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Carlo Greppi: L’umanità di Lorenzo, che salvò Primo Levi

Ancora abbiamo vivide nella mente le immagini e la storia del tenente tedesco Rudolf Jacobs che, disertando, decise di passare dalla parte dei partigiani, a costo della vita. Ci aveva fatto appassionare alla sua vicenda lo storico Carlo Greppi che gli ha dedicato Il buon tedesco (Laterza, 2022), un libro drammatico e insieme pieno di vita anche per quello che ci comunica oggi. Ora Greppi torna in libreria con un libro, se possibile, ancor più toccante perché ci racconta la storia della silenziosa amicizia, fra un giovanissimo internato nel lager, Primo Levi, e l’operaio Lorenzo Perrone che gli salvò la vita, portandogli di nascosto la sua zuppa ma soprattutto dandogli rapporto umano.
Di questo ci racconta Un uomo di poche parole. Storia di Lorenzo, che salvò Primo (Laterza), fra rigorosa ricerca storica e scrittura avvolgente, narrativa. Siamo tornati a cercare Carlo Greppi per saperne di più di questo suo nuovo lavoro (che a poche settimane dalla sua prima uscita ha già avuto varie ristampe) ma anche del suo manuale di storia per le superiori e delle novità della collana “Fact checking. La storia alla prova dei fatti” che lo storico torinese cura per Laterza.

Carlo Greppi, quelle di Jacobs e di Perrone sono due storie diversissime ma accomunate dalla disobbedienza civile e dal rifiuto netto dell’oppressione nazifascista. Jacobs scelse di disertare, mentre Lorenzo come lei scrive, dal basso, a suo modo, volle gettare la sua pietra nell’ingranaggio della Shoah per tentare di fermarlo?
In comune ebbero la capacità di maturare, al di là delle circostanze e del contesto, una scelta radicale di opposizione intransigente alle peggiori derive del loro tempo. Come ricercatore ciò che mi ha attratto in entrambi i casi è stata la possibilità di dissotterrare storie che non sono conosciute quanto meriterebbero. Mi affascina molto l’idea di cercare di riportare alla luce delle vicende appannate o del tutto sommerse.

Nel suo libro lei cita I giusti (Iperborea) di Jan Brokken. Lo scrittore olandese che ha avuto il merito di far conoscere storie di uomini e donne che salvarono ebrei rischiando la propria vita. Sono noti a tutti i casi di Schindler, reso celebre dal film di Spielberg e di Perlasca raccontato dal libro di Deaglio e poi da Rulli e Petraglia nel film di Negrin. Tante storie come quella di Lorenzo rischiano di rimanere sotto traccia perché i protagonisti erano persone umili, senza mezzi, senza visibilità sociale?
È una ipotesi che avanzo prudentemente. È innegabile tuttavia che figure più note, più conosciute, anche a livello internazionale, che avevano una buona posizione e possibilità di manovra nel contesto in cui operavano, abbiano lasciato molte più tracce di sé. Beninteso tutti noi lasciamo tracce, ma una persona umile con la terza elementare non si preoccupa minimamente di scrivere di sé o di raccontare ciò che ha fatto. Per di più Lorenzo muore pochi anni dopo il suo ritorno in Italia. Nulla avremmo saputo di lui se non avesse incontrato quel ragazzo che poi sarebbe diventato Primo Levi. Mentre scrivevo questo libro mi chiedevo: chissà quanti altri Lorenzo ci sono che non hanno avuto la fortuna più che legittima, giustificatissima, di essere nel pantheon civile globale?

Colpisce il silenzio pieno di attenzione che Lorenzo ha verso Primo. Riesce ad arrivare a lui al di là delle parole. La zuppa che gli ha portato per mesi è stata fondamentale ma ancor più importante è stato il rapporto umano?
Ricordiamoci che Primo Levi allora era un ragazzo che rischiava di essere una vittima dello sterminio e risucchiato nel buco nero della Shoah. D’altro canto, se mai fosse uscito vivo da lì, rischiava di sopravvivere con un’idea dell’umanità tremenda, implacabile. Invece, come Primo scrive nella prima edizione di Se questo è un uomo (De Silva I947, poi Einaudi 1958, ndr), Lorenzo gli dette una buona ragione per sopravvivere perché gli mostrò, non tanto per l’aiuto materiale che pure fu fondamentale, che esistono esseri pienamente umani anche nel cuore dell’orrore. «Qualcosa di puro e intero», scrive Primo Levi, che pure era sempre molto cauto nell’usare parole importanti.

Questo libro getta luce anche sulla storia degli operai, nei fatti anch’essi “deportati” poiché si trovarono a lavorare nei lager, loro malgrado. Come lei ricorda, della sorte di questi lavoratori scrisse il Corriere della Sera nel 2001 molto tardivamente. Perché a lungo non se ne è saputo niente?
Ci sono state delle ricerche ma perlopiù scarsamente note al grande pubblico. Poco si è saputo del grande accordo italo tedesco che portò lo stesso Lorenzo ai margini di Auschwitz. E che portò migliaia di volontari italiani nel cuore del Terzo Reich. Relazioni molte solide sul piano industriale e produttivo legavano l’Italia e la Germania. Del resto, dalla metà degli anni Trenta in poi furono fedeli alleate. Lorenzo Perrone arrivò a Auschwitz nel 1942. All’epoca, in qualunque territorio lui avesse lavorato -, italiano, francese o tedesco o polacco – si sarebbe trovato in ogni caso alle dipendenze di una industria che operava sotto la cappa dell’asse tedesco. I lavoratori umili non avevano possibilità di scelta.

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha detto che alle Fosse Ardeatine furono trucidate 335 persone solo «perché italiane». Quanto è importante, anche in vista del prossimo 25 aprile che immaginiamo sarà molto “dibattuto”, tornare a parlare in termini rigorosi di ciò che è stato?
Penso che il nostro ruolo oggi si svolga in un momento decisivo, in cui non dobbiamo arretrare di un passo. Parlo al plurale perché penso a tutto il gruppo di Fact checking, al lavoro che stiamo facendo con Laterza e ai tanti colleghi e tante colleghe con i quali condivido questo percorso di militanza civile, democratica. Dobbiamo rivendicare ciò in cui crediamo, ovvero che il 25 aprile 1945 è stato il momento più alto della storia nazionale. Ed ha avuto una forte venatura internazionalista come le ultime ricerche stanno dimostrando. La Resistenza fu transnazionale. Io penso che chiunque tenta di squalificare o ridimensionare quella stagione della storia italiana sia vittima di questa ondata di luoghi comuni che da decenni inquinano il discorso pubblico, oppure è in mala fede. Con chi è vittima di luoghi comuni si può e ci si deve assolutamente lavorare. È ciò che cerchiamo di fare con i nostri libri, con le nostre conferenze, con interviste. Penso però che sia necessario fronteggiare a muso duro chiunque giochi sporco nella partita della memoria pubblica. Lo ripeto spesso citando il libro di Chiara Colombini Anche i partigiani però il volume della collana Fact checking in cui lei ha mostrato nitidamente come la grande prospettiva resistenziale sia stata svalutata elevando l’eccezione a norma, fotografando alcuni casi molto specifici e problematici (perché l’essere umano è complesso) e usandoli per infangare tutti i mesi e gli anni di antifascismo storico. Il nostro lavoro è anche rimettere tutto nel giusto contesto storico e riequilibrare il discorso in base ad alcuni valori fondanti.

Il libro di Colombini evidenzia la nostalgia dei reduci di Salò che traspare nelle varie forme di post fascismo oggi ma parla anche dell’avanzare di una memoria afascista…
Sì, questi decenni di revisionismo spinto hanno fatto tanti danni. Lo si sente nel chiacchiericcio sulla storia del ventennio e della liberazione. È un male in termini oggettivi ma è anche una grande opportunità. Ribadisco: sulla memoria di chi si dichiara superficialmente afascista ed equidistante si può lavorare, mentre con i nostalgici ci si può solo scontrare. Non si possono legittimare posizioni inqualificabili nel discorso pubblico. La base comune dovrebbe essere che siamo tutti democratici e che ci riconosciamo nei valori fondanti della nostra comunità. Se non sei solamente afascista, ma sei fascista allora non abbiamo nulla da dirci, siamo a tutti gli effetti avversari.

Quanto le è apparso grave derubricare a rissa l’aggressione squadrista avvenuta davanti al liceo Michelangiolo di Firenze? E che valutazione dà del modo in cui il ministro Valditara è intervenuto stigmatizzando la lettera della preside ai ragazzi?
È la spia di un clima asfissiante in cui si politicizza tutto e quando la matrice è molto chiara, e tra l’altro molto vicina al partito di governo Fratelli d’Italia, letteralmente la si butta in vacca. Personalmente sono stato molto rincuorato dall’energica reazione trasversale che c’è stata nel mondo della scuola, sia da parte dei dirigenti che dei docenti e degli studenti. Dimostra che quel mondo è più vitale e reattivo di quanto si pensi e si dica. Dunque la preoccupazione è tanta per le prese di posizione dei vertici del governo (che per altro non mi stupiscono) ma al tempo stesso sono molto fiducioso: a mio avviso nel mondo della scuola ci sono energie e sotto traccia c’è la capacità di una presa di posizione forte, non scontata. Sta a noi farle emergere e sostenerle come nel caso della lettera della professoressa-dirigente scolastica.

Su cosa si basa l’impianto del manuale per le superiori Trame del tempo che lei ha realizzato con alcuni altri colleghi?
Il nostro manuale uscito per Laterza è un tentativo di far entrare studenti, studentesse e docenti nel laboratorio dello storico mostrando come funziona il nostro mestiere intrecciando il grande racconto con le fonti, con la storiografia. Nasce per aiutare i ragazzi a conoscere la conoscenza e a innamorarsi della storia, come è capitato a noi e a tutti quelli che fanno la nostra professione. È una sfida che ci sta portando in parecchie scuole d’Italia, come del resto faccio ormai da vari anni. Mi rendo conto che tutto questo un po’ in controtendenza perché la semplificazione, troppo spesso, è anche banalizzazione e produce un effetto grave: percepire la storia come una serie di dati, come un elenco asettico di eventi molto legato alle vicende politico-diplomatiche. Il processo della conoscenza invece è in continua evoluzione e parlando di uomini e donne del passato ci dice molto di quello che siamo noi esseri umani. Credo che questo sia un grande veicolo per trasmettere passione e conoscenza e spero che questa sfida verrà in gran parte vinta.

Dopo volumi importanti come quello di Colombini, come quello di Eric Gobetti E allora le foibe?, e come quello di Franzinelli Il fascismo è finito il 25 aprile 1945, che temi affronterete con nuovi titoli?
Posso dire che di sicuro si parlerà di statue, di questioni di genere e di vicende dell’Italia repubblicana. E posso aggiungere che ci saranno uscite con un respiro internazionale di cui al momento non posso rivelare di più.

Giovani partigiani crescono

Lo scorrere del tempo è un nemico implacabile e invincibile con cui tutti prima o poi dobbiamo fare i conti. Questo oggi però non sembra accadere per l’Anpi, ovvero l’Associazione nazionale partigiani d’Italia. Che ha come obiettivo la valorizzazione della storia della Resistenza italiana e dell’impegno dei partigiani che si opposero al regime fascista durante la Seconda guerra mondiale. Il tesseramento 2023 ha infatti da poco superato la soglia dei centoquarantamila tesserati, nel 2008 erano novantacinquemila, in un momento storico in cui il numero di partigiani che combatterono per la Resistenza al nazifascismo e per la liberazione del nostro Paese è drasticamente diminuito per cause anagrafiche. Altro dato straordinario, tra i nuovi tesserati moltissimi sono giovani e dunque senza aver avuto nessun legame diretto con la storia dei partigiani.

Ma qual è il segreto di questa rigenerazione che ha portato un’associazione legata a un momento storico preciso del nostro passato ad essere una delle più grandi e attive del nostro Paese? Per Gabriele Bartolini, classe 2003, studente universitario al primo anno, ma già militante nell’organizzazione da quattro anni e presidente della sezione Anpi di Trastevere “Casa della memoria” a Roma, la resistenza nella realtà non è mai finita: «Il fascismo è stato battuto militarmente e ha subìto un gravissimo danno anche da un punto di vista politico con la stesura della nostra Carta costituzionale che ha messo nero su bianco la cultura antifascista. Un grande risultato, merito di chi ha combattuto quella guerra. Purtroppo però non è bastato per sradicare del tutto il fascismo. Come una pianta infestante ha continuato e sta continuando a germinare attraverso la cultura dell’intolleranza, dell’odio e le divisioni sociali, anche grazie a partiti e movimenti politici che continuano a soffiare su questo fuoco. Ed oggi è soprattutto per questo che io faccio parte di questa gloriosa associazione»

Ma la storia che ha portato Gabriele e tanti altri giovani come lui all’associazione partigiani non è casuale, è figlia anzi di una decisione lungimirante e generosa.
Il 2006 infatti fu l’anno della svolta per l’Anpi. Nel corso del Congresso nazionale che si tenne a Chianciano Terme, fu approvata la modifica statutaria che consente tutt’oggi anche ai non combattenti di iscriversi all’Associazione.
Una decisione che le partigiane e i partigiani hanno assunto per permettere all’Anpi di continuare a vivere, e quindi proseguire la sua missione di memoria attiva, anche in quel futuro inevitabile che vedrà la scomparsa degli ormai meno di cinquemila partigiani rimasti in vita. Carlo Ghezzi, vice presidente nazionale dell’associazione racconta quei giorni: «Abbiamo discusso, anche appassionatamente, se fosse giusto che l’Anpi morisse con la fine della vita degli ultimi suoi protagonisti, ma alla fine l’orientamento che ha prevalso è stato quello di credere che se anche muoiono i protagonisti di quella lotta i valori per i quali si sono battuti e che li hanno ispirati durante la Resistenza era giusto che continuassero a vivere. Da qui la decisione ad aprire a chi si riconosce nei valori dell’antifascismo e si impegna a fare memoria della Resistenza e a lottare per l’attuazione piena della Costituzione».

Una sfida, visti i numeri, sicuramente vinta, soprattutto in un momento storico in cui la disaffezione politica dilaga, soprattutto tra i giovani e giovanissimi. Secondo una stima di YouTrend, portale italiano di statistiche, quasi un under 35 su due (il 48%) non è andato a votare alle scorse elezioni politiche nazionali e i classici partiti politici, sia a destra che a sinistra, faticano ad attrarre e formare una nuova classe dirigente nelle proprie fila. Esiste un distacco reale fra le nuove generazioni di questo Paese e l’impegno politico e non possiamo far finta che non sia un problema. L’Anpi con le sue più di cinquecento sedi sparse in tutto il Paese ma anche all’estero, come in Argentina, in Repubblica Ceca, in Belgio e in tanti altri Stati prova a tamponare questa diaspora.

Lo spiega bene Gabriele: «I tre quarti dei ragazzi che conosco sono lontani dalla politica ma esiste una parte di giovani che è veramente attenta, pronta e preparata a spendersi per quello che pensa giusto. Il mio posto per fare tutto ciò, io l’ho trovato dentro l’Anpi. In mezzo a una sinistra fin troppo divisa e litigiosa, questa associazione riesce a radunare tutte le sue componenti e a farle dialogare e discutere. Questo perché, nonostante le divisioni, siamo forti di una consapevolezza: siamo tutti partecipi di un progetto di valori che dobbiamo difendere».

Ma quali sono esattamente i valori che i giovani e gli anziani iscritti all’Anpi dichiarano di voler difendere? «Il primo è sicuramente quello di “proteggere” la nostra Costituzione e prodigarsi affinché venga attuata nella sua interezza. Per fare un esempio, ultimo in ordine di tempo, la dura presa di posizione dell’associazione e dei suoi iscritti contro le proposte di riforma annunciate dal governo Meloni che aprono al presidenzialismo e all’autonomia differenziata che porterebbero allo snaturamento della Carta nata dall’antifascismo e dalla Resistenza. Il secondo è quello di far perdurare e difendere la storia della Resistenza antifascista della seconda guerra mondiale».

Per Ghezzi questo punto è particolarmente importante: «Oggi vediamo in tutto il mondo il proliferare di nuove forme di fascismo, anche in Paesi grandi e importanti come la Russia, gli Stati Uniti o il Brasile. Il nostro, inoltre, è un Paese con la memoria decisamente corta che tende a dimenticare, non conoscendo pienamente la propria storia. Per questo sono infiniti i revisionismi e gli attacchi alla nostra storia, ed è per questo che oggi abbiamo bisogno di nuovi e vecchi partigiani che resistano».

Illustrazione di Marilena Nardi

Revisionismo storico, la grande menzogna

«L’equivoco, cari camerati, è uno e si chiama essere fascisti in democrazia. Noi soli siamo estranei, ed è un titolo di onore, ma anche una spaventevole difficoltà… Dobbiamo presentarci per quello che veramente siamo, e cioè come i fascisti della Rsi». Queste parole furono pronunciate da Giorgio Almirante, nel 1956, dal palco del V Congresso del Msi a dieci anni dalla sua fondazione. Srotoliamo il nastro della storia, e facciamolo velocemente correre in avanti. Fermiamolo in un punto, il 26 dicembre del 2022. Due fra le più alte cariche istituzionali della Repubblica italiana hanno voluto commemorare, sui loro profili social, l’anniversario della fondazione del Msi. «Nel ricordo di mio padre, che fu tra i fondatori del Movimento sociale italiano in Sicilia e che scelse con il Msi per tutta la vita, la via della partecipazione libera e democratica in difesa delle sue idee rispettose della Costituzione italiana». Così scrive il presidente del Senato, Ignazio La Russa, evidentemente reso euforico dal post della sottosegretaria alla Difesa, Isabella Rauti, che poche ore prima aveva twittato: «Oggi voglio ricordare quando, a Roma, nasceva il Movimento sociale italiano. Onore ai fondatori ed ai militanti missini. Le radici profonde non gelano».

Il giorno dopo, il 27 dicembre, sarebbe stato il 75esimo anniversario della ratifica della Costituzione italiana, che porta in calce le firme del liberale Giuseppe Grassi, del democristiano Alcide De Gasperi e del comunista Umberto Terracini. Gli ultimi due avevano fatto parte del Cln. Tutti erano espressione delle famiglie politiche che avevano dato vita, insieme ad altre di egual peso (pensiamo agli azionisti o ai socialisti) alla Resistenza, che aveva respinto “i fascisti della Rsi” cari ai missini nel cono d’ombra della storia.
Raccontata così, unendo due punti del recente e del lontano passato, sembra un film di fantascienza, un plot distopico di grossolana fattura e dai marcati tratti caricaturali. Eppure non lo è. O almeno, non è solo quello. Al di là delle politiche messe in atto finora, uno dei risultati cui attende questo governo si colloca su un piano che ha poco a che fare con “la vita degli italiani”, come ama ripetere la presidente del Consiglio, ma ne ha molto con le coordinate storico-culturali della nostra Repubblica. Esso consiste nell’avvalorare, per il solo fatto di essere sdoganata da chi in questo momento riveste ruoli di potere ed istituzionali di rilievo, quella riscrittura della storia conosciuta come “revisionismo storico”, espressione in verità opaca e scivolosa ma che oggi pare addirittura fin troppo nobile per descrivere lo scempio che si sta consumando ai danni del passato (è del mese scorso l’incredibile, e ridicola, affermazione fatta da un noto giornalista durante un programma televisivo molto seguito su La7, che la Costituzione fu scritta anche dai fascisti).

Sull’affermarsi della vulgata revisionistica presso l’opinione pubblica italiana sono stati spesi quintali di inchiostro. La posta in gioco era, ed è tuttora, sintetizzabile in poche parole: cambiare di segno al giudizio storico sul fascismo, ovvero screditare l’antifascismo quale paradigma etico e fondamento civile della vita politica dell’Italia repubblicana, sì da legittimare fascisti e postfascisti quali attori del tutto degni di rappresentare gli italiani, oggi come allora. A costo di manipolare fatti e interpretazioni, capovolgendone il senso e il significato, fino a costruire una “menzogna di Stato” degna, questa sì, dei peggiori regimi illiberali del secolo scorso. Come scriveva lo storico Giovanni De Luna nel lontano 2009, in un volume collettaneo intitolato La storia negata. Il revisionismo e il suo uso politico: «Negli ultimi venti anni sono state ridiscusse molte pagine della storia italiana del Novecento; un particolare accanimento critico ha colpito l’antifascismo e la Resistenza, mentre toni molto indulgenti sono stati usati nei confronti del fascismo e della Repubblica di Salò. Tutto questo mentre si afflosciava la vecchia “repubblica dei partiti” e dalle sue macerie nascevano formazioni politiche che sono riuscite a conquistare la maggioranza dei consensi sottolineando la loro estraneità nei confronti dell’antifascismo (Forza Italia e Lega Nord) o addirittura la loro genetica incompatibilità con i valori che ispirarono la Resistenza (Alleanza nazionale). È evidente, quindi, come … i temi del dibattito storiografico siano modellati sulle esigenze della politica e viceversa, in un “uso pubblico della storia” mai così massicciamente ingombrante come ora».

L’origine di questo fenomeno è databile quindi tra la fine degli anni 80 e i primi 90. In questi anni il dibattito storiografico ma soprattutto temi, vicende, personaggi legati alla guerra di liberazione dal nazifascismo, tracimano sui media, trovano ampio spazio nelle terze e nelle prime pagine dei maggiori quotidiani a tiratura nazionale, sono fatti oggetto, in altri termini, di vere e proprie campagne a mezzo stampa. Per non parlare della televisione. Forse più di qualcuno ricorderà l’accesa querelle che scatenò, nell’aprile del 1994, la messa in onda di Combat film, una serie di filmati realizzati dalle forze armate americane dallo sbarco in Sicilia fino alla fine della guerra, che vennero mostrati e commentati in studio da Tina Anselmi, staffetta partigiana, e Giano Accame, uno dei massimi dirigenti del Msi, poi in Alleanza nazionale. All’indomani della trasmissione, sulla stampa italiana infuriò il dibattito. Per misurarne la temperatura, basta qualche titolo: “Combat film, esplode la polemica. E le spie nazi-fasciste diventano ‘eroi italiani’” (l’Unità); “Fascismo e Resistenza pari son per la Rai” (La Repubblica);“‘È l’ora della pacificazione’. Assunta Almirante: adesso la sinistra dovrebbe fare il mea culpa” (Corriere della Sera). Era trascorsa poco più di una settimana dalle elezioni politiche che avevano visto l’affermazione del Polo delle libertà, la coalizione guidata da Silvio Berlusconi, e si stava lavorando, proprio in quei giorni, alla formazione del primo governo della storia repubblicana che avrebbe compreso esponenti a tutti gli effetti (post)fascisti: An, che aveva ottenuto il 13% dei voti, nel 1994 era ancora, vale la pena ricordarlo, un’alleanza che comprendeva il Msi – non ancora sciolto e da cui provenivano di fatto tutti i quadri e gli uomini del cartello elettorale – e qualche esponente della destra democristiana.

Ma andiamo per ordine. Il termine a quo delle prime avvisaglie della valanga revisionistica può considerarsi l’intervista che Renzo De Felice rilasciò a Giuliano Ferrara comparsa sul Corriere della Sera il 27 dicembre 1987 – sempre il giorno dell’anniversario della ratifica della Costituzione dal titolo “De Felice: perché deve cadere la retorica dell’antifascismo”; in questa intervista lo storico affermava: «È logico che cada la grande alternativa fascismo-antifascismo. Non ha più senso né nella coscienza pubblica né nella realtà della lotta politica quotidiana. Se si resta fermi a quel dogma insincero la nostra Costituzione si autoinchioda» e rincara la dose: «Certo, la classe dirigente fascista era illiberale, ma siamo sicuri che fosse, per tutto il resto, tanto peggiore di quella attuale?». Le tesi defeliciane sulla necessità di superare la cosiddetta “vulgata resistenziale”, si spingevano fino a considerare le norme costituzionali che vietano la ricostituzione del partito fascista – in ogni sua forma – come obsolete, «grottesche». Da abolire. L’intervista ebbe largo seguito sulla stampa, pur restando nell’ambito del dibattito culturale; i maggiori quotidiani nazionali riportarono, per lo più, pareri e interviste tese a contrastare le parole dello storico – “Ecco le ragioni dell’antifascismo” (La Repubblica); “Per inseguire i voti del Msi non si deve riscrivere la storia” (Corriere della Sera); “Lo storico ha fatto un pasticcio” (La Repubblica); “Caro De Felice, hai torto” (Stampa sera); “Fascismo, solo Craxi d’accordo con De Felice” (La Stampa) .

A leggere quegli articoli oggi si ha la netta sensazione che su questi temi la connessione del Paese, e della sua classe dirigente, con le radici storiche ed ideali della Repubblica fosse ancora salda. Le ipotesi di revisione del giudizio storico sul fascismo non trovavano sponda. A settembre del 1990 il tenore del dibattito, e il quadro politico nel quale si inseriva, era già cambiato. In quel mese non ci fu quotidiano nazionale o locale che non riportasse, con cadenza quasi giornaliera, i risvolti della querelle suscitata dalle parole di un ex deputato comunista, Otello Montanari che, con una lettera al Resto del Carlino, aveva invitato al “chi sa parli” su alcuni omicidi politici dell’immediato dopoguerra perpetrati da ex partigiani nella zona del reggiano. Quell’intervento suscitò «una campagna di stampa sensazionalistica e diffamatoria che coinvolgeva – al di là dell’oggetto specifico – un punto nodale della nostra storia, con una costruzione deformata e deformante di memoria», come scrive Guido Crainz nel saggio Il conflitto e la memoria.

A dar credito agli articolisti, sembrava emergere da un lontano passato una verità sepolta su cui non si era mai voluto far luce – “Reggio, chi sa comincia a parlare”; “Parte l’operazione verità”; “In Italia 15 mila desaparecidos”. “La Dc accusa le vendette partigiane” -. Ma quelle uccisioni, il contesto nel quale maturarono, in molti casi gli stessi colpevoli, erano cosa nota; come nota era, almeno per approssimazione, la dimensione numerica – molto lontana dalle cifre sparate sui giornali – del fenomeno ascrivibile al perpetuarsi, nei mesi successivi al 25 aprile, del clima da “guerra civile” che si viveva a Nord, e in particolare nelle zone dove la resa dei conti tra fascisti e antifascisti fu più cruenta poiché riannodava fili che risalivano agli anni dello squadrismo agrario in Val Padana. Perciò, come scrisse Rossana Rossanda su il manifesto: «La vera notizia sul “triangolo della morte” di Reggio Emilia è che se ne torni a parlare». La campagna in realtà non era volta in primo luogo a screditare l’antifascismo, quanto piuttosto a mettere sotto accusa il Pci – “Ora gli scheletri fanno paura al Pci”; “Caprara: ‘Togliatti sapeva e li coprì’”; “Seniga: ‘Sì, Norimberga per Togliatti’”; “Il Pci adesso dice basta” – per esacerbarne le divisioni interne proprio nel momento in cui era stata avviata la fase congressuale che avrebbe portato alla nascita del Pds. Ma indirettamente il dibattito gettava anche una pesante ombra sulla Resistenza, innervata, a tener dietro ai titolisti, da pulsioni violente e vendicative, soprattutto nella sua componente comunista – “Reggio Emilia, Milano, Torino, così si uccideva nel nome del popolo: e tutti sapevano”; “Le stragi dimenticate fra partigiani”; “Pertini direbbe: fermate l’insulto alla Resistenza”-.

Attaccare i partigiani per colpire il Pci, il partito che più di ogni altro si identificava e veniva identificato con la Resistenza: questo sembra esser stato il significato dell’operazione legata al “triangolo della morte”. Non va dimenticato che era appena caduto il muro di Berlino e i “vincitori” di un tempo potevano sembrare, o si voleva diventassero, gli “sconfitti” di oggi. Fino al ’93 le revisioni mediatiche su antifascismo e Resistenza seguirono questa logica, volta più a demonizzare il comunismo e i suoi eredi che a riabilitare esplicitamente il fascismo o ad invocare, come invece accadrà di lì a poco, la pacificazione tra fascisti e antifascisti. Il salto di qualità della narrazione revisionista si ebbe invece dopo le elezioni del ’94. Anche in questo caso il fattore di spinta è dato dal mutamento del quadro politico, successivo al terremoto innescato da Mani pulite che fu di tale portata da segnare il tracollo dei partiti politici protagonisti della Resistenza.

Sul piano politico, la domanda di “riconciliazione” fra i nemici di un tempo avanzata dalla destra (“25 aprile. La riconciliazione è la democrazia” – La Stampa) conteneva l’implicita richiesta di porre sullo stesso piano fascismo e comunismo (“Fini: il mio 25 aprile? Antitotalitario” – Corriere della Sera) in vista dell’edificazione di un nuovo patriottismo che consegnasse alla storia la contrapposizione fascismo/antifascismo. Filippo Focardi ne La guerra della memoria scrive: «La critica post-fascista all’antifascismo e alla Resistenza recepiva l’importante dibattito sull’identità nazionale sollecitato proprio in quegli anni da storici come Renzo De Felice ed Ernesto Galli Della Loggia, che asserivano il carattere esiziale per l’identità nazionale del “trauma” dell’8 settembre, letto come “morte della patria”, e rilevavano l’incapacità dei partiti antifascisti e della Repubblica da essi fondata di riparare a quel trauma e a quel decesso. Ampiamente rilanciata dai mass media – fra cui in prima fila il Corriere della Sera – questa tesi aveva guadagnato velocemente largo credito nell’opinione pubblica. Da qui una diffusa disponibilità a cercare nuove radici per l’identità nazionale al di là del retaggio antifascista della Resistenza, e il favore riscosso dalla domanda di “riconciliazione”».

E la “riconciliazione” venne. Nel 1996, dopo la svolta di Fiuggi e le elezioni che videro l’affermarsi per la prima volta di una coalizione di centro-sinistra nel suo discorso di insediamento il neo-presidente della Camera, il diessino Luciano Violante «invitava a riflettere sui vinti di ieri» per costruire «valori nazionali comunemente condivisi», visto che la lotta di Liberazione «non appartiene ancora alla memoria collettiva dell’Italia repubblicana» (Anche ammesso fosse vero, come pensava potesse diventarlo rendendo partecipi dei valori resistenziali coloro che a quei valori si erano opposti fino alla morte, resta un mistero che gli storici non hanno ancora risolto). In ogni modo, al discorso di Violante seguirono urla di giubilo da parte degli ex missini, grati ed increduli di fronte a cotanta generosità – solo qualche titolo, l’elenco sarebbe troppo lungo: “L’ex repubblichino: «Bravo». Mazzantini, scrittore e vecchio balilla: è una svolta”; “La destra si commuove: quel post comunista ha la nostra stessa voce”; “Non siamo vinti, avevamo ragione”. Da allora in poi la diga ha iniziato a tracimare e non si è più fermata.

Illustrazione di Marilena Nardi

Salari contro la Costituzione

È qualcosa di storico perché in una sentenza sta scritto ciò che da anni scriviamo sgolandoci. La causa è stata intentata da una donna di Padova che lavorava per la Civis, un’importante società di vigilanza privata con sede a Milano. Secondo il giudice avere un contratto regolare percependo 3,96 euro all’ora è incostituzionale. Si tratta di uno stipendio di appena 640 euro netti mensili, ben al di sotto della soglia di povertà stimata dall’Istat a 840 euro.

Secondo il giudice quello stipendio è contro la Costituzione. A stabilirlo, secondo il togato, è l’articolo 36 della Carta in cui si legge che «il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Diritto che, secondo il giudice, non veniva garantito dalla paga offerta dall’azienda per la quale la donna lavorava per 12 mesi all’anno.

Con la sentenza in favore della lavoratrice, il giudice Tullio Perillo ha condannato Civis a pagare un risarcimento di 372 euro lordi in più per ogni mese di lavoro svolto dalla donna, ossia più di 6.700 in totale. In pratica il differenziale tra la paga versata e quella prevista per un servizio di portierato. «È una vittoria storica – spiega Zanotto di Adl Cobas – che apre la strada anche ad altri lavoratori nella stessa situazione in Italia, circa 100mila. E soprattutto dice ai sindacati che avevano siglato questo contratto collettivo, nel caso specifico Cgil e Cisl, che quei contratti da fame non vanno firmati». Anche perché quel contratto è utilizzato – aggiunge Zanotto – «in settori del pubblico impiego, Esu, Ospedali, Agenzia delle Entrate».

Non è ora di una legge sul salario minimo? Il capogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra in commissione Lavoro della Camera, Franco Mari, sottolinea come «dopo la sentenza del giudice del lavoro di Milano tocca al Parlamento. Le opposizioni hanno il dovere di fare una sintesi, non al ribasso, tra le cinque proposte di legge sul salario minimo in discussione».

Buon venerdì.

Antifascismo negato, democrazia calpestata

«La festa della Liberazione ha un enorme e importantissimo significato sempre, perché ricorda il momento in cui l’Italia si è finalmente liberata, dopo tanti anni, dopo il fascismo, da un conflitto mondiale. Ho bene a mente il primo 25 aprile, quello del 1945, prima che diventasse una festa ufficiale l’anno successivo, il senso di liberazione che pervadeva, la gioia di sentirci finalmente liberi dalla guerra, dalle oppressioni, dall’invasione, dalle occupazioni. Fu un giorno di entusiasmo enorme e di pace per tutti. Dovunque ci si trovasse qualunque cosa si stesse facendo, il 25 aprile non può più perdere questo carattere e spero non lo perda mai». Così un anno fa, poco prima di morire, diceva al nostro Leonardo Filippi Carlo Smuraglia, partigiano, avvocato, già alla guida dell’Anpi. Un punto di riferimento indelebile per molti di noi.

Di fronte ai decreti seguiti alla strage di Cutro, di fronte ai continui attacchi alla legge 194, di fronte alla negazione dei diritti dei bambini nati con la gestazione per altri, di fronte al disprezzo per le persone povere, di fronte al revisionismo storico della Resistenza, cosa avrebbe pensato Smuraglia del governo Meloni?

Non è difficile ipotizzarlo. Di certo, ricordandoci la forza che viene dalla Costituzione antifascista, ci avrebbe spronato a rispondere in punta di legge a questa ciurma di incompetenti, xenofobi e ignoranti che sono al governo da settembre 2022 facendo danni inenarrabili: acuendo la crisi sociale e non sapendo rispondere ai bisogni e alle esigenze delle persone. Basti pensare alla maldestra gestione del caro-bollette e ai ritardi nell’attuazione del Pnrr che rischiano di farci perdere un treno europeo carico di miliardi indispensabili per far ripartire il Paese. Un treno che non ripasserà più. Ma quello che ci colpisce è soprattutto che il governo Meloni sta facendo strage di diritti umani e civili. A Cutro sono morte più di 90 persone e ancora non sappiamo perché la guardia costiera non è intervenuta tempestivamente dopo l’allarme di Frontex. La stessa guardia costiera che invece è stata più che solerte nell’accusare le ong impegnate nel Mediterraneo di intralciare i soccorsi intasando le linee telefoniche con segnalazioni di natanti in pericolo. Va ricordato che a causa del decreto Piantedosi le navi ong non possono effettuare salvataggi plurimi con tutto ciò che comporta per i migranti che rischiano la vita in mare.

Il governo di Giorgia Meloni, dopo aver invocato invano irrealizzabili blocchi navali, ora vorrebbe dare la caccia agli scafisti su tutto il globo terracqueo, come se non sapesse che sono l’anello più debole della catena della tratta di esseri umani. Infischiandosene di fare una lotta vera a chi muove le fila del traffico. Ci riferiamo, per esempio, alla sedicente guardia costiera libica con cui già il governo Gentiloni strinse sciagurati accordi.
Senza soluzione di continuità da allora, il ministro degli Esteri Tajani propone di sostenere la Tunisia per impedire che migliaia di tunisini fuggano dal loro Paese sull’orlo del fallimento e oppresso da una stretta autoritaria imposta dal governo Saïed che ha esautorato il Parlamento. Ma dalla Tunisia scappano anche decine di migliaia di cittadini sub-sahariani inseguiti dalle politiche razziste di Kaïs Saïed (che come tanti politici nostrani, a cominciare dal ministro Lollobrigida, agita lo spettro di una fantomatica sostituzione etnica). Anche di questo ci parla Anna Meli in un ampio reportage. Aver foraggiato l’autocrate turco Erdoğan con 9 miliardi di euro per bloccare l’immigrazione dal Medio Oriente e dall’Asia verso l’Europa trovandosi così sotto ricatto di un dittatore, non ha insegnato nulla. E il governo Meloni insiste perché Bruxelles prosegua nella scellerata politica di esternalizzare le frontiere europee. Di tutto questo ci parla Rari nantes il libro di Flore Murard Yovanovitch e Fulvio Vassallo Paleologo edito da Left.

I diritti e identità dei migranti negati oggi dal Decreto Cutro, che ripristina di fatto i Decreti Salvini e il silenzio che circonda questo scempio, evocano le pagine più buie della nostra storia. La mente corre ai diritti umani e civili degli ebrei cancellati dalle leggi razziali. Come ha ammonito la senatrice a vita Liliana Segre, l’indifferenza uccide.

Non possiamo chiudere gli occhi rispetto a scempio compiuto dal governo Meloni dei valori della Costituzione antifascista, che mette al centro l’uguaglianza, la libertà di espressione, la giustizia sociale. A questo dedichiamo la storia di copertina con interventi degli storici Paola Gramigni e Carlo Greppi, dello studioso Saverio Ferrari, direttore dell’Osservatorio democratico sulle nuove destre e di esponenti dell’Anpi, fra loro, anche giovanissimi che hanno deciso di prendere la tessera dell’associazione partigiani per portarne avanti i valori.

Alla sbarra con c’è “soltanto” il maldestro tentativo di riscrivere la storia da parte di questa classe di governo (dalla premier Meloni che dice: i 335 uccisi alle Fosse Ardeatine furono sterminati «solo perché italiani», al presidente del Senato La Russa che propala un falso storico sui nazisti uccisi in via Rasella affermando che «fu colpita banda musicale di semi pensionati») ma anche quella – come accennavamo all’inizio – di scelte politiche securitarie che comprimono e/o negano i diritti fondamentali delle persone. Pensiamo appunto alle politiche dei porti chiusi che rischiano di tramutarsi in omissione di soccorso ma anche a provvedimenti come il decreto anti rave e che mandano in prigione gli attivisti contro il climate change. Pensiamo alla proposta di esponenti di Fratelli d’Italia di abolizione del reato di tortura. Pensiamo anche alle responsabilità delle forze di governo e della Lega in particolare nell’aver fatto naufragare il provvedimento per far uscire dal carcere le madri detenute insieme ai loro figli. Invece di far loro scontare la pena in case famiglia. Il viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli ha proposto di togliere loro la patria potestà.
Sono solo alcuni esempi. Potremmo continuare ancora a lungo. Non mancheremo di farlo.

Illustrazione di Marilena Nardi

Conflitto di interessi permanente per vanità

Per contestualizzare la notizia si potrebbe partir da un episodio raccontato ieri da Stefano Menichini. Matteo Renzi, ai tempi presidente della Provincia di Firenze, partecipò a un evento promosso dal giornale Europa di cui Menichini era direttore. Racconta Menichini: «Renzi prende una copia, la guarda appena, si gira al vicino e chiede: “Ma un giornale vero non c’è?”». Dieci anni dopo Renzi segretario del Partito Democratico ordinò la chiusura di quel giornale.

Per avere un’idea del senso per la stampa di Matteo Renzi bisogna tornare a L’Unità, che Renzi chiuse per ben due volte. Come scrive Andrea Carugati per Il Manifesto «la prima nel 2014, quando da neo segretario del Pd favorì la liquidazione della società editrice per costituirne una nuova di zecca in cui la fondazione del partito – Eyu – era socia di minoranza insieme al gruppo Pessina. La seconda nel 2017: quando l’Unità renziana tracollò a causa di una linea turboriformista sdraiata sul “caro leader”, lui battezzò una nuova testata di partito, Democratica, diretta da Andrea Romano, solo online e presto affondata».

Forte del suo curriculum ieri Matteo Renzi è tornato sul luogo del delitto annunciando con una recita di famiglia in sala Stampa estera di essere il nuovo direttore de Il Riformista che ora dovrà decidere che redazione avere, visto che gran parte passerà in blocco proprio a l’Unità che l’editore Romeo ha resuscitato per affidarla alla direzione di Piero Sansonetti. Dal punto di vista giornalistico per ora siamo nel campo della mera speculazione pubblicitaria e politica (lo scrive in un suo comunicato anche la Fnsi). Dal punto di vista politico siamo al giornale di partito di un partito senza elettori e presumibilmente senza lettori. Al solito.

Quando qualche giorno fa scrissi proprio qui che Renzi avrebbe lasciato Calenda a spalare macerie qualche terzopolista si è incupito. Forse non sapeva o forse non capiva. Siamo di fronte all’ennesimo “conflitto di interessi” per vanità. Solo che ogni volta diventa più raggelante. Un senatore direttore di un giornale edito da un editore coimputato di suo padre per traffico di influenze (insieme a Italo Bocchino, altro direttore) dice tutto quello che c’è da dire sullo stato dell’editoria italiana, dove le testate sono un orpello da indossare per oliare gli ingressi di certi salotti e un tubetto di stagno per saldare amicizie. Da parte sua Renzi aggiunge all’elenco di attività extraparlamentari un altro tassello che stride parecchio con il senso per il giornalismo del suo amico bin Salman, coautore con il senatore fiorentino di quel Rinascimento saudita che vorrebbe lavarsi dal sangue di Kashoggi.

C’è un ultimo particolare interessante. Dice Renzi di avere avvisato il suo compare Calenda (che raccontano furioso nella giornata di ieri) e Giorgia Meloni. Cosa c’entri la presidente del Consiglio in un affare del genere non si capisce. Meglio: si capisce benissimo. Se si trattava di cortesia istituzionale Renzi avrebbe dovuto avvisare il presidente del Senato, non certo la capa del governo. Il direttore del Corriere Luciano Fontana dice quello che pensano tutti: «Mi stupisce che voglia fare tremila mestieri e non l’unico per cui è stato eletto dal popolo italiano». E Calenda mette subito le mani avanti: «Non sarà il nostro giornale».

Buon giovedì.

Nella foto: frame del video della conferenza stampa di Matteo Renzi alla Stampa estera

Il mondo dell’arte si mobilita in difesa delle donne

Gruppo di donne, Murale, 2012 via dei Sardi, Roma www.facebook.com/muralecontroilfemminicidio. Foto Giorgio Benni Courtesy AlbumArte

“Donne (non più) anonime. Confronto sul femminicidio” è il titolo di un progetto ideato e diretto da Daniela Trincia e realizzato da AlbumArte e Cristina Cobianchi che ha preso il via nel 2016 a Roma con l’obiettivo di sensibilizzare il mondo dell’arte italiano riguardo la violenza di genere, affinché la si possa riconoscere e combattere. Nel corso degli anni di sono svolti numerosi incontri realizzati grazie alla riflessione e la testimonianza di esperte/i, attiviste/i e artiste/i e alla fine di marzo, durante il convegno “Sorella io ti credo. La doppia violenza sulle donne: fisica e sociale” all’Accademia delle belle arti di Roma, curato da Guglielmo Gigliotti e Miriana Pistillo con la collaborazione di Marianna Pontillo, è stato presentato il Codice etico della comunità dell’arte contro la violenza sulle donne (link al documento). A latere del convegno, nei pressi dell’Accademia, si è svolta la performance: “Dal buio alla luce”: per 4 ore  50 artiste e artisti hanno dato vita ad un’azione tenendo in mano un pannello con l’immagine di una propria opera, come contributo in chiave morale, civile e poetica alla creazione di una coscienza profonda del NO alla violenza sulle donne, a cura di Lucilla Catania, Licia Galizia, Veronica Montanino e Daniela Perego.

Il Codice etico è stato curato da Cristina Cobianchi (presidente di AlbumArte) e da Daniela Trincia con il supporto di Simona Ammerata, Andrea Bernetti, Luisa Betti Dakli, Teresa Dattilo, Fabio Maria Cilento, Vera Maglioni, Anahi Mariotti.

Per approfondire il significato e lo scopo di questa iniziativa abbiamo rivolto alcune domande a Gigliotti, Trincia e Cobianchi.

Guglielmo Gigliotti, agli inizi del 1600 l’Accademia di San Luca ammetteva per la prima volta donne docenti ma dovettero passare altri due secoli prima che le allieve fossero ammesse a frequentare le Accademie. Quella di Roma ha organizzato un convegno che è culminato con la proposta di un codice di comportamento etico in difesa delle donne. Quali riflessioni ne ha ricavato?
Quello che penso è che si sia presa coscienza in modo ancora più netto che l’arte non ha senso se il mondo che la promuove, o dove ci si forma, accetta pratiche di sopraffazione della persona fisica e morale. L’arte, in tutte le sue forme, è sempre intrinsecamente etica. Questo lo abbiamo detto chiaramente agli studenti, perché in Accademia si formano, prima che artisti, persone. L’opera è come un orizzonte in cui tutti si possono riconoscere, uno specchio che rimanda percorsi interiori condivisibili. L’arte è un dono che l’artista fa a se stesso e all’umanità, non un sopruso, non un insulto. L’arte deve essere una casa felice, questo è il messaggio primario che vogliamo trasmettere ad artisti in erba, in Accademia e fuori.
La cultura della violenza è antica e radicata. Che fare?
Noi abbiamo voluto deporre un piccolo seme per un frutto che dovrà ancora maturare, perché la violenza, oggi, sussiste, in parte, anche nel mondo dell’arte. Il Manifesto di Albumarte contro la violenza sulle donne nell’arte, che Daniela Trincia ha letto al convegno, è un dato di fatto, una presa di posizione netta. Gli altri, da che parte stanno?
Daniela Trincia, lei è stata una delle prime a proporre il tema della violenza di genere in arte, a stimolare e a promuovere incontri e un confronto continuo. Il codice etico è la naturale evoluzione di questi incontri?
Prima di rispondere vorrei ricordare l’efferato femminicidio avvenuto a Roma il 29 maggio del 2016. Sara Di Pietrantonio di appena 22 anni fu brutalmente uccisa da Vincenzo Paduano, suo ex fidanzato che, non accettando la fine della loro relazione, l’aspettò di notte lungo la strada, speronò la macchina di Sara e entrò nell’auto cospargendo di alcool la ragazza, l’ha poi strangolata e ha dato alle fiamme il suo corpo e l’autovettura. Organizzare incontri sul femminicidio con il prezioso supporto di Cristina Dinello Cobianchi è stata la mia reazione a quella storia. Ho ritenuto che fosse necessario una riflessione pubblica sulla cultura ancora intrisa di sessismo, maschilismo e stereotipi duri da abbattere, oltre che sulle conseguenze e implicazioni della violenza di genere, dalla rivittimizzazione ai testimoni e molto altro. E, proprio nel corso di uno di questi incontri, il 7 febbraio 2023 è nata l’elaborazione di questo codice etico. Si tratta quindi sicuramente del punto di arrivo di un percorso avviato nel 2016, ma anche di un nuovo punto di partenza.
Perché?
Perché auspichiamo che sia accolto da una platea sempre più ampia, nonché spunto di rinnovate riflessioni e azioni di sensibilizzazione e, soprattutto, conoscenza di questa grave piaga sociale che in troppi continuano a ignorare, negare, sottovalutare.
Cristina Cobianchi, Albumarte è tra i più attivi e influenti spazi indipendenti no-profit nel panorama artistico italiano. Cosa l’ha spinta a partecipare a un convegno sul femminicidio quindi non strettamente connesso al mondo dell’arte?
La nostra ricerca si concentra su tutte le forme di arte contemporanea, pittura, scultura, performance, sound art, videoarte, fotografia, di artisti e artiste, con curatori e curatrici, ma ci interessa anche il confronto sui problemi culturali e sociali. Non potendoli approfondire tutti con eguale scrupolo, nel 2016 abbiamo deciso di organizzare una serie di dibattiti centrati sulla “lotta” contro la violenza sulle donne. E oggi abbiamo lanciato un manifesto perché si possa adottare anche nel modo dell’arte, come sta avvenendo nel mondo del cinema dopo il #metoo, un comportamento etico che ci definisca riguardo a questa piaga della società patriarcale. Credo che la presa di posizione dell’Accademia di belle arti di Roma, che ha organizzato il convegno e la mostra ad AlbumArte con due performance sulla violenza contro la donna, sia davvero importante. La violenza va prevenuta e contrastata in ogni modo e anche da questo incontro si è levato forte e chiaro il nostro rifiuto: il comportamento maltrattante non è legittimato né normalizzato dalla comunità degli artisti. Tuttavia ancora troppa gente insospettabile, nel nostro mondo “colto e aperto”, resta indifferente di fronte alle violenze, ai segnali evidenti che spesso precedono un femminicidio, schierandosi così, forse inconsapevolmente, dalla parte dell’assassino.

L’autore: Alessio Ancillai è artista.
Info: www.alessioancillai.com

L’Ucraina, le mine, i bambini

Dopo più di 13 mesi di guerra su vasta scala, il numero confermato di bambini uccisi in Ucraina ha superato i 500. Alla data del 2 aprile, almeno 501 bambini sono stati uccisi e 991 feriti a causa dell’escalation del conflitto, la maggior parte dei quali ha dai 12 anni in su, ma si teme che i numeri reali siano significativamente più alti. Basti pensare che 1 civile su 8 ucciso o ferito da mine antiuomo e ordigni inesplosi è un bambino. È Save the Children, l’Organizzazione che da oltre 100 anni lotta per salvare le bambine e i bambini a rischio e garantire loro un futuro, a sottolineare queste tragiche cifre in occasione della Giornata internazionale per la consapevolezza e l’assistenza nelle azioni antimine. Dal febbraio 2022 in Ucraina è stato ucciso almeno un bambino al giorno, secondo l’analisi di Save the Children su dati verificati delle Nazioni Unite. Gli incidenti a causa delle mine, che ora vengono segnalati quotidianamente, hanno causato 126 vittime nell’ultimo mese e mezzo, ovvero una media di 3 civili uccisi o feriti al giorno da residui bellici esplosivi. Dall’escalation del conflitto nel febbraio dello scorso anno, le vittime causate dai residui bellici sono state 758, quasi il 12% sono bambini. Ogni giorno in Ucraina, bambine e bambini corrono un rischio crescente di calpestare una mina antiuomo o di raccogliere parte di una munizione, e quindi di subire ferite mortali o di venire uccisi. Prima che scoppiasse la guerra, l’Ucraina era già uno dei paesi più minati al mondo. Da allora, i terreni contaminati da mine sono aumentati di dieci volte, occupando il 30% del Paese, circa 180 chilometri quadrati, un’area grande il doppio del Portogallo o uguale allo stato della Florida negli Stati Uniti.

A questo si aggiungono le armi esplosive ad ampio raggio, altra causa predominante delle vittime tra i bambini in Ucraina. Nel primo anno di guerra su vasta scala, 404 bambini sono stati uccisi da bombardamenti, missili e attacchi di droni e altri 850 sono rimasti feriti. La maggior parte delle vittime si è verificata nelle regioni di Kharkiv e Donetsk, dove i combattimenti sono in corso dallo scorso febbraio. Nei centri urbani nell’est e nel sud del paese continuano i combattimenti e i bombardamenti. Molti ragazzi e ragazze sono costretti ancora a rifugiarsi negli scantinati degli edifici residenziali sotto attacco. Secondo Save the Children, solo lo scorso anno, i bambini in Ucraina sono stati costretti a trascorrere in media più di 900 ore (38,3 giorni) in bunker sotterranei.

”Mezzo migliaio di bambini uccisi è l’ennesimo tragico traguardo raggiunto in questa guerra. 500 in più di quanti dovrebbero essere. Ogni giorno in Ucraina, ragazze e ragazzi innocenti vengono ancora feriti o uccisi. Un Paese dove la violenza, che comprende l’uso di armi esplosive nelle aree urbane, incombe all’orizzonte. La conseguenza è che, durante il primo anno di guerra rispetto ai precedenti otto anni di conflitto nell’est del paese, le vittime tra i bambini sono state tre volte più alte rispetto alle altre. Ma i bambini in Ucraina hanno anche sperimentato un immenso disagio psicologico a causa della violenza e dell’instabilità: molti sono stati separati dai loro genitori o hanno visto i loro cari uccisi o feriti”, ha dichiarato Sonia Khush, direttrice di Save the Children in Ucraina.

La primavera sta arrivando, la neve si scioglie e le piogge faranno emergere mine sepolte e frammenti di proiettili e di artiglieria inesplosi. Questo paesaggio letale si rivelerà altamente pericoloso per le bambine e i bambini, che trascorreranno più tempo all’aria aperta. A febbraio, 8 adolescenti sono rimasti feriti dopo che un sedicenne aveva giocato con una mina alla fermata dell’autobus a Izyum. Per educare i bambini ai rischi degli esplosivi, Save the Children distribuisce opuscoli informativi sulle mine e organizza sessioni di sensibilizzazione nelle scuole di tutta l’Ucraina. ”Prima di tutto, dobbiamo comunicare ai bambini che non esistono oggetti esplosivi sicuri. Sono tutti pericolosi, è vietato avvicinarsi, toccarli. Insegniamo ai bambini come riconoscere un’area contaminata o un esplosivo solitario e cosa fare quando vengono individuati”, afferma Yevhen, l’istruttore dell’Associazione degli sminatori ucraini. ”E’ molto importante che [i bambini] vivano a lungo e felici e non si espongano al pericolo”, conclude.

Buon mercoledì.

Cosa ci insegna la storia del grano nei Paesi del Mediterraneo

Questi Frammenti di storia delle civiltà del grano e del pane nel Mediterraneo di Gianfranco Nappi, che raccolgono con coerenza e pazienza i frutti di appassionate ricerche condotte nel corso di molti anni, costituiscono una espressione insolita nella storiografia italiana. Mi riferisco, ovviamente, alla storiografia modernistica, che insieme alla medievistica e all’antichistica rappresentano l’espressione più alta e prestigiosa della nostra ricerca storica. Ogni riferimento o confronto con la storiografia italiana dell’età contemporanea apparirebbe stonato, essendo diventata quest’ultima, a partire dal nuovo millennio, una disciplina monocorde, quasi interamente interessata (salvo poche eccezioni) ai temi della vita politica nazionale. E perciò inevitabilmente specchio della perifericità politica e culturale del nostro Paese nell’età contemporanea. Dovrebbe essere noto che salvo le pagine del Risorgimento nazionale a metà ’800 e gli anni della fondazione della Repubblica, la ricostruzione delle vicende politiche italiane costituiscono una storia minore del nostro tempo.

Perché è insolito questo libro di Nappi? Innanzi tutto perché ha come soggetto principale delle vicende narrate non un leader di partito, né un uomo di stato, nessun caso politico o storia di comunità, città o Paese. Il protagonista principale è il grano, questa pianta fondamentale che è stata per millenni alla base dell’alimentazione umana e della sua stessa possibilità di sopravvivenza. Una scelta tutta braudeliana, sulla scia della migliore storiografia delle Annales francesi, che nella seconda metà del ’900 hanno fatto della disciplina storica una delle più alte espressioni conoscitive e culturali della cultura mondiale. Proprio Braudel, molto citato in questo testo, aveva compiuto una rottura ardita con il suo libro maggiore, rendendo sin nel titolo soggetto della sua vasta ricostruzione plurisecolare, il mare, il Mediterraneo. E significativamente, per rimarcare il conservatorismo culturale italiano, il nostro più avanzato editore, Einaudi, che ha tradotto la Mediterranée e le monde méditerranée à l’époque de Philippe II, non ha avuto il coraggio di conservare il titolo originale, ma l’ha trasformato, com’è noto, in Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II. Della geografia non si può fare storia. Per la cultura dominante italiana la vicenda umana sembra svolgersi fuori da ogni determinazione territoriale e spaziale.

La seconda novità del lavoro di Nappi è che esso travalica le delimitazioni temporali che separano scolasticamente la disciplina storica: età medievale, moderna, contemporanea, ecc. L’autore infatti avvia il suo racconto dai nostri giorni, accennando alla vicenda dello sblocco delle navi cariche di cereali, che dal porto di Odessa, investito dalla guerra Ucraina-Russia, sono potute partire per i porti dell’Africa e altri Paesi, per poi spaziare all’indietro, attraversando le epoche, toccando anche il mondo antico e i primordi della stessa agricoltura. E questo per la semplice ragione che quella del grano, come dice l’autore «è una storia antica».

Ma l’autore dichiara in maniera quasi perentoria le ragioni fondative del suo lavoro di storico, l’aver messo al centro della sua narrazione questo cereale: «Il grano ha rappresentato il principale prodotto trasportato in lungo e in largo nel Mediterraneo. Più del pesce che si conserva solo essiccato o sotto sale e meno raccontato del più ricco commercio delle spezie, esso tuttavia ha rappresentato la base su cui tutti gli altri commerci hanno trovato solidità consentendo alle più importanti città mediterranee, dell’antichità come del medioevo, di crescere e prosperare. E al tempo stesso vedendo le stesse città messe in un angolo se gli approvvigionamenti di grano necessari si interrompevano, vuoi per carestie che per guerre».

Ma l’aver scelto questa pianta alle origini della civilizzazione umana, per lo meno di gran parte dell’Europa e del Medio Oriente – perché altre regioni del mondo si sono sviluppate grazie alla coltivazione di altri cereali, il mais in America Latina e il riso nei grandi paesi dell’Asia – spinge l’autore a fare una storia tutta fondata sulla geografia. Geografia dei porti e geografia dei commerci internazionali via mare. Così il racconto di Nappi si sofferma su Pozzuoli, Odessa, Alessandria d’Egitto, Amalfi, Rodi, ecc. E in questo girovagare per il Mediterraneo, ricostruendo di scorcio le fortune e il declino di grandi empori, stati, Repubbliche e snodi dei traffici internazionali, l’autore ricostruisce un aspetto rilevantissimo della storia delle epoche precapitalistiche. È poco noto, infatti, che l’economia dominante dei secoli passati, quella commerciale, è stata per necessità una economia internazionale, assai prima di essere nazionale. L’economia nazionale, di fatto nasce e diventa protagonista, quando, grazie alle ferrovie e a sistemi stradali diffusi, i vari Paesi costruiscono il mercato interno. In passato i territori avevano una infrastrutturazione viaria molto ridotta. Fino a quasi tutto il XIX secolo, tanto per fare un esempio, era più facile e meno costoso trasportare derrate da Napoli a Marsiglia, dunque via mare, che non da quella città a Matera o all’Aquila. Lo chiarisce bene l’autore proprio a proposito del grano: «E allora, la via privilegiata è il mare e il Mediterraneo è solcato nei secoli da intere flotte che lo trasportano. E con il mare, l’acqua dei fiumi: praticamente tutti i mercati utilizzati dal commercio dei grani sono situati sulle rive del mare».

Perciò i porti in questa storia di Nappi, che è anche una storia del cibo, come ricorda anche il sottotitolo, costituiscono un capitolo di storia importante non solo nella vicenda del commercio internazionale, ma anche del secolare impegno sostenuto dagli stati per fronteggiare le carestie. Perché queste emergenze congiunturali che hanno colpito per millenni le società di antico regime, provocate in genere da cattive annate agricole ripetute negli anni, potevano essere limitate o anche scongiurate a seconda dell’andamento del commercio internazionale del grano e dei cereali minori. Infatti la scarsità dei raccolti raramente colpiva in maniera totalitaria tutte le regioni del Mediterraneo, dell’Europa continentale e del Medio Oriente. Spesso annate di prodotti scarsi in alcuni Paesi si accompagnavano a raccolti abbondanti in altri, sicché il surplus poteva essere esportato.

Specie nel corso dell’età moderna le carestie, in genere prodotte dal ripetuto crollo delle produzioni agricole, sono diventate disastrose per il concorso di altre ragioni. Ad esempio a causa di rapporti sociali iniqui, come nel caso dell’Irlanda, devastata dalla fame alla fine degli anni ’40 dell’Ottocento. Qui gli agricoltori, che avevano assistito per più anni al fallimento del raccolto delle patate, (alimento fondamentale se non unico della popolazione) decimato dal fungo della peronospera, non poterono far ricorso, per fronteggiare la fame, ad altri prodotti della terra che pur coltivavano. Questi erano destinati all’esportazione in Gran Bretagna, mentre gli introiti delle vendite i contadini irlandesi dovevano impiegarli per pagare il fitto dei terreni che coltivavano i cui proprietari erano inglesi. In altri casi era l’isolamento territoriale delle popolazioni che trasformava la scarsità congiunturale di cibo in carestie mortali. I paesi di montagna, i meno forniti di vie agevoli di accesso, specie nel corso dei lunghi inverni, restavano privi di contatti commerciali e la popolazione moriva letteralmente di fame. Per questo i trasporti delle derrate alimentari, i porti, le navi, la sicurezza dei percorsi marittimi hanno giocato un ruolo fondamentale nella storia dell’alimentazione umana in una larga parte del globo. Così che a ragione Nappi dedica particolare attenzione a questi aspetti della distribuzione internazionale.

Prendendo spunto da Braudel, egli ricorda l’ingresso nel Mediterraneo di un altro cereale, proveniente dal Nuovo Mondo, il mais, destinato a inaugurare una nuova pagina nella storia dell’alimentazione in Occidente. Benché sarebbe giusto ricordare, che già tra il VII e il XII secolo un altro cereale ha fatto ingresso nel Mediterraneo e nell’Europa meridionale: il riso, nato nelle pianure umide dell’Asia e trasportato dagli Arabi in Andalusia e in Sicilia. Rammentando che tuttavia questo cereale ha avuto una diffusione geograficamente limitata, rispetto al mais, e conosciuto comunque una fortuna tardiva solo nelle terre paludose della pianura padana. Ma il mais, insieme alle patate, provenienti dalle piane del Messico, dalle Ande peruviane e dalle valli cilene, ha avuto un ruolo decisivo nel limitare la frequenza delle carestie e nell’assicurare un’alimentazione meno soggette alle alee delle avversità climatiche, benché insufficiente, sotto il profilo nutrizionale. La straordinaria fortuna del mais, o granturco si deve alla straordinaria produttività della pianta. Solo rammentando le basse rese del grano nel corso dell’età moderna, ben documentate dagli storici, si comprende il grande balzo che questa nuova pianta “americana” ha fatto compiere alle nostra colture cerealicole.

L’autore, peraltro, ricorda come nell’alto Medioevo siano addirittura prevalsi i cereali minori, che hanno sostituito il frumento non più abbondante come ai tempi dell’impero romano. Nei secoli che precedono la rivoluzione agricola inglese, come ha documentato Bernard Slicher Van Bath nella sua poderosa Storia agraria dell’Europa occidentale, il rapporto medio tra la semente seminata e quella raccolta era in genere di 1 a 5, più spesso di 1 a 4, raramente 1 a 6 o a 7. Provate a immaginare come questo rapporto si moltiplica con il granturco. Da un chicco può nascere un pianta con due tre pannocchie, ognuna delle quali può avere un’ottantina di chicchi. Questa superiorità produttiva del mais rispetto al grano ha davvero cambiato il tenore dell’alimentazione delle nostre campagne e fornito un’arma in più contro la fame alle popolazioni contadine di una vasta parte del mondo. Ma Nappi ci informa su un altro vantaggio offerto da questo cereale, fornito dalla natura in un continente lontano, e migliorato dal sapere contadino di popoli rimastici ignoti per millenni. È quanto ha osservato l’abate Ferdinando Galiani nei suoi Dialoghi sul commercio dei grani «la coltura del granoturco ha preso piede nei paesi meridionali perché con esso si risparmia la macinatura e la lavorazione del pane. Ci si accontenta di tritarlo e poi di cuocerlo nell’acqua e di farne la polenta; per questo solo risparmio in realtà considerevole dobbiamo a questa pianta americana la diminuzione delle carestie».

Non si comprende in pieno tale affermazione se non si rammenta, come fa l’autore che «macinare il grano raccolto ha sempre rappresentato un problema serio che assorbiva molto impegno e lavoro». E il lettore potrà soddisfare la propria curiosità per pagine e pagine scoprendo i modi diversi con cui l’ingegno umano si è misurato con questa per noi quasi incomprensibile difficoltà: trasformare i duri granelli dei cereali in farina per farne pane e in genere alimento cotto ed edibile. Un passaggio di civiltà, che l’autore fa descrivere così a Pedrag Matvejevic: «è stato lungo il cammino dal chicco crudo a quello cotto, dalla farina alla focaccia. L’uomo che preparò il pane era diverso dai suoi antenati. Si era affacciato alla soglia della storia». Con naturale coerenza Gianfranco Nappi dalle tecniche di macinazione, che evolvono dalla triturazione manuale con la pietra ai mulini, approda infatti al pane, questa pietra miliare dell’alimentazione umana in area mediterranea. E lo fa privilegiando Roma, mostrando il tardivo approdo al tipo di alimento più vicino al nostro, cioé al pane di grano, dopo che per secoli, nella nostra Penisola avevano dominato l’orzo, il farro, il miglio, il panico e la spelta.

Il lettore troverà un’accurata ricognizione che l’autore compie sull’alimentazione dei ricchi, perfino dell’imperatore, così come su quella dei lavoratori, degli schiavi, ecc. La storia del grano e del pane si dilata in una più generale storia dell’alimentazione nel mondo romano.
Ma è solo un’apparente divagazione, perché nel capitolo successivo, Il pane di Predrag, – lo scrittore slavo che ha studiato a fondo il tema – l’autore offre un rassegna davvero insolita per ricchezza documentaria delle forme e qualità del pane nelle diverse culture, popoli e realtà sociali: il pane degli ebrei, dei cristiani, degli arabi, dei fenici, dei naviganti, il pane greco, ecc. Anche in questo caso il seguito della narrazione non si ferma al pane e diventa una più generale storia dell’alimentazione. Una panoramica ricca di curiosità, che ovviamente comprende tecniche culinarie e di trasformazione dei prodotti agricoli e si intreccia ai simboli religiosi, alle culture, alle tradizioni dei diversi popoli delle varie regioni mediterranee.

Il saggio di Gianfranco Nappi, mantiene sino in fondo la sua coerenza narrativa, concludendo le sue storie del grano, del pane, delle tecniche, dei porti e delle navigazioni, con un ritorno al punto di partenza, al nostro presente. Un presente nel quale l’agricoltura, l’attività produttiva che nel corso di 10 mila anni ha garantito la sopravvivenza e la crescita demografica del genere umano, è diventata uno dei problemi ambientali più gravi del nostro tempo. In tale ambito il capitalismo mostra nitidamente, senza possibilità di smentita, il suo esaurimento storico di produttore di ricchezza, la sua conclamata, distruttiva insostenibilità. Combinata con l’allevamento intensivo l’agricoltura contribuisce intorno al 40% al riscaldamento climatico, consuma il 70% delle risorse idriche, alimenta tra 60 e 80 miliardi di animali su tutto il pianeta, che si sommano agli 8 miliardi degli umani. Essa, cosa ignota ai più, è l’unica attività economica che distrugge le basi stessa della propria produttività: desertifica ogni anno, a scala mondiale, tra i 10 e 12 milioni di suolo fertile. Ma insostenibile l’agricoltura capitalistica è anche sotto il profilo sociale. Essa ha fatto rinascere la schiavitù e la semi- schiavitù nelle campagne. La sua feroce logica estrattiva e accumulativa fa ritornare indietro le lancette della storia.
Anche per tale ragione questi Frammenti di storia, che ci offrono un suggestivo affresco della civiltà agricola mediterranea, rivestono un importante valore culturale, ci rammentano che cosa è stata l’agricoltura per gran numero di secoli e che cosa può continuare a essere.

Questo testo di Piero Bevilacqua è la prefazione al libro di Gianfranco Nappi Frammenti di storia delle civiltà del grano e del pane nel Mediterraneo pubblicato nel febbraio 2023 da InfinitiMondi, associazione e rivista bimestrale di pensieri di libertà

 

Le piattaforme hanno ucciso il mercato musicale?

Antefatto
Avevo 13 anni quando ho cominciato ad ascoltare la musica in modo più consapevole, riuscendo a tirarne fuori significati profondi che fino ad allora mi erano sfuggiti. Stavo diventando un adolescente irrequieto e ribelle e la musica parlava il linguaggio della ribellione. Avevo 13 anni e non avevo nulla o quasi nulla per ascoltare la musica. All’epoca mio padre aveva solo l’autoradio e una serie di nastri campeggiavano in salotto: Beatles, Venditti e soprattutto Franco Battiato che cantavamo a squarciagola in macchina durante le gite del fine settimana. Ma le vere scoperte avvennero nel momento in cui il nostro vicino di casa, che ascoltava la musica sul suo potentissimo stereo, cominciò ad invadere la mia stanza. Ho questo ricordo nitido di me con l’orecchio appoggiato al pavimento che ascoltavo sconosciuti che urlavano, cantavano, raccontavano storie di cui volevo sapere tutto. Marillion, Frankie Goes To Hollywood, Jethro Tull, Black Sabbath, David Bowie. E poi Genesis, Yes. Infine l’onda new-romantic: Duran Duran, Spandau Ballet, Talk Talk. Come un novello Dante avevo un disperato bisogno del mio Virgilio e lo trovai proprio nel mio vicino che, fedele al suo nuovo ruolo, cominciò a duplicarmi su cassetta una serie di album che adoravo. E le cassette venivano letteralmente consumate dal nuovo fiammante walkman che mio padre, impietosito, mi aveva comprato a Natale. Deejay Television era la mia bibbia del dopo pranzo. Lì passavano i video e potevi scoprire canzoni bellissime che diventavano 45 giri e poi 33 giri comprati con la paghetta mensile. Poi arrivarono i cd, le riviste specializzate, i dischi, e oggi, quell’onda, quello tsunami di ricerca, non si è ancora fermato. Erano gli anni 80 e il mercato musicale era in rampa di lancio verso quello che sarebbe stato il suo decennio più florido, gli anni 90, alla cui fine si sarebbe innestata una crisi irreversibile dovuta all’avvento della rete. Un avvento che avrebbe cambiato completamente le regole del mercato discografico, mettendo per sempre in discussione il ruolo degli artisti e la loro peculiarissima forma di espressione. E quello che aveva caratterizzato il mercato fonografico/discografico dalla sua nascita negli anni 30 fino a quel momento, ovvero la sostanziale irriproducibilità del supporto e il suo conseguente valore commerciale, sarebbe stato spazzato via da quelle stesse innovazioni tecnologiche.

Oggi
I dati ufficiali della Fimi (Federazione industriale musicale italiana) di marzo 2022 sull’andamento del mercato discografico e sugli abbonamenti alle piattaforme streaming ci raccontano di un magnifico 2021 per la musica riprodotta dopo la pandemia. Il settore sembra decisamente essere tornato a produrre profitti, come dichiarato dalla Fimi stessa:«Nel 2021, a livello globale, si sono registrati i migliori risultati di sempre per l’industria discografica, ad oltre vent’anni dalla fase di transizione accompagnata da una devastante pirateria che dimezzò i ricavi del settore». La Fimi riporta ancora che «solo nel segmento audio, ormai ogni settimana, i consumatori italiani realizzano in media oltre un miliardo di stream e nel 2021 hanno speso oltre 19 ore settimanali nell’ascolto di musica. Nessun settore in Italia ha mai adottato una così ampia fascia di tecnologie per sostenere la distribuzione dei propri contenuti: dallo streaming alle app di social media, dal gaming allo short form video di TikTok, non c’è un segmento delle nuove tecnologie dove la musica non sia protagonista e dove non generi ricavi per etichette e artisti. Anche i supporti fisici sembra continuino a crescere con addirittura un +10,6% per i cd e ancora un incremento di oltre il 70% per il vinile, e di un 37% per i diritti di sincronizzazione che superano i dieci milioni di euro». Ma la cosa più interessante è che, sempre secondo la Fimi, negli ultimi anni per la musica italiana, grazie all’innovazione e agli investimenti delle case discografiche nei giovani talenti, si è assistito a un forte ricambio generazionale. I “nuovi talenti” si sono trovati a proprio agio nella musica liquida e nei canali social. Inoltre «nelle classifiche di fine anno, le top ten di singoli e album sono state dominate dal repertorio italiano: diversi artisti della Generazione Z hanno ottenuto risultati di ampio respiro conquistando numerosi dischi di platino».

Un’ultima considerazione della Fimi riguarda l’ampliamento del mercato del prodotto musica che sembra non avere confini: «Se nel passato un artista aveva di fronte, in linea di massima, solo due grandi modelli, quello dei ricavi discografici e quello della musica dal vivo, le opzioni disponibili oggi crescono costantemente… Nft (non-fungible token) e metaverso ad esempio, esperienze immersive cross tra digitale e musica dal vivo accompagnate dalle tecnologie di ultima generazione». A proposito di questo crossover basta ricordare il grande evento del concerto live “virtuale” di Travis Scott all’interno della piattaforma del videogioco Fortnite, seguito dalla bellezza di 12 milioni di utenti. A raccontarla in questo modo qualcuno potrebbe credere che il settore in questione sia una specie di Eden, un mondo in grande crescita, in cui artisti, discografici e addetti ai lavori si spartiscono torte di una certa rilevanza, brindando con ottimo champagne. Ma è davvero così? Oppure dietro questa narrazione tutta al positivo si nasconde qualche crepa? L’era del “segmento fisico”, come la definisce la Fimi, era tutta un’altra cosa, certo. Individuare però la “pirateria” come generica causa della perdita dell’80% dei ricavi di un mercato floridissimo nello spazio di qualche anno significa non riconoscere, tra i diversi fattori che hanno determinato il processo, anche la modalità con cui case discografiche, addetti ai lavori e artisti hanno risposto alle nuove sfide lanciate dall’avvento di internet: un nuovo mercato, nuovi utenti e soprattutto l’addio all’uso massivo dei supporti fonografici.

Come è cambiata, dunque, la fruizione del prodotto musica con la rete, e in che modo la musica è ancora un prodotto? Per rispondere a questa domanda possiamo fare riferimento a un best seller scritto nel 2006 dal saggista e giornalista statunitense Chris Anderson, La coda lunga. Da un mercato di massa a una massa di mercati (edito in Italia da Codice edizioni). Questo libro è stato, negli ultimi anni, un importante vademecum per chi abbia voluto orientarsi in questo mondo nuovo in cui, per dirla con le parole dell’autore, «si è passati da un mercato unico che vendeva milioni di prodotti, a milioni di mercati che vendono pochi prodotti tutti diversi». Queste “nicchie di mercato” hanno dimostrato come fosse più redditizio investire su una offerta radicalmente più vasta invece che concentrarsi sul lancio di poche hit confezionate per milioni di utenti e pronte ad avere successo. In un grafico preso in prestito dal mondo del marketing e della comunicazione, poi, Anderson, che ha diretto Wired Usa tra il 2001 e il 2012, spiega la sua affascinante tesi. Più si allunga l’offerta dei prodotti “di nicchia” e più i ricavi salgono. Ciò significa che complessivamente il totale venduto di questo tipo di prodotti, anche se in pochissime copie, supera sempre le vendite totali degli album, o delle singole hit, di artisti riconosciuti come best sellers. Questo andamento del mercato spiega dunque il fenomeno della coda lunga: una curva che sul lato sinistro ha il classico picco di vendite dei grandi successi, ma sul lato destro non arriva mai allo zero. Per ogni brano o segmento musicale, anche il più improbabile, ci sarà un ascoltatore pronto ad investirci. Tale cambiamento di paradigma ha completamente rivoluzionato e mandato in crisi quella che era stata, fino a quel momento, una delle inossidabili certezze del vecchio mondo dell’intrattenimento basato sul “sistema delle hit”: lanciare un prodotto nel mercato e farlo diventare un successo. C’è stata, poi, una fuga in massa dall’acquisto di supporti fisici: un dato incontrovertibile riguarda le vendite dei cd, passate, dal 1999 al 2005, da circa 900 milioni di pezzi a 170 milioni, spiega Anderson. La democratizzazione degli strumenti di produzione, i pc casalinghi su tutti, è stata una delle grandi rivoluzioni degli anni 90, e la masterizzazione dei cd, una sorta di passaparola da “mercato virale”, ha contribuito certamente ad un fisiologico calo delle vendite. In seguito, dal 2001 in poi, lo storage di massa da download illegale di mp3 (geniale formato che riduce il peso del file tagliando frequenze non udibili dall’orecchio umano e lasciando sostanzialmente intatta la qualità audio) ha inferto un altro colpo tremendo al mondo dei profitti. È noto, però, che il download illegale in realtà ha influito sulle vendite totali per una percentuale che non supera il 50%. E il resto? Qual è la verità dietro questa débacle? Come spesso accade la risposta è in una serie di concause che hanno a che fare principalmente coi cambiamenti dei gusti degli utenti. Come sostiene ancora Anderson, «La cultura oggi non consiste più nel seguire la folla fino alla vetta delle classifiche, ma nel trovare un proprio stile ed esplorare territori lontani dal mainstream come musiche di autori relativamente sconosciuti o classici dei tempi passati».

Trovare un proprio stile, giocarsi una propria identità di fronte all’oceano di produzioni che offrono i canali della rete. Questa è la sfida di oggi. La maggioranza dei ventenni, e anche dei trentenni, difficilmente accende la tv generalista o si forma un’opinione tramite gli altri media tradizionali, anch’essi colpiti da una crisi di vendite che sembra irreversibile, ma ha trovato nuove vie, più “personali”, di intrattenersi, informarsi, comunicare. Sembra quindi una nuova frontiera dell’utenza dove il consumatore sceglie o dovrebbe scegliere in maniera consapevole la propria “formazione musicale”. Ma questa è proprio la grande contraddizione della nostra epoca in cui il tempo della fruizione “mordi e fuggi”, dell’ascolto casuale o distratto del prodotto musica, ha riportato sostanzialmente, come prima degli anni 70, a un lancio costante e continuo di singoli. Il tempo della possibilità di concentrarsi per ascoltare si è modificato e si è accorciato di fronte ai mille input e stimoli a cui siamo costantemente sottoposti. Nessuno vuole più soffermarsi a comprendere il lavoro di un artista contenuto in un album. Ci troviamo di fronte al paradosso per cui il tempo dell’ascolto si è ridotto in maniera inversamente proporzionale all’offerta quasi infinita di prodotti sulla rete. Quindi, seguendo la linea di Anderson, il mercato si è certamente frammentato in milioni di micromercati di nicchia in cui gli utenti potrebbero decidere per sé, ma nella realtà a questi milioni di mercati non corrispondono milioni di utenti consapevoli. Il libro è stato scritto nel 2006 ed è evidente che questi ultimi quasi venti anni ci abbiano messo di fronte al fatto che non tutte le predizioni positivistiche di Anderson siano andate in porto. In particolare l’iniziale fiducia nel talento selvaggio e inespresso di milioni di utenti ha ben presto lasciato il posto alla realtà in cui i social brulicano di meme, microvideo inutili e foto-ritocchi di un popolo sempre più dismorfofobico e sempre meno disposto ad accettare la realtà per quello che è.

Tornando a me e alla mia formazione musicale, invece, mi rendo conto di essere parte di una riserva indiana che è passata dal mondo dell’analogico al mondo del digitale e si è ritrovata a formare la propria cultura musicale pagando quelli che Anderson definisce «i costi della ricerca: soldi, tempo perso, fastidio, direzioni errate, confusione». Costi che però hanno prodotto benefici odierni: oggi so cosa cercare e dove cercarlo. Eravamo alfieri inconsapevoli di quel “marketing virale” iniziato con lo scambio di nastri, proseguito poi coni cd masterizzati e conclusosi con intere collezioni di mp3 scaricate da Soulseek che ci facevano somigliare sempre più pericolosamente a una massa di accumulatori seriali. Tra i costi della ricerca c’erano anche le riviste specializzate: Blow Up, Rumore, Mucchio Selvaggio, Rockerilla, sulle quali ho letto le storie dei musicisti che adoravo e come quelle storie si legassero in maniera indissolubile alle condizioni ambientali e sociali che le avevano prodotte. Ho letto migliaia di recensioni che guidavano per la maggior parte all’acquisto di album bellissimi e ogni tanto regalavano qualche dispiacere. Non mi è mai bastato ascoltare la musica, il suono, volevo anche sapere che cosa e quali condizioni lo avevano generato. Questo sono io. Questa è la mia storia di appassionato di musica cresciuto negli anni 80.

Ma un giovane di oggi, un nativo digitale, come affronta il “prodotto” musica? Come lo fruisce e in quale modo la musica entra a far parte del suo personalissimo mondo, e con quali strumenti affronta questo viaggio? Mi sono fatto raccontare da un ragazzo di 25 anni, l’età che si pone proprio a cavallo di quella fascia 18-34 considerata il maggiore bacino di utenza della discografia internazionale, qual è il suo rapporto con la musica, cosa ascolta, come e per quale motivo. Di fronte alle sue risposte non mi sono sentito così alieno come pensavo. La prima cosa che ho riscontrato è che lui non considera la musica un prodotto da comprare in senso stretto. La musica è ovviamente parte integrante della sua vita: ne ascolta tantissima su Alexa mentre lavora, ma anche con gli earpods dallo smartphone – dove guarda anche film e serie tv. Ha un abbonamento da 4,99 euro al mese a Spotify e gli unici due cd che ha comprato in vita sua li ha acquistati alla presentazione di un disco di un artista che apprezzava molto e li conserva solo perché se li è fatti autografare. Quegli oggetti sono diventati in questo modo unici e irripetibili, ma soprattutto da fotografare per metterli su Instagram e “fare tendenza”, come dice lui. La musica è un prodotto che deve essere gratuito o quasi e la sua fruizione prescinde totalmente dall’aspetto sonoro qualitativo di cui gli interessa poco. L’importante è che ci sia, che esca da un dispositivo bluetooth, dalle casse del telefonino o dalle casse del parcheggio del supermercato, mi spiega. Il suo mondo è un mondo in cui, senza troppe domande, semplicemente ci si bombarda di input e dove l’approfondimento e lo studio vengono visti con disinteresse.

Tutto si mescola in un gigantesco cloud in cui sono contenuti interessi, desideri, musica, cinema, serie tv, giochi e rapporti con gli altri esseri umani gestiti attraverso i social, strumento ormai centrale anche nel conoscere e conoscersi. “Ti piace la trap?”, gli chiedo. “Sì”, mi risponde, specificando però che della Dark Polo Gang, uno dei gruppi trap romani più indisciplinati e dalla scarsa passione valoriale, gli interessano i suoni elettronici e soprattutto il modo in cui le parole stanno insieme, come in un calembour dialettico, per riderci su. E poco importa se si parla di “fica, macchine, orologi, droga” e che alcuni di quei tipi siano poi finiti realmente nei guai con la legge. “Interessante”, penso. In realtà la sua è una struttura di ricezione degli input su più livelli. “So distinguere. Lì (con la Dark Polo Gang, ndr) mi interessava l’immagine, le scarpe e i vestiti e molto poco i contenuti. Invece ascoltando “Coraline” dei Maneskin, uno dei miei gruppi preferiti, la profondità del testo mi ha colpito. L’avrò ascoltata un milione di volte. Sai quando un testo si rivolge direttamente a te?”. “Capirai”, gli ho detto io, “con Somebody dei Depeche Mode ci ho costruito uno stile di vita, figurati”. Ecco quindi il trait d’union tra me e lui. Le canzoni e la musica hanno ancora il potere di cambiare la testa e i pensieri di chi le ascolta. L’attitudine dell’utente giovane, se non giovanissimo, è quella di pensare che ogni cosa che si trova in rete sia “gratuita” o a costo bassissimo senza minimamente chiedersi come questo sia possibile e a quale prezzo. Nella realtà la musica ha un costo di produzione che, in estrema sintesi, comprende una serie di passaggi che vanno dalla scrittura alla stampa dell’album. Tutto ciò che è diritto d’autore, in questo mondo di mezzo in cui i principali operatori online si sono mossi in netta contrapposizione alle regole del mercato classico, ha fatto sì che gli stessi utenti diventassero ignari delle semplici regole di sfruttamento e condivisione del prodotto artistico. Tutto sulla rete si è mosso per anni sempre al confine tra legalità e illegalità, in assenza di regole chiare e precise sulla gestione del copyright. È colpa dell’utente e della sua naturale attitudine alla pirateria, quindi, o c’è di più? In questo deserto di regole, i grandi gestori della rete, per esempio, si sono arricchiti fino a diventare le più potenti multinazionali del pianeta, che da un lato coccolano algoritmicamente i loro clienti, proponendo offerte sempre più in linea con le loro aspettative digitali, dall’altro fanno a pezzi le più elementari regole di concorrenza. Gli artisti vengono pagati pochi centesimi per ogni stream e la musica, considerata esclusivamente come prodotto, rientra nel grande calderone del mercato e trattata come tale. Ma la musica è arte e non solo prodotto di consumo. Dobbiamo osservare il presente per tentare di tracciare una linea che conduca anche al futuro, sempre se esisterà ancora un futuro per la produzione musicale.

Partiamo dai risultati più facilmente analizzabili. Se osserviamo le classifiche italiane di vendita, ci accorgiamo come negli ultimi dieci anni la musica italiana abbia sbancato la concorrenza estera. Una cosa mai vista in sessanta anni. Addirittura, nel 2021, nove dei dieci artisti nelle prime posizioni erano italiani: musica prodotta in Italia cantata in italiano per un pubblico italiano. Mi sono chiesto se i social, che danno ormai forma al 100% dei nuovi comportamenti in un pericoloso andirivieni sinusoidale tra realtà e mondo virtuale, non fossero uno dei motivi di questa nuova “autarchia” artistica. Mi muovo in un territorio inesplorato con una piccola lanterna e provo a darmi delle risposte. Una di queste strade finisce per portarmi al cospetto dell’algoritmo, questa creatura mostruosa che fa capolino ovunque ogni volta che si accende il computer: cookies, note, promozioni, annunci, reminders e pubblicità. L’algoritmo che guida ogni singola scelta, ogni piccolo movimento, ogni desiderio di beni-materiali e non-, accuratamente catalogati in enormi database che diventano poi il vero tesoro sepolto delle grandi multinazionali dell’e-commerce: Amazon, Google, Yahoo, Meta (Facebook + Instagram), Tik-Tok. Tutte sono a caccia dell’utente come prodotto. È questa, a ben vedere, l’ultima favolosa diavoleria capitalistica per cui «se un servizio è gratuito, molto probabilmente il prodotto in vendita sei tu». Come funziona? Semplicemente analizzando ogni cosa digitata, detta al telefono o comunicata con il nostro IP in modo da, senza scomodare gli spauracchi orwelliani, avere sempre un quadro molto preciso di come e per che cosa spenderemo i nostri soldi. Tutto qui. Di una semplicità tanto lampante quanto deprimente. La società dello spettacolo debordiana ha fatto il suo ulteriore passo mettendo lo spettatore in vendita al centro dello spettacolo. Sembra quindi evidente che anche la musica, in quanto prodotto, segua i “suggerimenti” dell’algoritmo. Basta premere play su una traccia di Spotify per cui automaticamente ci si trova proiettati in un “metaverso controllato” in cui le ricerche non sono più necessarie. Hai ascoltato un brano anni 80? Magari proprio del 1984? Te ne propongo un altro e poi un altro ancora sempre dello stesso anno. Stesse sonorità, stesso periodo storico, creando collegamenti razionali e con poca fantasia.

Se penso al romanticismo delle playlist che, con grande dispendio di tempo e passione, si facevano su nastro o su cd, come racconta magnificamente Nick Hornby in Alta fedeltà, mi viene un po’ da piangere. E il mio giovane amico di cui raccontavo poc’anzi? Magari ascoltando un brano di trap sul suo telefono con Spotify in cerca di altri brani della sua virtuale compilation, avrà fatto un giro apparentemente senza fine in un mondo invece chiuso, in cui la playlist trap del momento, scelta dall’algoritmo stesso, la fa da padrone. Un ascolto passivo, ignaro, in cui si pensa di navigare a vista usando la propria libera scelta e invece l’unica libertà rimasta è quella di stoppare questo flusso in repeat di generi e brani uno uguale all’altro. Questo oggi risulta essere il grande tema: la libertà di scegliere e soprattutto di perdersi nella ricerca stessa senza approdare necessariamente in qualche luogo. Quello che ci propone la rete come utenti, in buona sostanza, è il mondo perfetto, in cui ogni desiderio viene esaudito senza spazio per l’errore, la deviazione, la scoperta casuale.

Gli utenti finiscono quindi in due gigantesche macro-categorie: utenti consapevoli e utenti ignari. Badate bene: la questione è molto liquida e ogni utente, a seconda del tema in gioco, può passare da una parte all’altra senza nemmeno rendersene conto, con buona pace dei grandi gestori digitali. E così è cambiato completamente anche il ruolo dell’artista che è utente e produttore di contenuti. Se tutto quello che può veicolare ad un pubblico passa, per un buon 90%, attraverso i social, dovrà modificare completamente il suo modo di comunicare immergendosi in prima persona nel contatto col pubblico. Per molti artisti questo è diventato un secondo lavoro da affiancare a quello della scrittura e della composizione. Per altri artisti, quelli che si sono fatti prendere la mano, è diventata invece la parte centrale. Tutti i giorni un post, una foto, un video per promuovere un brano all’anno. Gli artisti sono cambiati quindi. E la musica? Venderà di più affidandosi a complicate operazioni di marketing come il Donda Stem Player di Kanye West? 200 dollari per un aggeggio che permette all’utente di comporre il proprio remix dell’album Donda, abbattendo di fatto l’ultima barriera tra artista e pubblico. Oppure tornerà di nuovo indietro ad un sistema più classico? Cosa dovranno ancora inventarsi gli artisti per vendere un prodotto dall’ormai scarso appeal commerciale? Quali invenzioni tecnologiche li aiuteranno a portare a casa la sudata pagnotta? È vero che le piattaforme di diffusione si sono moltiplicate, vedi Bandcamp, in cui gli artisti incassano dalle vendite quasi l’85% del valore dell’opera. Ma quale possibilità esiste di far conoscere i propri prodotti per gli artisti medi o piccoli, indipendenti, che pubblicano su queste piattaforme? Non saranno irrimediabilmente relegati in fondo alla benedetta coda lunga e fuori dalle grazie dell’algoritmo? Tutte queste domande non hanno ancora una risposta.

La musica però è viva e vegeta, su questo non ci piove, e ogni anno vengono ancora prodotti album bellissimi da artisti di talento sparsi ai quattro angoli del globo. Soprattutto i sincretismi tra musiche del passato, del presente e del futuro sembrano inarrestabili e avere una formazione culturale aperta e curiosa mai è stato possibile come in questo periodo. Un continuo gioco di colori, sapori e scoperte verosimilmente senza fine. Bisogna solo accontentarsi di guadagnare pochissimo o zero e di mettere nella propria personale vetrina tutto ciò che si è prodotto sperando che qualcuno, prima o poi, se ne accorga. Avremo al nostro fianco tutti i mezzi di marketing e comunicazione possibili. Migliaia di podcast e tutorial che spiegano “come aprire una etichetta online”, “come far girare il proprio video sulle principali piattaforme”, “cos’è il marketing virale per una sola canzone” e “come decuplicare gli ascolti su Spotify”. Ce n’è per tutti i gusti. Tutti gli addetti ai lavori del settore stanno cercando di capire come uscire da questo ginepraio, mentre gli anni della pandemia hanno abbattuto le speranze di alcuni per aprire inaspettate possibilità ad altri. “Ogni artista è padrone di sé stesso”, ripetono come un mantra le fanfare dell’informazione globale in questa gara al meglio. Una competizione senza fine in cui si è annebbiata l’idea del bello, dell’emozione, della profondità. E se un artista fosse molto bravo e talentuoso in tutto tranne che nella comunicazione in un mondo in cui solo il “comunicare bene” ha veramente valore? In quale categoria lo si potrebbe o dovrebbe mettere? Dov’è finita la possibilità di investire in progetti che, pur sembrando ostici o sperimentali, possono portare a grandi successi commerciali? Davvero è tutto nelle mani degli artisti?

Da artista confermo che non è affatto così. Per far uscire un prodotto non si può affatto prescindere dai classici media promozionali: un minimo di ufficio stampa, una agenzia di promotion, un booking per i concerti ecc.  In una parola: costi. Il resto sono pure invenzioni. Che poi uno sia bravissimo a comunicare alla sua bolla di utenti/fan quanti panini mangia al giorno o il nome di sua nonna, credo non sposti di fatto di un millimetro la questione per cui se la musica che fa è inascoltabile, anche dopo un giro sui suoi social, lo sarà comunque. Aggiungerei che tutta questa nuova ossessione per il marketing e la comunicazione digitale, di qualunque cosa si tratti, non potrà mai sostituire la qualità, la bellezza e la profondità di un grande album o di una musica sublime. Ogni decade, incluse le ultime due, ha prodotto almeno un’opera musicale che ha saputo rappresentare lo spirito di un’epoca, spostando sempre più in alto l’asticella e ponendosi come punto di riferimento per tutto ciò che è venuto in seguito. Album come Thriller di Michael Jackson, Nevermind dei Nirvana, Kid A dei Radiohead e To Pimp a Butterfly di Kendrick Lamar stanno lì a dimostrarlo. Una lista assolutamente soggettiva e ampiamente modificabile, figlia del pensiero per cui ogni periodo storico traduce in suono tutte le proprie dinamiche e le relative contraddizioni. E queste opere insieme ad altri bellissimi lavori sono uscite per delle major, hanno raccolto consensi e hanno fatto emozionare milioni di ascoltatori.

Alcuni artisti, anche grandissimi, usano molto poco i social e producono album di bellezza siderale. Che poi escano su Bandcamp, in esclusiva su Amazon, solo su YouTube, su Deezer, su Spotify, poco importa. Facendo un salto temporale all’indietro, all’anno 1973, quando tutto quello di cui abbiamo detto era pura fantascienza, usciva The dark side of the moon dei Pink Floyd. Questo album è stato tutte queste cose contemporaneamente: è stato uno degli album più venduti della storia e allo stesso tempo uno dei più grandiosi esperimenti sonori in cui avanguardia, pop, rock, psichedelia, tecnica del cut & paste e profondità dei testi si uniscono in una potentissima ed amara riflessione sui lati oscuri dell’umanità. Disco che anche al centesimo ascolto rinnova la sua magia e lascia basiti. Oggi, un album come quello semplicemente non sarebbe più possibile perché ha bisogno di un ascolto continuo e di una attenzione profonda. Verrebbe gettato via nel giro di una settimana e avanti il prossimo. Così The dark side of the moon, esempio tra tutti gli esempi possibili, pur rimanendo icona del passato, nel suo essere monolite immutabile di infinite possibilità, diventa anche testimonianza di una qualità recuperabile, di un sentiero poco battuto ma meravigliosamente profumato, di tutto ciò che abbiamo perso e potremmo recuperare in questo gigantesco frullatore digitale.

L’autore: Riccardo Bertini è scrittore, compositore, songwriter e producer. Ha realizzato diverse colonne sonore per film, documentari e spettacoli teatrali

Per approfondire leggi Left di marzo