrice. Nel discorso di insediamento Meloni ha enfatizzato come il suo governo non intenda disturbare chi “vuole fare”: è l’etica, cioè, del produttore contrapposta alle pastoie burocratiche della collettività, rispetto a cui il partito si era mostrato insofferente anche al tempo della pandemia. A ben vedere anche la politica fiscale anti progressiva, proiettata verso la flat tax, ha il fine di incentrare lo sviluppo economico, post fordisticamente, sull’offerta e sulle capacità superiori dei produttori rispetto alla domanda dei soggetti meno capaci. Non redistribuzione, dunque, ma fiducia che il mercato sortisca da sé effetti di accrescimento generale del benessere attraverso un aumento della produzione e l’intensificazione dell’innovatività alla Steve Jobs, richiamato nel suo primo discorso dalla Premier. L’abolizione del reddito di cittadinanza vuol farla finita con l'”assistenzialismo” slegato dal reale contributo lavorativo alla società, in una generale rimozione della fagocitazione del lavoro ad opera del presente modello di sviluppo; ma in una rimozione, anche, dell’esistenza di un’enorme mole di rendite di cui per via familiare beneficiano i soggetti privilegiati e, insieme, di come la finanziarizzazione dell’economia consenta un enorme reddito, per così dire, di anti cittadinanza a chi ha capitali da investire in borsa. L’enfasi sul merito scolastico nel nome stesso del ministero dell’istruzione deriva dalla stessa tendenza a obliterare le fratture di classe: il problema non è far sì che ai ceti meno abbienti sia data l’opportunità di potere godere al pari degli altri delle possibilità di apprendimento fornite dalla scuola. Ma è proprio la scuola – secondo i maître à penser a cui Meloni si ispira – che determina la diseguaglianza sociale, essendo incapace di allineare i figli di famiglie meno acculturate e ricche con quelle più ricche, rinunciando al giusto rigore e severità nei metodi e nelle valutazioni. E ciò proprio mentre nelle scuole e nelle università i rappresentanti degli studenti stanno denunciando con forza il malessere persino suicidogeno che percorre le aule assediate da una pressione performativa disegnata su un omologante concetto di merito. Anche per quanto riguarda l’autonomia differenziata la premier ha scomodato il merito: dato che proprio a questo criterio tale sistema si ispirerebbe, in quanto prometterebbe ad ogni regione di ottenere solo quei diritti che essa riesca a guadagnarsi. Inoltre non si può non vedere come il taglio in finanziaria per il sistema carcerario e le posizioni assunte sulla questione delle madri detenute rimandino alla distinzione fra cittadini meritevoli e soggetti marginali e improduttivi: che è tanta parte del populismo penale e del securitarismo contemporaneo, secondo cui la povertà e la devianza sono un segno di irresponsabilità personale da punire e non un problema collettivo da risolvere.
Giorgia Meloni, nel suo discorso di insediamento, si è del resto autorappresentata come un underdog, sia pensando alla sua cultura politica, a lungo emarginata e discriminata al tempo della prima repubblica, sia alla sua estrazione familiare non legata a rendite di posizione. Dopo una catena di premier in un modo o nell’altro di diverso conio, l’immagine ha avuto un certo impatto, richiamando una populistica rottura con i cerchi magici e i gruppi Bilderberg a favore del sogno di emergere delle persone comuni. Ma si tratta di una illusoria “teologia della prosperità”. Uno su mille ce la fa. Il problema di una democrazia repubblicana è invece che anche gli altri novecentonovantanove abbiano garantita una vita dignitosa e la possibilità di valorizzare i loro plurimi talenti. Ma per far questo andrebbe cambiato quel modello di sviluppo che invece il melonismo abbraccia nelle sue forme più radicali.

I conti che Massimo Fini non ha mai fatto con il fascismo

Credo che meriti una riflessione l’articolo di Massimo Fini (“I conti mai fatti con il fascismo”, pubblicato da Il Fatto quotidiano giovedì 23 marzo) che ha già suscitato la dissociazione del direttore Travaglio e del comitato di redazione.
La capacità giornalistica di Fini e la sua indubbia onestà intellettuale fanno infatti di quell’articolo un megafono di un diffuso e dominante “senso comune” italiano a proposito del fascismo (e sappiamo che il “senso comune” è assai diverso dal buon senso). Manca solo nell’articolo di Fini che “i treni arrivavano in orario” e la bonifica della paludi pontine, ma il resto c’è tutto. Occorre allora impegnarci a verificare la fondatezza di quella narrazione del “senso comune” a-fascista (e in verità, ormai, sempre più anti-antifascista) di cui Massimo Fini si è fatto portavoce, e credo che si possa farlo alla prova dei fatti che, come è noto, hanno la testa dura.

Anzitutto sono davvero “polemiche sepolcrali” (come Fini scrive) quelle nostre contro il fascismo? Che il fascismo o il neofascismo non esistano più suona quasi come una battuta paradossale in un Paese che ha Giorgia Meloni come presidente del Consiglio e Ignazio La Russa come presidente del Senato (cioè, come dicono gli americani per i loro vice-presidenti, “a un battito di cuore” dalla presidenza della Repubblica).
In un recente libretto del dipartimento antifascismo di Rifondazione, intitolato “Dodicesima disposizione” (pubblicato dall’editore Bordeaux, e che si può fruire gratis anche in una versione audio-video con il link seguente:
Disposizione XII – Contro ogni forma (vecchia e nuova) di fascismo: conoscere la storia per combattere nel presente, cerchiamo non solo di informare almeno un po’ su ciò che è stato il fascismo ma anche di argomentare che il neofascismo (cioè il fascismo post-25 aprile ’45) non è stato meno violento del fascismo al potere. Anzi. Risale al neofascismo la terribile scia di sangue che ha accompagnato tutta la storia della Repubblica, aggressioni, attentati, omicidi, terrorismo, bombe, stragi (da piazza Fontana fino alla stazione di Bologna) in una costante minaccia per la stessa democrazia (i tentativi di golpe da De Lorenzo, a Borghese, e tutti gli aspiranti golpisti finivano presidenti del Msi) per non dire di Gelli, Andreotti e Cossiga, e sempre, sempre, il neofascismo è stato uno dei vertici del triangolo di morte che aveva gli altri due vertici nei servizi segreti stranieri (americani e inglesi) e nei servizi cosiddetti “deviati” intrecciati alla massoneria. Tutto ciò è davvero finito nel nulla?
Le pagine finali del libretto che ho poc’anzi citato sono dedicate a un elenco (procurato da un gruppo di madri antifasciste di Roma) di pestaggi, atti di omofobia, antisemitismo e razzismo, sparatorie, attentati e omicidi: ebbene, questo elenco, che si limita al periodo 2014-2021, occupa ben dieci pagine a stampa, e negli ultimi due anni esso si incrementerebbe ancora, e di molto.

Di certo non sono stati gli antifascisti e i comunisti a fare propria (come Massimo Fini sostiene) la tesi crociana del fascismo come “parentesi”: semmai noi abbiamo fatto nostra la terribile definizione di Gobetti del fascismo come “autobiografia della nazione”, cioè come il condensato dei tratti peggiori della nostra storia, la violenza, la prepotenza coniugata al servilismo, il disprezzo per le masse e la democrazia, il militarismo, il maschilismo, l’imperialismo, il razzismo. E proprio perché il fascismo non è stata una parentesi dobbiamo impegnarci a combatterlo oggi come e più di ieri.
E siamo così a discutere della storia che Fini propone (e cercheremo di farlo sempre dati e fatti alla mano). Fini scrive: «la lotta partigiana, pur benemerita, fu marginale in quella tragica epopea che fu la seconda guerra mondiale». Ma diamo la parola alle cifre.
I Caduti nella Resistenza italiana (in combattimento o eliminati dopo essere finiti nelle mani dei nazifascisti), sono stati complessivamente circa 44.700; (si veda l’elenco nominativo nel sito dell’ANPI. Altri 21.200 rimasero mutilati o invalidi. 10.260 furono i militari della sola Divisione Acqui uccisi per essersi rifiutati di obbedire ai tedeschi. Oltre 40 mila le vittime fra gli Imi (Internati militari italiani), e molti morirono nei lager nazisti, a questi sono da aggiungere i deportati, i dispersi, gli internati, i carcerati e i torturati, etc. Tremila italiani si aggiunsero da volontari alle truppe alleate che risalirono l’Italia. Gli scioperi operai del marzo dettero un colpo decisivo al fascismo.

Domandiamoci: quante forze nazifasciste furono impegnate dalle Repubbliche partigiane del Nord e soprattutto per contrastare nell’Italia occupata la costante attività partigiana dietro la “linea gotica”, gli attacchi eroici come quello di via Rasella, l’attività dei Gap e i sabotaggi nelle retrovie o nelle città?
Nulla di paragonabile era mai accaduto nella storia d’Italia, nessuna partecipazione popolare come questa si era verificata mai per una guerra (tranne poche e luminose eccezioni come le Cinque giornate di Milano o la Repubblica romana), ed era una guerra impari contro un avversario armatissimo e feroce, sostenuto per giunta dai collaborazionisti repubblichini. E – si noti questo aspetto decisivo – della Resistenza furono protagonisti operai, artigiani e contadini, gente semplice del popolo e (tante) donne, giovani, studenti, militari, intellettuali e perfino preti. Furono loro i padri e le madri della Costituzione che ancora ci difende.

Ripeto: una cosa mai vista nella nostra storia nazionale. La Resistenza è stata appunto l’eccezione, anzi la smentita, del “Franza o Spagna purché se magna”, che Fini cita come motto permanente degli italiani.
Non ritennero “marginale” il contributo della Resistenza neppure gli alleati anglo-americani (di certo non benevoli data la presenza dei comunisti nella lotta partigiana) che riconobbero il ruolo decisivo della Resistenza italiana per la sconfitta dei nazifascisti, attribuendo per questo all’Italia il ruolo di co-belligerante, ciò che valse dopo la guerra al nostro Paese (troppo spesso lo si dimentica) un trattamento ben diverso da quello riservato alla Germania.

La scelta di abbandonare la folle guerra al servizio di Hitler è definita da Fini con queste parole: «tradendo (…) l’alleato che ci eravamo scelti e schierandoci (…) col vincitore». Ma davvero l’alleato Hitler ce lo “eravamo scelti” oppure quella alleanza era stata imposta dalla dittatura al popolo italiano che non ebbe alcuna voce in capitolo?
E qui veniamo alle nefandezze del fascismo che anche Fini ammette, benché per lui siano solo tre o quattro: anzitutto «far entrare l’Italia in guerra assolutamente impreparata» (e se fossimo stati preparati il giudizio sarebbe stato diverso?), poi il delitto Matteotti, l’esecuzione dei fratelli Rosselli e il lento assassinio di Gramsci, infine «l’adesione alle leggi razziali, che i nazisti non ci avevano nemmeno chiesto» (sic!).

Così si passa un colpo di spugna su troppe cose.
Si dimentica che la stessa presa del potere da parte del fascismo si realizzò con una serie di violenze e di infamie: aggressioni, pestaggi, spedizioni punitive, incendi di giornali e sedi di partito e di leghe, lo scioglimento dei Comuni sgraditi, assassini politici di numerosi quadri dirigenti popolari, il tutto con la complicità del re fellone Vittorio Emanuele III.
Si dimentica che il regime fu di per sé una serie di crimini: l’abolizione del Parlamento (preceduta dalla legge elettorale maggioritaria); la proibizione del partiti politici e dei sindacati; la sovrapposizione del fascismo allo Stato (ad es. con la Milizia); l’istituzione del Tribunale Speciale (furono deferiti 15.806 antifascisti/e, 891 le donne, 12.330 furono inviati/e al confino e ben 160.000 furono gli “ammoniti” sottoposti a “vigilanza speciale”; gli anni totali di prigione inflitti furono 27.735, 42 le condanne a morte); l’imposizione ai professori universitari del giuramento di fedeltà al duce, escludendo dall’Università (senza pensione) chi si fosse rifiutato; la necessità della tessera fascista per lavorare; i licenziamenti politici; l’attività pervasiva dell’Ovra e dei controlli; l’abolizione di ogni libertà di stampa sostituita dalla propaganda ossessiva e unilaterale, etc.

Si dimenticano infine i crimini forse peggiori, la vile aggressione alla libera Repubblica spagnola (già a fianco di Hitler per sostenere il golpe di Franco), e soprattutto le guerre coloniali e imperialiste con l’uso di gas contro i civili, le deportazioni, le stragi. Le leggi razziste (finiamola di chiamarle “razziali”!) furono introdotte dal fascismo ben prima di Hitler, contro gli africani e gli italo-africani.
Se Fini dimentica tutto ciò, allora si spiega anche la ripresa della sciagurata rivalutazione dei “ragazzi di Salò” à la Violante. Il giudizio storico deve evidentemente prescindere dall’età, ma non può prescindere da ciò che costoro fecero, a fianco e al servizio dei tedeschi, impegnati di solito da questi in attività particolarmente efferate, come i rastrellamenti, la delazione, le torture, gli arresti degli antifascisti e degli ebrei.
Che questa spaventosa macchina di oppressione abbia anche ottenuto in una certa fase del consenso non è stato mai negato dai comunisti (si ricordi lo straordinario “Corso sugli avversari” di Togliatti del 1935), ma questo consenso rappresenta un problema (ahimè oggi attualissimo!) per gli antifascisti, non certo una giustificazione per i fascisti.
Per questo occorre studiare e conoscere, e far conoscere soprattutto ai giovani cosa è stato il fascismo e cosa è il neofascismo. Sarebbe importante che tutte le persone libere e per bene (e Fini credo che lo sia) si impegnassero in questo compito, invece di farsi pappagalli del più banale e pericoloso “senso comune” (a-fascista e sempre più anti-antifascista).

Nella foto: raduno fascista all’Hotel Brufani a Perugia, dove venne insediato il comando della Marcia su Roma, 1922

 

Aggiornamento del 4 aprile

La petizione lanciata sabato primo aprile per chiedere le dimissioni del Presidente del Senato dopo le inaccettabili dichiarazioni rilasciate in merito all’attentato di via Rasella è stata già firmata on line da oltre trentaseimila persone. Scorrendo l’elenco delle prime firme ci sono i nomi di quanti si stanno impegnando per la costruzione di Unione Popolare. E, insieme, personalità della cultura, dello spettacolo, dell’informazione, dell’associazionismo che hanno voluto schierarsi, non in nome di un antifascismo di facciata ma avvertendo l’urgenza di ricostruire una verità storica non viziata da revisionismo. Qui per firmare la petizione https://chng.it/77HrTFPggJ

Il governo degli orrori

Fatti accaduti ieri.

L’Eurocamera ha approvato l’emendamento al testo della Risoluzione sullo Stato di diritto che «condanna le istruzioni date dal governo italiano alla municipalità di Milano di sospendere la registrazione delle adozioni delle coppie omogenitoriali». L’emendamento è stato presentato dal gruppo di Renew europe e supportato da Sinistra, Verdi e Socialisti. Il Parlamento europeo ha approvato per alzata di mano, in plenaria a Bruxelles l’emendamento. Il Parlamento europeo, si legge ancora nell’emendamento, «ritiene che questa decisione porterà inevitabilmente alla discriminazione non solo delle coppie dello stesso sesso, ma anche e soprattutto dei loro figli; ritiene che tale azione costituisca una violazione diretta dei diritti dei minori, quali elencati nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989; esprime preoccupazione per il fatto che tale decisione si iscrive in un più ampio attacco contro la comunità Lgbtqi+ in Italia; invita il governo italiano a revocare immediatamente la sua decisione».

La Lega vuole cacciare Giuseppe Busia dal vertice dell’Autorità Anticorruzione. La sua colpa? Aver aspramente criticato il nuovo Codice degli appalti varato dal governo di Giorgia Meloni e rivendicato da Matteo Salvini. «Gravi, inqualificabili e disinformate dichiarazioni del presidente Busia sul Codice Salvini: se parla così di migliaia di sindaci e pensa che siano tutti corrotti, non può stare più in quel ruolo», è l’attacco lanciato da Stefano Locatelli, responsabile Enti locali della Lega. «Busia ha dei compiti di controllo – prosegue il dirigente del Carroccio – invece certifica di essere prevenuto, non neutrale e quindi non credibile».

In Veneto vogliono un loro inno. La proposta di legge è della Regione governata dal leghista Luca Zaia: ha già ottenuto l’ok della commissione Cultura e a breve giungerà nell’aula del Consiglio regionale. L’indicazione è di scegliere tra «motivi esistenti» o di «nuova ideazione». A favore hanno votato i consiglieri della Lega-Liga Veneta, contrari i membri di opposizione Pd e Veneto che vogliamo; l’alleata di maggioranza Fratelli d’Italia si è invece astenuta.

Nordio bluffa sul reato di tortura. Come scrive Giulia Merlo per Domani: «Apparentemente, il guardasigilli e il partito che lo ha eletto sono in aperto contrasto. FdI, infatti, ha presentato un disegno di legge per abrogare gli articoli 613 bis e ter del codice penale, ovvero il reato di tortura e di istigazione alla tortura, trasformandole in una semplice aggravante, che prevede l’aumento fino a un terzo della pena. Il ministro, invece, ha risposto al question time del Pd dicendo che “senza se e senza ma, il governo non ha intenzione di abrogare il reato di tortura”, sia per ragioni di “ottemperanza a norme internazionali” che di “coerenza”. Tuttavia, ha aggiunto, “vi sono aspetti tecnici da rimodulare”, perchè l’attuale formulazione del reato “ha delle carenze tecniche di specificità e tipicità”. Proprio in questo corollario solo apparentemente secondario si nasconde invece l’elemento determinante».

Prima di questo c’è stata la strage di Cutro, le parole di Piantedosi e il suo decreto, la legge per i “rave party” come urgenza nazionale, la guerra ai poveri e poi tutto quel pullulare nel sottobosco di fascisti. E siamo solo all’inizio.

Buon venerdì.

Buon compleanno Van Gogh. 170 anni fa nasceva il geniale pittore olandese

Olio su semplice cartone. Colori esplosivi irraggiano intorno al volto di Vincent van Gogh (nato 170 anni fa il 30 marzo 1853-1890). Colori di sole, anche se il giovane volto del pittore è intensamente drammatico. Il cuore pulsante della mostra Van Gogh prorogata fino al 7 maggio in Palazzo Bonaparte a Roma è il celebre autoritratto che l’artista olandese dipinse a Parigi, tra l’aprile e il giugno 1887.
Questo bruciante autoritratto campeggia insieme ad una quarantina di opere del maestro olandese, tutte provenienti dal Kröller Müller Museum di Otterlo, originalissimo museo immerso nella foresta dei Paesi Bassi.
La collezione Kröller Müller – che oltre ad opere di Van Gogh comprende opere di Picasso, Renoir, Gauguin e molti altri – nacque per impulso di Helene Kröller-Müller (1869- 1939), figlia e moglie di industriali che non si accontentò di fare l’ancella del focolare, di starsene chiusa nel proprio agiato privato, ma usò il patrimonio di famiglia per creare un museo che raccontasse quell’arte che per lei rappresentava l’umanità più profonda, le vette più alte della creatività. Con il marito Anton Kröller acquistò 11.500 opere d’arte, fra le quali 91 dipinti di Van Gogh e moltissimi disegni. E quando i soldi di famiglia finirono convinse le istituzioni pubbliche a investire nella creazione del Museo Kröller Müller di cui divenne direttrice. Il primum movens, dunque, fu la sua passione per la pittura di Van Gogh di cui fu tra le prime estimatrici, ben prima che il talento del pittore fosse universalmente riconosciuto. Prova ne è la mostra romana che inanella una serie di perle, appartenenti a periodi differenti della sua breve e folgorante parabola : dai primi ritratti di contadini in stile socialisteggiante alla Millet, allo spessore di quadri, fatti di solo colore, come Il seminatore (1888) fino al drammatico Burrone (1889) che allude alla catastrofe imminente, che avvenne nella mente di Van Gogh nei giorni del tragico epilogo della sua vita. Ma procediamo passo passo. Intercalate da capolavori di Lucas Cranach e di altri maestri della collazione Kröller-Müller, sfilano in Palazzo Bonaparte opere giovanili di Van Gogh che ritraggono lavoratori e lavoratrici delle campagne. Cercava una spontaneità lontana da moduli accademici. I suoi soggetti preferiti «erano donne impegnate in cucina o in lavori di cucito, ora intente a trasportare pesanti sacchi, ora sul punto di cullare un bambino, e insieme uomini colti nella fatica del lavoro nei campi e nei boschi», scrive Maria Teresa Benedetti che, insieme a Francesca Villanti, cura il catalogo Skira che accompagna la mostra. Van Gogh cerca soprattutto l’essenzialità. Dapprima tramite il disegno, poi attraverso il colore, cercando di dare rappresentazione al senso emotivo di ciò che vede.
Via via sempre più “forte” è il risultato del ritratto di un anziano che, chino in avanti, si tiene la testa. In mostra a Roma ce ne sono due versioni, che ben raccontano il passaggio da una pittura naturalistica tradizionale a una folgorante pittura di visione che illumina e dà forma al vissuto interiore. Tutto ciò che sente vero e originale attrae Van Gogh. Con questo approccio si dedica a “vedute” di campagna. Cerca una spontaneità lontana da moduli della pittura consacrata dalle istituzioni del tempo. Le sue donne hanno musi affilati come quelli delle gatte che le circondano. Non c’è nulla di idilliaco in queste rappresentazioni, ma asprezza delle condizioni di vita e condivisione, intensa umanità.
A poco a poco la sua attenzione si sposta alla città. Ma il suo atteggiamento non cambia, resta attratto da ciò che, ai più, poteva apparire periferico. Nel 1882 torna all’Aja dove dipinge una serie di scorci urbani su input dello zio Cornelis Marinus van Gogh, commerciante d’arte in Amsterdam. È in questo periodo che matura la sua pittura al nero: «Versa latte sui disegni a matita, ottenendo un effetto opaco e profondo nel nero, e utilizza il gessetto litografico e l’inchiostro da stampa per riuscire a ottenere le sfumature di nero volute», riporta Benedetti.
La vera svolta però avviene dopo il suo arrivo a Parigi nel 1886. La tavolozza si apre ai colori luminosi degli impressionisti, sperimentando la potenza dei contrasti simultanei che accendono i viola con gli arancio, i gialli con i blu.
L’altra svolta decisiva avviene quando decide di trasferirsi ad Arles in cerca dei colori del Sud, inseguendo il sogno di dar vita a una comune, a un collettivo di artisti, in cui poter lavorare insieme, fianco a fianco, ognuno seguendo la propria ricerca, ma in un’atmosfera che protegga la dimensione irrazionale di ognuno. In mostra il periodo di Arles è raccontato attraverso quadri come Nella natura morta, cesto di limoni e bottiglia dipinta nel maggio 1888. «Ogni spazialità disegnata è eliminata, le forme si collocano in un morbido assemblarsi e fluire senza rigore, con grande dolcezza. Si avverte il senso di una nuova libertà. Fin dall’arrivo, il pittore sfrutta le suggestioni di quella terra, cerca di rinnovarsi e riversare nei suoi dipinti un clima vitale di giovinezza», annota Maria Teresa Benedetti nel catalogo Skira. Sono gli ultimi sprazzi di luce, gli ultimi sprazzi di vita.

Mondo senza pace, la responsabilità delle grandi potenze e la necessità di un nuovo equilibrio economico

La guerra in Ucraina rappresenta un evento epocale nella nostra vita, uno spartiacque che segna il prima e il dopo. Per inquadrare il conflitto ci facciamo guidare da quattro illustri studiosi (nei link si vedano le referenze). L’economista Jeffrey Sachs, direttore del Centro di sviluppo sostenibile della Columbia University, consulente economico per i governi dell’America Latina, dell’Europa orientale e dell’ex Unione Sovietica, ha recentemente tenuto la lezione “The Geopolitics of a Changing World” all’università di Oxford. John Mearsheimer, politologo e studioso di relazioni internazionali americano, professore all’Università di Chicago è il principale rappresentante della scuola di pensiero nota come realismo offensivo (qui un suo intervento del 2014). Emmanuel Todd storico, sociologo e antropologo francese, ricercatore presso l’Institut national d’études démographiques di Parigi, ha scritto numerosi saggi, tra cui Il crollo finale (1976), in cui ha preconizzato la fine dell’Unione Sovietica, e Dopo l’impero (2003), in cui profetizza la «disgregazione del sistema americano» e la rinascita dell’Europa (qui una sua intervista del 21 gennaio 2023). Infine, Wolfgang Streeck è un sociologo ed economista tedesco e direttore emerito dell’Istituto Max Planck per lo studio delle società (qui un suo intervento dell’agosto 2022). La fine dell’Unione Sovietica ha chiuso l’epoca della guerra fredda iniziata nel dopoguerra. La grande crescita economica della Cina e la ripresa della Russia dopo la catastrofe degli anni Novanta sono le realtà emergenti che stanno cambiando gli equilibri globali e sono alla radice dell’instabilità del mondo “unipolare” in cui gli Stati Uniti sono stati egemoni per un trentennio.

La crescita della Cina
Per valutare la crescita di un’economia e confrontarla con altri Paesi, è importante considerare i dati a prezzi costanti (ovvero depurandoli dall’effetto inflazione), utilizzando i tassi di cambio internazionali a parità di potere d’acquisto. In questo modo si prende in esame la crescita in termini reali. Consideriamo qui i dati del World Development Indicators database della World Bank.
La crescita della Cina negli ultimi 30 anni è stata fenomenale: il Pil pro capite (ovvero per persona) è passato dai 1429 dollari del 1990 ai 17.603 del 2021, cioè è aumentato di 12 volte. Nello stesso periodo il Pil per persona negli Stati Uniti è cresciuto di poco più della metà, passando da 40.456 dollari a 63.670. La Cina, però, ha oggi una popolazione di 1,4 miliardi di persone, cioè 4,6 volte quella degli Stati Uniti, tanto che il Pil totale della Cina è oggi maggiore di quello americano (in termini reali, valutato a parità di potere d’acquisto): nel 2021 il Pil cinese è stato di 24.860.000 miliardi di dollari, contro i 21.130.000 miliardi degli Usa e i 19.740.000 dell’insieme della Ue. Nel 1990, il Pil totale cinese era di 1.620.000 miliardi, mentre quello di Stati Uniti e Ue erano, rispettivamente, di 10.100.000 e  11.990.000 miliardi di dollari. L’impressionante crescita dell’economia cinese è corrisposta ad aumento del Pil che si è generalmente mantenuto sempre superiore al 5% annuo per ormai più di quarant’anni, contro a valori ben più bassi dell’economia americana (o europea).

Figura 1. A sinistra il Pil pro capite e a destra il Pil totale
(dollari internazionali a prezzi costanti del 2017 a parità di potere d’acquisto)

 

 

 

 

Se la distanza tra economia cinese e americana si è ridotta, è comunque rimasta considerevole in termini di Pil pro-capite: nel 1990 un cittadino americano aveva un reddito superiore a quello di un cittadino cinese di 39mila dollari, mentre oggi il divario è di 46mila dollari. Tuttavia, il dato rilevante è che il Pil della Cina ha superato quello degli Stati Uniti.

Perché la Cina cresce
La competitività economica di una nazione si può misurare quantificando il livello di diversificazione del sistema industriale e dei servizi, cioè la diversità nel tipo di prodotti realizzati, e la loro complessità, ovvero il grado di sofisticazione tecnologica. In tal modo si riesce a estrarre da un complesso sistema economico, come quello di un Paese industrializzato, un’informazione globale che ne descrive la sua qualità. Non è sorprendente che da un’analisi di questo tipo si desuma che i Paesi che cresceranno di più domani sono quelli che si sono occupati di meglio rafforzare oggi il proprio sistema industriale, della ricerca e dell’innovazione che si avvicina così a quello dei Paesi tecnologicamente e industrialmente più avanzati senza aver però ancora raggiunto un livello di Pil pro capite comparabile a quest’ultimi. In ultima analisi questa è la spinta della crescita di alcune economie come quelle di Cina e in maniera meno accentuata dell’India.
Nella figura che segue è mostrata la spesa in ricerca e sviluppo della Cina in confronto ad altri Paesi occidentali: la veloce crescita avvenuta dal 2000 in poi è alla base della trasformazione dell’economia cinese attuale. Nel 2014 la stessa spesa in ricerca e sviluppo della Cina era del 2%, una percentuale maggiore dell’Europa, con una tendenza a raggiungere il 2,5% in questi anni. La combinazione tra la grande spesa in ricerca e sviluppo e i bassi salari hanno reso possibile il veloce sviluppo economico della Cina.

Figura 2. Andamento della spesa in ricerca e sviluppo in miliardi di dollari (Nature)

Un’altra rappresentazione dell’impressionante sviluppo cinese è fornita da quest’altra figura che mostra la crescita della quota del Valore aggiunto totale mondiale dell’attività manifatturiera per paese, che ha ora superato il combinato tra Europa e Stati Uniti, mentre fino a 15 anni fa era minore di entrambi.

Figura 3. Quota del Valore Aggiunto totale mondiale dell’attività manifatturiera per alcuni Paesi (Financial Times)

L’età della convergenza
La Cina ha superato gli Stati Uniti in termini di produzione totale in termini di Pil. Questo non deve sorprendere più di tanto in quanto la Cina ha quattro volte la popolazione degli Stati Uniti, e per questo c’è da aspettarsi che diventerà nel prossimo futuro un’economia ancora più grande. Come abbiamo visto sopra, attualmente il reddito pro capite cinese è ancora poco più di un quarto di quello americano. Il divario è ancora molto grande, anche perché le economie americana ed europea restano ancora quelle più avanzate dal punto di vista finanziario e tecnologico: le corporation dove sono concentrati i grandi capitali sono ancora americane (e qualche europea). Tuttavia, la Cina è un Paese enormemente produttivo, creativo, innovativo e laborioso, con un sistema educativo eccellente, e dunque è ragionevole aspettarsi che cresca ancora in termini economici relativi e tutto lascia pensare che la sua economia e quelle americane ed europee stiano “convergendo” in termini di reddito per persona. Tra l’altro, l’insieme dei Paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) ha un’economia la cui dimensione ha superato quella dei Paesi del G7 (Figura 4), che indica che la convergenza è in atto per un più ampio numero di Paesi.

Figura 4. Percentuale del Pil mondiale dei Paesi del G7 e dei Brics

Tuttavia, è vero che l’economia cinese è “grande” e sta crescendo ad un passo più veloce di quello dei paesi capitalistici avanzati (Pca) – e con essa anche quella degli altri Brics – ma ha ancora un basso Pil pro-capite il che implica che il Paese ha ancora un lungo cammino da percorrere per raggiungere gli standard dei Pca in termini di tenore di vita, servizi, etc. Inoltre, la distribuzione del reddito in Cina è più iniqua che non in Europa e simile a quella degli Usa (Figura 5).

Figura 5. Quota del reddito nazionale del 10% più ricco in Cina, Stati Uniti ed Ue (fonte World Inequality Database)

Il vantaggio dei Paesi capitalistici avanzati
I Pca hanno un vantaggio sugli altri che è tecnologico e finanziario e che durerà ancora per qualche tempo. È vero che la guerra in Ucraina ha evidenziato una “rottura” tra l’Occidente e il resto del mondo che va ben oltre il piano strategico-militare, creando una frattura vieppiù apparente anche sul piano economico. L’Africa, l’Asia e anche l’America Latina hanno rapporti economici sempre più stretti con Cina e India ma anche con la Russia. La leadership dei Pca è ancora assicurata ma potrebbe essere in un futuro non troppo lontana messa in discussione. Tuttavia, il capitalismo della globalizzazione si è evoluto oltre i confini nazionali e i suoi interessi non coincidono più necessariamente, con quelli nazionali: la dinamica capitalistica è sovra-nazionale.
La lista delle 100 principali aziende per capitalizzazione mostra che 59 hanno base negli Usa, 18 in Europa e 14 in Cina. Le compagnie americane totalizzano il 65% del valore totale di mercato in termini di capitalizzazione, pari a 20.550.000 miliardi di dollari, quelle cinesi 4.190.000 miliardi e quelle europee 3.460.000 miliardi. La competitività cinese si è quindi fatta valere, non solo nei settori dell’high-tech e dei beni di consumo, ma anche in campi come quello della finanza. Nelle prime 500 società, nel 2022, secondo Fortune, 124 sono americane, 136 cinesi, 47 giapponesi, 28 tedesche, 18 britanniche e 31 francesi (Figura 6). Il numero di società cinesi, in questa lista, è costantemente aumentato dal 2000. Tra le prime 500 compagnie, tra l’altro, 7 sono russe (e 5 sono nel settore dell’energia).

Figura 6. Le principali società per capitalizzazione, suddivise per Paese, tra le prime 500

La tragedia delle grandi potenze
John Mearsheimer nel 2002 ha scritto un libro di relazioni internazionali di grande impatto intitolato La tragedia delle grandi potenze (The tragedy of Great Power Politics). Mearsheimer sostiene che la politica internazionale è sempre stata un affare spietato e pericoloso e che probabilmente continuerà ad esserlo. L’intensità della competizione si alterna, le grandi potenze si temono l’una dell’altra e sempre competono tra loro per il potere: l’obiettivo primario di ogni Stato è quello di massimizzare la propria quota di potere mondiale, il che significa acquisire potere a scapito di altri Stati. Le grandi potenze non si limitano a cercare di essere le più forti tra tutte le grandi potenze, anche se questo è un risultato loro gradito; il loro obiettivo finale è quello di diventare la potenza egemone, cioè l’unica grande potenza del sistema.
Ci sono tre fattori alla base di questa dinamica: il primo consiste nell’assenza di un’autorità centrale così che gli Stati si contendono il potere all’interno di un sistema internazionale che è fondamentalmente anarchico. Questa anarchia si origina dal disprezzo delle superpotenze per il quadro giuridico internazionale: le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu vengono troppo frequentemente ignorate o bloccate dai veti dei membri permanenti. Il secondo, che gli Stati abbiano capacità militare offensiva: in questo modo ognuno deve essere consapevole che qualcun altro può sferrare un attacco a sorpresa – il primo attacco – e che questo è un fatto devastante. Il terzo, che gli Stati non possono mai essere certi delle intenzioni dell’altro quindi la migliore garanzia di sopravvivenza è quella di essere un egemone, così che non si possa essere minacciati seriamente da nessun altro Stato.
La tragedia della politica delle grandi potenze consiste nel fatto che, siccome nessuno Stato è in grado di raggiungere l’egemonia globale, il mondo è condannato a una grande e perpetua competizione. Questa è, in grande sintesi, la teoria del realismo nelle relazioni internazionali. Mearsheimer ha scritto questo libro nel 2002 in un momento in cui gli Stati Uniti avevano normali relazioni sia con la Cina e sia con la Russia, ma aveva già compreso che non c’è modo in cui la Cina possa crescere senza che un conflitto tra Stati Uniti e Cina diventi probabile se non inevitabile. Mearsheimer aveva previsto tutto questo in modo corretto: queste idee, sono al contempo molto efficaci, perché permettono di inquadrare le relazioni internazionali e prevedere quello che succederà, e nello stesso tempo sono però tragiche, perché non sono abbastanza efficaci da permettere di superare la tragedia, che invece è quello di cui abbiamo bisogno.

La guerra in Ucraina
La guerra in Ucraina va dunque inquadrata nel più grande scenario di tensione tra forze in competizione a livello mondiale. È un fatto che gli Stati Uniti hanno cercato di ostacolare l’integrazione della Russia in Europa. L’economia russa è rimasta sotto il controllo degli “oligarchi”, una casta che si è creata negli anni Novanta con la transizione al mercato dell’economia sovietica, ed è divenuta capitalistica a tutti gli effetti: tuttavia essa è rimasta fuori dal “circolo capitalista”. Questo poiché la Russia è considerata come “una pompa di benzina” cioè un produttore di materie prime: la Russia ha enormi risorse energetiche di cui l’Europa ha necessità; sin dagli anni Ottanta è stato ipotizzato di sviluppare il gasdotto Trans-Siberiano per portare il gas estratto dai giacimenti siberiano all’Europa, progetto che già allora aveva suscitato l’ostilità degli Stati Uniti. Si è dunque cercata l’integrazione economica della Russia in Europa attraverso lo scambio energia a basso costo per tecnologia, e questo era l’obiettivo dei gasdotti Nord Stream, ma gli Stati Uniti si sono sempre opposti anche a questo progetto. Questa ostilità, secondo l’antropologo francese Emmanuel Todd, si spiega considerando che:
«Per quanto terribile sia per il popolo ucraino, la guerra in Ucraina non è che una questione secondaria in una storia molto più grande: quella della battaglia in corso tra una potenza egemonica globale in declino, gli Stati Uniti e con loro gli altri Paesi occidentali del G7, e una in ascesa, la Cina e con essa i Brics. Un’importante funzione dell’attuale guerra è il consolidamento del controllo degli Stati Uniti sugli alleati europei, necessari per sostenere il “perno verso l’Asia” della potenza statunitense. Il compito dell’Europa è quello di impedire alla Russia di approfittare del fatto che gli Stati Uniti rivolgono la loro attenzione armata altrove e, se necessario, di unirsi alla potenza statunitense nella sua spedizione asiatica (cosa a cui il Regno Unito si sta già attivamente preparando)».

Il Pil della Russia e le sanzioni
Il Pil totale della Federazione Russa, valutato in termini reali a prezzi 2017 a parità di potere d’acquisto come sopra, tra il 1990 e il 2021 è cresciuto di pochissimo, passando dai 3.180.000 ai 4.080.000 miliardi di dollari. Il Pil pro capite, dopo il crollo degli anni Novanta, è invece passato dai 12.358 dollari del 1998 ai 27.960 del 2021, a metà circa tra quello cinese e quello europeo, quindi. Il Pil totale di Russia e Bielorussia, però, rappresenta appena il 3,3% del Pil occidentale o dei Pca (Stati Uniti, Anglosfera, Europa, Giappone, Corea del Sud). Inoltre, una delle maggiori entrate per la Russia era rappresentata dall’esportazione di gas e petrolio verso l’Europa. Per questo motivo, allo scoppiare della guerra, si era convinti che la Russia, con l’imposizione delle sanzioni, sarebbe stata schiacciata economicamente. Tuttavia, il rublo ha guadagnato l’8% rispetto al dollaro e il 18% rispetto all’euro dalla vigilia dell’ingresso in guerra. L’economia russa non solo ha retto bene il peso delle sanzioni, ma è stata capace di rivolgersi verso altri Paesi per l’esportazione di materie prima e l’importazione di tecnologia (quello che era un tempo l’accordo con la Germania, energia a basso costo in cambio di tecnologia) mentre l’industria bellica, fino ad ora, è riuscita a rifornire l’esercito. Come spiegare questa dinamicità economica se il Pil è così modesto?

Neoliberismo e guerra
La guerra diventa un test dell’economia politica, è il grande rivelatore: ci si chiede come questo Pil insignificante possa affrontare la guerra e continuare a produrre missili. Todd fa notare che il motivo è che il Pil è una misura fittizia della produzione, soprattutto per un Paese con grandi risorse di materie prime come la Russia:
«Se si sottrae dal Pil americano metà delle sue spese sanitarie sovrafatturate, poi la “ricchezza prodotta” dall’attività dei suoi avvocati, dalle carceri più affollate del mondo, poi da un’intera economia di servizi scarsamente definiti tra cui la “produzione” dei suoi 15-20.000 economisti con uno stipendio medio annuo di 120 mila dollari, ci rendiamo conto che una parte importante di questo Pil è solo vapore acqueo. La guerra ci riporta all’economia reale, rende possibile capire quale sia la vera ricchezza delle nazioni, la capacità produttiva e quindi la capacità di guerra. Se torniamo alle variabili materiali, vediamo l’economia russa. Nel 2014, abbiamo messo in atto le prime importanti sanzioni contro la Russia, ma essa ha da allora aumentato la sua produzione di grano, che va da 40 a 90 milioni di tonnellate nel 2020. Mentre, grazie al neoliberismo, la produzione americana di grano, tra il 1980 e 2020, è passata da 80 a 40 milioni di tonnellate. La Russia è anche diventata il primo esportatore di centrali nucleari. Nel 2007, gli americani hanno spiegato che il loro avversario strategico era in un tale stato di decadimento nucleare che presto gli Stati Uniti avrebbero avuto una capacità di primo colpo atomico su una Russia che non avrebbe potuto rispondere. Oggi i russi sono in superiorità nucleare con i loro missili ipersonici. La Russia ha quindi un’autentica capacità di adattamento. Quando vuoi prendere in giro le economie centralizzate, sottolinei la loro rigidità, mentre quando fai l’apologia del capitalismo, ne vanti la flessibilità. Giusto. Affinché un’economia sia flessibile, prendi ovviamente il mercato dei meccanismi finanziari e monetari. Ma prima di tutto, hai bisogno di una popolazione attiva che sappia fare delle cose. Gli Stati Uniti hanno ora più del doppio della popolazione della Russia (2,2 volte nelle fasce di età degli studenti). Resta il fatto che con proporzioni da parte di coorti comparabili di giovani che fanno istruzione superiore, negli Stati Uniti, il 7% sta studiando ingegneria, mentre in Russia è il 25%. Ciò significa che con 2,2 volte meno persone che studiano, i russi formano il 30% di più ingegneri. Gli Stati Uniti colmano il buco con studenti stranieri, ma che sono principalmente indiani e ancora più cinesi. Questa risorsa di sostituzione non è sicura e già diminuisce. È il dilemma fondamentale dell’economia americana: può affrontare la concorrenza cinese solo importando forza lavoro qualificata cinese. Propongo qui il concetto di bilanciamento economico. L’economia russa, da parte sua, ha accettato le regole operative del mercato (è persino un’ossessione per Putin quella di preservarle), ma con un ruolo grandissimo dello Stato. E si tiene anche la sua flessibilità della formazione di ingegneri che consentono gli adattamenti, sia industriali che militari».

Sulla produzione di armi Todd aggiunge:
«Una delle cose sorprendenti in questo conflitto, e questo lo rende così incerto, è che pone (come qualsiasi guerra moderna) la questione dell’equilibrio tra tecnologie avanzate e produzione di massa. Non vi è dubbio che gli Stati Uniti abbiano alcune delle tecnologie militari più avanzate, che a volte sono state decisive per i successi militari ucraini. Ma quando si entra nella durata, in una guerra di logoramento, non solo dalla parte delle risorse umane, ma anche di quelle materiali, la capacità di continuare dipende dal settore della produzione di armi più basso. E troviamo, vedendolo ritornare dalla finestra, la questione della globalizzazione e il problema fondamentale degli occidentali: abbiamo trasferito una proporzione tale delle nostre attività industriali che non sappiamo se la nostra produzione di guerra può proseguire. Il problema viene ammesso. La Cnn, il New York Times e il Pentagono si chiedono se l’America riuscirà a rilanciare le catene di produzione di questo o quel tipo di missile. Ma non sappiamo se i russi saranno in grado di seguire il ritmo di un tale conflitto. Il risultato e la soluzione della guerra dipenderanno dalla capacità dei due sistemi di produrre armamenti».

Le forze in campo
Per comprendere quello che è avvenuto nell’ultimo anno sul terreno di battaglia bisogna comprendere le forze in campo degli eserciti all’inizio del conflitto e come queste sono poi cambiate. Scrive il sociologo tedesco Wolfgang Streeck:
«Nel 2021, l’anno precedente all’invasione dell’Ucraina, la Russia ha speso 65,9 miliardi di dollari (a prezzi costanti 2020) per le sue forze armate, pari al 4,1% del suo Pil. La Germania, con una popolazione pari a poco più della metà di quella russa, ha speso 56 miliardi di dollari, pari all’1,3% del suo Pil. Le cifre rispettive per Regno Unito, Francia e Italia sono state di 68,4 miliardi (2,2 per cento del Pil), 56,6 miliardi (1,9 per cento del Pil) e 32 miliardi (1,5 per cento del Pil). Insieme, i quattro maggiori Stati membri dell’Ue hanno speso per la difesa poco più del triplo della Russia. La spesa militare statunitense, pari al 38% del totale mondiale, supera di dodici volte quella russa e, se combinata con quella dei quattro grandi Paesi europei della Nato, di quindici volte».

Figura 7. Spesa militare – Dati Sipri Fact Sheets, aprile 2020 (nella seconda colonna è riportata variazione percentuale rispetto al 2019)

«Il fatto che la Russia abbia attaccato da una posizione di debolezza è confermato anche dal fatto che, secondo l’opinione degli esperti militari, la sua forza d’invasione, stimata in 190.000 uomini nel febbraio 2022, era troppo esigua per raggiungere il suo presunto obiettivo, la conquista dell’Ucraina, un Paese di 40 milioni di persone con una massa territoriale quasi doppia rispetto a quella della Germania, il cui raggiungimento avrebbe richiesto, secondo la maggioranza delle stime, un raddoppio del contingente impiegato. Sebbene il bilancio della difesa ucraino nel 2021 ammontasse a meno di sei miliardi di dollari (pari al 3,2% del Pil di uno dei Paesi più poveri d’Europa), ciò rappresentava un impressionante aumento del 142% della spesa militare ucraina rispetto al 2012, che era di gran lunga il più alto tasso di crescita tra i primi quaranta Paesi al mondo per spesa militare. È un segreto solo per i media europei cosiddetti di qualità che questo aumento è stato dovuto ad ampi aiuti militari statunitensi, finalizzati a raggiungere la “interoperabilità” dell’esercito ucraino con le forze armate statunitensi. Secondo fonti della Nato, l’interoperabilità è stata raggiunta nel 2020, rendendo di fatto l’Ucraina un membro della Nato de facto, se non de jure».
L’antropologo francese Emmanuel Todd concorda con l’analisi di Streeck e sottolinea un punto importante che chiarisce meglio la prospettiva russa:
«Oggi condivido l’analisi del geopolitico “realista” americano John Mearsheimer. Quest’ultimo ha fatto la seguente osservazione: ci dicevano che l’Ucraina, il cui esercito era stato preso in mano dai soldati della Nato (americani, britannici e polacchi) almeno dal 2014, era quindi membro di fatto della Nato e che i russi avevano annunciato che non avrebbero mai tollerato un’Ucraina membro della Nato. Questi russi fanno quindi, (come Putin ci ha spiegato il giorno prima dell’attacco) una guerra che dal loro punto di vista è difensiva e preventiva. Mearsheimer ha aggiunto che non avremmo motivo di rallegrarci di qualsiasi difficoltà dei russi perché, poiché per loro si tratta una questione esistenziale, quanto più questa dovesse risultare dura, tanto più loro colpirebbero con forza. L’analisi sembra essersi verificata».
Vari analisti militari sostengono che la strategia militare della Russia è cambiata durante il conflitto: mentre la prima forza d’invasione serviva essenzialmente per mostrare la serietà delle intenzioni russe, dopo l’estate la Russia ha capito che non ci sono margini di trattativa e che la guerra era inevitabile. Per questo è stata formata una armata tra 500 e 700 mila uomini che in parte è già stata utilizzata ed in parte è pronta all’intervento. La Russia ha mobilitato le sue riserve di uomini ed equipaggiamenti per introdurre una forza di grande dimensione e significativamente più letale di quella di un anno fa.

Una guerra esistenziale
Mearsheimer nel 2014 ha scritto un importante articolo dal titolo esplicito, “Perché la crisi ucraina è colpa dell’Occidente”, in cui ha anticipato gli eventi spiegandone in dettaglio le ragioni: «Gli Stati Uniti e i loro alleati europei condividono la maggior parte della responsabilità della crisi [ucraina]. La radice del problema è l’allargamento della Nato». E «i leader russi hanno ripetutamente detto che vedono l’adesione dell’Ucraina alla Nato come una minaccia esistenziale che deve essere impedita». Le ragioni per questa posizione sono varie: dalle radici storiche che legano la Russia all’Ucraina, al fatto che la Crimea, da sempre appartenuta alla Russia che lì ha una importante base navale, rappresenta l’imprescindibile sbocco sul Mar Nero.
Come nota Todd, per una sorta di eterogenesi dei fini, la guerra sta diventando un pericolo esistenziale per gli Stati Uniti:
«Mearsheimer, da buon americano, sopravvaluta il suo Paese. Ritiene che, se per i russi la guerra ucraina è esistenziale, per gli americani è fondamentalmente solo un “gioco” di potere tra gli altri. Dopo il Vietnam, l’Iraq e l’Afghanistan, una disfatta in più o in meno…. Cosa importa? L’assioma di base della geopolitica americana è: “Possiamo fare quello che vogliamo perché siamo al sicuro, lontani, tra due oceani, non ci succederà mai nulla”. Niente sarebbe esistenziale per l’America. Analisi insufficiente che ora porta Biden a una fuga in avanti. L’America è fragile. La resistenza dell’economia russa spinge il sistema imperiale americano verso il precipizio. Nessuno aveva previsto che l’economia russa avrebbe tenuto testa al “potere economico” della Nato. Credo che i russi stessi non lo avessero anticipato. Se l’economia russa resistesse alle sanzioni indefinitamente e riuscisse a esaurire l’economia europea, laddove essa rimanesse in campo, sostenuta dalla Cina, il controllo monetario e finanziario americano del mondo crollerebbe e con esso la possibilità per gli Stati Uniti di finanziare il proprio enorme deficit commerciale dal nulla. Questa guerra è quindi diventata esistenziale per gli Stati Uniti. Così come la Russia, non possono ritirarsi dal conflitto, non possono mollare. Questo è il motivo per cui ora siamo in una guerra infinita, in uno scontro il cui risultato deve essere il crollo dell’uno o dell’altro. Cinesi, indiani e sauditi, tra gli altri, esultano.»
E aggiunge:
«Questa guerra è quindi diventata esistenziale per gli Stati Uniti. Non più della Russia, non possono ritirarsi dal conflitto, non possono mollare. Questo è il motivo per cui stiamo ormai dentro una guerra infinita, dentro uno scontro il cui risultato deve essere il crollo dell’uno o dell’altro.»
In breve, la strategia militare di Washington per indebolire, isolare o addirittura distruggere la Russia è un colossale fallimento e il fallimento mette la guerra per procura di Washington con la Russia su un percorso davvero pericoloso caratterizzato dal persistere di un’inflazione elevata e l’aumento dei tassi di interesse che segnalano la debolezza economica. A questo si aggiunga la minaccia alla stabilità e alla prosperità delle società europee, già provate da diverse ondate di rifugiati/migranti indesiderati e la minaccia di una guerra europea più ampia.

La fine della globalizzazione e il nuovo protezionismo
Uno degli effetti collaterali, non previsti né voluti, della deregolamentazione del sistema economico globale è stato rendere le tensioni geopolitiche estremamente più acute. Gli Stati Uniti, e con essi il Regno Unito e altri Paesi occidentali, hanno accumulato ingenti debiti verso l’estero, mentre la Cina, altri Paesi orientali, e in parte anche la Russia, sono in una posizione di credito verso l’estero. Un’implicazione di questo squilibrio è la tendenza a esportare capitale orientale verso l’Occidente, non più soltanto sotto forma di prestiti ma anche di acquisizioni: uno spostamento cioè del capitale in mani orientali. Gli Stati Uniti, che avevano un debito pubblico del 31% del Pil nel 1971, sono passati a uno del 132% oggi e un debito netto verso l’estero di oltre 14 mila miliardi di dollari pari al 65% del Pil.
Questo debito è sostenibile solo grazie al ruolo centrale che ha il dollaro negli scambi a livello internazionale ma rende l’economia statunitense sempre più fragile e condizionata dagli interessi dei creditori. Per questa ragione, sono oggi gli Stati Uniti, già promotori della globalizzazione, a richiedere una chiusura protezionista sempre più accentuata nei confronti delle merci e dei capitali provenienti da Cina, Russia e gran parte dell’Oriente non allineato. È questa criticità nell’equilibrio economico mondiale che rende pericoloso questo momento storico: la guerra è vista come una minaccia esistenziale non solo dalla Russia ma anche dagli Stati Uniti: nessuno si può permettere di perderla.

Le condizioni economiche per la pace
Per avviare un realistico processo di pace, è oggi dunque necessario non solo ridisegnare un quadro di sicurezza europeo condiviso che tenga conto delle istanze della Russia, ma è necessaria anche una iniziativa di politica economica internazionale. Come recita l’appello promosso da promosso dagli economisti Emiliano Brancaccio e Robert Skidelsky e apparso sul Financial Times del 17 febbraio 2023:
«Occorre un piano per regolare gli squilibri delle partite correnti, che si ispiri al progetto di Keynes di una international clearing union. Lo sviluppo di questo meccanismo dovrebbe partire da una duplice rinuncia: gli Stati Uniti e i loro alleati dovrebbero abbandonare il protezionismo unilaterale del “friend shoring”, mentre la Cina e gli altri creditori dovrebbero abbandonare la loro adesione al libero scambio senza limiti. Siamo consapevoli di evocare una soluzione di “capitalismo illuminato” che venne delineata solo dopo lo scoppio di due guerre mondiali e sotto il pungolo dell’alternativa sovietica. Ma è proprio questo l’urgente compito del nostro tempo: occorre verificare se sia possibile creare le condizioni economiche per la pacificazione mondiale, prima che le tensioni militari raggiungano un punto di non ritorno».

La dinamica capitalistica è sovranazionale e fino a prima della guerra stava andando nella direzione di includere, cooptare i capitalisti russi, cinesi, indiani e messicani e governare il mondo ora su una scala oltre le nazioni. Sembra che la guerra in Ucraina abbia interrotto questa tendenza sancendo l’isolamento del blocco occidentale, inteso in senso politico. Se il grande capitale di tutti i Paesi ne avrebbe fatto volentieri a meno continuando la via del business as usual, le ragioni delle tensioni internazionali, come abbiamo visto, sembrano essere più profonde della dinamica capitalistica globale che ha caratterizzato il trentennio dalla caduta del muro di Berlino ad oggi. Se pensiamo che anche le nostre imprese seguiranno i diktat della politica, il friend shoring e altre simili ingiunzioni, sarà la nostra scomparsa. In questo senso, anzi, stiamo facendo un favore a russi e cinesi, ci mettiamo in ginocchio da soli: più aumenta l’isolamento dei Paesi occidentali e più si rafforzano i legami e gli scambi internazionali tra i Paesi del resto del mondo. Non era mai successo e rischiamo un declino inarrestabile. Certo, molti Paesi poveri ed emergenti dipendono ancora molto dai Paesi occidentali, ma potrebbe non durare.

Per un nuovo equilibrio tra grandi potenze
La strategia dei neoconservatori americani, che hanno dominato la politica estera nel periodo “unipolare”, assume che la sicurezza per gli Stati Uniti dipenda dal fatto di essere la potenza globale egemone che ha il dominio assoluto. Questa potenza non ha interessi in termini assoluti di aumento del tenore di vita ma il suo obbiettivo è solo la differenza tra lo stato relativo con gli altri Paesi. È necessario per questo rimettere al centro l’utopia di un mondo aperto in cui prevalga l’interesse nel guadagno reciproco. A causa delle fratture che si sono create per la guerra in Ucraina, questo sarà necessariamente un processo lento che prenderà varie generazioni. Nel frattempo, si deve ritrovare un equilibrio tra grandi potenze, che sarà necessariamente fragile e basato sul reciproco timore l’uno dell’altro, un “equilibrio del terrore” che va gestito con cautela e prudenza, come quarant’anni di guerra fredda ci hanno insegnato. Di fronte al pericolo atomico imminente è l’unica via percorribile quella di ritornare ad un “equilibrio del terrore”, che ha reso possibile un lungo periodo di pace relativa seppure caratterizzato da guerre di carattere locale, per poi intraprendere la lunga strada che conduce ad un equilibrio “multipolare”.
Al momento due aspetti critici si vedono all’orizzonte, oltre ovviamente alla guerra in Ucraina: da una parte la tensione tra Stati Uniti e Cina sulla questione di Taiwan e dall’altro il legame sempre più solido tra Cina e Russia per creare un asse strategico, politico ed economico a cominciare dall’utilizzo dello yuan cinese come moneta per gli scambi internazionali. Se il dollaro dovesse perdere il suo status di moneta di riferimento per comprare il petrolio, il debito pubblico americano potrebbe diventare in tempi brevi insostenibile. Ed è questo il motivo per cui è necessario inquadrare il conflitto attuale nel più grande scenario globale e porre come punto di riferimento la ricerca di un nuovo equilibrio internazionale.

Gli autori: Pier Giorgio Ardeni è professore ordinario di Economia politica e dello sviluppo all’Università di Bologna. Francesco Sylos Labini, fisico, dirigente di ricerca presso il Centro Ricerche E. Fermi di Roma, cofondatore e redattore di Roars

Le mafie ringraziano. C’è da stupirsi?

Io non so se ci si renda conto di cosa contiene il nuovo Codice appalti che Salvini si è subito intestato. Non so cosa altro serva oltre alle parole gravissime di chi lavora nel settore di quegli appalti. “Sotto i 150.000 euro va benissimo il cugino o anche chi mi ha votato e questo è un problema, soprattutto nei piccoli centri”, ha detto ieri il presidente Giuseppe Busia di Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione, riferendosi agli affidamenti senza gara che, allargati a dismisura durante la pandemia, ora diventano strutturali.

Non so cosa altro serva oltre ai numeri (i numeri non sono opinioni) che ci dicono che il 98% degli appalti pubblici verrà sottratto ai controlli, al mercato, alla libera concorrenza. Non so cosa altro serva per capire che proprio mentre stanno arrivando ingenti somme dall’Europa (se arrivano, se Meloni e compagnia non continueranno a fare troppo casino anche con il PNRR) si decide di lasciare mano libera ai profittatori che potranno agevolmente infilarsi.

Non so cosa altro serva per indignarsi oltre a Matteo Salvini che esulta per essere riuscito a includere negli appalti che verranno anche imprenditori indagati, imputati, a processo o condannati con patteggiamento (anche definitivo) per bancarotte, reati tributari, societari e urbanistici, corruzioni, traffici di influenze, turbative d’asta o frodi in pubbliche forniture. Dice Salvini che escluderli sarebbe da “sistema sovietico”. Li sentite i bicchieri tintinnare mentre questi brindano?

Non so cosa serva oltre alle parole dei sindacati. “Se non arriveranno risposte – ha spiegato a Repubblica Alessandro Genovesi, segretario generale di Fillea Cgil, la categoria degli edili – dal primo luglio, quando il nuovo Codice degli appalti entrerà in vigore, siamo pronti ad avviare una stagione di vertenze sindacali e legali a partire dalle responsabilità delle stazioni appaltanti: Comuni, Regioni, Anas, Ferrovie. Qui siamo passati dal fare presto e bene, a spendere a prescindere e non per forza bene”. Per Pierpaolo Bombardieri, leader della Uil, così ci saranno “gare al massimo ribasso e si rischia di indebolire tutto ciò che si è provato a costruire per la sicurezza sul lavoro e per l’applicazione dei contratti, soprattutto nell’edilizia. La logica della semplificazione che si scarica sempre sui lavoratori non è più accettabile”.

Oppure si potrebbe ascoltare Vincenzo Musacchio. Musacchio non è uno qualunque: criminologo forense, giurista e associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). Ricercatore indipendente e membro dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. Musacchio è stato chiamato nel 2022 dal Presidente della Commissione Bilancio del Parlamento europeo come consulente per occuparsi del controllo sullo stanziamento dei fondi europei (tra cui il Pnrr) elaborando proposte d’interventi per evitare le infiltrazioni mafiose proprio su questi aiuti. Musacchio dice: “Nel nuovo testo del Codice degli appalti il Consiglio dei ministri ha previsto un aumento del tetto sotto il quale è possibile affidare direttamente i lavori. Il nuovo tetto sarà di 500mila euro. Lo avevano chiesto i Comuni italiani e lo aveva fortemente sconsigliato l’Anac. A oggi la soglia è fissata a 40mila euro per l’acquisto di beni e servizi e a 150mila per l’affidamento dei lavori. Non condividevo la scelta del Governo Conte allora, non condivido oggi, a maggior ragione, quella del Governo Meloni”.

“Le nuove mafie – spiega Musacchio – puntano da qualche tempo sugli appalti pubblici. I Comuni sono la parte più vulnerabile e quella più facile da infiltrare. Sfrondare il codice degli appalti in questo modo significa imbandire la tavola dove siederanno i mafiosi per lucrare e lo faranno persino legalmente. L’ultima relazione semestrale presentata dalla DIA al Parlamento ha illustrato come le organizzazioni criminali guardino agli appalti pubblici come una risorsa economica per incrementare i loro guadagni. Ben vengano le semplificazioni per aiutare amministrazioni pubbliche e imprese private, ma ben altro significa affidare direttamente, senza gara, i lavori fino a 500mila euro. In questo modo il sistema non solo non funzionerà meglio, ma si farà un regalo alle mafie favorendo anche la corruzione. Aggiungendo a ciò i subappalti liberi, il disastro sarà totale”.

Buon giovedì.

Disuguali perfino nelle guerre

La risposta della comunità internazionale «all’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte della Russia» e alla crisi umanitaria che questa ha provocato è stata «robusta e apprezzabile» ma ha anche svelato un sistema di “doppi standard”. Dal Myanmar all’Etiopia, diverse sono state le situazioni di conflitto che hanno avuto infatti una risposta “vergognosa” da parte del sistema internazionale. È la fotografia scattata dal Rapporto 2022-2023. La situazione dei diritti umani nel mondo, presentato in queste ore da Amnesty International e pubblicato in Italia da Infinito Edizioni.

In una nota, l’organizzazione premette che l’offensiva russa in Ucraina «ha provocato non solo sfollamenti di massa, crimini di guerra e insicurezza alimentare ed energetica a livello globale, ma ha anche sollevato il tremendo spettro di una guerra nucleare». La risposta alla guerra, prosegue Amnesty, «è stata rapida: gli Stati occidentali hanno imposto sanzioni economiche a Mosca e inviato assistenza militare a Kyiv, la Corte penale internazionale ha avviato un’indagine sui crimini di guerra in Ucraina e l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha condannato l’invasione russa come atto di aggressione». Tuttavia, denuncia il rapporto dell’ong, «questo robusto e apprezzabile approccio è risultato in profondo contrasto con precedenti risposte a massicce violazioni dei diritti umani commesse dalla Russia e da altri stati e con la vergognosa risposta in atto a conflitti come quelli in Etiopia e Myanmar».

L’anno scorso il Paese africano è stato teatro, per il secondo anno di fila, di un conflitto nel nord poi terminato con un accordo per la cessazione delle ostilità raggiunto dalle parti belligeranti lo scorso novembre. In circa due anni di guerra sarebbero morte circa 600mila persone stando alle stime del capo mediatore dell’Unione Africana nel conflitto, l’ex presidente della Nigeria Olusegun Obasanjo. Anche in Myanmar nel 2022 è proseguita la crisi cominciata con un colpo di Stato che si è verificato nel febbraio 2021. Nel Paese va avanti da mesi anche un conflitto fra le forze armate e le milizie di base nei vari Stati etnici del Paese.

Se il sistema messo in moto dopo lo scoppio della guerra in Ucraina «avesse funzionato per chiamare la Russia a rendere conto dei crimini commessi in Cecenia e in Siria, allora come oggi migliaia di vite avrebbero potuto essere salvate, in Ucraina e altrove. Invece, abbiamo altra sofferenza e altre devastazioni», ha affermato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International. «Se la guerra di aggressione russa ha dimostrato qualcosa per il futuro del mondo, è l’importanza di un ordine internazionale basato su regole efficaci e applicate in modo coerente. Tutti gli Stati devono raddoppiare gli sforzi nella direzione di un nuovo ordine basato sulle regole a beneficio di tutte le persone, ovunque».

Le reazioni della comunità internazionali davanti a violazioni e abusi sono emerse in modo evidente anche nella Cisgiordania occupata, secondo quanto riporta Amnesty. Per i palestinesi che vivono in questa regione «il 2022 è stato uno degli anni più mortali da quando, nel 2006, le Nazioni Unite hanno iniziato a registrare i numeri delle vittime: lo scorso anno sono stati 151 i palestinesi uccisi, tra i quali decine di minorenni, dalle forze israeliane. Queste hanno anche continuato a espellere i palestinesi dalle loro case. Il governo israeliano ha in programma una grande espansione degli insediamenti illegali nella Cisgiordania occupata. Invece di chiedere la fine del sistema israeliano di apartheid-  si denuncia -, molti Stati occidentali hanno scelto di attaccare i promotori di tale richiesta». Doppi standard anche nella gestione dei flussi migratori, come si osserva negli Stati Uniti e in Unione europea.

«Gli Usa – afferma Amnesty – hanno condannato ad alta voce le violazioni dei diritti umani russe in Ucraina e hanno accolto decine di migliaia di ucraine e ucraini in fuga dalla guerra; ma le loro politiche e prassi razziste contro i neri hanno causato l’espulsione, tra il settembre 2021 e il maggio 2022, di oltre 25mila persone fuggite da Haiti, sottoponendo molte di esse a torture e ad altri maltrattamenti. Gli Stati dell’Unione europea – continua la ong – hanno aperto le frontiere alle persone in fuga dall’Ucraina dimostrando di essere, in quanto uno dei raggruppamenti più ricchi al mondo, più che in grado di ricevere grandi numeri di persone in cerca di salvezza e di dar loro l’accesso alla salute, all’educazione e all’alloggio. Al contrario, molti di quegli Stati hanno chiuso le porte a chi fuggiva dalla guerra e dalla repressione in Siria, Afghanistan e Libia».

«Le risposte all’invasione russa dell’Ucraina ci hanno detto qualcosa su ciò che si può fare quando c’è la volontà politica di farlo: condanna globale, indagini sui crimini, frontiere aperte ai rifugiati. Quelle risposte devono essere un manuale su come affrontare tutte le massicce violazioni dei diritti umani», ha sottolineato Callamard nella nota. Stando a quanto emerge dal rapporto di Amnesty, «i doppi standard dell’Occidente hanno poi rafforzato Stati come la Cina e consentito a Egitto e Arabia Saudita di evadere, ignorare o respingere le critiche sulla loro situazione dei diritti umani. Nonostante le massicce violazioni dei diritti umani, equivalenti a crimini contro l’umanità, nei confronti degli uiguri e di altre minoranze musulmane – spiega l’organizzazione -, Pechino è riuscita a eludere le condanne, a livello internazionale, da parte dell’Assemblea generale, del Consiglio di sicurezza e del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite».

«Gli Stati applicano le norme sui diritti umani caso per caso, mostrando in modo sbalorditivo la loro clamorosa ipocrisia e i doppi standard. Non possono criticare le violazioni dei diritti umani in un luogo e, un minuto dopo, perdonare situazioni analoghe in un altro solo perché sono in ballo i loro interessi. Tutto questo è incomprensibile e minaccia l’intera struttura dei diritti umani universali», ha aggiunto Callamard. «C’è anche bisogno che gli Stati che finora hanno esitato assumano una chiara posizione contro le violazioni dei diritti umani ovunque si verificano. Servono meno ipocrisia, meno cinismo, più coerenza, più azione basata sull’ambizione e sui principi da parte di tutti gli Stati per promuovere e proteggere tutti i diritti», ha concluso la massima dirigente di Amnesty.

Non serve aggiungere altro, vero? Buon mercoledì.