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«Dall’Ucraina al Brasile, le donne in prima linea per la giustizia sociale». Parla la reporter Patricia Simon

Malaga (Spagna) – Patricia Simon, reporter di guerra in zone sensibili e di conflitto, ha alle spalle vent’anni di lavoro e di inchiesta, in Colombia, in Iraq, in Ucraina. Si occupa da sempre di diritti umani ed è in prima linea nella battaglia culturale ecofemminista. Scrittrice e docente universitaria, nel 2022 ha scritto due libri per riflettere sul tema della paura indotta dal potere contro le frange sociali più marginalizzate, come i migranti e i poveri. Importanti in questo ultimo anno le sue cronache dall’Ucraina, dove è stata fin dall’inizio da quel terribile 24 febbraio dell’anno scorso. Incontrandola a Malaga sono partita da qui:

Patricia, da giornalista attenta ai diritti umani cosa pensi del ruolo che ha svolto il giornalismo in Ucraina e su altri teatri di guerra? 
Ritengo che mai come ora ci sia stato un giornalismo di così alto livello, impegnato sui temi dei diritti umani e del femminismo. Di contro abbiamo la macchina multimilionaria che ha in mano i grandi media e soprattutto la televisione, qui della Spagna, per esempio, abbiamo Telecinco di proprietà di Berlusconi. Sono modelli mediatici di spettacolarizzazione, sensazionalismo e banalizzazione di ogni cosa che sono stati presi come punto di riferimento anche da altre televisioni soprattutto private. Ma nonostante questo, va detto, possiamo contare su un giornalismo rigoroso, indipendente con un taglio come dire “olistico”, che si contrappone a questa televisione che produce solo ignoranza e risentimento. Purtroppo le persone fruiscono da anni di questo materiale tossico che le induce a odiare chi migra, la gente povera, prendendosela in particolare con le donne. Insomma da una parte abbiamo  un buon giornalismo, ma dall’altra abbiamo anche un’industria della disinformazione molto potente.

Nell’epoca di internet e dei social il giornalismo di qualità è un baluardo contro le  le fake news? Come possiamo trovare e ricercare la verità dei fatti, nell’infinità quantità di notizie vere e false che circolano sul web?
I social  tante volte ci hanno fornito materiale di prima mano, ad esempio ci hanno permesso di sapere cosa accadeva con la Primavera araba. Al contempo gli algoritmi hanno iniziato a polarizzare le notizie  virando sul sensazionalismo. Con il passare degli anni, sempre più, gli algoritmi rendono invisibili le informazioni, le notizie, le voci fuori dal coro, le fonti diverse, questo viene penalizzato e oscurato nella rete. Viviamo nei social  e sono una sorta di cassa di risonanza, che riafferma ciò che già pensiamo, perché costa molto ascoltare chi la pensa in maniera diversa da noi. Se non siamo capaci di confrontarci con la pluralità di idee e di opinioni stiamo in qualche modo rinunciando ad uno spazio sociale e comune che è precisamente il luogo democratico. L’estrema destra ha iniziato a investire molto denaro sui social, così da sovrastare le voci e le posizioni progressiste. Per questo inizio a pensare che internet abbia più controindicazioni che vantaggi, che dovremmo  limitare il tempo che passiamo in questi spazi virtuali che rischiano di affievolire la nostra capacità di attenzione, la nostra memoria e la nostra calma emotiva e che in certo modo generano dipendenza.

Patricia Simón

Patricia tu hai scritto vari libri, partiamo dalle due ultime pubblicazioni, edite nel 2022, da Miedo. E in particolare da Paura, viaggio in un mondo che resiste all’odio che lo governa. Raccontaci di questo lavoro.
È una indagine sulla paura, una radiografia, di come questa emozione venga strumentalizzata dal potere e dalla classe politica per generare odio contro la classe più povera e le persone migranti, ci manipolano attraverso la paura e indeboliscono la democrazia. In venti anni di cronaca giornalistica rifletto sulla paura, chi ha generato in noi questo stato d’animo negativo, chi ci lucra, come opera questo sentimento che ci viene indotto. Lo narro attraverso attivisti dei diritti umani che ho conosciuto nel tempo, vorrei che tutti potessero conoscere questi uomini e donne di valore. Non è un libro pessimista, nasce proprio per rompere questa tendenza al negativo che viviamo.

Troppo spesso i difensori dei diritti umani vengono uccisi per le loro battaglie e rivendicazioni, pensiamo a tanti casi emblematici e drammatici da Marielle Franco a Berta Caceres, che ne pensi?
Penso che chi combatte oggi nel sociale contro l’estrema destra e contro le multinazionali, siano perlopiù donne.  Le più impegnate sono soprattutto donne, perché sono quelle più organizzate, che ci mettono più passione. Ma troppo spesso chi lotta per la vita umana, per l’ambiente, come faceva coraggiosamente Berta Cáceres, viene eliminata.

Un altro tuo libro è dedicato all’Ucraina invasa da Putin. Sei stata inviata a Kiev, cosa pensi di questa guerra, e riprendendo il titolo del tuo lavoro, cosa cambia, cosa distrugge la guerra?
Questa guerra è molto complessa. Ho molto chiaro che la vittima è l’Ucraina, il Paese che è stato invaso e viene ad oggi attaccato e che la Russia sta commettendo crimini contro l’umanità. Questo è ingiustificabile è inaccettabile  la sofferenza che sta generando, violenze, massacri. Vedo anche una mancanza di lavoro diplomatico e di tessitura per ottenere la pace da parte dei Paesi dell’Unione Europea e della Nato che oramai aderisce totalmente alle decisioni degli Stati Uniti. Sappiamo che Putin è un criminale di guerra da anni, lo abbiamo visto in azione in Siria, vediamo come si comporta il gruppo paramilitare Wagner. All’Ucraina non imputo nulla perché ritengo che in quanto vittima utilizzi giustamente ogni mezzo, propaganda compresa, per difendere la  popolazione civile che viene massacrata.

Tu  chiami l’Europa alle sue responsabilità, a un ruolo da protagonista nella costruzione della pace, che fin qui non ha esercitato con determinazione?
L’Europa deve fare pressione lavorare per una soluzione diplomatica e per arrivare ad accordi di pace abbandonando un rigido discorso atlantista che ci espone al pericolo perché la Russia che è una super potenza nucleare molto più vicina a noi geograficamente di quanto lo siano gli Stati Uniti. La guerra distrugge tutto. Ci getta in una dimensione di paura che l’umanità si estingua. L’ho visto già la prima settimana che sono stata a Kiev, ho visto il terrore, la paranoia della gente, che comincia a pensare che tutti possono essere nemici, ho visto l’egoismo e la lotta di sopravvivenza, nel cercare cibo, acqua. Ho visto il dolore profondo perché si è costretti ad abbandonare le proprie case, il proprio territorio, e la violenza psicologica che la guerra genera, quando uccidono tuo figlio o tuo marito, ti violentano di fronte a tuo figlio, e tutto questo si trasforma in odio. E questo non lo riesci a perdonare, anche se sai che in Russia c’è una parte della popolazione che non è in accordo con questo conflitto bellico e con Putin. La guerra è sicuramente la cosa peggiore che possa accadere. Come giornalisti non dobbiamo raccontarla come un videogioco perché
parliamo di persone che muoiono di freddo e di fame e che vorrebbero solo tornare a casa dai loro figli e dobbiamo altresì raccontare le vere eroine di questa guerra che sono le donne, che danno da mangiare quando non c’è il cibo, che riscaldano quando c’è solo freddo, e continuano a dare la vita, quando tutto intorno a te è morte.

Un’ultima domanda, Patricia, tu ti dichiari femminista, precisamente ecofemminista, in una sola parola come definiresti il femminismo e come innerva il tuo lavoro?
Il femminismo in una sola parola per me è uguaglianza. Ho la fortuna di lavorare in maniera autonoma, indipendente, anche qui dalla mia casa a Malaga. Dobbiamo amare la vita, abbiamo il diritto a vivere al meglio, a proteggere il nostro ambiente, la madre terra. Spesso come giornalisti dobbiamo assumerci la responsabilità di raccontare il lato brutto, drammatico, di quel che sta accadendo nel mondo, ma non dobbiamo smettere di raccontare anche ciò che di buono e di bello nei rapporti umani, nonostante tutto. Non dobbiamo accettare che le vittime siano vittime perché pagano l’ingiustizia che passa nella nostra società. Dobbiamo opporci e insieme rivendicare la gioia di vivere, di stare bene in questo mondo fatto di persone.

Signori, ecco cos’è “a casa loro”. Lo scrive l’Onu

L’Onu esprime «profonda preoccupazione per il deterioramento della situazione dei diritti umani in Libia», e spiega che «vi sono motivi per ritenere che sia stata commessa un’ampia gamma di crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi dalle forze di sicurezza dello Stato e da gruppi di milizie armate». Così parla il rapporto pubblicato ieri dal Consiglio per i Diritti umani delle Nazioni Unite, una inchiesta che delinea «un ampio sforzo delle autorità per reprimere il dissenso della società civile» e che ha documentato «numerosi casi di detenzione arbitraria, omicidio, stupro, riduzione in schiavitù, esecuzioni extragiudiziali e sparizioni forzate, e ha affermato che quasi tutti i sopravvissuti intervistati si sono astenuti dallo sporgere denuncia ufficiale. Paura di rappresaglie, arresti, estorsioni e sfiducia nel sistema giudiziario».

Secondo l’Onu i migranti, in particolare, sono stati presi di mira e ci sono prove schiaccianti che siano stati sistematicamente torturati. Il rapporto afferma che vi sono ragionevoli motivi per ritenere che la schiavitù sessuale, un crimine contro l’umanità, sia stata commessa contro i migranti. «C’è un urgente bisogno di responsabilità per porre fine a questa pervasiva impunità», ha affermato Mohamed Auajjar, presidente della missione Onu per la Libia. «Chiediamo alle autorità libiche di sviluppare senza indugio un piano d’azione per i diritti umani e una tabella di marcia completa incentrata sulle vittime sulla giustizia di transizione e di ritenere responsabili tutti i responsabili delle violazioni dei diritti umani». Il governo libico è obbligato a indagare sulle accuse di violazioni dei diritti umani e crimini nelle aree sotto il suo controllo in conformità con gli standard internazionali. Ma «le pratiche e i modelli di gravi violazioni continuano senza sosta, e ci sono poche prove che siano stati compiuti passi significativi per invertire questa preoccupante traiettoria e portare ricorso alle vittime», afferma il rapporto.

Il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha istituito la missione nel giugno 2020 per indagare sulle violazioni e gli abusi dei diritti umani da parte di tutte le parti dall’inizio del 2016, al fine di prevenire un ulteriore deterioramento della situazione dei diritti umani e garantire la responsabilità. Da allora, la Independent fact-finding mission on Libya (Ffm) ha intrapreso 13 missioni, condotto più di 400 interviste e raccolto più di 2.800 informazioni, comprese immagini fotografiche e audiovisive. Secondo il rapporto finale la situazione dei diritti umani in Libia, lungi dal migliorare, «si sta deteriorando, stanno emergendo autorità statali parallele e le riforme legislative, esecutive e del settore della sicurezza necessarie per sostenere lo stato di diritto e unificare il Paese sono lungi dall’essere realizzate». In questo contesto polarizzante, «i gruppi armati che sono stati implicati in accuse di tortura, detenzione arbitraria, tratta e violenza sessuale rimangono irresponsabili».

Le indagini hanno rilevato che le autorità libiche stanno riducendo i diritti di riunione, associazione, espressione e credo per garantire l’obbedienza e punire le critiche contro le autorità e la loro leadership. «Gli attacchi contro, tra l’altro, difensori dei diritti umani, attiviste per i diritti delle donne, giornalisti e associazioni della società civile hanno creato un’atmosfera di paura che ha spinto le persone all’autocensura, alla clandestinità o all’esilio in un momento in cui è necessario creare un’atmosfera che sia favorevole a elezioni libere ed eque affinché i libici esercitino il loro diritto all’autodeterminazione e scelgano un governo rappresentativo per governare il Paese», afferma il rapporto.

Il rapporto spiega che la tratta, la riduzione in schiavitù, il lavoro forzato, la detenzione, l’estorsione e il traffico di migranti vulnerabili hanno generato entrate significative per individui, gruppi e istituzioni statali e hanno incentivato la continuazione delle violazioni. Ci sono ragionevoli motivi per ritenere che i migranti siano stati ridotti in schiavitù in centri di detenzione ufficiali così come in “prigioni segrete” e che lo stupro sia stato commesso come crimine contro l’umanità. Nel contesto della detenzione, le autorità statali e le entità affiliate – tra cui l’Apparato di deterrenza della Libia per la lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo (Dacot), le Forze armate arabe libiche (Laaf), l’Agenzia per la sicurezza interna (Isa) e l’Apparato di supporto alla stabilità (Ssa) e la loro leadership – sono stati ripetutamente trovati coinvolti in violazioni e abusi.

I detenuti sono stati regolarmente sottoposti a tortura, isolamento, detenzione in isolamento e negato un adeguato accesso ad acqua, cibo, servizi igienici, luce, esercizio fisico, cure mediche, consulenza legale e comunicazione con i familiari. La missione ha invitato il Consiglio per i diritti umani a istituire un meccanismo di indagine internazionale indipendente dotato di risorse sufficienti e ha esortato l’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr) a istituire un meccanismo distinto e autonomo con un mandato permanente per monitorare e riferire in merito gravi violazioni dei diritti umani «al fine di sostenere gli sforzi di riconciliazione libici e assistere le autorità libiche nel raggiungimento della giustizia e della responsabilità di transizione».

E la cosiddetta Guardia costiera libica? «Il sostegno fornito dall’Ue alla Guardia costiera libica in termini di allontanamenti, respingimenti e intercettazioni ha portato a violazioni di alcuni diritti umani», ha dichiarato uno degli investigatori incaricati dal Consiglio per i diritti umani sotto l’egida dell’Onu, Chaloka Beyani. «Non si possono respingere le persone in aree non sicure, e le acque libiche non sono sicure per l’imbarco dei migranti», ha proseguito, precisando che l’Ue e i suoi Stati membri non sono stati ritenuti responsabili di crimini, ma «il sostegno fornito ha aiutato e favorito la commissione dei crimini» stessi.

Vergognatevi.

Buon martedì.

Mininni (Flai Cgil): I problemi strutturali del lavoro agricolo non si risolvono solo con il decreto flussi

Lotta al caporalato e allo sfruttamento, miglioramento del condizioni di lavoro nei campi, a che punto siamo? Lo abbiamo chiesto al segretario della Flai Cgil Giovanni Mininni (da poco riconfermato con percentuali “bulgare”) che stigmatizza i nuovi provvedimenti securitari del governo Meloni riguardo all’immigrazione ma apre sul decreto flussi: «Apprezziamo la volontà di tornare ad un piano triennale di programmazione degli ingressi (2023/2025), fatto che non avveniva da molto tempo anche se dovrebbe costituire la prassi di un approccio sistemico».

Segretario Mininni, ci aiuti a fare un quadro, cosa sta cambiando nel mondo del lavoro agricolo?
Il mondo agricolo cambia in continuazione. Rispetto al precedente congresso Flai Cgil attorno ad alcune battaglie come quelle contro caporalato e sfruttamento registriamo miglioramenti. C’è maggiore consapevolezza fra chi lavora e aumentano le imprese più attente a non ricorrere ai caporali. L’irregolarità resta alta ma viene maggiormente attenzionata da forze dell’ordine e ispettorato del lavoro. Gli ispettori sono aumentati col precedente governo, hanno fatto formazione e ora dovrebbero essere operative alcune centinaia. Ancora pochi rispetto al numero delle aziende. Di recente è partito un Programma di azione dell’ispettorato del lavoro che mette al primo punto le condizioni di sfruttamento che sono presenti non solo in agricoltura, dovute al modello economico che si è affermato.

Con il Decreto Cutro il governo prova a legiferare sul tema abusato dell’immigrazione. Trovate qualche novità di rilievo?
Purtroppo c’è da registrare la stessa impostazione di sempre. Neanche la strage di Cutro è servita a dare almeno un moto di umanità. La sola notizia positiva degna di nota è nella volontà di tornare ad un piano triennale di programmazione degli ingressi (2023/2025), fatto che non avveniva da molto tempo anche se dovrebbe costituire la prassi di un approccio sistemico. Sembra di scorgere la volontà di pianificare e di non agire sempre sulla base di emergenze. Però ci sono elementi poco chiari nelle nuove normative. Ad esempio si riconoscono quote di ingressi maggiori per i Paesi che promuovono campagne mediatiche con l’obiettivo di scoraggiare le partenze. E qui ci trovo un’assurdità ripresa anche dal Presidente del Consiglio.

Vale a dire?
La premier dice che si tratta di far conoscere i rischi che si corrono a partire ma di far comprendere a chi emigra in Italia che questa è una scelta sbagliata, che debbono restare a casa. Come se chi parte decidesse, da un momento all’altro di venirsi a fare una gita per vedere il Colosseo o per fare turismo. Non servono geni per capire che chi parte è spesso costretto a farlo per guerre, per crisi economiche, catastrofi ambientali, povertà senza prospettive di sviluppo. Ci leggo la volontà di far percepire la scelta di abbandonare il proprio Paese come una colpa capovolgendo la realtà. Anche fra chi rientra nei “decreti flussi” poi si scontra col fatto che i datori di lavoro spesso non sottoscrivono i contratti promessi. Col risultato che i lavoratori finiscono a lavorare al nero e nei ghetti. Noi le proposte per impedire che questo accada le abbiamo. Ma questo, come i precedenti governi, ha emanato i decreti senza prima cercare nessun confronto con le parti sindacali. Col precedente governo, grazie al ministro Orlando, qualche timido segnale era giunto legato al fatto che il dicastero che ricopriva si occupava di politiche sociali. Ma si è tornati al fatto che l’approccio è unicamente securitario, che l’interlocutore è un “ministero di polizia” e che il tema è la lotta, con nuovi strumenti alla “clandestinità” e la deroga per aprire nuovi centri permanenti per i rimpatri. Il loro approccio è questo.

Che cosa sta cambiando con la maggiore automazione del lavoro nei campi. penalizza i lavoratori o li solleva della maggiori fatiche, quelle più usuranti?Aumentano gli interventi di modernizzazione nella raccolta persino nelle campagne foggiane e di tutto il Meridione. Le macchine, per ora solo leggermente, fanno diminuire la necessità di manodopera soprattutto nelle grandi raccolte. Ma il progresso tecnologico non cancella il caporalato. In Emilia-Romagna c’è un “polo del pomodoro”, che è meccanizzato da anni, utilizza meno lavoratori rispetto al Sud dove prevale la raccolta manuale, ma questo non risolve lo sfruttamento. Parlo ovviamente di industria agricola in cui i prodotti vengono trattati, ci sono realtà di agricoltura 4.0 in poche aziende e questo mette ancora più in evidenza l’arretratezza di altre realtà. Secondo i dati dell’ultimo censimento c’è una crescita dimensionale delle aziende e una concentrazione inedita rispetto al passato che potrebbe tradursi, con l’avvento della digitalizzazione, in un’importante diminuzione della forza lavoro necessaria che ancora oggi non appare in maniera completa e significativa. Ci sono ancora poche aziende strutturate nelle quali l’avvento della digitalizzazione ha prodotto diminuzione di manodopera ma che necessariamente è più qualificata. Come sindacato dobbiamo lavorare nella formazione ma anche alla necessità difendere l’occupazione. C’è il rischio dell’espulsione di vecchi lavoratori in cambio dell’assunzione di nativi digitali. Il nostro è stato finora un processo lento. Arriva la meccanizzazione quando negli altri settori la digitalizzazione è già il presente.

Che impatto avrà l’impiego dell’intelligenza artificiale?
Fra una rivoluzione industriale e la successiva ora passa sempre meno tempo, a breve vedremo gli effetti di quella legata all’intelligenza artificiale su cui poche imprese stanno investendo. Il settore più interessante e avanzato nei nostri ambiti è quello vinicolo. Ci sono aziende che investono sui filari gestiti dai computer che per anni raccolgono informazioni sui microclimi, sui colori del vino da ottenere e sul grado zuccherino preferito. Arriveremo presto al fatto che sarà il computer a sostituire l’agronomo, decidendo ora e giorno migliore per la raccolta, potendo elaborare milioni di dati. I piccoli robot cingolati che girano fra i filari imporranno una redistribuzione del lavoro con una settimana corta. A questo dobbiamo prepararci.

Si ha l’impressione che la politica, come il mondo dell’informazione non si rendano conto appieno dell’importanza fondamentale che riveste per il Paese il vostro settore. È così?
Sì ed è per certi versi incredibile. Con la guerra è partita una speculazione enorme sul grano. Noi siamo autosufficienti per quanto riguarda quello duro, importiamo solo quello morbido ma la liberalizzazione ha permesso di aumentare i prezzi quasi senza reazione. Accade perché secondo me non si comprende l’importanza e il valore dell’industria alimentare in Italia che divenuta la seconda manifatturiera dopo la metalmeccanica. Nel 2022 c’è stato un fatturato di oltre 180 mld di euro. Il cibo produce ricchezza che, secondo la Federalimentare è cresciuta in valore del 14%, questo si traduce in occupazione e parliamo di industria non di agricoltura. Il cibo che si produce muove il mondo.

Al vostro congresso il ministro Lollobrigida ha posto al centro della politica la sovranità alimentare. Come leggete questa espressione?
Se il senso diventa quello della “via campesina” siamo d’accordo. Si traduce nell’accesso al cibo buono e di qualità, nella scelta di garantire soprattutto con l’aumento della povertà. C’è la necessità di contrastare la massificazione della qualità. McDonald’s e altre multinazionali vendono cibo a tutto il mondo uniformando i gusti e abbassandone la qualità. Invece l’Italia è un esempio di varietà di prodotti e le aziende devono garantire una loro molteplicità che risponda alle biodiversità presenti in agricoltura. Recentemente si è cominciato a fare il pane solo col grano tenero perché ha maggior resa. Eppure eravamo il Paese che vantava 700 tipi di grano mentre ora ne restano fondamentalmente una decina. Mi sembra giusto che ogni Paese decida la qualità che vuole mantenere e in tal senso potremmo anche intendere la sovranità come difesa del cibo italiano. Ma questo dal nostro punto di vista va coniugato con la sicurezza e la certezza che questa qualità sia accessibile a tutti, non solo ai ricchi. Quindi ci stiamo alla sfida di produrre cibo sano e giusto che non provenga dallo sfruttamento dei lavoratori.

Intanto anche per chi in agricoltura lavora in regola, la condizione salariale è fra le peggiori d’Europa. Cosa propone come Flai Cgil?
Il tema dei contratti si è esasperato negli ultimi 2 anni a causa anche dell’inflazione. L’anno scorso il rinnovo ha permesso un aumento del 4,2% a fronte di un inflazione dichiarata del 12%, la più alta d’Europa. Sarà difficile avere un rinnovo perché dovremmo avanzare la richiesta di una redistribuzione della ricchezza prodotta. Molte imprese hanno trovato il modo per mettere al riparo i profitti dall’inflazione. I governi che si sono succeduti hanno aiutato più le imprese che i lavoratori. Siamo titolati a chiedere la redistribuzione della ricchezza prodotta non solo perché deve proteggere il potere d’acquisto ma lo faccia crescere. Il salario poi è definito in base a contratti provinciali. Col risultato che in molte aree del Paese chi lavora in agricoltura è sotto la soglia di povertà. I salari devono crescere ovunque più dell’inflazione reale. Per questo serve con urgenza una vera riforma fiscale che permetta questa redistribuzione intervenendo a favore della classe lavoratrice. Gli interventi fatti finora sono stati insufficienti: sul cuneo fiscale si doveva tagliare di 5 punti si è giunti a 2; la promessa tassazione delle rendite finanziare è bassa e inferiore a quelle da lavoro dipendente e potrei continuare.

Nonostante i miglioramenti al sud ma non solo è forte la presenza di manodopera immigrata, con pochissimi diritti e in condizioni di vita inaccettabile nei ghetti come Borgo Mezzanone e San Ferdinando. Come dovrebbero intervenire sindacato e politica?
Occorre la politica ma anche lo Stato che preveda una serie di azioni da parte di istituzioni, le sezioni territoriali della rete del lavoro agricolo di qualità. Ne dovrebbero far parte le associazioni datoriali, i sindacati, l’Inps, l’Inail, le forze dell’ordine, l’Ispettorato del lavoro ed altri attori, per svolgere un lavoro di prevenzione.

Che ne è della legge 199 sul caporalato?
Sta funzionando riguardo all’attività repressiva attraverso il monitoraggio e non passa settimana senza che ci siano arresti. Ma manca la prevenzione. Le sezioni di cui parlavo, su base provinciale, dovrebbero esistere dappertutto dal 2016 ma ad oggi sono attive solo in metà delle Province. Queste sezioni dovrebbero garantire l’incontro fra domanda e offerta di lavoro, fare da collocamento pubblico, garantire le politiche di accoglienza, offrire il trasporto dei braccianti. Questo va fatto territorio per territorio perché significa garantire quelle peculiarità finora offerte dal caporalato. Se ci si riesce si toglie l’acqua ai caporali. Quando lo Stato non presidia arrivano loro. Non avviene anche a causa delle resistenze dei detrattori di questa legge che pongono ostacoli soprattutto alla prevenzione. A volte le sezioni che nascono non funzionano bene, anche perché capita che le associazioni datoriali non si schierino con decisione per ripulire l’economia agricola da quelle imprese che fanno concorrenza sleale. Ci aspettiamo che siano loro a decidere senza equivoci quali imprese vogliono difendere. In questo quadro i lavoratori immigrati, in particolare quelli irregolari sono l’anello più debole della catena, quello più ricattabile e vulnerabile.

Il “decreto Rilancio” del giugno 2020, nella parte riguardante l’emersione del lavoro nero proposta dall’allora ministra Bellanova è stato un fallimento, soprattutto per chi lavora in agricoltura. Al di là delle carenze che conteneva, cosa si potrebbe fare oggi?

Il problema originario resta nella Bossi Fini che ha creato un pregiudizio e stigmatizzato l’immigrato considerato “soggetto illegale”. Se non cambia non ne usciremo mai. Le regolarizzazioni che si sono succedute, sotto il governo Monti e a seguire hanno lasciato appesi senza prospettiva tantissimi lavoratori. All’ultimo tentativo ha lavorato un ottimo sottosegretario, Matteo Mauri, ma è rimasto il fatto che deve essere il “clandestino” a chiedere al datore di lavoro di poter emergere, ovviamente pagando. Ora fra un lavoratore in nero e un datore di lavoro, dal punto di vista liberale, chi ha maggior forza? È difficile trovare un datore di lavoro che si autodenunci. In compenso si trovano tanti faccendieri che regolarizzano facendo pagare prezzi spropositati. Per come la vediamo noi deve essere il datore di lavoro che avanza la regolarizzazione guadagnandone attraverso meccanismi di premialità. Invece così tutto viene pagato da chi già è sfruttato. E poi c’è il vulnus, sempre della Bossi Fini del legame fra contratto di lavoro e permesso di soggiorno. Il risultato è una legge profondamente razzista che non fa neanche incontrare regolarmente domanda e offerta di lavoro. Se non cambia il quadro di riferimento, la legge, le regolarizzazioni non bastano.

Con la pubblicazione del vostro ultimo rapporto avete  allargato la ricerca alla filiera delle carni?
È un ambito dove regnano appalti, subappalti e cooperative illegali. Accade anche nella logistica, nella ristorazione, nell’edilizia. Si tratta di un modo per le aziende di competere sui mercati che comprime i diritti e i salari di chi lavora danneggiando anche le aziende che rispettano i contratti. Si tratta di concorrenza sleale.

In Italia, come accade in altri Paesi europei, servirebbe un sindacato più determinato e protagonista, capace di confrontarsi tanto col governo che con i datori di lavoro?
Nel nostro Paese, la crisi dei corpi intermedi si è manifestata nei partiti ma anche nel sindacato che cerca di difendersi più o meno bene. Avvertiamo malessere anche nei nostri confronti e dobbiamo assumere la consapevolezza di essere stati sconfitti sul piano politico e culturale. Come i partiti rischiamo anche noi di divenire marginali. Questo è il risultato delle politiche liberiste che in 30 anni hanno portato a tentare di distruggere ogni forma di organizzazione sociale. Riusciamo a rialzarci quando, al pari dei partiti, riconquistiamo in toto la credibilità, mettendo a frutto il fatto che, a differenza di molti abbiamo le radici ben piantate. Nelle nostre sedi ci sono Case del Popolo, sto per andare a inaugurarne una nell’entroterra tarantino dove lo Stato arretra. Per troppo tempo siamo andati nei luoghi di lavoro parlando solo di contratti. Quando ero giovane da me il sindacato veniva a parlare di legge finanziaria, delle tasse, coinvolgeva delegati e iscritti ad essere protagonisti di un cambiamento sociale. Dovremmo riaffermare questo approccio, rendere le persone con cui parliamo partecipi di un sistema di valori, proponendo una visione di società al pari dei partiti anche se con compiti diversi. Noi abbiamo scioperato tanto contro il governo Draghi, sostenuto da forze di centro-sinistra che contro il governo attuale. E i nostri sono stati entrambi scioperi politici perché non condividiamo manovre di stampo neoliberista. La politica europea non è cambiata e il liberismo serve per togliere risorse ai poveri per darle ai ricchi, un Robin Hood al contrario che non possiamo condividere. Se non ricostruiamo un legame forte con i nostri iscritti per realizzare cambiamenti, soffriremo come i partiti politici di astensionismo o del fatto che tutto venga delegato.

Fra i vostri iscritti quanto è alta l’astensione alle elezioni?
Nelle assemblee capita di vedere persone stanche e passive, senza una visione di società che noi non riusciamo a volte a proporre. Non generalizzo ma nella sinistra sconfitta di cui parlo ci siamo anche noi e dobbiamo prestare attenzione a questo. Anche la politica deve aprire una riflessione seria. Se non capiamo, non ricostruiamo e continuiamo a riproporre soluzioni organizzative che non risolvono i problemi. Non basta candidarsi alle elezioni. Infatti il nostro elettorato di riferimento è astensionista, magari molti restano anche iscritti alla Cgil ma nel rapporto col sindacato non sono sufficienti i buoni contratti. Dobbiamo raccontare il mondo, sono rare le assemblee in cui diciamo quale è la società in cui vorremmo vivere. Un nostro dovere perché altrimenti non avrebbero ragione di esistere le nostre battaglie per la giustizia sociale. Un tempo il rapporto fra Cgil e Pci era di discussione nell’autonomia. Ma ai partiti politici molti lavoratori oggi dicono “basta”, sono disillusi e spaesati, troppo spesso abbandonati a loro stessi. Quindi non votano ed è sempre più difficile chiamare ad uno sciopero, soprattutto su questioni grandi come la sanità, la scuola, l’immigrazione. Guardando il flusso dei voti del settembre 2022 in molti sono andati a votare per il centro-destra perché, chi ci va, è arrabbiato. La maggioranza si è astenuta e si tratta di un problema nostro. Non è tutto così, nelle grandi fabbriche ancora teniamo e si riesce a garantire partecipazione agli scioperi, nelle altre realtà meno. Come sinistra penso che dovremmo, per tenere botta alle politiche neoliberiste, stare nelle piazze e contemporaneamente ricostruire la presenza nelle classi che vuoi rappresentare.

Per questo si siete riorganizzati anche come “sindacato di strada”?
Sì, stare fra gli ultimi, nei ghetti in cui vivono gli ultimissimi ma anche fra chi ha un contratto regolare o è impiegato. La Flai Cgil deve tenere insieme braccianti immigrati, forestali, pescatori, operai dell’industria alimentare. In quest’ultima che a volte è di eccellenza ci sono anche buone retribuzioni e premi di partecipazione. Il nostro compito è quello di tenere tutti insieme al di là delle tipologie contrattuali. L’unità salta perché sono troppo forti le differenze materiali e le condizioni di vita fra ognuno. Noi dobbiamo lavorare per piattaforme contrattuali che riguardino tutti contrastando lo sfruttamento, la piaga del sotto-salario che passa travestito dal divenire socio di pseudo cooperative.

Proprio per ottenere questo occorre maggiore radicalità?
Avendoci sbattuto il muso ti dico che non sono d’accordo. La radicalità non paga né i partiti né i sindacati. Da noi, non c’è la cultura come in Francia, degli scioperi ad oltranza. La nostra base di riferimento è tramortita dal neoliberismo che ci ha colonizzato la cultura, la psicologia, ci ha fatto entrare in testa che nella società si è soli. Mi capita di incontrare giovani che fanno fatica, come delegati Flai, perché sono poco politicizzati, non sanno praticare azione collettiva. Dobbiamo aprire una scuola politico sindacale, insegnare, affrontare la sconfitta culturale. Anche i nostri delegati sono bombardati dall’individualismo. Dobbiamo proporre valori come quello della solidarietà, poco raccontato perché altrimenti ti chiedono: “cosa mi porta lo sciopero?”. E forse dovremmo tornare a parlare dei fondamentali, cercando chiavi di lettura per questa società che è diversa da quella raccontata dalla comunicazione mainstream. Il sindacato se ne deve occupare, non diamo per scontato che i nostri delegati abbiano il nostro background e quindi vanno individuate anche le giuste modalità di comunicazione. Ma, tornando al rapporto fra radicalità politica e sindacale, se non realizzi la portata della sconfitta subita, scioperi ad oltranza e/o candidature, non producono altro che indifferenza. La nostra ambizione deve essere quella di non sostituirci ai partiti ma di avere i piedi ben radicati nelle classi sociali che dobbiamo organizzare, essere strumento utile per chi lavora. Io sono entrato nel sindacato criticando aspramente, ma quando sono finito in cassa integrazione senza sindacato sarei stato divorato. Questo valore va riscoperto anche dalle nostre burocrazie – termine a cui non do connotazione negativa – che devono riscoprire il proprio ruolo di essere al servizio di chi lavora.

Il Congresso nazionale della Cgil che ha ricevuto molte attenzioni e creato anche polemiche. Ha pesato troppo sul tono della kermesse?
Traggo un bilancio molto positivo dal nostro Congresso nazionale per diversi aspetti e non solo per la conferma del Segretario Generale. Ha avuto grande visibilità. Guardandomi indietro e pensando ai congressi passati, non c’era mai stata tanta attenzione da parte della società italiana. Anche nel congresso precedente eravamo molto più centrati su una riflessione che guardava noi stessi. C’era uno scontro fra gruppi dirigenti e non lo dico con una accezione negativa. Semplicemente l’organizzazione era più impegnata in un confronto interno che in un incontro con quanto avveniva fuori. Questo è stato intanto un congresso fortemente unitario in cui gli scontri sono stati sul merito. Lo Spi ha detto cose nette sulle pensioni, noi della Flai abbiamo espresso il nostro giudizio sulla guerra ecc…E poi abbiamo costretto le opposizioni in Parlamento a confrontarsi con noi rispetto ai temi del lavoro. Gli esponenti intervenuti non si sono potuti comportare come in un talk show, Maurizio Landini li ha chiamati a confrontarsi sul merito dei temi in discussione.

Riguardo alla partecipazione della presidente del Consiglio Giorgia Meloni?
Non è stata cosa da poco. Meloni è stata la prima, dopo il secondo governo Prodi, a venire al nostro congresso e questo va apprezzato. Lo abbiamo considerato come il riconoscimento di una grande organizzazione sindacale con cui il governo ha soprattutto punti di divergenza, ma quelli di centro-sinistra o i “tecnici”, non sono mai venuti. Io vorrei che ci riflettessimo con meno spocchia e guardando ai fatti. Noi abbiamo un ruolo nel Paese e abbiamo richiamato alle responsabilità tutti i partiti dell’opposizione parlamentare che non riescono spesso a convergere. Ma per un sindacato che deve difendere chi lavora non può valere una pregiudiziale ideologica. I ministri Lollobrigida e Urso ci hanno convocato per discutere della questione dello sviluppo del settore agroalimentare. Dobbiamo andare a discutere con loro per risolvere i problemi di coloro che vogliamo difendere. Non siamo un partito politico. Ora c’è il “decreto pesca” e il fermo biologico che imporrà una contrazione del settore. Con chi dobbiamo andare a discutere di ammortizzatori sociali? Con una fantomatica opposizione divisa che non ha mai interloquito con noi? Credo che oggi non abbia più senso parlare di governo amico e governo nemico. Noi siamo autonomi dai partiti, rivendichiamo la nostra autonomia sia rispetto a governi di centro-destra che di centro-sinistra. E voglio ricordare che l’articolo 18 ce lo ha tolto Renzi, i tagli ai patronati che ci hanno fatto chiudere in alcune aree interne, sono serviti a colpire stupidamente il sindacato e nascono dai governi di centro sinistra col Pd.

Quanto al rispetto alla pregiudiziale antifascista?
Questo governo ha giurato sulla Costituzione. La contraddizione casomai ce l’hanno loro, di certo noi no. Nel Paese ci sono post fascisti e post comunisti e questi ultimi, bisogna dirlo, non si sono poi dimostrati tanto amici dei lavoratori. Noi siamo un soggetto politico perché abbiamo una nostra visione della società fondata sulla giustizia sociale, sui principi di solidarietà, ma non ci vogliamo sostituire ai partiti. Aggiungo che questo governo ha una contraddizione al proprio interno. La “destra sociale” deve dimostrarsi più sensibile al lavoro ma non esce in campo. Il risultato, per fare un ultimo esempio è la flat tax con cui si toglie ai poveri per dare ai ricchi. Proveranno ad aggiustare i prelievi per quanto riguarda le aliquote più basse ma alla fine ai lavoratori e alle lavoratrici lasceranno solo spiccioli. Se ne avvantaggerà chi ha redditi più alti. Noi dobbiamo parlare di questo e affrontare tali nodi se vogliamo incidere nella società e riprovare a cambiarla. Anche per questo credo che avremo una Cgil capace di assolvere ai compiti per cui è nata.

Con una percentuale che un tempo avremo definito “bulgara” (97,8%) al termine di un affollato congresso che si è chiuso il 9 febbraio scorso, lei Giovanni Mininni è stato confermato segretario generale della Flai Cgil. La 3 giorni congressuale è stata aperta con l’intervento di due donne, provenienti dall’Iran e dall’Afghanistan. Un segnale importante.
L’idea è nata dal fatto che bisognasse dare una scossa iniziale all’assemblea delle delegate e dei delegati. Nessuno fuori ne era al corrente e nessuno si aspettava che da un uomo partisse tale iniziativa. Loro sono state straordinarie ma a me è sembrato semplicemente necessario il loro intervento duplice sia perché oggi si parla di Iran ma l’Afghanistan è quasi dimenticato e poi perché le loro testimonianze non possono restare relegate nelle assemblee e nei luoghi delle donne. Io non voglio che il nostro sindacato sia compartimentato in file: donne, caporalato, lavoro nero ecc.. Quando discutevamo il documento della Cgil sulla questione delle pari opportunità io ho insistito anche attraverso gesti apparentemente solo simbolici come quello che hai visto, perché di tale questione si facciano carico anche gli uomini. Ritengo importante l’assemblea delle donne ma voglio che anche gli uomini prendano parola per rivedere sé stessi e i rapporti di potere che si stabiliscono anche nel sindacato. E vorrei che si ragionasse anche su quante volte, anche le donne riproducono le stesse modalità di gestione del potere, e di quanto si subisca la fascinazione del potere dominante. Bisogna essere franchi, da noi il potere esiste e bisogna trovare il modo di esercitarlo in maniera diversa, non prevaricatoria.

Reato di soccorso con l’aggravante di avere telefonato per chiedere aiuto

La nave Louise Michel dell’omonima Ong è inchiodata nel porto di Lampedusa grazie al vomitevole decreto contro le Ong del governo Meloni. L’accusa: «L’unità, nello specifico, dopo aver effettuato il primo intervento di soccorso in acque libiche, contravveniva all’impartita disposizione di raggiungere il porto di Trapani, dirigendo invece su altre 3 unità di migranti sulle quali, peraltro stavano già dirigendo in soccorso i mezzi della Guardia Costiera italiana».

Hanno il fegato di scriverlo nero su bianco: dovevano salvare meno. Prima di giungere a Lampedusa l’altro ieri la nave aveva soccorso alcuni barchini nel Mediterraneo sui quali viaggiavano diversi migranti e i salvataggi erano stati effettuati anche da motovedette di Capitaneria e Guardia di finanza. Alle 2:10 il primo intervento nei confronti di due gruppi di 38 migranti ciascuno, trasbordati successivamente sulla motovedetta Cp273 della Guardia Costiera. Alle 6:30 la nave ha fatto poi sbarcare sul molo commerciale di Lampedusa altre 78 persone che erano su un gommone, altre 39 che viaggiavano su un’imbarcazione in ferro di circa 7 metri, altre 39 (compreso un minore) e, infine, un ultimo gruppo di 24 migranti (compreso un minore).

In questo ciarpame arriva anche un comunicato della Guardia costiera italiana che probabilmente spinta dal vento politico verga una nota in cui ci fa sapere che “le continue chiamate dei mezzi aerei ong hanno sovraccaricato i sistemi di comunicazione del Centro nazionale di coordinamento dei soccorsi, sovrapponendosi e duplicando le segnalazioni dei già presenti assetti aerei dello Stato”. Stiamo parlando, si badi bene, dello stesso telefono squillato a vuoto mentre morivano persone sulla spiaggia di Cutro. Il reato di intasamento di linee telefoniche per chiedere aiuto potrebbe essere un’idea per il prossimo decreto, tenuto conto che il senso del ridicolo è stato oltrepassato da un bel pezzo.

La Guardia costiera accusa anche Sos Méditeranée, colpevole di essersi fatta sparare addosso dalla cosiddetta Guardia costiera libica: “l’episodio citato dalla ong Ocean Viking e riferito ai presunti spari della guardia costiera libica nella loro area Sar, non veniva riportato al Paese di bandiera, come previsto dalle norme, bensì al Centro di coordinamento italiano, finendo anche questo col sovraccaricare il Centro in momenti particolarmente intensi di soccorsi in atto”. Sì, avete letto bene: dovevano telefonare ai libici per denunciare che i libici gli sparavano addosso.

Buon lunedì.

Diario partigiano delle 48 ore che sconvolsero Roma

Giorgio Amendola, esponente comunista della Resistenza, racconta in una lettera che il fragore dell’esplosione fu così lacerante che il boato riecheggiò nell’appartamento romano di via Propaganda fide, dove era in corso la riunione della giunta militare del Cln. Alcide De Gasperi, colonna portante della futura Democrazia cristiana, rivolgendosi al dirigente comunista, esclamò sorpreso: «Ne avete combinata un’altra delle vostre. Una ne fate e cento ne pensate».
Era il 23 marzo del ’44, quando diciotto chili di tritolo, nascosti in un carretto, esplosero nel cuore di via Rasella, travolgendo 33 uomini del battaglione Bozen, reggimento dell’esercito nazista. Alle 15 e 52, Rosario Bentivegna – nome di battaglia Paolo – travestito da spazzino, accese la miccia, osservando il manipolo risalire la china della via. Cinquanta secondi e poi il trambusto di schegge impazzite e il fuoco della detonazione. L’attentato – come lo chiamano alcuni – è ordito dalle fila comuniste della Resistenza romana. Carla Capponi, Carlo Salinari, Franco di Lernia, Gioacchino Gesmundo, Marisa Musu, Franco Calamandrei ed altri.
La città era occupata dai nazifascisti. Sette mesi di guerriglia urbana. I Gruppi di azione patriottica (Gap) avevano diviso Roma in otto zone di intervento. I partigiani attaccavano senza sosta le truppe occupanti e le camicie nere. In ogni quartiere gli echi della guerra combattuta sulle rive sabbiose di Anzio, crivellavano i muri di Forte Bravetta e di via Tasso.
La rappresaglia nazista alla bomba fu una tragedia di proporzioni disumane. La mattina del 24 marzo, 335 italiani vennero uccisi e sepolti nelle cave di pozzolana, a pochi passi dalla via Ardeatina. Dieci italiani per ogni tedesco ammazzato. Le quarantotto ore che sconvolsero Roma e la sua memoria. Ancora oggi, la vulgata consolatoria della pacificazione nazionale e di una “guerra civile” mai combattuta, marchia i 335 morti come “vittime dei totalitarismi”.
A 74 anni dalla più grande e controversa azione partigiana che la storia ricordi, nel cicaleccio di via Rasella, incontro Mario Fiorentini. L’ultimo gappista delle zone centrali rimasto in vita. Occhi azzurri, criniera bianca e un secolo di vita, sintetizzato nel corpo di sangue e nervi che ancora resiste allo scorrere del tempo. Il termine «Resistenza» ritorna spesso in Mario Fiorentini. Appena lo incontro, la voce squillante, puntualizza: «L’attacco partigiano è un’azione militare. Le stragi naziste appartengono ad un’altra categoria. La strage non è conseguenza dell’azione. Difatti i tedeschi hanno fatto stragi anche in luoghi dove non c’erano partigiani. La nostra era una guerra di liberazione».
Giovane intellettuale umanista. Partigiano aderente al Partito comunista d’Italia. Dal dopoguerra, matematico di fama internazionale. Amico del pittore Emilio Vedova, del registra Carlo Lizzani, di Ennio Flaiano e Vittorio Gassman, compagno e marito di Lucia Ottobrini – «la gappista più odiata da Herbert Kappler» – con cui confezionò le più mirabolanti azioni di guerriglia del “secondo Risorgimento italiano”.
Prima via Margutta e Palazzo Braschi – «ero un capellone prima ancora che andasse di moda avere i capelli lunghi» – poi la clandestinità, il carcere, l’evasione, la missione Dongo con l’Office of strategic service statunitense e le tre medaglie d’argento al valore militare. Mario Fiorentini è un calderone di storie, è l’uomo delle tre vite e dai quattro nomi. Alcuni lo ricordano come Carlo Spada. «Io sono la persona più pacifica che lei abbia mai incontrato nella sua vita, però ad un certo punto mi sono trasformato. Il motivo? I fascisti avevano preso mio padre, la cui unica colpa era quella di essere ebreo».
Fu una scelta esistenziale, umorale e politica, estremamente umana. La giornalista Rosa Mordenti nel suo libro Al centro di una città antichissima descrive capillarmente il clima, le aspirazioni e le contraddizioni di una generazione in lotta. «A tutto questo bisogna pensare. E dopo, forse, si può capire che cosa è stato per un uomo, operaio o intellettuale che sia, quando si decise a lanciare la prima bomba lì a Roma, dopo vent’anni».
Le azioni partigiane si moltiplicano dopo l’8 settembre 1943. I fascisti marciavano, menavano e uccidevano. I nazisti occupavano, menavano e uccidevano. I comunisti pensavano che fossero necessarie azioni che mettessero in difficoltà le truppe tedesche. Roma non doveva attendere gli Alleati, ma combattere e riscattare l’Italia. I Gap erano la punta di avanguardia della progettualità militare del Cln. Roma “città aperta” era una menzogna della propaganda, Roma è una città prigioniera. «Si avvicina il 23 marzo e ci sono i festeggiamenti per la nascita dei Fasci di combattimento. Il comando vuole attaccare il 23 marzo. Io sono contrario, ma il 23 marzo era stato fondato il fascismo e il 23 marzo gli diamo una bella sonata» sorride Mario Fiorentini, sulla poltrona di velluto nel salone attorniato dai libri. «Io non volevo, perché lì c’era gente antifascista con cui ho fatto riunioni, mi conoscevano. Vogliono però che io la predisponga». Fu proprio lui a ideare il piano dell’azione, ma non partecipò attivamente. Mi indica il cantuccio dove dormiva 70 anni fa, il balcone da cui scivolava via Rasella. Sono ancora visibili sulle facciate dei palazzi i fori dei proiettili sparati dai superstiti del battaglione Bozen. «Dopo l’esplosione, questi qui (i nazisti del reggimento) si sentirono avvolti da attacchi e non si rendevano conto da che parte provenissero. Rimasero intronati».
La rappresaglia fu immediata. Vennero rastrellate le carceri di via Tasso e di Regina coeli, l’elenco dei nominativi fu consegnato dal questore di Roma Pietro Caruso sulla scrivania del colonnello Herbert Kappler. 335 persone (5 persone in più, colpa dello zelo nazifascista) prigionieri politici, ebrei e alcuni malcapitati in via Rasella, vennero ammazzati nelle gole dell’Appia antica.
Il 25 marzo 1944, il comunicato dell’agenzia ufficiale Stefani, emanato dai nazisti alle 22 e 55 del giorno prima, riportò che a seguito della «vile imboscata» il comando «ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato dieci criminali comunisti badogliani saranno fucilati. Quest’ordine è stato già eseguito».
Ma i nazisti non avevano affisso dei manifesti per tutta Roma, dove invitavano i partigiani a consegnarsi così da evitare la rappresaglia? È il cavallo di battaglia del revisionismo storico «Non è vero e nemmeno verosimile – si inalbera Mario Fiorentini -. Ci sarebbe stata una sollevazione popolare. Non l’hanno fatto, come fanno a dire che li hanno messi?».
Sotto processo, nel novembre del 1946, il generale Albert Kesserling, incalzato dal giudice sulla questione, rispondeva: «Ora in tempi più tranquilli devo dire che l’idea sarebbe stata molto buona». E il giudice, ancora: «Ma non lo faceste». «No, non lo feci» rispose il graduato nazista.
Le poche ore di distanza tra i fatti di Via Rasella e le Fosse ardeatine certificano la montagna di menzogne e ipocrisie costruite ad hoc per screditare i partigiani. L’eccidio fu un massacro efferato e razionale: la follia era di un altro mondo. Setacciare gli archivi, svuotare le celle, individuare la zona, uccidere con sistematicità, far esplodere le cave per nascondere i corpi mentre i motori delle camionette rombavano e gli imperativi categorici di ordine e decoro nel comunicato. L’efferatezza e il calcolo nazifascista per un crimine contro l’umanità.
«Il giorno dopo la nostra azione, il Vaticano dice che i nazisti sono le vittime e i partigiani carnefici. Lo scrive l’Osservatorio romano» racconta Mario Fiorentini. Alessandro Portelli, storico e scrittore, nell’introduzione al suo libro L’ordine è già stato eseguito, analizza i meccanismi della mistificazione della memoria storica, descrivendo il ribaltamento semantico della colpa. Partigiani colpevoli, sfuggiti all’arresto. I sacrificati delle Fosse ardeatine. I nazisti vittime. L’organo ufficiale del Vaticano invocava «dagli irresponsabili il rispetto per la vita umana che non hanno il diritto di sacrificare mai».
Una vulgata che scarnificò le coscienze di molte persone, tanto da creare una mitologia che giustificava, trovando un capro espiatorio all’abominio. Erich Priebke, ex ufficiale delle Ss, affermerà nell’intervista video-testamento di aver eseguito soltanto degli ordini a cui non poteva sottrarsi. La colpa era dei gappisti. Se non avessero colpito il battaglione Bozen, i nazisti non avrebbero commesso una tale atrocità. Falso.
«Hanno massacrato per 50 anni Rosario Bentivegna, telefonandogli di notte, mandando messaggi, facendo accuse contro di lui, etichettandolo come un assassino. Il partigiano Paolo, sotto certi aspetti, è uno dei personaggi più odiati dai fascisti. Ma anche da alcuni familiari delle vittime». L’ennesima prova del dramma di una guerra di liberazione.

Aricolo pubblicato su Left l 23 marzo 2018

Nela foto, l’entrata alle Fosse ardeatine

Mai più bambini in carcere? Scherzavano

La proposta di legge riguardante le detenute madri passa in commissione Giustizia della Camera con un emendamento della Lega che allontana la possibilità di benefici nel caso di recidiva e che restringe le alternative al carcere per donne incinte e con bambini piccolissimi. I parlamentari del Pd, che avevano presentato la proposta, ritirano di conseguenza le loro firme, facendo decadere il provvedimento.

Ora ci si è messo anche Matteo Salvini, sfruttando la polemica che si è accesa su Milano per le borseggiatrici rom. «La sinistra vuole lasciare libere le rom di tornare a rubare!», strepita sui giornali. Il boccone è perfetto per la propaganda: le prede sono straniere, si può scambiare i diritti per buonismo e tutto il resto.

Così appare evidente che il disegno di legge che nella scorsa legislatura aveva preparato Siani, e che è stato ripreso da Serracchiani, rimarrà ancora una volta nel cassetto. Susanna Marietti, coordinatrice dell’associazione Antigone lo dice senza usare mezzi termini: «Purtroppo non se ne farà nulla. E le modalità in cui ciò accade sono preoccupanti. Chi fa appello alla recidiva come criterio di esclusione da benefici penitenziari o è in malafede oppure non conosce la realtà delle nostre carceri. La composizione socio-giuridica in particolare delle donne detenute ci mostra come la recidiva non caratterizzi affatto crimini di peso o di allarme sociale, bensì uno stile di vita legato alla piccola o piccolissima criminalità da strada, legata all’esclusione sociale, alla povertà economica, alla tossicodipendenza».

Marietti ricorda che la scorsa estate una donna ha partorito da sola, con il solo aiuto della compagna di cella anch’essa in gravidanza al quinto mese, nel carcere romano di Rebibbia. L’anno precedente una donna incinta si è sentita male nel carcere milanese di San Vittore e ha perso il proprio bambino. «Matteo Salvini – scrive la portavoce di Antigone – si è rallegrato dell’emendamento votato in Commissione e ha parlato del “vergognoso sfruttamento della gravidanza da parte di borseggiatrici e delinquenti». Come se noi donne ci facessimo mettere incinte per poter liberamente rubare un portafogli. Peggio per lui che ha questa visione della realtà. Peggio per quei bambini che resteranno dietro le sbarre».

Dal 2001 in ogni legislatura c’è sempre qualche affamato di propaganda che risulta fondamentale per affossare la legge. I diritti, si sa, possono aspettare. Prima i voti e poi diritti. Aspettando che un giorno i diritti portino i voti che bastano per poterli difendere.

Buon venerdì.

L’impronta razzista, classista e misogina nell’ideologia americana

Potrebbe apparire contraddittorio e perfino paradossale che proprio il Paese la cui popolazione si è storicamente insediata e organizzata attraverso un flusso secolare di immigrazioni, gli Stati Uniti, siano il luogo dove più violento, sino a sconfinare nel terrorismo, si manifesti l’odio razziale, la discriminazione del diverso, l’odio per gli emarginati. Com’è noto, tale rancore ideologico si esprime in varie forme e con diversa forza politica ormai in tutto l’Occidente, alimentato dagli sconvolgimenti demografici subiti dal mondo povero negli ultimi decenni a causa di guerre e caos climatico. I numerosi movimenti cosiddetti sovranisti esplosi in Europa negli ultimi decenni ne costituiscono la testimonianza più nota. Ma in America – almeno secondo la rappresentazione che ne fanno i nostri giornalisti filoatlantici, i quali conoscono quel Paese da turisti o come corrispondenti ben pagati, – il melting pot della società americana, formato da ininterrotte correnti migratorie provenienti da tutto il mondo, avrebbe dovuto contenere la recrudescenza del fenomeno. In realtà, com’è noto, sono soprattutto gli Stati Uniti l’epicentro, il luogo dove il fenomeno, sotto forma di “suprematismo bianco”, si manifesta oggi con una profondità culturale e con una varietà di forme, anche istituzionali, che non si ritrovano in nessun altro angolo del mondo.

Merito indubbio del libro di Alessandro Scassellati Sforzolini, Suprematismo bianco. Alle radici di economia, cultura e ideologia della società occidentale (Derive/Approdi) è di dar conto di questo fenomeno che conosciamo per le sue manifestazioni terroristiche (i periodici massacri di persone innocenti compiuti da individui isolati) o per il rilevo politico e di governo assunto con la presidenza Trump, mostrandone le radici storiche e gli inscindibili legami con la violenza del sistema capitalistico globale.
Molto opportunamente, Scassellati, come a voler tacitare gli apologeti del modello di società americana, individua già nella sua Costituzione i limiti razzisti della democrazia di quel Paese, quelli che non erano già sfuggiti all’osservazione, pur ammirata, di Alexis de Tocqueville a meta ‘800. Nel «Preambolo della Costituzione (1787), – scrive l’autore – i 55 costituenti “padri fondatori”, tutti maschi bianchi con un background di ricchezza e privilegio, dicevano “Noi il popolo” (We the People): pretendevano che il nuovo governo dovesse rappresentare tutti, ma realmente intendevano “gli uomini bianchi” proprietari di beni – escludendo le donne, i minori, i maschi bianchi adulti privi di proprietà, i lavoratori in condizione servile fatti venire con le buone o con le cattive da Gran Bretagna, Irlanda e Germania, gli schiavi di origine africana e i nativi americani. Questa pregiudiziale razzista, classista e misogina da parte di “uomini bianchi” è stata mantenuta fino ad oggi in tanti settori della vita pubblica, politica e sociale americana, a cominciare dal diritto ad accedere alla cittadinanza, al diritto di voto, ai diritti riproduttivi e al diritto di immigrazione.

La Costituzione non abolì la schiavitù, prevedeva soltanto la soppressione della tratta degli schiavi allo scadere dei 20 anni dalla proclamazione, cosa che avvenne dal 1808. Da allora, in direzione del “nuovo mondo”, all’africano si sostituì l’emigrante europeo, il contadino povero irlandese e tedesco, anch’egli miseramente ammucchiato nelle stive delle navi». Una impronta razzista, classista e misogina, ma anche sessista che ha innervato norme e istituzioni pubbliche sino ad epoca recentissima. Si pensi addirittura, come ricorda l’autore, che «il divieto effettivo di immigrazione omosessuale è stato abrogato solo nel 1990».

Ma Scassellati, che utilizza il tema suprematismo bianco come una chiave per leggere in profondità la storia della società americana, la sua interna composizione e gerarchia di potere, con ammirevole impegno storiografico individua le radici lontane, e per così dire fondative, delle laceranti discriminazioni sociali che caratterizzano quel Paese. Egli le colloca nella stessa “conquista del Nuovo mondo” da parte degli europei, a partire dal 1492. E non si tratta di una forzatura. La ricerca storica ha da tempo capovolto lo stereotipo eurocentrico ed apologetico che voleva la “scoperta dell’America” da parte di Colombo, come una grande conquista culturale e spirituale dell’Europa. Tanto per dare un’idea basti dire che Tzvetan Todorov l’ha definita il «il più grande genocidio dell’umanità». Quello che nell’immaginario europeo è stato per secoli rappresentato come un evento eroico, l’impresa di un pugno di arditi navigatori, è stato in realtà non solo l’inizio di uno sterminio delle popolazioni native, decimati dalle guerre e dalle malattie importate dall’Europa, ma anche e soprattutto l’avvio di un processo grandioso di sviluppo capitalistico a livello intercontinentale. Vale a dire, come ricorda l’autore: «la creazione di un sistema commerciale globale e poi, dalla fine del XVIII secolo, con lo sviluppo del capitalismo industriale europeo. Insieme alle politiche mercantiliste (nazionaliste e imperialiste) e alla crescita dei mercati domestici, il commercio di schiavi neri africani e di merci provenienti dalle colonie sono stati la linfa vitale per la formazione degli Stati-nazione, del colonialismo di insediamento stanziale e del modo di produzione capitalistico europeo».

Non è possibile qui dar conto della ricchezza analitica con cui l’autore, nei densissimi capitoli di cui si compone il libro – con una successione cronologica, per la verità, non sempre lineare – dà conto del complesso fenomeno del suprematismo bianco, indagando, ad esempio, all’interno dei processi culturali e politici con cui si è formata la teoria del complotto e della “grande sostituzione”: vale dire il progetto di sostituire la “razza” bianca, con una popolazione, meticcia e impura. Si capisce davvero poco della società americana del nostro tempo – ma anche del mondo nel suo complesso, dominato dai poteri selvaggi del capitalismo neoliberista – se si ignorano tali fenomeni, che oggi, dopo la fine dei “trenta gloriosi”, degli anni delle politiche rooseveltiane, riportano in nuove forme, con inediti camuffamenti, gli impulsi alla violenza genocida su cui sono nati gli Usa, così come l’America latina. E infatti uno degli elementi di originalità e forza del libro di Scassellati è che, attraverso l’indagine del suo oggetto fondamentale di studio, insegue, per così dire, e illumina, nella storia sociale e politica degli Usa, i processi e i fenomeni di sfruttamento e discriminazione che innervano i rapporti sociali e spiegano i fenomeni esplosivi del presente.

Certamente una pagina di grande interesse, soprattutto per noi italiani, che abbiamo inviato milioni di nostri concittadini in quel Paese, è costituita dalla leggi e dalle politiche federali sull’immigrazione.Tra la seconda metà del XIX e i primi decenni del XX secolo, i grandi lavori pubblici per la costruzione di ferrovie, strade, edifici (i grattacieli di New York o di Chicago) ha richiamato forza lavoro a basso costo da ogni angolo del mondo. Si trattava di una umanità sdradicata, resa straniera e senza dirittti già dall’ignoranza della lingua inglese, che veniva sfruttata con non meno ferocia di quanto accade oggi in tante nostre campagne. Gli immigrati cinesi, giapponesi, ispanici, italiani erano naturlamente oggetto di campagne di odio, perché anche allora non mancavano le forze politiche, i giornalisti, gli uomini di governo che accusavano questi lavoratori dequalificati di “rubare il lavoro” agli americani, di abbassare gli standard salariali, viste le paghe da fame di cui si accontentavano. E in alcuni casi è stata la stessa iniziativa dello Stato federale a costituire l’avvio di una pratica discriminatoria destinata, talora, ad esiti tragici. L’autore ricorda il caso della campagna di odio scatenata contro i lavoratori immigrati provenienti dalla Cina.

In queste pagine Scassellati illustra eventi tragici e una sequela interminabile di iniziative discriminatorie contro le varie etnie provenienti dai vari Paesi del mondo, che sono note, almeno in parte, solo agli storici dell”emigrazione italiana. In realtà si tratta di vicende che oggi appaiono indispensabili per non stupirsi dell’arroganza imperiale degli Usa, per comprendere la sua vocazione discriminatoria al dominio mondiale. Illuminante la politica selettiva operata dal governo federale americano nel corso del XX secolo, attraverso l’emanazione delle cosiddette “quote”, cioé le quantità di migranti ammessi negli Usa, stabilite sulla base delle esigenze delle imprese americane. Esemplare l’Immigration Act del 1924. Quest’ultima notazione denuncia una scelta governativa crudelmente beffarda. Il potente Stato americano negava l’ingresso ai lavoratori di quel continente che per secoli aveva dato agli Stati Uniti una parte rilevante della sua popolazione, tenuta al suo interno come schiava e ancora oggi discriminata ed emarginata, la quota più rilevante delle persone obese, dei cittadini incarcerati, degli uomini uccisi per strada dalla polizia.

Nella foto Donald Trump (Pixabay Gordon Johnson)

Lo dice perfino Lagarde

«Finora i salari reali sono diminuiti notevolmente, mentre i margini di profitto delle imprese sono aumentati in molti settori. Ma il mercato del lavoro è piuttosto teso, le carenze di manodopera sono in aumento e questo sta portando i lavoratori a usare il loro potere contrattuale per recuperare i guadagni persi». Le parole che avete appena letto non sono di qualche irrequieto sindacalista o di qualche pericoloso comunista. Le ha pronunciate la presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde durante la conferenza The Ecb and Its Watchers XXIII.

Ha detto Lagarde: «Se sia i lavoratori che le imprese accettano un’equa condivisione degli oneri e una crescita salariale più forte rappresenta semplicemente un riequilibrio tra lavoro e capitale, allora sia la pressione sui salari che quella sui prezzi dovrebbero diminuire man mano che si sviluppa questo processo». È la stessa Bce che qualche giorno fa ci aveva spiegato che l’aumento dell’inflazione è provocato dalle aziende. Secondo dati utilizzati nello studio e raccolti da Refinitiv, nel 2022 la aziende di beni di consumo della zona euro hanno aumentato i margini operativi (la differenza tra ricavi e costi di produzione) in media del 10,7% . Le grandi imprese monitorate sono state 106 inclusi gruppi come Stellantis, al gruppo di beni di lusso Hermes, e al rivenditore nordico Stockmann. E sono loro, secondo quanto risulta dagli studi Bce (che però non commenta ufficialmente queste conclusioni), ad aver spinto al rialzo prezzi e infiammato l’inflazione.

Stando ai dati della Bce nel corso del 2022 l’incremento dei profitti aziendali ha largamente sopravanzato quello degli stipendi in tutti i settori, nella manifattura in particolare e con l’unica eccezione della pubblica amministrazione. Mentre Lagarde spiegava quello che in molti provano a ripetere (mentre presunti illuminati competenti e economisti negano la ostinatamente la realtà) il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha risposto andando fuori tema spiegandoci che «l’aumento del costo dell’energia è stata una tassa e questa tassa non la possiamo rinviare dove è venuta, possiamo accomodarla molto rapidamente a livello di area, in alcuni casi è più difficile in altri è più costoso quindi ci possono essere distribuzioni del reddito e interventi di finanza pubblica a favore di coloro che sono più colpiti, ma bisogna evitare che ci sia una rincorsa tra prezzi e prezzi e prezzi e salari e le aspettative di inflazione si scostino dal 2% nel medio periodo, perché se si scostano verso l’alto quello è il punto di riferimento a cui tutti i prezzi e le retribuzioni tenderanno ad adeguarsi». Tradotto: per Visco il costo dell’inflazione lo devono pagare solo i lavoratori perché – assicura – sarà un impoverimento passeggero.

Ancora qualche settimana e vedrete che qualcuno avrà l’ardire di accusare direttamente i lavoratori come causa dell’inflazione. Avanti così, all’infinito.

Buon giovedì.

Meloni la puericultrice

«Considero puerile la propaganda di chi racconta che l’Italia spenderebbe soldi per mandare armi in Ucraina sottraendo risorse alle tante necessità degli italiani, questo è falso e in questa Aula lo sappiamo tutti. L’Italia sta inviando all’Ucraina armi di cui è già in suo possesso e che per fortuna non dobbiamo utilizzare, e le inviamo anche per tenere lontana la guerra da casa nostra. Raccontare agli italiani il contrario è una menzogna che intendo chiamare col suo nome». Ha detto così Giorgia Meloni, in Aula al Senato, nel corso delle comunicazioni in vista del Consiglio europeo del 23 e 24 marzo.

È diventata grande Giorgia e adesso ha imparato che il “prima gli italiani” è “propaganda” – parole sue – che viene usata per mischiare argomenti molto diversi. Le “risorse” sottratte agli italiani sono il mantra della parabola politica di Giorgia Meloni e di Matteo Salvini. Senza lo spettro della sottrazione di risorse entrambi non avrebbero conquistato nemmeno una seggiola nel consiglio comunale delle loro città di residenza. Sì, è propaganda, esattamente. La politica sta nelle scelte con cui spendere il denaro pubblico e Giorgia Meloni ha scelto come tutti i suoi predecessori (l’ex ministro Guerini in questo è stato un fuoriclasse) di spendere in armi. Non si tratta solo dell’Ucraina, è una cavalcata senza valchirie a ingrossare i signorotti delle armi sotto tutti i punti di vista.

Però siccome Meloni non riesce a smettere di essere Meloni nella sua dichiarazione chiama “menzogna” il parere di chiunque le faccia notare che difendersi dalla guerra con la guerra è una scelta, non è l’unica scelta. Perché la politica, quella maiuscola, si prende la responsabilità di risolvere i conflitti, non di tifare. Ed è la stessa Giorgia Meloni a dire che «i tempi della pace non sono maturi»: il suolo dell’Europa e della politica internazionale è mettere in campo tutto ciò che serve per fare maturare i tempi. Altrimenti ci si prende la responsabilità di dire che ciò che si insegue è una sconfitta del nemico sul campo. Anche questa è una scelta, bisogna avere il coraggio di ammetterla (Calenda qualche giorno fa l’ha detto chiaro e tondo senza tentennamenti).

Giorgia Meloni ieri ci ha detto che giudica puerile tutta la sua carriera politica precedente alla nomina alla Presidenza del Consiglio. È già qualcosa. Forse è per questo che per l’ennesima volta ci ha tenuto a dirci che lei governa “da madre”: intorno a lei è pieno di puerili compagni di governo.

Buon mercoledì.

Nella foto: frame del video delle comunicazioni della presidente del Consiglio al Senato, 21 marzo 2023

Vent’anni fa l’invasione Usa dell’Iraq. Perché i media italiani non ne parlano?

Il 20 marzo ho sfogliato molti dei quotidiani italiani. Cercavo, in particolare, articoli che ricordassero ai lettori che, esattamente 20 anni fa, nella notte tra il 19 e il 20 marzo 2003, gli Stati Uniti avevano cominciato a sganciare bombe e missili sull’Iraq.

Vent’anni dopo, i media italiani tacciono. Muti. Come se l’anniversario non esistesse. A parte Left che aveva dedicato a questo tema, già sul numero di febbraio un pezzo di Alfio Nicotra di Un ponte per dal titolo Vent’anni dopo quell’oceano pacifico di manifestanti contro la guerra
Fatta eccezione per un articolo a pag. 17 de La Repubblica, e per un articolo di Domenico Quirico a pag. 14-15 de La Stampa (con richiamo in prima pagina), il nulla assoluto. I media non sono un attore come un altro. Oggi costituiscono l’”avanguardia del partito della guerra” (Serge Halimi e Pierre Rimbert su Le Monde Diplomatique di marzo 2023) e, in generale, sono fondamentali nel produrre percezioni, senso comune, consenso, riprodurre l’ideologia dominante. Vent’anni fa furono proprio i media, a livello internazionale, a costruire le condizioni per l’invasione. Dan Rather, mezzobusto del telegiornale statunitense CBS Evening News per 24 anni, nel 2010 affermava che “se come giornalisti avessimo fatto il nostro lavoro, credo che potremmo sostenere con forza che probabilmente gli Stati Uniti non avrebbero mosso guerra all’Iraq”.

Cosa intendeva Rather? Che i media cominciarono a far suonare i tamburi di guerra mesi prima di quel terribile 20 marzo 2003. Per rimanere negli States, nelle due settimane che precedettero l’invasione, nelle emittenti ABC, CBS, NBC e PBS – tutte schierate sulla linea del presidente Bush – su 393 interviste totali solo 3 furono a membri di associazioni o gruppi contrari alla guerra: 390 a 3. E che, sempre gli stessi media, diedero per buone tutte le parole e le versioni che uscivano dalla bocca dei rappresentanti della Casa Bianca e del governo di Washington.

Non è probabilmente un caso che il 30 gennaio 2003, otto Paesi europei (Italia, Regno Unito, Spagna, Portogallo, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia e Danimarca) scelsero uno dei principali media internazionali, il Wall Street Journal, per pubblicare una lettera in cui offrivano il loro appoggio alla guerra che Washington stava per scatenare contro Baghdad: “Il vero legame tra europei e statunitensi è costituito dai valori che abbiamo in comune: democrazia, libertà individuale, diritti umani e Stato di diritto”. Serviva costruire una narrativa epica, serviva nascondere dietro la prosopopea dei “valori” l’imminente invasione dell’Iraq. Ancora: quando il 5 febbraio 2003, dinanzi al Consiglio di sicurezza dell’Onu, Colin Powell presentò la famosa “pistola fumante” delle fialette che avrebbero provato il possesso da parte di Saddam Hussein di armi di distruzione di massa; quando si accusava il regime di Baghdad di complicità con Al-Qaeda, nessun media faceva domande. Anzi, riproducevano allegramente le frottole del potere e davano addosso a chi si batteva per la pace (all’epoca chiamavano “pacifondai” quelli che oggi definiscono “pacifinti”). Così, il 6 febbraio 2003 La Stampa di Torino titolava “Powell: così Saddam nasconde armi e veleni”; il noto editorialista Pierluigi Battista scriveva in prima pagina “Gli scettici e la pistola fumante”, dando ovviamente addosso a chi si permetteva di porre dubbi sulla versione propagandata da Powell. Si riportava che l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi parlava di un “Powell convincente” e aggiungeva che “Il segretario di Stato Powell  ha dimostrato che l’Iraq ha ostacolato la missione Onu e continua a intrattenere rapporti con il terrorismo internazionale”. Cominciata l’invasione, il potere mediatico si produsse in un’altra trovata e imparammo a conoscere il “giornalismo embedded”: i corrispondenti venivano direttamente “incorporati” nell’esercito statunitense, dopo aver firmato un apposito accordo di riservatezza e segretezza. La funzione del “giornalismo embedded” fu spiegata in maniera cristallina dal tenente colonnello Rick Long, del corpo dei Marines statunitensi: “Francamente, il nostro lavoro è vincere la guerra. Parte di questo lavoro è la guerra di informazione. Per questo cerchiamo di dominare l’ambiente dell’informazione”. Vent’anni dopo l’inizio dell’invasione dell’Iraq sappiamo che poco è cambiato. La struttura del potere mediatico non è affatto cambiata, anzi. I giornalisti che mentirono, che contribuirono allo scatenamento del massacro in Iraq, nella stragrande maggioranza dei casi sono ancora ai loro posti. Senza nemmeno aver dovuto chiedere scusa. Non è stato ancora risolto il paradosso di società occidentali che anche oggi dicono di difendere i valori della “democrazia, libertà individuale, diritti umani e Stato di diritto” facendo l’opposto. Tra i pochi finiti in carcere c’è una delle pochissime voci che ha avuto l’ardire di raccontare la verità di quello che fu quella guerra: il “bagno di sangue” di 109mila morti, prima mai considerati, principalmente civili, oltre ad Abu Ghraib, l’uccisione del giornalista spagnolo Couso. Quella è la voce di Julian Assange, detenuto dall’11 aprile 2019 nel carcere britannico di massima sicurezza Belmarsh. Assange è il simbolo vivente che il sistema premia il giornalismo quando è supino ai suoi desiderata e lo punisce quando osa funzionare per davvero come “cane da guardia”. (Per approfondire leggi il libro di Left su Assange). Oggi i valori di cui pomposamente si riempiono la bocca politici, giornalisti ed editorialisti di casa nostra sono smentiti plasticamente da Julian Assange in cella Perché “la prima vittima di ogni guerra è la verità” non è una citazione di Eschilo, ma il triste presente.

 

Giuliano Granato è portavoce  nazionale di Potere al popolo