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La migrazione sanitaria in Italia tra le regioni favorisce il Nord (e il privato)

Il valore della mobilità sanitaria interregionale nel 2020 è pari a 3.330,47 milioni di euro, una percentuale apparentemente contenuta (2,75%) della spesa sanitaria totale (121.191 milioni di euro), ma che assume particolare rilevanza per tre ragioni fondamentali. Innanzitutto, per l’impatto sull’equilibrio finanziario di alcune Regioni, sia in saldo positivo (es. Emilia- Romagna: +€ 300,1 milioni; Lombardia: +€ 250,9 milioni), sia in saldo negativo (es. Lazio: -€ 202,2 milioni; Campania; -€ 222,9 milioni; oltre alla Calabria); in secondo luogo, perché oltre il 50% dei ricoveri e prestazioni ambulatoriali in mobilità vengono erogate da strutture private accreditate, un ulteriore segnale di impoverimento del Ssn; infine, per l’impatto sanitario, sociale ed economico sui residenti nelle Regioni in cui la carente offerta di servizi induce a cercare risposte altrove.

Sono le conclusioni del report dell’Osservatorio Gimbe 2/2023 “La mobilità sanitaria interregionale nel 2020”. I dati sulla mobilità sanitaria riguardano 7 tipologie di prestazioni: ricoveri ordinari e day hospital (differenziati per pubblico e privato), medicina generale, specialistica ambulatoriale (differenziata per pubblico e privato), farmaceutica, cure termali, somministrazione diretta di farmaci, trasporti con ambulanza ed elisoccorso. «La Fondazione Gimbe ha elaborato un report sulla mobilità sanitaria – precisa il presidente Nino Cartabellotta – utilizzando sia i dati economici aggregati per analizzare mobilità attiva, passiva e saldi, sia i flussi trasmessi dalle Regioni al ministero della Salute con il cosiddetto Modello M, che permettono di analizzare la differente capacità di attrazione del pubblico e del privato di ogni Regione, oltre alla tipologia di prestazioni erogate in mobilità».

«Grazie alla Commissione Salute della Conferenza delle Regioni e Province autonome – spiega Cartabellotta – che, in risposta a una richiesta di accesso civico, ha fornito alla Fondazione Gimbe i dati completi relativi alla mobilità sanitaria inviati dalle Regioni al ministero della Salute, il report si è arricchito di ulteriori analisi rispetto ai precedenti». In particolare, emerge che più della metà del valore della mobilità sanitaria per ricoveri e prestazioni specialistiche è erogata da strutture private, per un valore di € 1.422,2 milioni (52,6%), rispetto ai 1.278,9 milioni (47,4%) delle strutture pubbliche. In particolare, per i ricoveri ordinari e in day hospital le strutture private hanno incassato € 1.173,1 milioni, mentre quelle pubbliche € 1.019,8 milioni. Per quanto riguarda le prestazioni di specialistica ambulatoriale in mobilità, il valore erogato dal privato è di € 249,1 milioni, mentre quello pubblico è di € 259,1 milioni.

«Il volume dell’erogazione di ricoveri e prestazioni specialistiche da parte di strutture private – spiega Cartabellotta – varia notevolmente tra le Regioni ed è un indicatore della presenza e della capacità attrattiva delle strutture private accreditate». Infatti, accanto a Regioni dove la sanità privata eroga oltre il 60% del valore totale della mobilità attiva – Molise (87,2%), Puglia (71,5%), Lombardia (69,2%) e Lazio (62,6%) – ci sono Regioni dove le strutture private erogano meno del 20% del valore totale della mobilità: Umbria (15,2%), Sardegna (14,5%), Valle d’Aosta (11,5%), Liguria (9,9%), Basilicata (8,1%) e nella Provincia autonoma di Bolzano (3,4%).

«Le nostre analisi – afferma Cartabellotta – dimostrano che i flussi economici della mobilità sanitaria scorrono prevalentemente da Sud a Nord, in particolare verso le Regioni che hanno già sottoscritto i pre-accordi con il governo per la richiesta di maggiori autonomie. E che oltre la metà delle prestazioni di ricovero e specialistica ambulatoriale finisce nelle casse delle strutture private, ulteriore segnale d’indebolimento della sanità pubblica. In ogni caso, è impossibile stimare l’impatto economico complessivo della mobilità sanitaria che include sia i costi sostenuti da pazienti e familiari per gli spostamenti, sia i costi indiretti (assenze dal lavoro di familiari, permessi retribuiti), sia quelli intangibili che conseguono alla non esigibilità di un diritto fondamentale sancito dalla Costituzione».

Sei Regioni con maggiori capacità di attrazione vantano crediti superiori a 150 milioni di euro: Lombardia (20,2%), Emilia-Romagna (16,5%) e Veneto (12,7%) raccolgono complessivamente quasi la metà della mobilità attiva. Un ulteriore 20,7% viene attratto da Lazio (8,4%), Piemonte (6,9%) e Toscana (5,4%). Il rimanente 29,9% della mobilità attiva si distribuisce nelle altre Regioni e Province autonome. I dati documentano la forte capacità attrattiva delle grandi Regioni del Nord a cui corrisponde quella estremamente limitata delle Regioni del Centro-Sud, con la sola eccezione del Lazio.

Tre Regioni con maggiore indice di fuga generano debiti per oltre 300 milioni di euro: in testa Lazio (13,8%), Lombardia (10,9%) e Campania (10,2%), che insieme compongono oltre un terzo della mobilità passiva. Il restante 65,1% si distribuisce nelle rimanenti 17 Regioni e Province autonome. «I dati della mobilità passiva – commenta Cartabellotta – documentano differenze più sfumate tra Nord e Sud. In particolare, se quasi tutte le Regioni del Sud hanno elevati indici di fuga, questi sono rilevanti anche in tutte le grandi Regioni del Nord con elevata mobilità attiva, per la cosiddetta mobilità di prossimità, ovvero lo spostamento tra Regioni vicine con elevata qualità dei servizi sanitari, secondo specifiche preferenze dei cittadini». In dettaglio: Lombardia (- 362,9 milioni di euro), Veneto (- 220,1 milioni), Piemonte (- 210,8 milioni) ed Emilia-Romagna (- 201,7 milioni)

Le Regioni con saldo positivo superiore a 100 milioni di euro sono tutte del Nord, mentre quelle con saldo negativo maggiore di 100 milioni di euro tutte del Centro-Sud. In particolare:

  • Saldo positivo rilevante: Emilia-Romagna (€ 300,1 milioni), Lombardia (€ 250,9 milioni) e Veneto (€ 165,9 milioni) 
  • Saldo positivo moderato: Molise (€ 34,3 milioni)
  • Saldo positivo minimo: Toscana (€ 8,8 milioni), Friuli-Venezia Giulia (€ 1,6 milioni) 
  • Saldo negativo minimo: Prov. Aut. di Bolzano (-€ 2 milioni), Piemonte (-€ 2,3 milioni), Provincia autonoma di Trento (-€ 3,8 milioni), Valle d’Aosta (-€ 10,7 milioni), Umbria (-€ 20,1 milioni)
  • Saldo negativo moderato: Marche (-€ 25,4 milioni), Liguria (-€ 51,5 milioni), Sardegna (-€ 57,6 milioni), Basilicata (-€ 62,5 milioni), Abruzzo (-€ 84,7 milioni)
  • Saldo negativo rilevante: Puglia (-€ 124,9 milioni), Sicilia (-€ 173,3 milioni), Lazio (-€ 202,2 milioni), Campania (-€ 222,9 milioni)

Infine, la valutazione dell’impatto economico complessivo della mobilità sanitaria non permette di quantificare tre elementi. Innanzitutto, i costi sostenuti da pazienti e familiari per gli spostamenti: secondo una survey condotta su circa 4.000 cittadini italiani, nel 43% dei casi chi si sposta dalla propria Regione sostiene spese comprese tra 200 e 1.000 euro e nel 21% dei casi fra 1.000 e 5.000 euro. In secondo luogo, i costi indiretti, quali assenze dal lavoro di familiari e permessi retribuiti. Infine, i costi intangibili che conseguono alla non esigibilità di un diritto fondamentale sancito dalla Costituzione.

Buon giovedì.

il report dell’Osservatorio Gimbe “La mobilità sanitaria interregionale nel 2020” è disponibile a: www.gimbe.org/mobilita2020

No, dal cambiamento climatico non ci salveranno le madonne

Accade che in Veneto, dove la siccità stringe la gola come accade in tutto il nord Italia, abbiano deciso di esporre la “Sacra spina” che nella credenza popolare dovrebbe essere la stessa lisca di pesce usata dai romani per decapitare i martiri Fermo e Rustico. Un rito che risale al Duecento per risolvere il problema di siccità. In quel caso i fedeli pregarono per interrompere quattro mesi che assetarono quelle terre.

I fatti – reali e incontrovertibili – sono che anche in Veneto la mancanza di acqua ha ridotto ai minimi storici i fiumi e gli invasi. Il presidente della Regione Zaia più laicamente ha prospettato la possibilità che l’acqua venga razionata (il fiero “nord” che si ritrova ad avere un problema sempre considerato “meridionale” è uno dei molti contrappassi di questo tempo) e ha strigliato il governo (composto da suoi amici che potrebbe raggiungere con una telefonata):”spero che a livello nazionale – dice Zaia –  si decida di finanziare un grande piano e che si possa andare avanti con la pulizia degli invasi alpini, delle dighe artificiali o dei laghi. Se riusciamo a levare il 50/60 per cento dei detriti che vi stagnano, potremmo recuperare il 40 per cento di metri cubi d’acqua in più che possiamo destinare agli invasi. Inoltre, bisogna autorizzare le cave in pianura come rete di invasi e finanziare il mondo dell’agricoltura per ridurre la dispersione della risorsa idrica, come fanno in Israele”.

I creduloni – più che credenti – non vengono sfiorati dal dubbio che disboscare per costruire piste di bob per i mondiali non sia una grande idea o che irridere i tanti esperti che da tempo lanciano l’allarme li espone ora a una pessima figura. Anche Zaia, come molti altri, vede nella siccità un’occasione per chiedere più soldi senza spingersi a chiedere politiche attive. Il suo partito del resto è lo stesso che con Salvini in prima fila sta trattando la transizione ecologica come un fastidioso inciampo al fatturato dei suoi elettori. Nel suo partito, del resto, si trovano parlamentari che al primo freddo ironizzano sul surriscaldamento che non esiste. Sono talmente ignoranti che nonostante siedano in Parlamento non hanno ancora imparato la differenza tra meteo e clima.

L’ignoranza, appunto, è la molla che spinge ad affidarsi a una lisca di pesce per risolvere un problema creato dalle politiche industriali e economiche degli uomini. L’ignoranza che ha concesso il lusso di non vedere l’apocalisse ambientale che sta arrivando e che non può che concludersi con una danza tribale.

Buon mercoledì

La Rete degli studenti medi in piazza per il diritto alla salute mentale

La pandemia, la crisi climatica, la precarietà come dimensione nella quale siamo nati e cresciuti, una società che ci chiede di fare sempre di più, di non fermarci mai. La società nel quale fallire è vietato. Il futuro vissuto come incertezza più che come speranza. Tutto questo può aiutare a capire un po’ meglio – ma non certo a spiegare del tutto – i dati sui suicidi, l’aumento del numero delle persone che soffrono di autolesionismo, di chi sviluppa un disturbo del comportamento alimentare. Il disagio che la nostra generazione vive aumenta e si sta facendo troppo poco per fermarlo.

Il 15 marzo è la Giornata di attenzionamento ai disturbi del comportamento alimentare. Studenti e studentesse si ritroveranno davanti al ministero della Salute per chiedere alle istituzioni di prendere seriamente il tema della salute mentale e trattarla al pari di quella fisica.

L’anno scorso la ricerca “Chiedimi come sto” ha evidenziato alcuni di questi disagi con dei dati allarmanti: il 28% dei giovani tra i 14 e i 26 anni dichiara di avere un Disturbo del comportamento alimentare (Dca), il 14,5% di aver avuto episodi di autolesionismo e il 60% di essere preoccupato per la propria salute mentale.
Ma forse, bastava guardarsi intorno per capire che qualcosa che non va c’è, che la pandemia non se n’è andata e basta ma ha lasciato delle cicatrici nelle menti di ognuno di noi. Sembra evidente che qualcosa non funziona come dovrebbe se si nota la serie di suicidi compiuti da studenti e studentesse universitari che sono stati schiacciati dalle aspettative e dai miti di eccellenza irraggiungibili che gli vengono imposti.

Eppure ancora non è stato fatto quasi niente per cercare delle soluzioni.
Ancora nessun governo ha fatto qualcosa per eliminare il tabù che copre il tema della salute mentale, per cui si ha difficoltà a comprendere che i disagi psicologici sono reali e non sono capricci o “fasi della vita” ma possono essere problemi di salute e come tali vanno risolti da un professionista esperto.

Ad oggi però, iniziare una terapia psicologica da privati ha dei costi esorbitanti e non è affatto accessibile a tutti. Se si tenta di accedere ai servizi gratuiti delle Asl ci si ritrova ad aspettare mesi, (attesa che in alcuni casi può essere fatale) e se e quando si riesce ad avere un appuntamento il servizio offerto è estremamente scadente se non addirittura, in alcuni casi,  dannoso.
Oggi, bisogna dire che la salute non è ancora un diritto per tutti, perché il benessere psicologico resta inequivocabilmente un privilegio di pochi benestanti che possono permettersi le cure.

Solo qualche Regione ha avviato delle pratiche e si è mossa per cercare delle soluzioni, tra queste la Campania che già dal 2020 ha introdotto una nuova figura nel Ssr: lo psicologo di base. Questa figura- di cui chiedono l’introduzione gli stessi ragazzi che saranno in piazza il 15 marzo- collabora accanto al medico di base, offrendo assistenza psicologica primaria per poi, qualora servisse, indirizzare i pazienti verso alcuni specialisti che si occuperebbero della rapida presa a carico del paziente. Questo sistema serve chiaramente a eliminare lo stigma legato alla ricerca di uno psicologo e rende più facile per chiunque chiedere aiuto, così come costituisce un presidio di prevenzione importante.

E’ allo stesso modo evidente che seppur questo sistema possa rappresentare un’ottima soluzione rimane decisamente insufficiente se contemporaneamente non si finanziano i luoghi che dovrebbero occuparsi della rapida presa a carico dei pazienti riformandoli e dandogli gli strumenti per affrontare questa nuova emergenza sanitaria.

I consultori, che dovrebbero essere un altro presidio territoriale fondamentale in particolare per il benessere psicologico delle donne, prevedono un numero di residenti a carico per consultorio sotto i 25 mila solo in 5 Regioni in tutta Italia (quando la legge nazionale prevede che dovrebbero essere tutti sotto i 20mila) e addirittura alcune Regioni, tra cui il Lazio, sfiorano i 45mila.
Così come i Centri di Informazione e Consulenza (Cic), ovvero i cosiddetti “psicologi scolastici” che però sono quasi sempre insufficienti per il numero di studenti di una scuola, spesso sono sotto qualificati, oppure non hanno uno spazio fisico a disposizione per svolgere il loro servizio nelle scuole.

Forse è arrivato il momento di dare voce alle nuove generazioni che, giustamente, non chiedono ma pretendono di non essere presi in giro con bonus sporadici o con misure e e luoghi, che dovrebbero essere un loro diritto ma che, di fatto, non vengono garantiti. Forse è ora che iniziamo tutti a pretendere le cure psicologiche come pretendiamo quelle fisiche, perché la salute mentale è salute. Forse il 15 marzo non solo dovremmo fermarci a riflettere su cosa siano i disturbi del comportamento alimentare ma dovremmo scendere in piazza con i giovani e le giovani  che sfileranno in corteo dal Ministero della Salute a quello dell’Istruzione e del merito perché non si muoia più a vent’anni solo perché non si sa a chi chiedere aiuto.

Tullia Nargiso fa parte della Rete degli studenti medi

Aggiornamento del 22 marzo 2023

Appello degli studenti, presidi psicologici a scuola

Una proposta di legge è stata presentata il 22 marzo alla Camera dall’Unione degli Universitari e la Rete degli Studenti Medi insieme ai parlamentari Elisabetta Piccolotti, di Avs, Elisa Pirro del M5S, Rachele Scarpa, promotrice dell’intergruppo parlamentare per la tutela e la promozione della salute mentale, e Nicola Zingaretti del Pd.

La proposta arriva dopo la diffusione con la collaborazione di Spi Cgil di un questionario in tutto il Paese, che ha visto oltre 30mila risposte. I risultati del questionario, è stato spiegato, “hanno evidenziato molti elementi di preoccupazione: il sentimento più provato durante il periodo pandemico è stata la noia per il 76% dei rispondenti; emergono anche l’ansia al 59% e il senso di solitudine al 57%. Vi sono poi risultati particolarmente allarmanti: il 28% del campione ha avuto esperienza di disturbi alimentari, mentre il 14,5% ha avuto esperienze di autolesionismo. Alla luce di questi dati, abbiamo auspicato che la politica reagisse per cercare di supportare la salute mentale degli studenti e prevenire qualsiasi forma di disagio”. “Così non è stato – afferma Camilla Piredda, Coordinatrice dell’Unione degli Universitari – in quanto le uniche risposte positive le abbiamo viste da singoli istituti, università o al massimo regioni. Ma è mancata una risposta complessiva e adeguati finanziamenti: così, oggi siamo costretti nella maggior parte dei casi a psicologi privati, cui prezzo medio di una seduta della durata di 60 minuti è di circa 70/80 euro. Anche il bonus psicologo, soluzione temporanea ma utile, quest’anno è stato rifinanziato per soli 5 milioni di euro, con un taglio dell’80% rispetto al finanziamento del 2022. La politica ha deciso di ignorare le esigenze e le richieste di un’intera generazione: infatti, la quasi totalità del campione da noi intercettato l’anno scorso aveva detto di considerare utile un supporto psicologico nella propria scuola o università. Addirittura, uno studente su tre vorrebbe usufruirne”.  “La proposta di legge – spiega Camilla Velotta, dell’Esecutivo degli studenti medi – punta ad istituire, regolare e finanziare un servizio di assistenza psicologica, psicoterapeutica e di counselling scolastico e universitario, che possa basarsi su personale professionista e interfacciarsi con il servizio sanitario territoriale assicurando la presa in carico degli studenti che ne avessero bisogno. Noi chiediamo che lo Stato investa almeno cento milioni di euro all’anno per arruolare sul territorio dei team multidisciplinari di professionisti, le cui competenze devono garantire l’assistenza in relazione alle necessità specifiche degli studenti”. (ANSA).

Il 41-bis e il problema culturale di una giustizia senza sguardo umano

Sembra difficile districarsi tra la moltitudine di motivazioni volte a legittimare l’articolo 41-bis della legge dell’ordinamento penitenziario italiano, che sinteticamente viene considerato uno strumento necessario per contrastare la mafia e il terrorismo. Razionalmente si potrebbe ritenere valida questa proposizione, considerando oltretutto il contesto di forte tensione in cui è nata la legge. Ma questo dibattito che impegna sia la destra che la sinistra risulta essere un dibattito sostanzialmente sterile, soprattutto se fatto soltanto seguendo la pessima retorica politica che in questi giorni ci accompagna. È interessante invece andare a ricercare quella che potrebbe essere la mentalità che in penombra caratterizza questa legge e, in particolar modo, l’idea che sembra sottendere il discorso culturale relativo alla giustizia.

Si deve tener conto che la nostra società porta ancora i segni evidenti di quella “duplice rivoluzione borghese”, ossia l’effetto che essa ha avuto in Europa continuando da un lato a mitizzare la Ragione proclamata dalla Rivoluzione francese, e contemporaneamente dall’altro, preservando quella falsa coscienza borghese che giustifica lo status quo e che ha lasciato in mano alla religione cristiana l’altra parte dell’essere umano, ossia l’irrazionalità intesa come dimensione invisibile.

Il processo di secolarizzazione avvenuto in età moderna spesso si è ridotto a una fuorviante conversione di principi religiosi in principi laici razionali. Ciò è avvenuto soprattutto nell’idea di giustizia e nelle sue istituzionalizzazioni di matrice fortemente conservative. Il cieco e ritualistico vortice di peccato-pentimento-assoluzione-redenzione si è tramutato in reato-pentimento-assoluzione-riabilitazione. Se di certo nel reato si è affievolita, almeno in parte, la credenza di un Male connaturato nell’individuo, nel pentimento invece, si ritrova sempre con più evidenza l’idea di una confessione col fine di espiazione sociale. Mentre l’assoluzione si muove su un principio di oggettività, anche se con non poche criticità, la riabilitazione segue tutt’ora le linee guida del recupero cristiano dell’individuo. Lo scopo riabilitativo lascia uno spazio di ambiguità, come se si fosse in presenza di un arto leso che deve recuperare la propria funzionalità, mentre quello rieducativo, attraverso un catechismo comportamentale, tenta di donare attraverso una serie di codici morali la capacità al detenuto di integrarsi nella società. Se nella forma riabilitativa svanisce completamente la dimensione pedagogica, in quella rieducativa, si coglie distintamente l’eco di un pensiero religioso che irretisce la cultura occidentale e permea la semantica della giustizia. Se il principio del reinserimento sociale in sé è corretto, la fata morgana si manifesta però nel fine, che si realizza anzitutto nell’espiazione religiosa.

Si dimentica che l’istituzione carceraria rappresenta sì una necessità, ma anche un fallimento di una politica e di una cultura che prima crea e poi rinchiude i cosiddetti “mostri”, e che soprattutto vede nel cosiddetto Male una realtà inesorabile. Come affermato nel “Teorema” di William Thomas: «Se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze», la realtà allora, può diventare una mera costruzione sociale. Nei Manoscritti del Mar Morto leggiamo: «Fin dall’utero è nel peccato, e fino alla vecchiaia nella colpevole iniquità». Sulla falsariga di questo retaggio religioso, il mondo laico traduce il peccato in un’istintività animale intrinseca nell’essere umano, la quale va dominata mediante il raziocinio. «Le conseguenze» di ritenere vera questa idea conducono a pensare che la violenza, la guerra e i crimini siano una verità ineluttabile della società. Significa produrre una profezia che si autoadempie. Significa creare una realtà destinata a una coazione a ripetere, in cui il male si scontra col bene (l’istinto contro la ragione), ma dove entrambi necessitano l’uno dell’altro per continuare a esistere.

Con queste parole non si intende qui fare una rivolta foucaultiana tesa ad abbattere il carcere e la magistratura, ma senz’altro invitare a riflettere su alcuni aspetti, e a evidenziarne le lacune. Tra le quali, una mancata ricerca eziologica che consentirebbe di intervenire alla radice del problema in maniera risolutiva anziché contenitiva.
I penitenziari diventano un “non-luogo” nei quali i diritti umani sbiadiscono, perché è credenza comune che tali individui si meritino quella condizione come giusta punizione per il reato commesso. Vi è poi una colpa da espiare, che non tiene conto delle ragioni del reo. Non considera le motivazioni che sono dietro le azioni. Cercare il motivo per il quale sono stati commessi determinati crimini, viene immediatamente inteso come giustificazione. Logiche politiche di breve periodo sfamano dunque il dolore e il risentimento sociale delle persone, alle quali non si vogliono far vedere le enormi contraddizioni di questo sistema. Persone la cui autodeterminazione è spesso molto labile. Il degrado vissuto in quartieri poveri, malfamati, abbandonati dallo Stato, si somma alle esperienze familiari accidentate di ogni individuo.

Dentro le mura carcerarie che interdicono lo sguardo e la sensibilità dei cittadini liberi, si generano quelli che saranno i futuri emarginati istituzionalizzati.
In qualche modo l’iconografia ci può suggerire i vizi sovrastrutturali che reggono quest’impalcatura culturale. In Das Narrenschiff” (La nave dei folli) di S. Brant, Albrecht Durer rivela nella sua incisione un folle che benda la Giustizia per impedirle di vedere. Il gesto di bendarla sembra tradursi in una rivolta del proprio tempo nella quale si schernisce il suo potere. A quel punto Ella non può far altro che colpire a casaccio.

Nell’epitaffio inciso sulla tomba dell’anarchico Giuseppe Pinelli, leggiamo le parole di Edgar Lee Masters: «Una bellissima donna», la Giustizia, «Brandiva questa spada, colpendo ora un bimbo, ora un operaio, ora una donna che tentava di ritrarsi, ora un folle». Successivamente nell’Età dei Lumi la Giustizia si toglie la benda e acquisisce l’occhio di Dio che vede ogni cosa grazie alla Ragione. Eppure, quell’occhio sostituisce le «pupille bruciate da un muco latteo», facendo sì che il giudizio sia divino e non umano. In un secondo momento, si riappropria della benda ma questa volta la benda ha un significato di imparzialità ed equità nell’emissione del giudizio. Appare allora un paradosso, una benda che fa vedere meglio. Potremmo dunque pensare che l’egida della Ragione, impugnata dall’odierna giustizia, celi nel suo principio di oggettività, un’indifferenza verso l’umanità. La Dea si pone al di sopra di ogni cosa umana, non cadendo nei pertugi della corruzione, della minaccia, della discriminazione, ma nel medesimo istante si fa divina, fredda e distaccata.

Così riaffiora nella memoria l’incisione di Giovanni Lapi, sull’antiporta di Dei delitti e delle pene di C. Beccaria, nella quale seppure sempre sotto un principio razionale, propone una rappresentazione della Giustizia che promuove un cambiamento sociale e che “di fronte alle teste mozzate inorridisce”. Forse perché ha gli occhi aperti, vede, e si coinvolge nelle faccende umane, si chiede il perché delle cose, che non significa giustificarle. Forse la giustizia pensata come necessaria in quel «fine che giustifica i mezzi», quella del 41-bis, potrebbe essere una giustizia bendata, privata di uno sguardo umano e forse… potrebbe essere un’ingiustizia.

Alejandra Jacinto (Podemos): «Così vincerò contro la Giorgia Meloni spagnola»

Incontriamo l’avvocata Alejandra Jacinto nella sede di Podemos a Madrid. Ha 33 anni ed è la candidata alla presidenza della Comunità di Madrid governata negli ultimi quattro anni da Isabel Diaz Ayuso del Partito popolare. Alle elezioni del 28 maggio i cittadini saranno chiamati a decidere se mantenere l’attuale governo di destra o far sì che ci sia un significativo cambio della guardia.

Alejandra, quale è la situazione politica e sociale di Madrid? Come è stata amministrata la Comunità in questi ultimi anni da Isabel Diaz Ayuso?
Isabel Diaz Ayuso ha adottato una politica contro i cittadini e le cittadine di Madrid. Quello che ha fatto e sta facendo è distruggere i servizi pubblici, come la Sanità. Il suo piano è molto chiaro: privatizzare il servizio sanitario pubblico così che le persone siano costrette ad andare nelle cliniche private, pagando. Per la scuola segue il medesimo piano. Stesso modo di procedere anche per quanto riguarda la politica sulla casa, dove il principale problema è proprio il prezzo altissimo delle abitazioni, qui le persone hanno difficoltà a pagare l’affitto.

Quali sono le sue proposte per migliorare la vita dei cittadini di Madrid?
Abbiamo quattro misure molto concrete che pensiamo possano incidere velocemente sulla situazione, soprattutto per quanto riguarda l’accesso alla casa. La prima è il divieto di acquisto di alloggi agli stranieri non residenti nella comunità di Madrid partendo dalla seconda casa, in modo che non vengano speculatori da fuori che vogliono guadagnare sulle abitazioni. La seconda proposta è che i residenti possano decidere quando nel loro quartiere si possa stabilire una casa turistica. Abbiamo un serio problema in questo senso, qui a Madrid gli alloggi per turisti stanno proliferando in un modo che sta creando problemi agli abitanti. Noi vogliamo al contrario che siano i cittadini a decidere  e che abbiano più potere degli speculatori. Stiamo lavorando per creare un’agenzia immobiliare pubblica per abbassare i prezzi dell’affitto in modo che siano accessibili a tutti e a tutte. Abbiamo avanzato la proposta di stabilire una tassa, la “tassa blackstone” per tutte quelle società proprietarie di immobili a Madrid che vengono lasciati vuoti. Se non pagano questa tassa, le società devono mettere gli immobili a disposizione della nostra rete pubblica. In sintesi, vogliamo frenare gli speculatori, regolarizzare l’accesso alla casa in modo che tutti i cittadini di Madrid possano pagare un affitto e avere un’abitazione in cui vivere in maniera tranquilla e dignitosa.

Isabel Diaz Ayuso è stata coinvolta nello scandalo che ha riguardato suo fratello Tomas Diaz Ayuso, a proposito dell’acquisto di mascherine anti Covid?
Sì, un anno fa il presidente del Partito popolare, Pablo Casado, denunciò la questione del fratello della Ayuso: al di là che sia legale o illegale quello che è avvenuto, la domanda è se a livello etico è giusto che Tomas Dias Ayuoso abbia fruito di quasi 300mila euro di commissioni per vendere mascherine durante la pandemia, grazie alla sorella Isabel Diaz Ayuso, quando negli ospedali morivano quasi 700 persone al giorno per il Covid. Io credo che indipendentemente dal fatto se questo tipo di operazione sia stata illegale o no, vediamo ora cosa dice la Procura europea – dobbiamo ricordare che l’Europa sta investigando sull’accaduto -, il comportamento della Ayuso è assolutamente deprecabile per chi è alla guida della Comunità di Madrid. In linea di principio non è accettabile che il fratello di Isabel Diaz Ayuso solo per un fatto di parentela abbia percepito una grande quantità di denaro. Aspettiamo le ulteriori verifiche. La Ayuso tuttavia sino ad oggi non ha dato una risposta su questa questione né al suo partito, il Partito popolare che ha denunciato la vicenda, né a noi cittadini e le cittadine di Madrid.

Lei ha denunciato il fatto che Ayuso vuole fare della città un centro speculativo per società straniere, come è successo per la questione di Uber. Una multinazionale al centro di una inchiesta del ICIJ (Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi). Può spiegarci meglio?
Ayuso, invece di comportarsi come la presidente della Comunità di Madrid pare muoversi piuttosto sugli imput di multinazionali straniere. Imprese che vogliono speculare nel nostro Paese, che godono dei privilegi nel tenere il denaro in paradisi fiscali. Pensiamo solo a Blackstone, un’impresa che ha comprato tutto il patrimonio edilizio pubblico della comunità di Madrid. Ayuso è l’ideale intermediaria commerciale di queste imprese, favorendo questo tipo di politica, che è una politica dove aziende pirata speculano nel nostro territorio. E con la sanità fa lo stesso, favorisce imprese private, non pensando ai suoi cittadini.

Di recente Isabel Diaz Ayuso ha attaccato la Ley Trans, una legge nata per proteggere i diritti civili di chi è discriminato. La governatrice vorrebbe cambiare questa legge nella Comunità di Madrid, secondo lei può ottenere questo risultato?
In realtà Ayuso non ha il tempo per cambiare la Ley Trans di Madrid, in quanto le elezioni sono alle porte, si voterà il 28 maggio e siccome sono convinta che perderà le elezioni non potrà cambiare questa legge. La Ayuso si è coalizzata con l’estrema destra, con Vox, e attacca il collettivo Trans e lgbtqia+ . Ma non avrà il tempo e il modo di cambiare questa legge di Stato.

Abbiamo parlato delle sue battaglie per il diritto alla casa, vorrei affrontare ora il tema del lavoro precario. In Italia nessuno si occupa di questa questione a livello politico, mentre in Spagna è stata fatta una riforma sul lavoro grazie alla ministra Jolanda Diaz per contrastare il precariato. Ce ne può parlare?
Prima di rispondere alla domanda voglio dire che  Ayuso e Meloni sono due facce della stessa medaglia. La loro politica è quella di mantenere disuguaglianze sociali, rendere ancora più profonde le difficoltà sociali dei cittadini più poveri rispetto a chi è più privilegiato. Ayuso e il suo partito votano contro ogni proposta che possa migliorare la condizione a livello sociale e lavorativo dei cittadini. Sono contro il salario minimo, la riforma del lavoro, contro ciò che può cambiare la precarietà di molti lavoratori e lavoratrici. Ripeto, Ayuso governa contro l’interesse della gente. La nostra proposta è valorizzare la Riforma del lavoro promossa da Diaz e andare ancora più in là. Chiaramente tutte le proposte e le leggi che abbiamo fatto per l’interesse della gente incontrano una difficoltà che abbiamo con il nostro alleato di governo, il Partito socialista, a cui non piace totalmente il cambiamento strutturale che stiamo facendo e proponendo. Dispiace che su queste questioni risulti conservatore e resista a questo avanzamento nella conquista dei diritti.

Avete un’altra proposta molto interessante, la Legge climatica. Può spiegare in cosa consiste?
A questo proposito Ayuso sostiene che il cambiamento climatico non esista, che sia un’invenzione comunista. Al contrario, noi proponiamo una legge rispetto all’emergenza climatica per cercare di porvi rimedio perché contribuisce a far ammalare il nostro ambiente. Lavoriamo per favorire  l’uso di energia alternativa e rinnovabile, facendo attenzione però che non si speculi anche su queste nuove fonti sostenibili. Puntiamo a una legge che diminuisca le emissioni di CO2 e che tuteli il futuro e il presente dei nostri ragazzi. Ricordo che a questa nostra proposta il Partito popolare e Vox votarono contro.

Nella foto: Alejandra Jacinto (facebook)

I cento anni di una straordinaria cacciatrice di immagini: Diane Arbus

«Buñuel  faceva film per mostrare che questo non è il migliore dei mondi possibili. Arbus faceva fotografie per mostrare qualcosa di più semplice: che esiste un altro mondo», osservava Susan Sontag in Sulla fotografia (1977).
Sono trascorsi cento anni dalla nascita di Diane Arbus, la straordinaria cacciatrice di immagini – come l’aveva definita il fotografo Walker Evans – che aveva scelto di rivolgere il suo obiettivo verso gli individui ai margini della società, gli outsider, i diversi. Proprio per questo sarebbe stata etichettata come «la fotografa dei freaks», un appellativo che lei odiava, ma che non sarebbe mai riuscita a cancellare.
Diane Nemerov, nasce a New York il 14 marzo 1923, da una ricca famiglia ebrea di origini russe proprietaria dei grandi magazzini Russek’s sulla Fifth Avenue, a New York.
L’incontro con quello che diventerà suo marito, Allan Arbus, fotografo dell’esercito americano, avvenne quando lei era giovanissima, a soli 14 anni.
A 18 anni Diane ricevette la sua prima macchina fotografica (una Graflex), subito dopo il matrimonio: all’inizio lavora come assistente di suo marito, ma in seguito, grazie agli insegnamenti di Berenice Abbott, di Aleksej Česlavovič Brodovič e soprattutto di Lisette Model, affinò la tecnica e intraprese la sua strada nel mondo della fotografia.
Fu anche grazie a Model, con cui studiò dal 1956 al 1957, che delineò una propria visione e uno stile personale. Diane Arbus così trovò il coraggio di fotografare i soggetti che più le interessavano: tra il 1957 e il 1960 frequentò  l’Hubert’s Museum, un baraccone situato tra la 42sima e Broadway, dove si esibivano i cosiddetti “freaks”. Intanto il suo matrimonio andava in crisi.

DIANE & ALLAN ARBUS, Kathy Slate with doll in baby carriage, 1953, Vogue © Condé Nast (foto della mostra CHRONORAMA. Trésors photographiques du 20e siècle)

Dopo la separazione dal marito incontrò il distributore cinematografico Emile De Antonio, che le fece conoscere il film Freaks di Tod Browning (1932). In quegli anni la fotografia della Arbus assume diverse declinazioni: dai ritratti di persone che contestavano il sistema costituito con i quali instaurava rapporti di complicità e amicizia,  alle opere su commissione per varie riviste, come i celebri scatti dedicati a Mae West o Marcello Mastroianni; e infine i ritratti di strada. In queste fotografie Arbus concentra il meglio della sua visione eccentrica, ripudiando ogni genere di abbellimento estetico, alla ricerca dell’imperfezione se non della vera e propria provocazione. Come accade in una delle sue foto più celebri: Child with a Toy Hand Grenade in Central Park  (1962), in cui il soggetto, un bambino, sfiancato dall’attesa dello scatto, contrae la mano, mentre fa una smorfia di rabbia.
Si racconta che  Arbus trasmettesse una “vulnerabilità aggressiva”: alcune persone si dicevano sfinite, costrette a posare per ore fino a sentirsi esauste, solo in quel momento avrebbe ottenuto lo scatto di cui aveva bisogno. Anche per questo la sua fotografia era considerata eticamente ambigua e priva di compassione per i soggetti rappresentati.
In realtà Diane Arbus cercava attraverso la fotografia di avvicinarsi disperatamente a un mondo ai margini, che la attraeva ma da cui era inevitabilmente distante. Si vergognava del suo rango sociale privilegiato, in cui non si riconosceva. Per tutta la vita cercò di negare le proprie origini attraverso la fotografia. Nell’anti normatività degli outsider, trovava forza, consapevolezza e fierezza.
Arbus esplorava territori che non le appartenevano, a volte li invadeva in effetti, cercando di entrare a farne parte come ospite, amica, compagna.
Diversi soggetti ricorrono più volte nelle sue fotografie: con loro era riuscita a instaurare un legame personale, di amicizia, di intimità. Come nel caso del gigante ebreo Eddie Carmel che lei immortala nella celebre Jewish Giant at Home with His Parents in The Bronx, NY, scattata nel 1970; o del messicano affetto da nanismo Lauro Morales, che si esibiva con il nome d’arte di Cha Cha Cha. Arbus lo fotografò  per molti anni, in una camera da letto; sotto i baffi il suo sorriso è collaborativo e complice.
Tra i più celebri scatti anche Identical Twins, ritratto delle gemelline Grady, che Stanley Kubrick omaggerà nel film Shining. La Arbus sviluppò anche altri filoni di interesse, come quello per i nudisti: per instaurare un clima di fiducia reciproca, al momento dello scatto, lei stessa si spogliava.
Al 1970 risale anche una serie dedicata a dei disabili in un istituto: diventerà nota dopo la sua morte sotto il titolo Untitled.

Caduta in depressione, Diane Arbus perse negli ultimi tempi interesse per la fotografia. Si tolse la vita il 26 luglio 1971, all’età di 48 anni.
La retrospettiva curata da John Szarkowski al Museum of Modern Art di New York nel 1972, un anno dopo la sua morte, ne avrebbe decretato la definitiva consacrazione nel mondo dell’arte.
“Vedo la divinità nelle cose ordinarie”, dichiarava la fotografa.  Diane Arbus voleva mettere in discussione il concetto stesso di “normalità”: sottolineare le imperfezioni di una diva e al tempo stesso celebrare la fierezza e la nobiltà dei “diversi”.
Oggi  le sue opere sono conservate, nelle collezioni del Metropolitan Museum of Art di New York, della National Gallery of Art di Washington e del Los Angeles County Museum of Art.
In Italia dal 12 marzo 2023 al 7 gennaio 2024 alcuni scatti di Diane Arbus sono esposti a Palazzo Grassi (Venezia), nell’ambito della mostra CHRONORAMA. Tesori fotografici del XX secolo, la mostra riunisce oltre quattrocento opere, in un percorso che fa rivivere la storia del Novecento attraverso le immagini.

Nella foto d’apertura, una immagine della mostra CHRONORAMA. Tesori fotografici del XX secolo, Palazzo Grassi, Venezia: FRANCES MCLAUGHLIN-GILL, Photographers Allan Arbus and Diane Arbus, 1950, Condé Nast Archive © Condé Nast

Nel segno di Pietro Greco

Il 14 marzo è la giornata del nostro Pi greco. A Forlì oggi si tiene un incontro in ricordo di Pietro Greco, scrittore e divulgatore scientifico che per lunghi anni è stato firma di punta de L’Unità, pilastro di Radio3Scienza e colonna di Left. Chimico di formazione, ha poi trovato la sua strada come giornalista scientifico. Pietro Greco è stato un autorevole sostenitore del concetto di “cittadinanza scientifica” ed ha dedicato molto impegno alla organizzazione dei processi di comunicazione della scienza. Tantissimi e importanti i suoi libri a cominciare dall’opera in più volumi La scienza e l’Europa (l’Asino d’oro edizioni).

Oggi alle 17 il suo lavoro sarà al centro di un incontro al liceo classico Morgagni a Forlì di cui dal 2017 era cittadino onorario. Sono previsti interventi del fotografo Roberto Besana, di Elena Gagliasso, dell’Università La Sapienza, di Roberto Camporesi, presidente della Associazione Nuova Civiltà delle Macchine. Sarà ospite Emilia Di Pace, ricercatrice e moglie di Pietro Greco. (l’evento è trasmesso in streaming attraverso il canale youtube della associazione Nuova Civiltà delle Macchine).

Durante questo pomeriggio in onore di Pietro Greco sarà presentata la collana “Dialogo tra fotografia e parola”( Toepffer/Oltre edizioni), curata da Roberto Besana, fotografo e amico personale del giornalista e studioso prematuramente scomparso nel 2020. Il progetto editoriale dedicato alla natura, all’ecologia, all’ambiente di Toepffer/Oltre edizioni è nato proprio quell’anno da un’idea di Pietro Greco. Continuando in quel solco, attraverso le fotografie di Besana i volumi  sviluppano un dialogo ininterrotto con artisti, scienziati, filosofi, giornalisti, scrittori, amici di Pietro Greco che con i loro scritti hanno voluto rendergli omaggio.

L’idea era quella di una serie di opere che partendo da una fotografia, potessero stimolare l’attenzione verso i temi che da sempre interessavano i due autori cercando così di parlare ad un pubblico più vasto con modalità comunicative differenti; con l’uomo diventato un attore ecologico globale perché la sua economia ha raggiunto il medesimo ordine di grandezza di quella della natura o, più precisamente, della biosfera, diventa indispensabile che la conoscenza di quanto siamo diventati come attori primari sia patrimonio di tutte le persone. Nacque così L’albero – dialogo tra un fotografo ed uno scrittore a cui dovevano seguire il Paesaggio, L’acqua e Segni e forme della Terra, una sorta di viaggio tra gli elementi che più interagiscono con l’uomo, ne condizionano la vita, trattengono traccia del suo passaggio. Ma poi la sorte ha impedito a Pietro di continuare a lavorare a quel progetto. Roberto Besana non l’ha voluto accantonare ma l’ha trasformato in un tributo all’amico, chiedendo ad altri 65 amici di Pietro (65 come gli anni che aveva al momento della sua morte) di scrivere pensieri, parole, riflessioni sul nostro paesaggio in cambiamento a corredo delle 65 foto. L’idea era quella di consegnare metaforicamente la sua penna a tanti scienziati, scrittori, giornalisti che ne prendessero l’eredità culturale e ne completassero l’opera ed il pensiero sviluppando il volume Il Paesaggio – dialogo tra fotografia e parola come tributo alla sua vita. Con questo limite, il curatore non ha potuto raccogliere i contributi di tutti quanti lo hanno stimato, ed ecco allora che, con lo stesso immutato entusiasmo, altri 67 amici hanno dato vita ai testi del volume L’Acqua. Così facendo, si è potuta ottenere un’opera che rispecchiasse nel profondo le sue caratteristiche di ecletticità culturale affrontando l’acqua nell’arte, nella scienza, nella fisica, nell’astronomia, nella società, nella storia, nell’ambiente, o solo nel ricordo.

 

Ecco le riflessioni che Roberto Besana ha affidato alla presentazione del libro:

Caro Roberto,
grazie della mail e per aver deciso di realizzare anche questo nuovo progetto.  L’idea di un libro sull’acqua nelle sue varie forme era nella mente di Pietro da tempo, ne avevamo parlato più volte negli anni. Nella collaborazione con te avrà visto la possibilità di realizzarlo!
Un abbraccio,
Emilia

Con queste parole Emilia, moglie di Pietro Greco, rispondeva alla mail con cui le preannunciavo la volontà di dare nuovamente voce ai tanti amici, colleghi, scienziati e studiosi che non avevano potuto partecipare al tributo che avevo organizzato con la pubblicazione del volume il Paesaggio. Sono certo che Pietro avrebbe utilizzato questa idea di trattare l’acqua, come una sorta di sommario dei temi che avrebbe sviluppato nell’opera che aveva in mete di realizzare, sommario perché la completezza della trattazione che ne sarebbe scaturita se avesse avuto modo di affrontare il suo progetto, era scontata anche alla luce delle innumerevoli testimonianze scritte e pubblicazioni che ci aveva abituato ad apprezzare. Ed ecco allora che con immutato entusiasmo, hanno preso la sua penna, ne hanno preso l’eredità come testimone altri 67 colleghi, scienziati, studiosi, letterati, giornalisti; 67 come fosse questo libro una sorta di regalo per il suo compleanno. Nulla è cambiato nel frattempo, ed anche se ci manca la sua umanità, la sua cortesia, preparazione, dialettica, impegno, educazione, cultura, la sua memoria è ancora viva in tutti, così come il suo lascito morale e il suo insegnamento, che ho ritrovato vitale nella volontà di tutti gli autori degli scritti che troverete nelle prossime pagine. Scrive l’Enciclopedia Treccani alla voce – catalizzatore – Sostanza che, presente anche in minima quantità, modifica la velocità di una reazione chimica, pur senza far parte dei prodotti finali della reazione. Il c. modifica, abbassandola, la quantità di energia di attivazione necessaria per innescare la reazione. Come non leggere in questa definizione una delle caratteristiche più evidenti di Pietro, ciò che ritengo il più grande insegnamento professionale e culturale: l’importanza di “contaminarsi” di aggregare tante esperienze diverse, di culture, pensieri e preparazioni per poter guardare le cose e i fatti con libertà di approccio e di analisi, senza arroccarsi nel proprio sapere ma arrivando alla conoscenza attraverso la continua rimodulazione di ciò che diviene nostro, con quanto abbiamo via via compreso. E questo libro penso ne sia la dimostrazione, anche se gli scritti sono solo spunti di conoscenza, piccole gocce che stimolano la voglia di cercarne altre per completare il quadro, di un sapere che divenga conoscenza come fosse un dipinto. Quale forza possedeva nel creare connessioni tra le persone, tra diverse intelligenze, esperienze, studi, per arrivare all’obiettivo maestro che lo ha sempre guidato, democratizzare il sapere, che ha coniugato con la necessità di mettere a disposizione del più largo pubblico le informazioni, le fonti con cui sviluppare il proprio pensiero; l’essenza della sua attività di comunicatore della scienza. Ed io non posso che ritrovare la bellezza della “catalisi” che ci ha unito in questo nuovo progetto, e come ancora una volta mi sono sentito onorato di essere qui con quanti hanno scritto, amici e colleghi che avete accettato in squisita liberalità di prendere il testimone. Non troverete una perfetta successione e coerenza negli argomenti dei testi, così come le fotografie volutamente non hanno omogeneità estetica e rappresentativa perché sono “momenti “ della vastissima presenza di questo elemento indispensabile per la nostra vita e di quella di ogni essere vivente sul Pianeta, così come agente che ne permette il continuo mutare, modellandolo , disfacendo o riaggregando, in una ciclo infinito. Mi auguro che il “blend” di testi e fotografie sia riuscito, anche se non leggere la firma di Pietro al piede ne rende acido il sapore, ma certamente la sottile soddisfazione di essere riuscito nell’intento di costruire un‘opera che sono certo lo avrebbe onorato, ma che nella sua modestia lo avremmo visto schernirsi delle lodi al suo operato ed alla vita di comunicatore che tutto ciò vuole ricordare. Ci siamo seduti con lui su una roccia, abbiamo guardato l’orizzonte, e abbiamo deciso insieme di partire per cercare cosa ci sia …oltre… Grazie Pietro

Roberto Besana

La fotografia in apertura è di Roberto Besana. Qui accanto la copertina del suo libro fotografico L’acqua

L’Arabia Saudita ci prende a pallonate

Il mondo del calcio italiano mostra la sua anima decidendo di fare ancora peggio. La Serie A ha firmato un accordo con i sauditi, fregandosene delle giuste osservazioni di chi lavora con i diritti umani, per i prossimi quattro anni stravolgendo anche la formula della Supercoppa italiana, adattata alle esigenze televisive.

Quasi 100 milioni di euro sono bastati per fingere di non sapere che lo sportwashing con i nomi e le maglie del nostro campionato da quelle parti serve per fingere una democrazia di plastica, quel che basta per continuare a stringere mani insanguinate e concludere affari. Sembra passato un secolo dall’indignazione per gli ultimi mondiali giocati in Qatar, costati la vita di lavoratori schiavizzati. Sono lontani i tempi in cui Giorgia Meloni e Matteo Salvini gridavano allo scandalo e la Lega di serie A si fingeva contrita promettendo che non avrebbe rinnovato il contratto con i sauditi. Ora quel contratto si è allungato ed è ingrassato.

L’allargamento a 4 squadre garantirà anche l’esportazione dei marchi più noti del campionato (Milan, Inter, Juventus) fregandosene del giornalista Kashoggi fatto a fette perché sgradito al principe e fregandosene delle donne che hanno diritti del secolo scorso.

Possiamo notare comunque che i sauditi diventano un tema dibattuto dalla politica solo quando tornano utili per bastonare l’avversario politico. Se si fanno abbastanza furbi da non coprire di soldi solo un ex presidente del Consiglio ma distribuiscono le fette anche agli altri diventano improvvisamente potabili.

La credibilità, del resto, è un valore finché non viene superata da un valore superiore.

Buon martedì.

«Con la mia carrozzina a Napoli ho scoperto una umanità fuori dai luoghi comuni»

Come puoi non amare una città che ha inventato il sospeso, il caffè pagato all’estraneo che non può permetterselo. Napoli è anche questo. È una città che ho sempre amato, capace di infondere la stessa energia che ho trovato a New York. È l’unica tra le città italiane in grado di farlo.
Questo viaggio in carrozzina a Napoli è nato dopo aver parlato con Sara della Glamurga, banda danzante di Milano che si ispira alle bande argentine. Sono bastate poche parole.
«Vai a Scampia. Là per il carnevale si radunano tutte le murghe d’Italia (forme teatro di strada ndr)».

Così ho preso il mio treno e sono arrivato in città.
Con me c’erano Pasquale, Enzo e Camilla. Camilla è la mia giovane nipote diciannovenne. Volevo che vivesse qualche cosa di autentico, al di fuori delle comodità famigliari. A Napoli si è rivelata una giovane donna intelligente e attenta.
Per la prima volta in un viaggio in carrozzina ho scelto di pernottare in un B&B, casa Gifuni. Ero perplesso, ma si è rivelata all’altezza delle mie necessità, ottima l’accessibilità e la cordialità di Matteo. Quel luogo è sulla buona strada per diventare un indispensabile punto di riferimento per i miei viaggi. Pasquale non si è fermato con noi.
La sera sono passati a prenderci Carmela e Michele. Hanno due figli affetti da disturbi dello spettro autistico però non hanno perso il sorriso, e nel viaggio da Salvatore Rosa a Posillipo mi hanno raccontato aneddoti e preoccupazioni. Nel periodo del Covid sono stati malati tutti e quattro contemporaneamente. Non potevano uscire. La Rai li ha intervistati grazie a un drone. Mentre il figlio maschio continuava a ripetere: «Posso abbatterlo? Posso abbatterlo?». La loro più grande preoccupazione è «che cosa faranno i figli quando loro non ci saranno più».

Con mia grande sorpresa Carmela è un nome che è tornato spesso nei giorni napoletani. È il nome della protagonista del mio ultimo romanzo.
Si chiama Carmela anche il ristorante dove io e Pasquale siamo andati a pranzo con Gabriele Russo, il direttore artistico del teatro Bellini. Gabriele si è raccontato con simpatia davanti a un piatto di spaghetti e zucchine veramente delicato e dei fiori di zucca profumati ripieni di ricotta.
Il papà di Gabriele è Tato Russo colonna portante del teatro napoletano e italiano, un vero monumento, la sua rigidità era proverbiale. È su questa rigidità che ha scommesso all’inizio della carriera Gabriele.
«Ero molto complice degli attori fin da piccolo, quindi vedere questa rigidità mi faceva star male. Però dall’altro lato mi rassicurava sul suo rigore nei nostri confronti. Cioè dicevo se questo ci dà una chance è perché è convinto. Devo dire con onestà che invece quando cominciammo avvertii un po’ più di morbidezza nei nostri confronti. Questa cosa mi mandò in allarme». Fu questo a spingerlo verso altre esperienze, per mettersi alla prova. Per crescere è importante staccarsi dai luoghi familiari per compiere un viaggio verso sé stessi, in seguito tornare.

Simone Repele nel backstage di Lili Elbe Show (foto di Camilla Rusconi)

Gabriele si è lamentato del modo in cui Napoli viene raccontata. Si cerca sempre l’aspetto folkloristico, l’evento particolare, ma diventa difficile raccontare Napoli nella sua normalità, nella sua cultura. La sera sono andato con Enzo e Camilla al teatro Bellini a vedere lo spettacolo di danza Lili Elbe Show della compagnia Riva & Repele. Finalmente uno spettacolo di raffinata poesia, in cui i significati, i passi, le coreografie creano un tutto armonico. Camilla è andata nel backstage per qualche foto. Io non potevo arrivarci. Serata interessante al Bellini che è un piccolo gioiello, curato in ogni particolare. Ma giuro che se non lavoreranno di più sull’accessibilità gli farò una macumba.

Napoli è talmente affascinante, talmente avvincente, gli incontri in programma così numerosi che non abbiamo sicuramente perso tempo a cercare ristoranti e cibi. Ci siamo riempiti prevalentemente di pizza.
Napoli è una città elegante, ed è un piacere passeggiare per le sue strade, attraversare le sue piazze, incrociare luoghi in cui ricchezza e povertà convivono insieme. Milano è suddivisa più nettamente. Presenta zone di povertà e zone di ricchezza ben definite. Invece a Napoli nella stessa via si possono presentare entrambe le facce del vivere.
Napoli è una città colma di tesori. Dopo anni che ci provavo, sono riuscito finalmente ad ammirare il Cristo velato. È commovente la raffinatezza di quella scultura, lo è anche la sofferenza del Cristo adagiato.

Napoli è una città colta, come mi ha raccontato durante una passeggiata Luciano Mayol, in tempi recenti presidente del Polo delle Scienze e delle Tecnologie per la vita dell’ateneo Federiciano.
Il ritratto che mi ha fornito si scosta da qualsiasi immaginetta precotta per turisti e per una certa Italia che non vuole ascoltare, non vuole vedere.
«Il primo corso di laurea in scienze biotecnologiche in Italia è nato a Napoli intorno al 2000, grazie al fatto che a Napoli ci sono dei centri di ricerca in campo biomedico di altissimo livello. C’è l’Istituto internazionale di genetica e di biofisica (Igb) del Cnr, ci sono due università che hanno corsi di laurea di tipo scientifico, la Federico II e la Seconda Università di Napoli. Poi c’è la Stazione zoologica Anton Dohrn dove pure fanno ricerche.
Poi la chimica è molto famosa a Napoli. Qui abbiamo avuto Paolo Corradini. Giulio Natta ebbe il premio Nobel per i catalizzatori nella sintesi del polipropilene. Ma gran parte del merito di questo premio Nobel lo si deve a Paolo Corradini, che in effetti fu il primo ad accorgersi che il polipropilene che si riusciva a realizzare grazie a questi catalizzatori a base di titanio, praticamente aveva una percentuale di cristallinità molto elevata».

I viaggi in carrozzina non sono soltanto una vicenda turistica. Sono il pretesto per dialogare con la società civile, con la cultura, con la gente che si fa carico di quella casa comune che è la polis. Proprio per questo ho voluto incontrare Antonio Memoli, distinto architetto ottantacinquenne dalla straordinaria energia. La sua storia è una storia di lotte sociali, di comitati, di assunzione di responsabilità nei confronti della cittadinanza. Mi sono sprofondato nei suoi racconti con golosità. È indispensabile ascoltare la voce degli anziani, rappresentano la nostra memoria storica, le nostre radici. Senza queste la vita non cresce, non trova il giusto rigoglio.
Antonio mi ha raccontato delle sue prime battaglie perché il quartiere Sant’Alfonso, che adesso non esiste più, fosse ristrutturato e si dessero case dignitose alle quattrocentoquaranta famiglie che abitavano nelle baracche. Mi ha parlato della sua militanza in Democrazia proletaria, di amori giovanili, delle lotte perché cinque delle sette vele di Scampia venissero abbattute. Le vele sono di quanto di più orrido si possa immaginare in fatto di edilizia popolare. Con lui ho parlato anche di Bagnoli, dell’inquinamento di quell’area che si vorrebbe trasformare in un parco di centoventi ettari, ma che ancora aspetta di essere bonificato. Ma soprattutto abbiamo compiuto un viaggio nella storia. È stato una lectio magistralis sempre sostenuta da una viva umanità e dalla necessità di difendere il diritto alla casa.

Le Vele a Scampia (foto Gianfranco Falcone)

«Perché poi tutta questa storia ha un nucleo centrale. La dimora è una dignità che tu non puoi togliere alle persone. Se tu togli la dimora intesa proprio come diritto alla socializzazione, al decoro di sé stessi, tu veramente togli alle persone un elemento di qualità, la possibilità di instaurare rapporti sociali. Se dai una casa decente sicuramente troverai ancora quello che spaccia dentro, però incominci già ad avere delle relazioni che consentono forse di avere un’alternativa. Insomma la modalità con cui tu stabilisci un modo di costruzione non è semplicemente un elemento da ex tempore nell’università. È un modo con cui tu ti avvicini a dire: Metto insieme un falansterio con duecento – trecento famiglie, oppure incomincio a dare una vita?».

Diritto, decoro, dignità, e tutto ciò che è tolto ai senzatetto che occupano i portici della Galleria Principe di Napoli. La mattina e la sera ci passavamo accanto, e lì la città mostra il suo volto peggiore. Fatto di cartoni, di stracci, di una povertà abissale che sembra senza rimedio.
Napoli è la città dai mille volti, sicuramente percorribile da chi come me è in carrozzina, ma sempre con una rosa in mano e un coltello tra i denti. La rosa per ricambiare la gentilezza, il coltello simbolo di risposte argute e ferme a chi non è disposto, per cattiva coscienza o ignavia, a consentire diritti dignità e decoro anche a chi ha una forma fisica altra, rispetto a quella che la società delle performance si aspetta.

Come sempre ci sono stati degli intoppi. Una mattina Pasquale ha telefonato per chiedere se la funicolare per il Vomero a Montesanto fosse funzionante. La risposta è stata affermativa. Ma quando siamo arrivati abbiamo scoperto che la fermata del Vomero è impraticabile da qualche tempo.
Alla Certosa di San Martino stanno aspettando i fondi del Pnnr, mi ha detto il direttore Francesco Delizia. Gli ho ribadito che con cinquanta euro è in grado di approntare due pedane in legno, e guadagnare così l’accessibilità al chiostro grande e al belvedere. Spesso non servono investimenti milionari per risolvere i problemi ma un po’ di lungimiranza.

Carnevale a Scampia (Foto Gianfranco Falcone)

Finito il corteo di carnevale a Scampia eravamo cotti e stravolti. C’era una bella pizzeria che ci faceva l’occhiolino. Pasquale insisteva perché chiedessimo la pedana e io lo guardavo strafottente, pensando tra me e me che a tutto c’è un limite, anche all’ottimismo sfrenato di Pasquale. Invece magicamente la pedana a Scampia c’era.
Aveva ragione la mia amica Sara. Scampia con il suo carnevale è magia, è un tumulto di risate, di colori, di bellezza. Sembrava di partecipare alle dionisiache con baccanti e fauni. Grazie Mirella La Magna grazie Felice Pignataro che vi siete inventati questa possibilità di riscatto.

Quando faccio un viaggio carrozzina arrivo al limite delle risorse fisiche e psichiche, tanta è la brama di vita, tanta è la brama di incontri. Questa stessa brama mi ha spinto a voler dialogare con Enzo D’Errico, direttore del Corriere del Mezzogiorno. Si è presentato all’appuntamento con un sigaro in un angolo della bocca e si è raccontato con generosità, senza peli sulla lingua. Ha rivelato ancora una volta come Napoli sia ricca di persone raffinate e lucide. Anche lui come Gabriele soffre del modo in cui Napoli viene raccontata.
«In generale il Mezzogiorno è un luogo non comune. Piuttosto che comprendere e analizzare la complessità è molto più facile rinchiudere un luogo non comune in un luogo comune. Quindi è molto difficile narrare il Mezzogiorno in maniera che non sia riconducibile agli stereotipi. Perché nella narrazione nazionale il Sud, per sua colpa e per colpa altrui, è ancora rinchiuso nei luoghi comuni».

L’analisi di D’Errico si è fatta ancora più articolata quando ha sottolineato i mali di Napoli.
«Napoli non ha mai avuto nella sua storia una borghesia produttiva. Ma soprattutto Napoli è da sempre governata dal notabilato e oggi proprio all’ennesima potenza con Manfredi (l’attuale sindaco di Napoli ndr). Cosa è il notabilato? Il notabilato sono i ceti professionali, ossia i professori universitari, gli avvocati, i medici, i primari, i notai. Il notabilato prevede per sua costituzione, ha nel suo dna, la trasmissione del potere, la trasmissione della ricchezza, non la redistribuzione».
Con D’Errico abbiamo parlato di disabilità. Ha l’intelligenza e la sensibilità per farlo. Poiché sua figlia ha una disabilità cognitiva. Si è trovato d’accordo nel dire che le Rsa non sono l’unica risposta per il dopo di noi, cioè per il momento in cui i genitori non ci saranno più e i figli dovranno avere cure e contesti in cui vivere, diversi da quelli familiari che li hanno protetti fino ad allora. Le Rsa così come sono concepite adesso spesso sono solo un business utile al perpetuarsi di un sistema. Rendere autonomi e indipendenti le persone con disagi fisici e mentali costerebbe allo Stato molto meno. Farlo si può, lo si può con buone pratiche e buone politiche. E soprattutto cambiando modo di ragionare come ha sottolineato.

«Ragionare come comunità e non come Io. Far prevalere il Noi sull’Io. Purtroppo a Napoli prevale l’Io. Certo, prevale in quasi tutto il Paese».
Napoli non è stata soltanto un incontro con gli intellettuali e i protagonisti della società civile con cui desideravo dialogare. È stato anche l’incontro con le sue persone, con i suoi palazzi, con i suoi quartieri arroccati in collina, con il moderno e con l’antico, con i presepi della Certosa, con la poesia dei quartieri spagnoli, con il calore dei parenti di Pasquale autenticamente e veracemente napoletani.
È stato un altro viaggio in carrozzina.

In apertura: Carnevale a Scampia (foto Gianfranco Falcone)

L’autore: Gianfranco Falcone è psicologo e blogger (Viaggi in carrozzina,  DisAccordi) e collabora con la rivista on line Mentinfuga, dove scrive di temi culturali, di teatro e diritti. Da alcuni anni è costretto a vivere su una sedia a rotelle. Ha da poco pubblicato il romanzo 21 volte Carmela (Morellini editore)

Leggi il suo reportage da Palermo su Left del 31 agosto 2022

Incapaci di fare politica si buttano sul panpenalismo

Magistratura Democratica analizza il cosiddetto “Decreto Cutro” (il decreto-legge n. 20 del 2023) e dice quello che c’è da dire. In un comunicato stampa la componente dell’Associazione nazionale magistrati punta il dito contro la stretta sulla protezione speciale decisa dal governo Meloni che, scrivono i magistrati, «andrà a colpire persone che in Italia lavorano con contratti regolari, hanno un’abitazione e spesso avevano trasferito qui anche la famiglia. Persone, insomma, ormai parte integrante del sistema sociale del nostro Paese. La riposta ai morti di Cutro non è stata una rivisitazione critica della ratio punitiva e respingente che ha governato le politiche migratorie, ma si propone di estromettere queste persone dal sistema legale, impedire loro – nella volontà del Governo – di chiedere un permesso per protezione speciale».

Il risultato, come già avvenuto per altre inutili leggi repressive, scrive Magistratura Democratica, «potrà essere quella di produrre un esercito di irregolari che non potranno essere allontanati, in mancanza di accordi per il rimpatrio con la maggioranza dei Paesi dai quali provengono e che andranno ad alimentare il mercato del lavoro nero e dello sfruttamento o della criminalità, su cui lucrano potentati economici sempre più invadenti, interessati ad abbattere i costi della manodopera (ad esempio nel settore agroalimentare o in quello della logistica)».

Un altro passaggio che vale la pena leggere è quello dell’inasprimento delle pene per i trafficanti che Meloni, Piantedosi e Salvini stanno rivendendo come panacea di tutti i mali, tra l’altro dimostrando un’abissale ignoranza su chi siano gli scafisti e sulla differenza con i trafficanti. Scrive Magistratura Democratica: «Anche solo immaginare, infine, che il traffico di esseri umani si combatta con l’innalzamento esorbitante delle pene per i c.d. scafisti, è solo un’illusione che alimenta il mito del panpenalismo, al fine di anestetizzare le paure sociali e tacitare le coscienze, individuando un nemico da combattere, anzi da abbattere. La tecnica legislativa, poi, lascia – ancora un volta – molto a desiderare. La previsione penale, infatti, è strutturata con una formula così ampia e indeterminata che pone seri problemi di aderenza ai principi costituzionali, autorizzando interpretazioni che potrebbe estenderne l’applicazione anche a chi interviene per garantire aiuti umanitari. Applicare questa nuova fattispecie di reato a chi “dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato” pone sullo stesso piano condotte profondamente diverse tra loro, con una pena edittale minima elevatissima».

«Anche l’individuazione del nemico da abbattere – scrivono i magistrati – con la sanzione penale è frutto di approssimazione. L’esperienza dei processi penali celebrati contro i c.d. scafisti ci insegna, infatti, che chi si assume il rischio di condurre l’imbarcazione che ospita i migranti è di regola una persona altrettanto vulnerabile, alla quale si affida il timone in cambio della gratuità del viaggio o altri modesti vantaggi. Insomma: un povero tra i poveri, non certo il gestore del traffico e neppure un tassello della criminalità organizzata transnazionale che organizza il traffico di esseri umani. Per i timonieri degli scafi la pena prevista dall’articolo 12 del decreto legislativo n. 286 del 1998 è già oggi elevatissima; se, per come è usuale le persone trasportate sono più di 5, la pena prevista va da 5 a 15 anni. Non erano necessari, perciò, né inasprimenti delle pene, né nuove fattispecie di reato che non servono a garantire maggiore sicurezza sociale e non tutelano meglio – neppure indirettamente – la vita delle persone che attraversano il mare cercando una prospettiva dignitosa di futuro».

Intanto come accade ogni primavera i “giornali” spingono sull’ondata di “clandestini” che sarebbero in arrivo prossimamente. Sarebbero 685mila secondo Repubblica, 900mila secondo Il Messaggero che riprende una fonte di Fratelli d’Italia. Accade tutti gli anni. Previsioni che puntualmente si rivelano sbagliate (il numero massimo di arrivi in Italia è stato di 108mila). Ma l’importante è concimare la paura. Poi ci sarà sempre un nuovo reato da inventare o un vecchio reato da inasprire per coprire con il panpenalismo l’inettitudine politica.

Buon lunedì.

Nella foto: frame del video della conferenza stampa del Consiglio dei ministri, Cutro, 9 marzo 2023