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In Francia esplode la protesta contro la riforma Macron sulle pensioni, imposta per legge

Parigi – La democrazia è fatta sicuramente di regole. Sono necessarie, ma non sono sufficienti. E a volte, le stesse regole del gioco democratico contraddicono il fine atteso. Il presidente Macron ha usato tutti gli strumenti costituzionali a sua disposizione per approvare una riforma che 9 lavoratori su 10 non vogliono in Francia. Non solo ha adottato una procedura al limite della legalità per accelerare il più possibile il dibattito (nella speranza che i sindacati non avessero il tempo di organizzarsi), ma davanti ad un Parlamento che esitava ad approvarla (in cui i deputati erano sommersi da messaggi che chiedevano di non votare la riforma), il governo Borne ha usato l’articolo 49-3 della Costituzione francese che permette di approvare una legge senza il voto del Parlamento. E così è stato. Ma come per la procedura accelerata, questa mossa ha avuto l’effetto opposto a quello sperato: se Macron e Borne speravano che le manifestazioni cessassero una volta approvata la riforma, la risposta sono state decine e decine di manifestazioni spontanee in tutto il Paese, la più significativa delle quali è stata a Place de la Concorde,a Parigi, dove migliaia di persone hanno “assediato” l’Assemblea nazionale.

Già da settimane, con l’avvicinarsi del voto, del Parlamento, le manifestazioni e gli scioperi erano aumentati in numero e in partecipazione. Oltre al settimanale sciopero nazionale, si erano aggiunti scioperi locali, occupazioni di scuole e università, manifestazioni spontanee. I sindacati hanno deciso di alzare il livello della lotta e hanno organizzato azioni di blocco (dalle tangenziali con le barricate inffiammate, ai depositi di gas occupati e poi chiusi, alle dighe elettriche fermate, all’occupazione di centri di smaltimento rifiuti con Parigi sommersa dalla spazzatura, al blocco dei binari). Ma molte altre azioni sono state organizzate da gruppi di giovani delle periferie, con cassonetti dati alle fiamme.
La polizia ha cambiato atteggiamento verso le proteste dopo l’approvazione della riforma tramite il 49-3: se fino a quel momento era stata discreta, poi ha attuato azioni di repressione violenta delle manifestazioni. In alcuni casi si è assistito all’arresto in massa di decine e decine di persone, o all’aggressione di studenti che uscivano per sostenere l’occupazione di un sito produttivo.

Le azioni, tanto quelle sindacali quanto quelle spontanee, sono tante e diverse ed è difficile dare conto di tutto. Ma è proprio questo il punto centrale della situazione attuale. Il movimento di protesta non si ferma davanti all’approvazione della riforma. Anzi, dall’inizio degli scioperi lo scorso gennaio è costantemente cresciuto e ha saputo avvicinare tanto i giovani, i movimenti femminili, ma anche categorie lontane dal mondo salariato come gli agricoltori (che partecipano alle manifestazioni) o i commercianti (che abbassano le serrande in solidarietà con gli scioperi). L’eco parlamentare di questo movimento di protesta lo si è visto nel voto per la mozione di censura del governo, approvata con soli 9 voti. Le due volte in cui i lavoratori e i sindacati vinsero in precedenza fu nel 1995 (anche allora sulle pensioni) e nel 2005 (contro il contratto di lavoro per i giovani). Nei due casi, sebbene la riforma fosse stata approvata, le manifestazioni non si fermarono e andarono avanti per mesi. Nel 2005 la moltiplicazione delle azioni da parte dei giovani e dei sindacati arrivarono a un livello tale per cui le forze dell’ordine, nonostante la repressione violenta, non riuscivano più a gestire l’onda crescente. Il governo fu obbligato, dopo aver approvato la riforma, a fare una nuova legge per cancellarla vista la rivolta sociale sempre più ingestibile.

Questa volta può accadere la stessa cosa, anche se per il momento è meglio dirlo a bassa voce. L’azione dei sindacati unita a quella dei giovani può riuscire a bloccare questa riforma. Una riforma che ha coagulato contro di sé tante altre contraddizioni, legate alla disoccupazione post pandemia, all’inflazione connessa alla guerra in Ucraina e all’insoddisfazione per tante controriforme (come quella che riguarda la disoccupazione, che colpisce i precari).
A tutto questo si aggiunge il disprezzo per la democrazia mostrato dal governo. Macron è stato eletto per battere Le Pen, così volevano molti che l’hanno votato al secondo turno. E il governo da lui sostenuto non ha una maggioranza parlamentare autonoma e deve sempre poter contare sui voti della destra o della sinistra. In questa situazione, anche cittadini miti e moderati, vedono nell’utilizzo del 49-3 un gesto profondamente e sostanzialmente antidemocratico. Da un punto di vista costituzionale è tutto corretto (anche se si dovrà pronunciare la Corte Costituzionale), ma appunto la democrazia non è fatta solo di regole.

Le prossime settimane mostreranno se i sindacati riusciranno a resistere un minuto più del governo o se le forze di polizia prevarranno. Ma già è stato annunciato un referendum abrogativo, per il quale saranno necessarie 4,8 milioni di firme per poterlo ottenere. Un obiettivo anch’esso scarsamente democratico ma che, visto il livello delle mobilitazioni, può essere raggiunto.

Il lungo cammino della poesia delle donne in Italia, dal Novecento a oggi

Per festeggiare la giornata mondiale della poesia pubblichiamo l’introduzione del libro Poesia delle donne Volume II a cura di Lorenzo Pompeo. Il volume che vede il contributo di molti autorevoli studiosi fa seguito al libro Poesia delle donne donne I uscito l’anno scorso e curato da Lorenzo Pompeo e Rosalba De Cesare. Questo volume che ha dato il la alla collana sarà presentato domani, 22 marzo a Roma, dalle 17 alla Biblioteca Quarticciolo 

L’antologia/monografia La poesia delle donne volume II edita da Left si ricollega a quella uscita l’anno scorso a cura del sottoscritto in collaborazione con Rosalba De Cesare. Nell’introduzione mi ero riproposto di dedicare allo specifico della poesia italiana lavoro supplementare. In quell’occasione avevo deciso di dedicare il saggio introduttivo a tre figure, Emily Dickinson, Anna Achmatova e Wysława Szymborska, intorno alle quali esiste un consolidato consenso a livello mondiale in relazione al loro ruolo di figure-chiave della poesia novecentesca. Naturalmente l’elenco potrebbe essere integrato da altri nomi, ma l’importanza di queste tre poetesse può essere considerato un fatto assodato.

Nel caso della poesia italiana, possiamo individuare poetesse di primo piano in relazione alla loro epoca, ma se prendiamo in esame il Novecento fino ai nostri giorni, risulta più difficoltoso individuare una o due figure-chiave dalle quali partire per descrivere e analizzare l’intero fenomeno della poesia femminile novecentesca.
Possiamo però individuare una costante che riguarda tutto il novecento italiano: la scarsa presenza dei nomi di autrici nelle antologie della poesia italiana (che però, occorre riconoscerlo, sono perlopiù curate da autori). Nella Antologia della poesia italiana (1909-1949) di Giacinto Spagnoletti edita da Guanda nel 1950 erano presenti solo due autrici (Antonia Pozzi e Alda Merini, presentata come «assolutamente inedita»). In Poesia italiana del Novecento, l’antologia curata da Edoardo Sanguineti per Einaudi e uscita nel 1969, non compare nemmeno una autrice. In Poeti italiani del Novecento curato da Vincenzo Mengaldo per gli Oscar Mondadori nel 1990 (ma uscito nel 1978 nella ben più prestigiosa collana de I meridiani) l’unica poetessa rappresentata era Amelia Rosselli. Nei due volumi della Poesia italiana del Novecento a cura di Pietro Gelli e Gina Lagorio, editi nel 1980 (quindi dopo l’auge del femminismo italiano degli anni Settanta) nella collana Grandi libri Garzanti le poetesse antologizzate, furono ben sette (Elsa Morante, Antonia Pozzi, Daria Menicanti, Margherita Guidacci, Elena Clementelli, Maria Luisa Spaziani e Giovanna Bemporad), ma inspiegabilmente non compare il nome di Amelia Rosselli. Ma neanche intorno a questi nove nomi esiste un generale consenso nei lavori dedicati allo specifico della poesia femminile italiana. Il volume Donne in poesia a cura di Biancamaria Frabotta edito da Savelli nel 1976, tra le 24 autrici antologizzate, non include Giovanna Bemporad né Elena Clementelli né Alda Merini, la quale, tra queste otto autrici nominate, è l’unica che successivamente sarebbe riuscita a guadagnarsi una certa notorietà al di fuori della cerchia degli studiosi, i quali a loro volta in parte ne disconoscono i meriti artistici. In nessuna di queste antologie citate compaiono i nomi di Ada Negri e di Sibilla Aleramo, che pure furono nella prima metà del Novecento due figure di primissimo piano (la seconda è oggi molto più nota per le prose e per la biografia).
Nel corso degli ultimi due decenni del Novecento però fortunatamente si può osservare un cambiamento radicale in favore di una presenza di autrici molto più significativa sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo. Con la “stagione dei movimenti” si era affermata una nuova generazione di poeti, tra i quali alcune figure femminili giocarono un ruolo di primo piano. Molte tra le voci di questa generazione però rappresentarono un fenomeno effimero legato alla contingenza politico-culturale. A questa temperie è legata l’antologia Donne in poesia a cura di Biancamaria Frabotta, fotografia di un momento di esplosione creativa legato alle istanze del movimento femminista, che proprio in questi anni aveva raggiunto una dimensione di massa. Tuttavia tra le “giovani” poetesse di questa antologia, Patrizia Cavalli sarà l’unica a guadagnarsi una collocazione centrale sulla scena della poesia italiana nei due decenni successivi. Alcune vennero sostanzialmente dimenticate, altre, come Piera Oppezzo, sono state oggetto di una tarda e recente “riscoperta” postuma. Tuttavia un fatto è certo: questa generazione di poetesse aprì quella breccia che permise alla poesia femminile di acquistare una presenza molto più rilevante sulla scena letteraria del nostro Paese. Negli anni Ottanta tutte le autrici che abbiamo menzionato continuavano a scrivere e a pubblicare. A questa nutrita produzione di autrici ormai celebri, che avevano acquisito un consolidato riconoscimento da parte della critica e del mondo accademico, si aggiungevano opere di autrici esordienti destinate ad affermarsi nella prima metà del decennio successivo. La somma di questi fattori rese la poesia femminile di quel decennio un formidabile laboratorio della poesia contemporanea. In questi anni salirono sulla ribalta della scena letteraria, tra le altre, Patrizia Valduga, Rosita Copioli, Giovanna Sicari, Antonella Anedda, oltre alla stessa Biancamaria Frabotta. In parallelo furono attive figure ascrivibili a sottogeneri e settori, come la poesia sperimentale e dialettale, che vanno a completare un quadro complesso e diversificato, del quale è ormai difficile offrire una rappresentazione completa. Possiamo però affermare senza ombra di dubbio che a partire da questo decennio la presenza delle donne nel parnaso della poesia contemporanea non fu più minoritaria né marginale né trascurabile, tanto che la stessa accezione di “poesia femminile” perse quel senso di riscatto e di rivalsa per diventare un semplice dato anagrafico, a cui la critica è chiamata a offrire, volendo, una chiave interpretativa, ma non più una giustificazione.
Ma se vogliamo ripercorrere il lungo cammino che ha portato a questo traguardo, ci troviamo di fronte a diversi ostacoli e problemi. Prima di tutto: cosa fare con le poetesse della prima metà del Novecento? Abbiamo già potuto rilevare la totale assenza dalle antologie della seconda metà del Novecento di figure di primissimo piano del precedente cinquantennio, come le menzionate Ada Negri o Sibilla Aleramo. Tra le due, sicuramente la prima ebbe avuto una maggiore e più lunga familiarità col verso e, nell’epoca in cui visse e scrisse, prima volta in assoluto per una poetessa italiana vivente, le furono tributati onori e riconoscimenti. Infatti nel 1931, alla presenza del re e della regina, in una cerimonia solenne nella sala degli Orazi e Curiazi al Campidoglio, le venne attribuito il premio Mussolini per le discipline letterarie e nel 1940 ricevette, prima e ultima donna, la nomina ad Accademica d’Italia. Morì nel 1945 e dopo la guerra la sua figura, forse perché a torto considerata vicina agli orientamenti ideologici e culturali del regime fascista, venne sostanzialmente cancellata. Già solo per questo motivo le poesie di Ada Negri meritano di essere rilette con la massima attenzione. Ci si accorgerebbe subito del fatto che la sua poesia non fu mai al servizio del regime. Si sa che Negri conobbe Mussolini, probabilmente tramite Margherita Grassini Sarfatti, la quale, com’è noto, fu per un breve periodo amante del giovane Mussolini (che introdusse nei salotti dell’alta borghesia milanese) e, al tempo stesso, amica e protettrice di Ada Negri. Questo contatto risale però agli anni che precedettero lo scoppio della prima guerra mondiale in cui entrambi gravitavano intorno al partito socialista. Vi fu una corrispondenza privata tra i due nella quale la poetessa mostrò tutto il suo appoggio verso Mussolini e le sue scelte politiche anche dopo l’avvento del fascismo, ma la sua creazione letteraria non fu contagiata dalla retorica del regime. Tra l’altro, nel 1922, l’anno della Marcia su Roma, aveva già pubblicato sette raccolte di poesia e due opere in prosa. Ma vale la pena ripercorrere il suo percorso umano e intellettuale dal principio.
Ada Negri nasce a Lodi nel 1870 in una famiglia di umili origini. La madre Vittoria era tessitrice e il padre, che morì l’anno seguente, faceva il vetturino. Per tirare avanti Vittoria si impiegò in un lanificio per tredici ore al giorno, abitando presso la portineria dove lavorava come custode sua madre. Tra il 1873 e il 1876 Ada frequenta l’asilo di carità per l’infanzia e successivamente le scuole elementari. Nel 1884 si iscrive alla scuola normale femminile e nel 1887 ottiene la patente di insegnante elementare e comincia a lavorare, non ancora diciottenne, in un convitto femminile privato a Codogno. Nel 1888, Appena raggiunta la maggiore età è chiamata come supplente a Motta Visconti, in una classe di prima elementare maschile composta da centonove scolari. Nello stesso anno, sul settimanale Fanfulla da Lodi pubblica la sua prima poesia, a cui seguirono negli anni successivi molte altre pubblicazioni su altri periodici. Ma la svolta fu la visita della giornalista Sofia Bisi Albini, che pubblicò sul Corriere della sera del 20 dicembre del 1891 un resoconto dell’incontro. Nel marzo dell’anno seguente l’editore Treves pubblica Fatalità, l’esordio poetico di una autrice che era già diventata un caso letterario. Tanto che nel 1894 Ada ottenne l’abilitazione all’insegnamento delle lettere italiane nelle scuole normali del Regno “per chiara fama”. Si trasferì a Milano, dove insegnò presso la scuola normale superiore femminile Carlo Tenca, entrò nel comitato direttivo della lega femminile e frequentò la casa di Filippo Turati e Anna Kuliscioff (che Ada considerò «sorella ideale»). Legata principalmente alle passioni politiche di questa stagione Tempeste, la seconda silloge di poesia che uscì nel 1895. La protesta sociale rappresenta infatti il tema principale delle liriche di questa raccolta. L’anno successivo però Ada, donna avvenente oltre che ormai celebre, riceve una proposta di matrimonio da parte dell’industriale Giovanni Garlanda, che accettò. Dopo il matrimonio, i coniugi si trasferirono a Valle Mosso, nel biellese, e nel 1898 nacque la primogenita Bianca (la secondogenita Vittoria, nata nel 1900, visse solo poche settimane). L’impegno politico però non venne meno, come testimonia la partecipazione attiva di Ada nella fondazione, nel 1899, dell’Unione femminile nazionale (associazione nata da organizzazioni di mutuo soccorso operaio per promuovere l’emancipazione delle donne attraverso l’acquisizione dei diritti politici, sociali e civili). Tuttavia una nota introspettiva e autobiografica, legata alla maternità, alla tragica scomparsa della secondogenita e, nel 1903, anche del fratello, si fece strada nelle sue poesie. Non a caso la sua terza raccolta, uscita nel 1904, si intitola Maternità. L’agiatezza e lo status “borghese” a cui è ormai approdata non le impedisce di esprimere nelle liriche di questa silloge tutta la sua solidarietà verso donne meno fortunate di lei. Nel 1910 la raccolta Dal profondo segna una ulteriore passaggio verso una malinconica introspezione. In “Un fratello”, la lirica di apertura, si immagina di incontrare un giovane e povero ribelle nel quale rivede se stessa da giovane: («Ti fui compagna per le ignote strade / del mondo e all’ombra dei crocicchi, in una / vita lontana che fu mia (..)/»), ma dal quale lo separa il suo attuale status di signora dell’alta società. L’autrice dichiara di conservare nel suo cuore la scintilla della ribellione («Sono rimasta zingara, nel fondo / del cuore. – Non si mente al proprio sangue – ») ma il suo destino l’ha ormai portata verso una direzione diversa: «Forte e libero tu fra tanti schiavi, / addio. Colei che passa è tua sorella; / ma la folla l’inghiotte – e ognun va solo / col mistero di sé, fino alla morte» – dichiara l’autrice in chiusura. Nel frattempo però i rapporti col marito si vanno deteriorando fino alla rottura: nel 1913, Ada deciderà di seguire la figlia Bianca a Zurigo. Tornerà a Milano nel 1915. A questo periodo risale la frequentazione e l’amicizia con Margherita Grassini Sarfatti, la definitiva rottura con il socialismo turatiano e l’avvicinamento alle posizioni interventiste sostenute dal Popolo d’Italia diretto da Benito Mussolini.
Nel 1917 uscì Le solitarie, prima opera in prosa, una raccolta di ritratti di donne, diverse per ceto, età e condizioni economiche, ma accomunate dalla struggente consapevolezza della solitudine e del rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere la loro vita. Nella breve lettera dedicata a Sarfatti che apre il volume, Ada dichiara di aver voluto raffigurare «umili scorci di vite femminili sole a combattere: malgrado la famiglia, sole: malgrado l’amore, sole: per colpa propria o per colpa degli uomini e del destino, sole». Grazie ai proventi di questo libro, Ada fu in grado di comprarsi una casa dove andrà a vivere con la madre e la figlia.
Due anni dopo, nel 1919, uscì Il libro di Mara, raccolta di 41 testi poetici in versi lunghi che esprimono il tormento e la passione di un amore sconfinato dopo la morte dell’amato (probabile eco di un amore troncato dalla morte dell’uomo a lei caro a causa dell’epidemia di febbre Spagnola), considerato il vertice della sua produzione in versi. «Ada Negri raggiunge (..) una maturità artistica riconosciuta anche da Croce (“è l’opera sua più notevole”): l’irruenza del dettato, il saldo disegno della scrittura, nonostante gli evidenti debiti verso le suggestioni del D’Annunzio notturno, l’emotività esibita senza pudore, il fascino delle atmosfere trasognate, le cadenze monodiche dei ricordi rendono la vicenda molto coinvolgente, soprattutto per il pubblico femminile, a cui ancora l’autrice si rivolge, affascinandolo con la descrizione della sventurata vicenda passionale della protagonista» scrive Pietro Sarzana nel saggio: “La vita risolta in un grido” (premessa a Poesie e prose, Mondadori, Milano 2020). Il seguito della sua produzione in versi e in prosa non fu che la conferma di quanto l’autrice aveva fin qui dimostrato, con l’aggiunta di una nota di misticismo e di malinconica mestizia legata al trascorre degli anni. Fu candidata al premio Nobel nel 1926 e nel 1927.
Sono almeno due le ragioni per cui in una storia della poesia italiana (e a maggior ragione di quella femminile) non si può ignorare Ada Negri. Prima di tutto perché fu una figura di primissimo piano della scena letteraria per quasi mezzo secolo, che lasciò un segno profondo non solo nel mondo delle lettere, ma anche nel costume e, più in generale, nella dinamica socio-culturale della prima metà del Novecento. Ma se volessimo restringere il campo d’indagine alla sua produzione in versi, dobbiamo prima di tutto rendere onore a una autrice che dimostrò una grande padronanza del verso. Anche se dobbiamo riconoscere che non fu una “assoluta innovatrice” (il suo linguaggio e il suo gusto rimasero ancorati alla tradizione dannunziana), alcuni suoi componimenti della fase della maturità, specialmente quelli più brevi (che meno risentono del peso dell’impianto retorico) rappresentano dei piccoli gioielli.
La tragica vicenda umana e intellettuale di Antonia Pozzi, che si consumò proprio in quegli stessi anni, rappresenta l’esatto opposto rispetto a quella di Ada Negri. La prima fu discreta e anonima (non pubblicò nulla in vita) quanto la seconda occupò il centro della scena letteraria nazionale. Dalla prima edizione postuma, Parole. Liriche del 1939, voluta e curata dai genitori a un anno dal suicidio a soli ventisei anni, le edizioni postume delle sue poesie, diari e lettere si sono succedute in modo incessante. La sua figura è stata oggetto di un vero e proprio culto che arriva fino ai giorni nostri (nel 2009 la cineasta Marina Spada le ha dedicato il docufilm Poesia che mi guardi; nel 2014 i registi Sabrina Bonaiti e Marco Ongania hanno realizzato sullo stesso argomento il documentario Il cielo in me. Vita irrimediabile di una poetessa mentre nel 2016 mentre Ferdinando Cito Filomarino ha diretto il film Antonia dedicato alla sua biografia). Il gioco degli opposti potrebbe essere esteso anche all’estrazione sociale, essendo la Pozzi figlia di una contessa e di un importante avvocato milanese. Allo stesso modo la “rimozione” della Negri dal canone novecentesco può essere letto come speculare al culto della Pozzi.
Decisiva fu l’edizione Mondadori (la terza contando quella a cura dei familiari) del 1948 di Parole. Diario di poesia con prefazione di Eugenio Montale, citata anche da Spagnoletti nella sua Antologia della poesia italiana (1909-1949) edita da Guanda nel 1950, che ne sancì l’ingresso nel canone della poesia novecentesca, in cui Spagnoletti scriveva: «Antonia Pozzi merita di uscire dal limbo tra polemico e mondano in cui trova facili consensi certa odierna poesia “controcorrente” – dice Montale nella prefazione a Parole. Infatti tale era sembrata, al suo primo apparire, la gracile lirica della Pozzi: una poesia da “adoperare” contro i cultori dell’ermetismo, una poesia tutta di cuore, di domande fresche e patite». Malgrado gli studiosi in seguito abbiano messo in guarda da un abuso della nozione di “spontaneo” o, peggio ancora, di “autentico” (spesso in contrapposizione alle artificiose alchimie dell’ermetismo) in relazione alla sua poesia, era inevitabile che proprio questi fossero i motivi alla base di un successo presso una vasta cerchia di lettori. Non c’è niente di male, anche perché proprio questa è la prima impressione a una prima lettura.

A questo fenomeno probabilmente non è estranea la figura di un’altra grande “poetessa postuma”, ovvero Emily Dickinson (di cui Einaudi ha appena pubblicato la raccolta Poesie a cura di Silvia Bre ndr), che proprio in quegli anni cominciava a essere nota anche in Italia, funzionale alla “narrazione” dell’inizio di un nuovo ciclo (in questo caso della poesia novecentesca) per mezzo del «sacrificio rituale di una vergine». Per il resto, riguardo ad Antonia Pozzi, rimando il lettore al saggio a lei dedicato nel presente lavoro da Martina Benigni.
Diverso il caso di Sibilla Aleramo, che cominciò a pubblicare le proprie poesie quindici anni dopo il suo fortunato esordio nel campo della prosa col romanzo Una donna, che uscì nel 1906, considerato uno dei primi romanzi femministi italiani, di chiara ispirazione autobiografica e che ottenne quasi subito un successo internazionale (da allora in poi si firmò con lo pseudonimo di Sibilla Aleramo). L’incontro con il verso fu inatteso e improvviso, quasi una rivelazione: «avevo oltrepassato di qualche anno la trentina quando i primi ritmi erano sbocciati in me, un’estate solitaria in Corsica, in un trapasso inavvertito dalla prosa a una libera versificazione. Proprio in quello stesso mese avevo principiato a stendere qualche periodo del mio secondo libro Il passaggio, e anche lì, per la prima volta, il mio mondo intimo si esprimeva con movenze e accenti lirici… che cosa avesse determinato sotterraneamente questa specie di accensione, di conquista, anche questo non potrei dire. Fino ad allora m’ero ritenuta negata alla poesia… forse perché digiuna di studi classici, e perfino di qualsiasi cognizione di metrica», scrive in Gioie d’occasione e altre ancora. Questo episodio si è svolto nel 1910, in un periodo di inquieto vagabondare tra città (Napoli, Firenze, Roma, Milano) e luoghi di villeggiatura (Corsica, Capri, Sorrento) tra varie e numerose relazioni di diversa lunghezza e intensità con poeti, letterati, intellettuali e artisti (tra cui Cena, Damiani, Cardarelli, Campana, Boine, Papini, Quasimodo, Evola e molti altri) ma anche ricchi imprenditori e atleti (non mancò una breve parentesi saffica con la studiosa di lettere classiche Lina Poletti, che diventerà la protagonista del romanzo Il passaggio). In Momenti, la silloge d’esordio del 1921, Sibilla raccoglie i frammenti lirici di otto anni, quaranta componimenti che paiono scritti di getto (nel titolo è già espresso il loro carattere rapsodico), in gran parte brevi, nei quali la dimensione erotica è prevalente e piuttosto esplicita, in cui la scrittrice cerca di catturare l’attimo che fugge. Appaiono quasi come pagine di un diario che si è scritto da sé, a cui l’autrice ha solo prestato la sua mano. Se vogliamo la sua poesia è una espressione verbale di sensazioni e ciò rappresenta, allo stesso tempo, il suo limite (la poca cura della forma e la superficialità) e il suo punto di forza (libera spontaneità, leggerezza). Le sue poesie, almeno fino alla terza raccolta Sì alla terra, del 1934, possono essere considerate una testimonianza delle passioni e delle inquietudini di una donna che fece della propria libertà il valore supremo.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale finalmente si arriva al suffragio universale e per la prima volta nelle elezioni amministrative del 1946 le donne sono chiamate al voto. Nell’Assemblea costituente, nello stesso anno, vengono elette sei donne. Due anni dopo, nel 1948, esce lo straordinario Menzogna e sortilegio di Elsa Morante, probabilmente uno dei migliori romanzi italiani del Novecento.
Nel campo della poesia, il debutto più importante nell’immediato dopoguerra fu quello di Margherita Guidacci, che nel 1946 pubblicò La sabbia e l’angelo. Aveva ventisei anni (era nata a Firenze nel 1921) e si era laureata nel 1943 con una tesi su Ungaretti. La sua poesia però nulla aveva a che fare con Ungaretti. Dichiarò in seguito l’autrice: «Il mio vero cammino cominciò nel 1946 con La sabbia e l’angelo, in cui cercai di dominare, esprimendolo, il dominante senso di morte che aveva gravato su di noi nei terribili anni della guerra». In un suo intervento in una conferenza così descrisse la sua silloge d’esordio: «Erano delle sentenze, delle massime molto brevi, scritte però quasi in una forma di prosa, per lo meno di versetto biblico, il che era completamente contrario alla prassi del tempo che era tutta di derivazione ungarettiana e quindi con le parole sgocciolate in un effetto visivo tutto verticale. Le mie poesie invece erano tutte orizzontali».
Figlia unica, Margherita aveva perso a dieci anni il padre amato, che sui prati di Scarperia, nel Mugello, dove da secoli la famiglia aveva terre e una vecchia casa d’epoca medicea, le aveva insegnato a riconoscere le costellazioni. Chiusa in una timidezza forte come l’orgoglio, ebbe un’infanzia solitaria e pensosa, vivendo con la madre e la nonna. Dedita intensamente allo studio e alle letture, a otto anni aveva già scritto «varie novelle e un paio di commedie». «Nella vita ero entrata, per così dire, a ritroso, senza staccare lo sguardo dal termine che ci attende sulla terra, il disfacimento della carne. E quel termine mi riempiva di tanto terrore da esercitare su di me una specie di sinistro incantesimo», aveva dichiarato in una intervista la poetessa nel 1958 (dal titolo “La morte come vita”, pubblicata su Il Popolo il 5 gennaio 1958)
De Benedetti sarà stato il primo a recensire La sabbia e l’angelo dalle colonne de L’Unità nel gennaio del 1947, colpito dalla forza e dal carattere di quella nuova voce poetica, impossibile a spiegarsi con antecedenti e frequentazioni, quantunque colta e ricchissima di echi (negli anni tra il ‘46 e il ‘47 Margherita già commentava e traduceva John Donne, T.S. Eliot, Emily Dickinson, maestri di cui si nutrì).
A distanza di anni si comprese meglio l’assoluta e dirompente novità che la comparsa di questa silloge rappresentò rispetto alla scena letteraria di quegli anni, che a partire dalla fine degli anni Trenta era dominato dall’ermetismo. Convenzionalmente il saggio di Carlo Bo comparso su Il frontespizio nel 1938, Letteratura come vita viene considerato il suo manifesto. In realtà l’ermetismo non fu un movimento, quanto piuttosto un gusto o una tendenza, attorno al quale vi fu una convergenza tra giovani poeti in quegli anni, verso una poesia pura agganciata ai modelli del simbolismo europeo, Mallarmé e Rilke in primo luogo (tra gli italiani, Il porto sepolto di Ungaretti fu considerato un modello di riferimento). Firenze, dove nel 1927 si era trasferito Eugenio Montale (vi rimase fino al 1948) fu il centro dell’ermetismo. La rivista Campo di Marte, che fu attiva solo un anno (dall’agosto 1938 all’agosto del 1939, quando venne soppressa d’autorità dalla censura fascista), diretta da Alfonso Gatto e Vasco Pratolini, insieme alla più longeva Letteratura diretta da Alessandro Bonsanti, sono considerate le pubblicazioni di punta di questo movimento. Attorno a questi due periodici si raccolsero gli scrittori e i poeti più promettenti della loro generazione, tra cui Tommaso Landolfi (che si era laureato a Firenze nel 1932), Carlo Emilio Gadda, Elio Vittorini e molti altri. I giovani poeti toscani Mario Luzi, Alessandro Parronchi e Piero Bigongiari (tutti e tre nati nel 1914), protagonisti della “generazione dell’ermetismo”, cominciavano a farsi conoscere proprio in quegli anni. Le loro poesie erano accomunate dal culto della parola “assoluta”, che travalica la concreta realtà e la storia, alla ricerca di un senso collocato in un piano superiore. La Guidacci crebbe in questo ambiente, ma seguì una strada completamente diversa. «Uno dei miei capisaldi è stata la chiarezza, perché la conoscenza mira a raggiungere una sua interna chiarezza e a trasmettersi con chiarezza» dichiarò successivamente, una presa di posizione che ricorda la reazione degli acmeisti russi (tra cui Anna Achmatova in primo luogo) nei confronti della poesia simbolista.
Prima della silloge d’esordio, nei Consigli a un giovane poeta (che pubblicò molto dopo) la poetessa provò a chiarire, prima di tutto a se stessa, le ragioni della sua poetica. Il primo di questi cinque punti diceva: «Meglio scrivere un libro importante nel deserto / dirgli sei figlio del deserto, qui sei nato e qui rimani,/ solo le pietre e il vento ti avranno conosciuto,/ che diventare celebri per equivoco». La sabbia e l’angelo, concepito e scritto nelle tragiche circostanze di quegli anni, venne al mondo senza alcuna soggezione o paternità. «Il mio primo libro, in certo senso, era monodico e corale al tempo stesso. Era un libro scritto nell’immediato dopoguerra e che cercava soprattutto una comunione con i morti. Avevo il senso che la poesia fosse fosse la sola cosa che poteva, in qualche modo, mettere ancora in comunicazione i due mondi. Infatti, la poesia d’apertura diceva: “Chi grida sull’alto spartiacque è udito da entrambe le valli. / Perciò la voce dei poeti intendono i viventi e i morti”» – dichiarò in proposito la poetessa.
La sua silloge d’esordio, anche se non fu ignorata dalla critica, si collocò in una posizione marginale rispetto alla tendenza allora dominante nella poesia italiana. Essa tuttavia rappresenta non solo il punto più alto nella creazione letteraria dell’autrice, ma, grazie a l’altissima tensione e la densità dei suoi versi («Non scriverlo sarebbe equivalso per me, letteralmente, a morire» dichiarò in seguito l’autrice), anche uno dei capolavori della poesia novecentesca italiana. La critica ci mise qualche anno ad accorgersene. Il nome della Guidacci apparve nel 1954 per la prima volta in una antologia di poesia contemporanea grazie Piero Chiara e Luciano Erba, i curatori di Quarta generazione. La giovane poesia (1945-54); quattro anni dopo, nel 1968, Salvatore Quasimodo la incluse nella sua antologia Poesia italiana del dopoguerra, e dieci anni dopo, nel 1964, Giacinto Spagnoletti la inserì nella sua antologia Poesia italiana contemporanea (1909-1959), ideale continuazione e aggiornamento di quella summenzionata del 1954 in cui erano incluse Antonia Pozzi e Alda Merini (dieci anni dopo entrerà, oltre a quello della Guidacci, entrerà anche il nome di Sibilla Aleramo).
Ben diverso è il caso di Maria Luisa Spaziani, nata a Torino nel 1924 in seno a una agiata famiglia di imprenditori industriali. Esordì nel 1954 con Le acque del sabato e venne immediatamente notata e inclusa nella citata antologia curata da Piero Chiara e Luciano Erba. La stessa autrice, nella prefazione dell’auto-antologia Poesie (1954-1996) a proposito di questa silloge scrisse: «appartiene, vorrei dire, alla mia preistoria esistenziale, agli anni in cui ero ancora in famiglia a Torino. Dirigevo a diciannove anni una piccola rivista che si chiamava “Il dado” attraverso la quale mi trovavo in corrispondenza o avevo fatto amicizia con alcuni poeti e scrittori ai quali sarei stata vicina tutta la vita, da Mario Luzi a Sandro Penna, da Sinisgalli a Pratolini (..). Aleggiava ancora nell’aria l’ermetismo, e qualche viaggio a Firenze mi permise di sentirne ancora l’odore vivo. Ma in quegli anni (1953) si aprì un inaspettato spiraglio, che si sarebbe poi rivelato un torrente di luce, e cioè ebbi la mia prima borsa di studio a Parigi. L’ultima parte de Le acque del sabato reca notizia di questa fulminante scoperta. All’acquarello così educato ed ermetizzante delle prime poesie si affiancarono i colori di una vita e di un ambiente diverso, scoperte ed emozioni». Da questo racconto possiamo cogliere le ragioni e il carattere della sua poesie, che si colloca sulla scia dell’ermetismo, e più in generale nel rispetto della grande tradizione dell’endecasillabo, misura che la Spaziani si dimostrò in grado di padroneggiare con estrema maestria. Nel gennaio del 1949, durante una conferenza del poeta al teatro Carignano di Torino, conobbe Eugenio Montale, che frequentò in seguito a Milano. Ne nacque un importante sodalizio intellettuale e umano che lasciò un segno importante anche nelle liriche della giovane torinese. Queste furono le premesse di una lunga e feconda produzione poetica di ottimo livello nel solco della migliore tradizione della prima metà del novecento. Quando, nel 1966, Spaziani diede alle stampe Utilità della memoria, sua seconda silloge, sulla scena letteraria italiana si già manifestata l’esigenza di un cambiamento, un rinnovamento invocato a grande voce dalle cosiddette “neo-avanguardie” (“gruppo 63” e dintorni).
Un caso unico e singolare è quello di Amelia Rosselli, la poetessa che, forse per via di un equivoco, sembrò più vicina alle istanze di rinnovamento delle neo-avanguardie. Era nata a Parigi nel 1930 da Marion Catherine Cave e da Carlo, l’antifascista esule che nel 1937 verrà ucciso per ordine di Mussolini insieme al fratello Nello. Poco prima dell’occupazione della Francia da parte della Germania nazista, la famiglia parte per gli Stati Uniti, ma nell’immediato dopoguerra tornerà in Italia, dove però la madre non riesce ad ambientarsi. Intorno agli anni Cinquanta Amelia si stabilisce a Roma, dove tenta di portare a termine, senza successo, studi di filosofia e di musicologia e comincia a scrivere in inglese e francese. Lavora come traduttrice e consulente editoriale. Intorno alla metà degli anni Cinquanta comincia a scrivere anche in italiano. Alcuni suoi componimenti vennero apprezzati da Pier Paolo Pasolini, che li fece pubblicare su Il menabò nel 1963. L’anno successivo vide la luce Variazioni belliche, la sua prima silloge, che sembrò a molti un compendio di quel rinnovamento invocato dal Gruppo 63. Pier Vincenzo Mengaldo, che la inserì, unica presenza femminile, nella sua antologia Poeti italiani del novecento, scrisse: «La formazione plurilingue (..) da lei finalizzata alla ricerca di una sorta di “linguaggio universale”, sta in parte all’origine della lingua vistosamente deviante delle due prime raccolte: che fra lapsus, barbarismi e innovazioni calcolate perverte – o semplicemente ignora – la norma scritta (e orale) italiana a tutti i livelli, grafia e morfologia, sintassi e lessico. Ma l’aggressione disgregatrice perpetrata da questi “versi fatti con furore di distrazione” pochissimo o nulla ha in comune con lo sperimentalismo guidato e tecnologico della neo-avanguardia (..) ed esattamente opposto è l’esito: una scrittura, o una scrittura-parlato, intensamente informale, in cui per la prima volta si realizza quella spinta alla riduzione assoluta della lingua della poesia a lingua del privato, che si ritrova quindi in non pochi poeti post-sessantotteschi».
Senza dubbio la poesia della Rosselli fu audace e innovativa; aprì nuovi orizzonti linguistici al di là dell’italiano letterario novecentesco fino a quel momento praticato, da D’Annunzio a Montale passando per i poeti ermetici, e per questo venne da molti a torto assimilata a una sorta di nostrano poeta “beat”, ma fu e rimase un fenomeno circoscritto negli ambienti degli accademici e di pochi intellettuali, per un semplice motivo: le sue poesie non riescono (per una precisa scelta dell’autrice) a generare alcuna empatia nel lettore comune (questa potrebbe essere l’unica spiegazione della sua esclusione dall’antologia Poesia italiana del Novecento edita nel 1980 dalla Garzanti, che contava ben sette presenze femminili).
Ma il compito di aprire la nuova stagione post-68 spetta ancora una volta a Margherita Guidacci e alla sua Neurosuite (1968-1969), edito da Neri Pozza nel 1970, legato a una permanenza in una clinica psichiatrica a seguito di un esaurimento, libro potente, coerente, capace di coinvolgere e travolgere il lettore. Scrive Maura Del Serra (Introduzione a Le poesie, la raccolta quasi integrale della sua produzione in versi uscita nel 1999) che in Neurosuite lo shock e l’esperienza della clinica neurologica «estende a categoria corale la frantumazione solipsistica innescata dall’angoscia depressiva, in una tragica solidarietà con-senziente con gli altri malati, vittime della tetra, carceraria “città murata” dantesca e kafkiana” Lì Guidacci compiva il suo “eloquente viaggio al termine della notte”». Per comprendere la portata di questa pubblicazione dobbiamo immaginarci una poetessa che grazie a Quasimodo e Spagnoletti dalla seconda metà degli anni Cinquanta era entrata nel canone della poesia contemporanea, dopo La sabbia e l’angelo aveva pubblicato altre tre raccolte, riproposte in una antologia uscita con Rizzoli nel 1965. Poco dopo ci fu il crollo nervoso e il ricovero. Neurosuite è un racconto della discesa negli inferi dell’ospedale psichiatrico (sono numerosi i riferimenti all’inferno dantesco), con riferimenti concreti alla condizione dei malati di mente, come nell’eloquente Incoronazione – elettrochoc: «Questa è la tua corona con le crudeli gemme / ad ogni altro invisibili / i cui lampi improvvisi ti traversano l’anima: / smeraldi rubini topazi / diamanti che ti accecano / in una danza elettrica, / razzi sfrenati nell’interna tenebra. // Dopo sei come il rovo /spogliato della breve fioritura / e chiuso nei suoi neri aguzzi spini./ Da che rivoluzione / emergi? Quale folla / hai dovuto affrontare? Che nemico / guidava la battaglia? / Forse hai cambiato il trono/ con un patibolo, / forse ti hanno promesso ancora gloria / di là da un lungo esilio. / Nulla sai, nulla puoi ricordare / mentre premi smarrita / le mali sulle tempie: / vuoto dentro e la traccia degli elettrodi». Le poesie di questa raccolta furono scritte poco dopo il ricovero, in pochi mesi tra la fine del ‘68 e l’inizio del ‘69. A proposito scrive l’autrice: «Anche Neurosuite aveva una sua coralità: c’era il senso che il “male” non era soltanto mio, e non era neppure degli altri malati, ma il “male” del mondo che si rifletteva in ciascuno di noi. Quindi non si trattava soltanto del singolo, ma si trattava di tutto il mondo che era malato: doveva guarire anche il mondo se si voleva che guarissero i singoli».
Con questa pubblicazione la poetessa fiorentina tocca per la seconda volta un vertice assoluto della sua creazione poetica; indirettamente, in senso metaforico, i versi di questa raccolta possono essere considerati lo specchio di quel doloroso travaglio politico, culturale e antropologico che stava attraversando la società italiana partire dal ‘68 (data che coincide col suo ricovero nell’ospedale psichiatrico).
Con la cosiddetta “seconda ondata femminista”, parte della “stagione dei movimenti”, partendo dal dato ormai acquisito della parità dei diritti, si passò a mettere in discussione l’istituto della famiglia: per la prima volta furono passate al vaglio le relazioni tra i suoi componenti non solo dal punto di vista giuridico, ma anche da quello umano. Vennero così alla luce tutti quei “disastri umani” fino a quel momento tenuti nascosti tra le mura della “famiglia borghese”.
Il tessuto costituito dall’associazionismo, dalle case editrici e, a partire dal 1976, dalle radio libere, costituì la premessa per la diffusione di una nuova cultura giovanile. Il femminismo, per la prima volta in Italia, divenne in questi anni un movimento di massa. A questo clima è legata la menzionata antologia Donne in poesia di Biancamaria Frabotta, grazie alla quale la generazione delle poetesse nate negli anni Venti (Guidacci e Spaziani) consegnava il testimone a quella degli anni Trenta, vagamente e variamente legata alle neo-avanguardie (Rosselli, ma anche Piera Oppezzo, Rossana Ombres, Giulia Niccolai e Dacia Maraini). C’era anche l’alba della generazione degli anni Quaranta (Patrizia Cavalli, nata nel 1947, che allora aveva ventuno anni). Questa “massa critica” fu in grado di rompere il silenzio e far uscire la poesia delle donne da quella condizione di marginalità a cui era stata fino a quel momento relegata. Ciò permise anche l’emergere di alcune voci femminili al di fuori degli schemi generazionali e delle correnti letterarie, come la geniale outsider Daria Menicanti, che era stata compagna di studi di Antonia Pozzi all’università di Milano. Nata a Piacenza nel 1914, dopo un lungo apprendistato come traduttrice dall’inglese, pubblicò Città come, la sua prima raccolta, cinquanta anni dopo, nel 1964, per i tipi della Mondadori, che fu subito notata dalla critica per la sua abilità nel dissimulare nei suoi brevi componimenti dal tono apparentemente dimesso una conoscenza profonda della poesia basata su una solida formazione umanistica, che andava dai lirici greci fino ai poeti contemporanei (Frabotta, nella menzionata antologia, la mise in relazione a Umberto Saba e Sandro Penna). Sergio Solmi, nel presentare Poesie per un passante, la sua terza raccolta che uscì nel 1978, scrisse che la poesia di Menicanti appartiene al filone «della poesia d’ogni tempo, dai primi lirici greci fino a Leopardi, nei suoi poli fondamentali di amore-morte».
Nel 2022 ci hanno lasciato Patrizia Cavalli e Biancamaria Frabotta. Una enorme perdita per la poesia italiana, nella quale però la presenza femminile è diventata ormai parte integrante, come dimostra il recente successo di Mariangela Gualtieri anche nel “mainstream” (dal palco di Sanremo nel 2022 Jovanotti ha letto una sua poesia).

 

Lorenzo Pompeo è critico letterario, scrittore e traduttore

I due volumi si possono acquistare sul sito di Left

Lo dice anche la Corte d’Appello: Regione Lombardia discrimina gli stranieri

La Corte d’Appello di Milano (presidente  Pizzi, estensore  Giobellina) con una sentenza depositata il 9 marzo scorso ha respinto il ricorso con il quale la Regione aveva cercato di capovolgere la precedente decisione del Tribunale in materia di accesso degli stranieri alle case popolari. Il Tribunale aveva anche sollevato la questione di costituzionalità del requisito di cinque anni di residenza o lavoro nella Regione, rispetto al quale la Corte Costituzionale, con sentenza n. 44/2020 aveva dichiarato la incostituzionalità della norma che dunque oggi non è più in vigore.

Nella causa le associazioni che avevano promosso l’azione giudiziaria (assistite dagli avvocati Alberto Guariso e Livio Neri) avevano contestato in primo luogo il requisito di 5 anni di residenza nella Regione previsto peraltro anche dalla stessa legge regionale che regola la materia: il giudice aveva pertanto dovuto investire della questione la Corte Costituzionale che con sentenza n. 44 del marzo scorso aveva dichiarato incostituzionale il requisito.

La causa era quindi ripresa davanti al Tribunale che aveva esaminato anche l’altra questione dei documenti aggiuntivi richiesti agli stranieri (cioè la medesima questione che già aveva visto la condanna del Comune  di Sesto San Giovanni). Anche questa previsione è stata ritenuta illegittima e discriminatoria dal Tribunale, perché la documentazione da presentare per dimostrare l’assenza di proprietà all’estero (basata sull’Isee) deve essere la medesima sia per italiani che per gli stranieri, restando poi l’obbligo di verifica in capo alla autorità fiscali.

Siamo di fronte (come già avvenuto nel caso di Lodi) ad una clamorosa ingiustizia che aveva visto escludere dalle graduatorie di tutta la Lombardia numerosi cittadini stranieri in condizioni di bisogno ai quali veniva richiesto di produrre documenti spesso impossibili da reperire. Tutti i Comuni lombardi devono modificare i bandi tenendo conto della decisione del Tribunale di Milano e della modifica del Regolamento Regionale.

Il Tribunale aveva poi anche ordinato di modificare il Regolamento regionale, ammettendo alle graduatorie i cittadini extra Ue sulla base della medesima documentazione richiesta ai cittadini italiani (cioè l’Isee)  senza richiedere ulteriori documenti, spesso impossibili da reperire, che dimostrassero l’assenza di proprietà nel Paese di origine. Infine, per quanto riguarda i titolari di protezione (non solo i rifugiati, ma anche i titolari di protezione speciale) il Tribunale aveva ordinato di cancellare la disposizione che imponeva come requisito l’assenza di una casa nel paese di origine; ciò sulla base della considerazione che il rifugiato, se anche fosse titolare di una casa, non potrebbe certo utilizzarla rientrando in Patria.

La Regione aveva adottato su questi punti  delibere provvisorie in attesa della decisione dell’appello preannunciando di voler ricercare “altre soluzioni non discriminatorie” diverse da quelle indicate dal giudice.

Ora è arrivata la sentenza di appello che respinge tutte le tesi della Regione e conferma la decisione di primo grado.

A questo punto la Regione dovrà abbandonare ogni soluzione provvisoria e mettere mano al Regolamento, modificando definitivamente le norme secondo le indicazioni del Giudice.

Buon martedì.

Cinquemila studenti da ogni parte del mondo nei panni di “diplomatici” alle Nazioni Unite

Avvicinare le nuove generazioni alla complessità della globalizzazione e di un mondo che sembra muoversi a prescindere da loro e dal loro futuro, a partire dalle grandi questioni dei cambiamenti climatici e della tutela della biodiversità, è un’operazione che se rimane sul puro piano teorico rischia di risultare sterile. Meglio fargliela toccare da vicino quella complessità e farli avvicinare al cuore stesso delle istituzioni dove i grandi del mondo si confrontano. Ed è quello che sta accadendo in questi giorni a New York, nella sede dell’Onu dove fino al 25 marzo cinquemila studenti provenienti da tutto il mondo vestono i panni di “diplomatici” all’interno del Palazzo di vetro in occasione del Gcmun Talks – Global Citizens Model United Nations, la simulazione internazionale delle sedute dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Rappresentare uno Stato, difenderne le istanze e le ragioni confrontandosi con quelle di un altro Stato, trovare un punto di incontro e provare a formulare una risoluzione: fare, cioè, un esercizio di pratica democratica è l’esperimento che ormai va avanti da molti anni e con grande successo tra gli studenti, organizzato da United Network Europa, la più grande organizzazione europea che promuove percorsi innovativi di alta formazione per i giovani. Quest’anno l’iniziativa si è ulteriormente arricchita con il side event The arts for global citizenship #AGCNewYork23, un format inedito per pensare e praticare insieme ai giovani l’educazione alla cittadinanza globale attraverso i diversi linguaggi dell’arte. Durante la sessione plenaria, infatti, sono ospiti lo chef pluristellato Niko Romito e uno degli artisti più amati degli ultimi tempi, il
cantante Achille Lauro che parlando del loro percorso professionale affrontano insieme agli studenti i temi a loro più cari: le aspirazioni e la paura di non farcela, la consapevolezza di ciò che si vorrebbe fare e come trovare “gli strumenti” prima di tutto dentro se stessi per riuscirci. Il 25 marzo, giornata conclusiva dei lavori, al Palazzo di vetro, parleranno – tra gli altri – dal podio delle Nazioni Unite il direttore del dipartimento di ricerca scientifica del Metropolitan Museum of Art di New York, l’italiano Marco Leona e l’ultimo vincitore dell’Italian Teacher Award Riccardo Bonomi. Altra iniziativa, questa ultima, che ogni anno coinvolge centinaia di docenti di tutta Italia che presentano i progetti educativi che portano avanti nelle loro scuole insieme agli studenti raccontando in questo modo il grande lavoro che dal Nord al Sud del Paese ogni giorno i docenti svolgono. In Italia a muovere il motore di questa grande macchina che ruota attorno ai lavori dell’Onu, portando le istituzioni nelle classi degli studenti e facendoli entrare dentro i temi dell’agenda delle Nazioni Unite è United Network, una Ngo ufficialmente associata al dipartimento di comunicazione globale delle Nazioni Unite.

Il magico tempismo della morte del pentito Palmeri

Armando Palmeri era un collaboratore di giustizia (volgarmente lo direbbero “pentito”) che da qualche tempo era uscito dal programma di protezione ma viveva nascosto in una casa in contrada Bosco alla Falconeria, tra Alcamo e Partinico, in provincia di Palermo. Ad Alcamo Palmeri, che aveva 62 anni, era stato il braccio destro dello storico boss Vincenzo Milazzo.

Tra la miriade di dichiarazioni che ha lasciato agli atti ci sono informazioni sull’influenza dei servizi segreti sulle stragi a partire dal 1992. Raccontò che il boss Milazzo dopo le sue partecipazioni alle riunioni per organizzare la strategia stagista che ha messo in ginocchio l’Italia commentava dicendo “sostanzialmente che questi erano matti, che erano loro la vera mafia. Mi disse che volevano che ci adoperassimo per la destabilizzazione dello Stato. Io credo che quella era una cosa molto riservata. Ricordo che Milazzo tremava. C’era un periodo di tensione molto forte. Lui mise in atto la ‘strategia del Ni’. Da un lato si mostrava restio e contrario, dall’altro aveva comunque paura di poter essere eliminato se avesse detto no. Quindi preferì un’azione mista”.

Il “ni” di Milazzo gli costò la vita (nel commando che lo uccise c’era anche Matteo Messina Denaro) il 14 luglio 1992, 5 giorni prima dell’omicidio di Paolo Borsellino. Il 15 luglio Cosa nostra uccise anche la compagna di Milazzo, la ventenne Antonella Bonomo, incinta, per la sua sgradita abitudine di “parlare troppo” e per una sua parentela – riscontrata dalla Procura di Caltanissetta – con un uomo del Sisde.

Palmeri raccontò particolari anche su Antonino Gioè, un uomo di mafia molto vicino a ambienti politici di destra che fu probabilmente suicidato nel 1993 nella sua cella del carcere di Rebibbia, impiccato con i lacci delle sue scarpe. Palmeri raccontò di Gioè ospite della trasmissione Report: “A volte lo accompagnai ad incontri particolari con uomini delle istituzioni – ha detto Palmeri intervistato da Paolo Mondani – Se parlammo di Capaci? Mi disse ufficiosamente che a ‘Giovannieddu (Brusca, ndr) ci paria che era iddu a farlo esplodere’. Mi diceva che il dispositivo per lanciare l’impulso era un giocattolo e che era in sinergia con altra gente. Cosa mi sta dicendo? Era un’operazione militare perfetta”.

Oggi avrebbe dovuto testimoniare in un confronto con Baldassare Lauria, un ex medico che Palmeri indicava – accuse tutte da dimostrare – come cerniera tra i servizi segreti e Cosa nostra all’epoca delle bombe del 1992. L’ex pentito aveva paura, si sentiva in pericolo e per questo aveva chiesto al pm Pasquale Pacifico di poter intervenire in videoconferenza. Permesso non accordato. Baldassare Lauria, l’uomo accusato da Palmeri, è un 87enne che fu medico molto stimato nel trapanese nonché senatore di Forza Italia nel 1996 poi passato all’Udeur di Clemente Mastella: risulta indagato a Caltanissetta per frode in processo penale aggravato dall’aver favorito Cosa nostra e dall’aver commesso il fatto in un procedimento per strage.

Armando Palmeri però è morto. L’hanno trovato nella sua abitazione. Forse un infarto, dicono. Ora si indaga. Tra le altre cose, aveva raccontato che nella primavera del ’92, ad Alcamo, si tennero tre incontri tra uomini dei Servizi segreti e il suo capomafia. Oggetto dell’incontro: le stragi da consumare in Italia nel 1993. “Volevano mettere in atto una strategia di destabilizzazione dello Stato con bombe e attentati”, ha detto davanti alla corte d’Assise di Reggio Calabria il 14 giugno del 2018. Una morte accidentale con un tempismo perfetto.

Buon lunedì.

Sacchi di sabbia in scena. Una irresistibile storia di teatro off lunga trent’anni

I Sacchi di sabbia rappresentano sulla scena italiana del teatro un segmento che ha intrinseche radici con il teatro sperimentale. Nato nel 1995 a Pisa, in Toscana, a Pisa, la compagnia da subito si è distinta per una particolare ricerca sul testo, sulla rivisitazione. I riferimenti sono i testi importanti della scrittura non solo quella teatrale ma quella letteraria. E’ quindi un punto fermo della compagnia cercare nei classici contatti con il contemporaneo, riscrivendo, rivedendo, ridisegnando un mondo fatto di parole e di suoni. Spesso le loro trovate riportano lo spettatore ad una visione da vis comica. Questo è un espediente singolare che rimanda alla logica del teatro leggero, ovvero a quel tipo di scrittura che potesse coinvolgere le persone attraverso la risata, attraverso la battuta. Per questo partirono da Shakespeare, Orfeo, Pinocchio che diventa marmocchio fino alle recenti produzioni come Sette contro Tebe o all’Andromaca. Giovanni Guerrieri fondatore della compagnia ci racconta la loro avventura, che li vede in scena per tutto marzo e oltre.
Giovanni Guerrieri come è nata l’idea di creare la compagnia e perché questo nome, Sacchi di sabbia?

I Sacchi di sabbia nascono esattamente a metà anni Novanta, durante una piena d’Arno. In quel mentre anche il Cavaliere scendeva in campo…insomma ci sembrava che il Paese facesse acqua da tutte le parti! Da qui il nome Sacchi di sabbia, una metafora come un’altra di resistenza.

Avete da subito iniziato a lavorare su testi importanti del teatro e della letteratura rivisitandoli con quale scopo?

Siamo molto legati ai topos del nostro immaginario: ci piace visitarli, ribaltarli, esplorarli per capire le potenzialità che ancora hanno. Se riescono a parlarci ancora. Ora i testi del nostro canone culturale non solo i grandi testi, ma anche i testi considerati minori, teatrali o no che siano. Per questo abbiamo affrontato Sandokan, Don Giovanni, Orfeo, Riccardo III, i Moschettieri, ecc. La chiave del comico è quella che utilizziamo per prima, quella che ci viene più spontanea. Ma non si tratta esattamente di parodia, anche quando si ride. Se il risultato è semplicemente parodico è perché i topos si sono esauriti e si prestano ad essere ridicolizzati. Altrimenti il risultato è più ambiguo, un misto di comico e tragico.

Cosa è importante per voi, il movimento o la parola?

Direi che il nostro linguaggio è continuamente alla ricerca di una sintesi tra parola e movimento. Cerchiamo di essere precisissimi, anche quando sembriamo scassati. Ogni gesto è importante, ogni parola è importante, ogni silenzio è importante. E’ la combinazione di tutto questo che crea la scultura ritmica dello spettacolo.

La scelta come in Sette contro Tebe di mettere insieme napoletano e toscano è utile alla narrazione o è un espediente per poter meglio entrare nel vostro mood?

L’utilizzo del dialetto in questo spettacolo ha varie funzioni. C’è una funzione ritmica, in quanto il dialetto ci permette un fraseggio più veloce colorito. Poi c’è una funzione che definirei di contrappunto: l’abbassamento che introduce il fraseggio toscano o napoletano, esalta l’italiano colto dei versi eschilei, stagliandoli come delle gemme che lo spettatore può contemplare.

Dopo quasi trent’anni di lavoro che significa per te esperienza teatrale?

La mia esperienza teatrale è legata a quella dei Sacchi di sabbia, con cui condivido un cammino lungo quasi trent’anni. Quando ci siamo formati cercavamo di metter insieme l’immaginario popolare tipico per esempio della Smorfia , con il teatro più colto, quello di Carmelo Bene, Carlo Cecchi, Leo De Berardinis. Facevamo una sorta di cabaret, molto sensibile agli umori del pubblico. Ci piacevano i discorsi indiretti, non ci saremo mai avventurati nella satira politica eppure il nostro Otello, si può dire l’esordio della compagnia, parlava anche di Berlusconi. Ancora oggi questa nostra ricerca continua a sollecitarci. Dobbiamo magari prenderci qualche pausa in più, tra una produzione e un’altra, per non cadere negli stereotipi.

I rapporti con il teatro off?

Ci siamo formati vedendo teatro off: gli spettacoli di Leo De Berardinis, di Enzo Moscato, di Carlo Cecchi, della Societas Raffaello Sanzio, di Alfonso Santagata e Claudio Morganti, del Teatro delle Albe erano teatro off negli anni Novanta. Nel senso che non li vedevi nelle stagioni ufficiali, ma dovevi andare a cercarli nei Centri di sperimentazione teatrale. Vicino a noi, a Pontedera, ce n’era uno molto importante. Noi viviamo in quello che si potrebbe definire teatro off, che spesso è programmato anche da grandi teatri, ma in contenitori speciali che vanno sotto l’etichetta di teatro contemporaneo.

Come vivete la scena teatrale attuale?

Ci dispiace che non ci sia più coraggio (soprattutto da parte dei teatri pubblici) nel programmare lavori più curiosi e spiazzanti, che col pubblico avrebbero sicuramente un buon effetto. Le stagioni finiscono tutte per assomigliarsi…

Il senso del suono legato alla recitazione?

Per noi la recitazione è una sorta di canto ritmico, che scolpisce il tempo dello spettacolo. Serve a creare quel vortice empatico che trascina il pubblico nel “tempo” dello spettacolo, come un incantamento. Abbiamo quindi molta cura delle nostre modalità recitative.

Cosa avete in cantiere per il futuro?

Siamo alle prese con Aristofane. Abbiamo realizzato con Massimo Grigò un ”solo” su la prima commedia del drammaturgo ateniese, Gli Acarnesi, che si chiama La Commedia più antica del mondo, perché appunto è la prima commedia che ci è arrivata. A questo pezzo, sempre in forma do assolo ma con Silvio Castiglioni, aggiungeremo la tragedia più antica del mondo, sui Persiani di Eschilo. Poi chiuderemo il percorso su Aristofane mettendo in scena Pluto. Tutto questo tra il 23 e il 24 marzo. Abbiamo anche un progetto col teatro Metastasio su un’opera di Frenc Molnar, l’autore de I ragazzi di Via Pal. Della serie: e ora qualcosa di completamente diverso.

Giovanni Guerrieri, I sacchi di sabbia

In tournée: Il 23 marzo i Sacchi di sabbia sono in scena ala Teatro del Popolo di Castelfiorentino con La commedia più antica del mondo. Il 24 marzo sono al Teatrino Groggia , a Venezia con Andromaca e il 25 con lo stesso spettacolo a Marostica (Vi). Il 26 marzo al Teatro Vittoria a Cascine di Buti (Pi) con Sette contro Tebe. Il 27 marzo i Sacchi di sabbia sono in scena a Pavia con La commedia più antica del mondo, che il 29 marzo approda all’Auditorium Pasquini a Castiglioncello (Li). Infine il 30 marzo anteprima nazionale de I persiani di Eschilo a Cattolica e il primo aprile al Teatro Tor Bella Monaca con La commedia più antica del mondo.

La vitalità dell’ultimo Picasso. In mostra a Basilea

Le peintre et son modèlle dans un paysage 1963, foto di Nadia Medda

Basilea -Il 2023 offre a tutti noi la possibilità di confrontarci con le opere di uno degli artisti più geniali del secolo scorso, ricorrendo nell’anno in corso il cinquantesimo anniversario dalla morte. L’8 aprile del 1973 Pablo Picasso lasciava al mondo un imponente numero di opere e di capolavori segnando in modo imprescindibile il corso dell’arte moderna occidentale. Nell’attuale ricorrenza Francia e Spagna, terre che lo hanno accolto nella vita, si sono unite istituendo una commissione di esperti nel settore culturale per dirigere, con nuove prospettive ed approcci inediti, l’evento Picasso 1973- 2023- Celebrazioni. Una cinquantina di mostre ed eventi sono stati promossi in prestigiose istituzioni culturali europee e Nordamericane con l’obiettivo di restituirci la figura poliedrica dell’artista spagnolo e misurarne la portata fuori dal mito. Un’opportunità davvero particolare ci è offerta dalla Fondazione Beyeler di Basilea con l’esposizione, a cura di Raphael Bouvier in corso fino al primo maggio, titolata Picasso – artista e modella – ultimi dipinti. La mostra si concentra su una selezione di dieci straordinari dipinti tardivi dell’artista , dagli anni Sessanta ai primi anni Settanta, appartenenti alla Collezione Beyeler, alla Anthax Collection Marx e ad altre raccolte private; nelle sale adiacenti sono esposte altre quindici opere che partono dalla svolta cubista del 1907 per arrivare agli anni Sessanta consentendo di approfondirne il percorso artistico. L’esposizione di grande interesse ci presenta un Pablo Picasso molto diverso da quello noto delle fasi iniziali e centrali della sua carriera; la bellissima sala del museo progettato da Renzo Piano è animata dalle opere di un ultraottantenne che si esprime con una potenza e un’audacia davvero sorprendenti, che con estremo coraggio abbandona il rigore costruttivo e si appropria del colore con la potenza del gesto. Sono questi gli anni che lo vedono trasferirsi con Jacqueline Roque nella nuova residenza a Mougins-Notre-Dame-de-Vie, confini domestici che oltrepasserà raramente per immergersi nel lavoro con un’energia prodigiosa dipingendo fino a tre quadri al giorno. Nel 1963 scriverà “ La pittura è più forte di me, mi fa fare ciò che vuole”; arriverà all’età di 86 anni, con periodi di latenza dovuti alla malattia, a produrre una suite di 347 incisioni. Ma sarà sei anni dopo, nel 1969 che con un balzo oltre se stesso abbandonerà il proprio stile reinventando la pittura, come a colmare con urgenza un’incompletezza. “La pittura è ancora da fare” affermerà. Di fronte alle opere esposte si è invasi dal piacere della sorpresa, dalla potenza delle immagini, dalla stravagante bellezza del risultato; spontaneità e improvvisazione si avvertono nei gesti pittorici, nei graffi sulla materia del colore, nel percorso affrettato del lavoro creativo. La pittura rapida ed impulsiva si muove con una moltitudine di colori e toni che lascia sconcertati, libera da canoni estetici, priva di raffinatezze tecniche, con colature che sfibrano le figure. “Ogni giorno faccio peggio” così si espresse. Libertà e certezza sono realtà percepibili e sembrano nascere da una coincidenza tra l’essere e il fare; tutti gli strumenti espressivi creati con il lavoro di una vita ora inventano il nuovo. Il tema principale dell’esposizione “Il pittore e modella” percorre tutta la vita dell’artista e diventa predominante negli ultimi anni; Picasso è il pittore, se stesso a cui affida il pennello proponendo un’immagine di se profonda e invisibile che racchiude le mille immagini che è stato. I suoi occhi penetranti e magnetici come nella realtà, richiedono la nostra risposta o quella della modella che gli sta di fronte. Anche se l’artista non dipinge mai dal vero, Jacqueline è lì, onnipresente, ma diventa con le mille trasformazioni, una donna universale, un’immagine femminile con la quale avere rapporto; lei è tutte le donne che Picasso ha conosciuto e amato. Il pittore è davanti alla modella e la modella di fronte a lui, non c’è gerarchia tra i soggetti ma una corrispondenza che consente a quei due stravaganti personaggi che vivono sulla tela di essere l’uno per l’altro, non potendo essere se non insieme. Nel quadro le figure occupano quasi tutta la superficie sembrando icone, lo spazio e le linee che definiscono le forme scompaiono, l’immagine è colore. Ci si domanda di cosa ci parla o cosa voglia dire a se stesso l’artista spagnolo…..forse una nuova espressività, una nuova libertà, una nuova forza nascono quando la propria immagine interiore trova, o è certa di trovare, la sua corrispondenza in un immagine che la rappresenti e che ciò accada inversamente nell’altro? La potenza dirompente dei suoi ultimi lavori esposti ad Avignone quando l’artista era ancora in vita, venne accolta dalla critica con commenti educati o peggio aggressivi, palesando un accecamento assoluto. La Fondazione Beyeler, con questa mostra, offre dunque una rinnovata opportunità alla conoscenza. Uscendo tornano in mente le parole di Picasso:  “C’è un momento nella vita, quando si è lavorato molto, in cui le forme vengono da sole, i quadri vengono da soli, non occorre occuparsene! Anche la morte”

Cara Meloni, Argentina Altobelli lottò per il riscatto delle lavoratrici e si oppose al fascismo

Agostina Altobelli

Sul palco del Congresso della Cgil la presidente del Consiglio e leader di Fratelli d’Italia cita Argentina Altobelli, prima donna in Italia a guidare un sindacato, ma “dimentica” di dire che da socialista si oppose al fascismo che cercò in ogni modo di tacitarla. Per ricordare la straordinaria figura di Altobelli riproponiamo l’articolo della ricercatrice Silvia Bianciardi pubblicato il 26 novembre 21 su Left, in occasione del convegno organizzato dalla Flai Cgil per i 120 anni di Federterra

Argentina Altobelli fu una sindacalista, una pubblicista, una sostenitrice della causa dell’emancipazione e dei diritti della donna ma soprattutto fu una militante socialista, perché questo lei stessa si considerava prima di tutto. L’importanza della Altobelli è connessa al fatto che quasi per vent’anni ricoprì il ruolo di segretaria della prima organizzazione sindacale a carattere nazionale che si costituì in Italia, la Federazione nazionale dei lavoratori della terra (Fnlt) che nacque a Bologna nel 1901 e che rappresentò un fenomeno unico in Europa.
Nata a Imola nel 1866, da una famiglia di idee liberali e di forte sentire patriottico, da nubile si chiamava Bonetti, ma dopo il matrimonio si presentò sempre con il cognome del marito: Abdon Altobelli con il quale stabilì un rapporto moderno, di profonda complicità sentimentale e di condivisione ideale. Abdon, letterato e allievo di Carducci, fu il fautore più convinto dell’attività pubblica della moglie non esitando mai, durante i suoi viaggi per impegni di lavoro, a sostituirsi a lei nelle incombenze domestiche e nella cura dei figli. Argentina, dapprima su posizioni mazziniane, individuò nella causa del riscatto dei lavoratori della terra, e specialmente delle donne dei campi, «le diseredate fra gli oppressi» – come era solita definirle -, il movente della sua adesione al socialismo. Fu tra questa umanità sofferente e sfruttata che con gli altri compagni socialisti della sua generazione intraprese un’intensa opera di “predicazione” del verbo socialista e di materiale creazione e consolidamento delle strutture organizzative di base del nascente Partito socialista italiano (Psi) e del movimento sindacale, che sul finire dell’Ottocento si svilupparono assieme, in un intreccio costante. Nell’ambito delle multiformi istituzioni del movimento operaio in formazione affinò le sue capacità di sindacalista e propagandista: nel 1890 divenne presidente della Società operaia femminile di Bologna; nel 1893 fu tra i fondatori della locale Camera del lavoro. Svolse un’assidua attività pubblicistica su importanti periodici socialisti: l’Avanti!, La Confederazione del lavoro, La Difesa delle lavoratrici e soprattutto La Squilla, che fu poi anche l’organo di stampa della Fnlt. Nel 1901 prese parte al Congresso di fondazione della Fnlt e in quell’occasione intervenne per chiedere di riservare spazio «alle rappresentanti delle leghe femminili», nelle quali individuò «un fenomeno nuovo e interessante», segnalando il tema della presenza di genere che ha poi attraversato tutto il Novecento. Nel 1905 subentrò al socialista mantovano Carlo Vezzani alla segreteria della Fnlt soprattutto in virtù dell’importante lavoro di direzione compiuto nella Federazione provinciale bolognese dei lavoratori della terra, che si era costituita fin dal 1902. Pochi anni dopo fece il suo ingresso anche nel Consiglio direttivo nazionale della Confederazione generale del lavoro, diretta da Rinaldo Rigola e costituitasi nel 1906 e in quello stesso anno si affermò persino come dirigente nazionale del Psi, quando il IX Congresso nazionale del Partito socialista svoltosi a Roma, la designò tra i componenti della Direzione nazionale del partito, e successivamente fu confermata nell’incarico nel 1908 e nel 1910. Nel 1912 fu nominata, in qualità di rappresentante del lavoro agricolo, tra i componenti del Consiglio superiore del lavoro, organo consultivo dello Stato, istituito dal governo Zanardelli nel 1902 dove la concertazione fece i suoi esordi e dove nacquero le prime leggi sociali e le garanzie sul lavoro così difficili da far valere soprattutto nelle campagne. Fu sempre vicina alla componente riformista del partito e nell’ottobre del 1922, consumatasi la frattura con i massimalisti, seguì Turati, Prampolini e gli altri riformisti, che lasciarono il Psi per aderire al Partito socialista unitario, guidato da Giacomo Matteotti. La Altobelli rimase segretaria della Fnlt fino al suo scioglimento avvenuto tra il 1924 e il 1925. Con il fascismo, ormai anziana si allontanò dalla politica attiva ma fu sempre sorvegliata dal regime, fino alla sua morte nel 1942.
Certamente il dato più appariscente della vicenda umana e politica di Argentina Altobelli è legato alla sua appartenenza di genere: eccezionale si segnala la circostanza che la vide in quanto donna imporsi con incarichi di vertice nel partito, nel sindacato e addirittura affermare la sua presenza nella compagine delle istituzioni statali in un periodo, l’inizio del Novecento, durante il quale le donne erano escluse dal diritto di voto e l’impegno politico era considerato per loro inconsueto e addirittura disdicevole.
Spicca pertanto la modernità del suo personaggio di donna, tra le pochissime attive in politica con funzioni dirigenziali e di grande responsabilità, che agiva in organizzazioni e contesti all’epoca esclusivamente maschili con grande consapevolezza e con la ferma determinazione di non mortificare alcun aspetto, financo il più esteriore del suo essere femminile, rivendicando anzi costantemente, nello svolgimento della sua attività politica e sindacale, l’importanza non solo del ruolo pubblico ma anche del ruolo familiare e materno della donna, cui attribuiva un rilievo appunto politico e sociale, una funzione educativa essenziale che dalla famiglia si estendeva alla società. Con la sua azione politica, ma anche con la forza della sua esperienza personale, la Altobelli si impegnò ad affermare una concezione dell’emancipazione femminile, che secondo la linea indicata da Anna Kuliscioff, poneva al centro la donna essere sociale, cittadina e lavoratrice, un’idea di emancipazione che non si limitava alla enunciazione in astratto della parità di diritti ma che richiamava la differenza tra i generi e la specificità femminile ponendole a sostegno della rivendicazione di riforme sociali in favore della donna, che fossero utili a conferire alla sua uguaglianza di diritti, concretezza e sostanza. Basti pensare anche solo alla propaganda incessante da lei condotta nel 1902 a favore del progetto di legge Kuliscioff sul lavoro delle donne e dei fanciulli.
La sua storia non fu tuttavia solo una storia di emancipazione femminile ma fu soprattutto una storia di militanza socialista tenace, incessante, costantemente riaffermata. La Altobelli fu infatti tra gli esponenti di spicco di quella generazione cosiddetta “dei pionieri” o apostoli del socialismo” che tra Ottocento e Novecento fu materialmente impegnata nella creazione e nell’impianto delle strutture organizzative di base del movimento operaio: le società operaie, le leghe sindacali, le cooperative, i circoli politici e poi le federazioni socialiste, dalle quali si originò il socialismo in Italia, con le sue istituzioni che si rivelarono quelle portanti della sinistra italiana. Fu nel lavoro pratico quotidiano svolto all’interno di queste organizzazioni, nel contatto diretto e ravvicinato stabilito con la classe lavoratrice, e soprattutto con le fasce più marginali e precarie di essa – quali erano i braccianti, gli avventizi, i mezzadri, e ancor più le donne che lavoravano i campi, impiegate spesso nei lavori stagionali, come mondariso o nello svolgimento di lavori a domicilio (sartine, filatrici) – che la Altobelli e gli altri organizzatori ed esponenti socialisti riformisti maturarono una concezione integrale del socialismo.
Questo era inteso come riscatto totale dell’umanità sfruttata tanto dalla schiavitù economica quanto da quella morale, concretandola in un’azione di sensibilizzazione politica e sindacale che non si limitò mai al mero rivendicazionismo economico ma che si tradusse in una vera e propria opera di alfabetizzazione civica e di educazione politica, in un lavoro cioè di vera e paziente costruzione della democrazia e del socialismo dal basso, a partire dai suoi minimi presupposti morali e sociali e innanzitutto a partire dall’uomo, dalla formazione della sua coscienza morale e civica oltre che di classe.

“E voi del governo, conoscete i rischi legati alle traversate?”

«Conoscete i rischi delle traversate?». È questa la domanda che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha posto ai familiari e ai superstiti della strage di Cutro. L’innegabile capacità del suo governo di trattare sempre come estranei le persone che provengono da altri Paesi e la capacità di rivittimizzare le vittime è una ferocia inaudita a cui non possiamo essere indifferenti.

Avrebbe potuto chiedere della loro disperazione che li spinge a rischiare la vita in mare, avrebbe potuto informarsi sull’indicibile violenza che accompagna le loro traversate, avrebbe potuto partecipare silenziosamente al loro dolore e invece li ha caricati su un aereo, li ha impacchettati nel suo ufficio a Roma, ha sbrigato questa fastidiosa pratica di fingersi compassionevole e infine ha delegittimato il loro diritto di cercare salvezza.

Prima il Cdm a Cutro. Ma non per onorare le bare delle vittime o per abbracciare chi ha perso tutto o chi ha visto morire i propri figli in mare, affogati, tra le onde. No, a Cutro per blindare un paesino, chiudersi in municipio e fare una conferenza stampa imbarazzante tra un messaggino e l’altro sullo smartphone. E poi, via, con gli aerei di Stato a festeggiare con Salvini al karaoke. Poi a Roma, come in un racconto surreale in cui è tutto al contrario, i familiari delle vittime. Persone che hanno visto morire figli, amici, mogli, mariti davanti ai loro occhi. Persone che sono fuggite dalla violenza talebana. Che hanno visto parenti e familiari uccisi e/o perseguitati. E che avevano un’unica strada: scappare per non morire. E che fa Giorgia Meloni? Che fa di fronte a quel dolore indicibile? Al ricordo di quelle piccole bare bianche dove neonati e bambini hanno perso la vita? Chiede alle loro madri, ai loro padri sopravvissuti – sottolinea il comunicato ufficiale di Palazzo Chigi – “quanto fossero consapevoli dei rischi legati alle traversate del Mediterraneo”. Una barbarie, umana e politica. “E che ci fa vergognare non dell’Italia, ma di questo governo disumano”, ha scritto Marco Furfaro, deputato del Pd, in un post su Facebook.

“Ma davvero Meloni ha chiesto ai superstiti e ai familiari delle vittime della strage di Cutro se erano consapevoli dei rischi legati alle traversate? Davvero è arrivata a fare una domanda del genere a chi scappa da fame, guerre, persecuzioni, siccità e dai lager libici che il governo italiano finanzia? Non ci sono parole per commentare, solo tanto imbarazzo e sdegno”. Ha detto il segretario nazionale di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni, parlamentare dell’Alleanza Verdi Sinistra.

“Cara Giorgia Meloni, li conoscono bene i rischi i migranti. Ma se decidono di partire lo stesso è perché sono così disperati da essere pronti a tutto pur di fuggire da guerre, povertà, regimi. Bisogna salvare chi rischia la vita in mare e fermare chi lucra sulla disperazione”. Ha scritto su Twitter Mara Carfagna, presidente di Azione.

La vera domanda sarebbe da fare a Giorgia Meloni: “presidente, conosce i rischi legati alle traversate? Risponda in fretta. Così capiamo se siamo di fronte a un’abissale ignoranza o chi abbiamo davanti.

Buon venerdì.

Elly Schlein all’attacco di Meloni, porterà il Pd al riformismo radicale?

La conquista della segreteria del Pd da parte di Elly Schlein ci offre l’opportunità di fare alcune riflessioni su alcuni aspetti, trascurati, ignorati o non visti sia dai media che, incredibilmente, neanche dai militanti ed elettori che hanno generosamente partecipato al processo congressuale di quel partito.
E diciamo subito che l’esito è il migliore possibile dovendo scegliere tra una personalità che, per postura, narrazione, storia, si presenta come più a sinistra dello sfidante Bonaccini, considerato renziano, anche se, per la verità, la provenienza, in sé, non è una garanzia (per dire, Bonaccini proviene dal Pci). Ma insomma, al momento, in questo scenario, con queste narrazioni, Elly Schlein rappresenta di certo un segnale di novità, d’inversione di rotta, di rinnovamento.

E tuttavia bisogna dire le cose come stanno. Schlein ha sviluppato la propria figura di “giovane speranza della sinistra”, da Occupy Pd in poi, nel segno della costruzione di un soggetto a sinistra del Pd, partecipando a tutto ciò che si muoveva al di fuori di quel partito, dalla più piccola particella elementare ai grandi raduni, incrociati o addirittura promossi (Visione Comune). Così ha raccolto consensi trasversali a sinistra, e di ciò si è alimentata, proponendo sempre come obiettivo la costruzione di un soggetto, al di fuori del Pd, civico, femminista, antifascista. Movimentista trasversale, si potrebbe dire.
Eppure d’improvviso (d’improvviso?) a settembre decide di candidarsi quale indipendente nelle liste del Pd per prenderne due mesi dopo la tessera e candidarsi a segretaria.
È come avesse detto: contrordine compagni, inutile cercare di costruire un soggetto al di fuori del Pd, dobbiamo entrarci.

Un cambio di strategia, e di prospettiva, notevole, da testa-coda. Che ricopia del tutto la posizione di Articolo 1 che fin dalla sua uscita ha avuto, molto criticata a sinistra, dapprima velatamente poi dichiaratamente, l’obiettivo del rientro nel Pd de-renzizzato. Solo che Articolo1 non è stato capace di costruirsi quale riferimento per il mondo variegato della sinistra, tanto che il suo rientro, pur avvenuto, è passato sottotono, in sordina, senza suscitare il minimo entusiasmo che invece ha suscitato la scelta di Elly Schlein, nonostante il suo leader, Roberto Speranza, sia stato il “miglior ministro della Salute” della Repubblica.
Al netto di mille considerazioni possibili, non si può non vedere come la scelta operata da Schlein sia di fatto un radicale ripudio di quanto in questi anni predicato e che l’hanno, appunto, fatta crescere come figura di riferimento della sinistra.

Niente di male e pure legittimo. Tuttavia è strano che nessuno abbia colto questa nota, tanto da mobilitare militanti delle formazioni esistenti a sinistra, di Sinistra italiana ad esempio, alla partecipazione al voto alle primarie. Tutti entusiasti della vittoria: Elly Schlein come una di noi alla conquista del Moloch.
Ma, non scordiamolo,  ha vinto alle primarie aperte, non certo in quelle di partito, appunto per l’apporto non trascurabile del mondo al di fuori del partito, alla sua sinistra.

Quali scenari possibili ora? Se Schlein riuscirà a trasformare il Pd in quello che finora non è mai stato, cioè un partito di sinistra, non potrà che prosciugare i pur piccoli mari in cui galleggiano le piccole formazioni di sinistra. Che non è un male, tutt’altro: l’esistenza di un grande partito di massa di sinistra giustifica anche la scomparsa delle sigle piccole e minoritarie finora esistenti. Cosa che in fondo ci auguriamo da sempre. I primi segnali vanno già in questa direzione: i primi sondaggi vedono una ripresa del Pd ed una pari perdita di consenso ad esempio, di Verdi-Sinistra italiana. Però ai militanti che con entusiasmo hanno affollato i gazebo, va detto chiaro che, in caso di successo politico del “nuovo” Pd, la sorte è segnata. Quindi vale la pena riflettere per tempo se e come caratterizzare la propria esistenza.

Ma se quella è la “speranza”, d’altro canto, potrà riuscire il progetto Schlein se il partito che dirige non l’ha scelta, cioè è costituito in maggioranza da chi ha votato Bonaccini? Insomma è realistico, credibile il progetto narrato pur auspicabile?
Certo, ora è il momento dell’entusiasmo, dell’unità proclamata. Ma una caratteristica del Pd è proprio “l’unanimismo” che accoglie ogni volta il nuovo segretario: tutti bersaniani contro Renzi, poi tutti con Renzi il rottamatore, tutti con Zingaretti la riscossa di sinistra del dopo Renzi, poi tutti Lettiani. Non sorprende che ora siano tutti per Shlein.
Del resto queste sono le regole del Pd. Viene da pensare che se a suo tempo avessero concesso la tessera a Grillo, forse in epoca di montante grillismo avrebbe potuto diventarne segretario. E se Renzi non fosse uscito, forse sarebbe ancora lì.
Tuttavia questo è il quadro, e non si può ignorare.

Se Schlein vuole davvero trasformare il Pd in un grande partito di sinistra, e con ciò recuperare e portare a sé i delusi, gli astensionisti di sinistra, persino gli elettori alla propria sinistra, che hanno contribuito alla sua affermazione, dovrebbe scontare, mettere in conto, la fuoriuscita contemporanea di chi non ha questa visione. Non parlo di scissioni, ma di certo di un distacco di quella parte di elettorato che in questi anni ha votato Pd proprio perché “moderato” e non “radicale”.
È pensabile che la “svolta” a sinistra possa realizzarsi appieno se hai a che fare con un partito, non solo militanti ma apparato, che per buona parte remerà contro? È insomma il Pd riformabile, o per sua “natura” è condannato alla “mediazione” continua?
Qui si vedrà la forza, caparbietà e sincerità della proposta Schlein: fino a quanto vorrà, potrà, riuscirà a spingersi?
Certo, sentire Franceschini, suo sostenitore, che parla della necessità del Pd di essere più “radicale” fa una certa impressione.

Allora su questo un’ultima riflessione viene da un interessante articolo, apparso qualche tempo fa su Repubblica, del politologo Carlo Galli in cui spiegava che riformismo non è il contrario di radicalismo, tutt’altro. Il riformismo ha rappresentato storicamente una scelta diversa, rispetto a quella rivoluzionaria, quale metodo per sovvertire lo status quo e pervenire, gradualmente, ad un medesimo orizzonte, il socialismo. Il riformismo perciò è sempre critica radicale alla società che però si vuole sovvertire attraverso non già la rivoluzione, ma attraverso riforme (in Italia le famose “riforme di struttura”). Il riformismo cambia natura con Blair, diventa “moderato”, cioè accetta lo status quo, non si pone l’obiettivo di trasformare la società, ma di gestirla.
La vera contrapposizione non è quindi tra riformismo e radicalità, ma tra riformismo e moderatismo.
Quindi siamo al dunque: il Pd potrà mai essere il partito “radicale” che auspichiamo, o restare “moderato”?

Certo l’inizio è ambiguo perlomeno: da un lato una Direzione con gente nuova, fresca, interessate, spesso di spessore. Dall’altro la conferma del sostegno dell’invio di armi all’Ucraina con la semplice aggiunta, generica, scontata, insufficiente, che si auspicano iniziativa diplomatiche (quali? Dove? Con chi? Le promuove?). E poi da un lato il no all’autonomia differenziata leghista, è anche un no all’autonomia differenziata comunque declinata? O la si coniuga in modo diverso, e quale?
Insomma, siamo all’inizio di un percorso, non possiamo che augurarci vada a buon fine. Ci si muove tra illusioni, speranze, vecchie e nuove ambiguità, vecchi e nuovi opportunismi (quanti pronti a saltare sul carro del vincitore). La speranza in fondo è che il tutto non si traduca in un “vorrei ma non posso”.
Se il Pd saprà essere “riformista radicale” in fondo sarebbe anche una vittoria di chi radicale lo è sempre stato, per molto tempo “colpa” imperdonabile.
Viene difficile vedere Franceschini radicale, come molta nomenclatura piddina, ma non mettiamo limiti alla Provvidenza, che ancora una volta ci ha inviato l’uomo, anzi donna, giusta.

L’autore: Lionello Fittante, tra i promotori degli Autoconvocati di Leu, è ex membro del Comitato nazionale del movimento politico èViva

Nella foto Elly Schlein durante il question time con il presidente del Consiglio Giorgia Meloni, 15 marzo 2023. Frame del video di Camera webtv (l’intervento di Schlein 7:06:23)