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Per la sinistra è giunto il tempo di tornare a “fare la sinistra”

I risultati delle elezioni sono stati chiarissimi. Una parte degli elettori – mai così consistente, il 36,1% – non si è recata alle urne. La destra ottiene la maggioranza (44%, aveva il 37%), ma non è la prima volta; il centro-sinistra prende il 26,1% (aveva il 25,9%), su un numero di voti validi, però, che è molto più basso del 2018. E la legge elettorale maggioritaria/proporzionale dà alla destra una maggioranza di tre quinti delle due camere.

Il centro-destra aveva già ottenuto un successo anche maggiore: nel 2008, infatti, il PdL di Berlusconi (con la Lega Nord) aveva ottenuto il 46,8%, con 17 milioni di voti (e la destra, da sola, il 2,6%, con 885mila voti). Allora, il neonato Pd di Veltroni aveva preso 12,1 milioni di voti (33,2%) e le altre sinistre 1,3 milioni (3,6%). Da allora, il Pd non ha fatto che perdere in numeri e in percentuale, per arrivare ai 5,4 milioni di oggi (il 19,1%), mentre le altre sinistre – dall’alleanza Si+V ad UP e Rizzo – non arrivano a 1,8 milioni (5,9% complessivo).

Il dato prevalente, ovviamente, è la crescita dell’estrema destra (come i commentatori all’estero, giustamente, la chiamano) che passa tra il 2018 e oggi da 1,4 a 7,3 milioni di voti, “prosciugando” Lega e Forza Italia. Nel complesso, il centro-destra non cresce, però, e mantiene i suoi 12 milioni e passa di voti. Il centro-sinistra, invece, ne perde quasi 800mila, mentre il gruppo di Calenda e Renzi ne ottiene 2,2 (e qui si vede quanto ha contato essere su tutti i canali televisivi ogni giorno). Il grande perdente, in questo senso, è il M5s, che dei 10,7 milioni di voti che aveva ne raccoglie appena 4,3, dissipandone così 6,4. Eppure, tutti a dire che Conte ha ottenuto un buon risultato.

Dove sono andati quei voti? Chi aveva votato 5 Stelle, già dal 2013, aveva visto in quello una proposta politica che andava contro l’establishment portando avanti istanze ambientaliste ed egalitarie. Un voto populista “di sinistra”, si era detto, dacché aveva fatto presa sui ceti medi proletarizzati e i ceti popolari che non trovavano più risposte a sinistra, soprattutto al Sud e nelle aree urbane periferiche. Dopo un’intera legislatura al governo, i 5S hanno chiaramente disatteso quelle domande e hanno così pagato. Ma i loro elettori solo in parte si sono rivolti altrove, preferendo astenersi. Solo così si può spiegare l’enorme calo dell’affluenza che, non a caso, è stato maggiore nel Meridione (in molte aree, di poco superiore al 50%).

In sostanza, quell’Italia sofferente e insofferente, che già non aveva trovato rappresentanza nell’offerta politica dei partiti che erano stati al governo dal 1994 – tanto del centro-destra che del centro-sinistra – ha definitivamente scelto di restare a casa. E ciò deve fare riflettere soprattutto le forze di sinistra che a quell’elettorato si rivolgono. Perché il loro “appeal” appare oggi parecchio sbiadito. L’Italia divisa che si era già manifestata nel 2018 è lì, ancora più evidente. Il Paese reale, quello del lavoro precario, della povertà, escluso, che vive nell’instabilità e nell’incertezza, si sente sempre più lontano dai palazzi della politica, che non trovano linguaggio e modi per dargli voce. E ha detto no.

Le tendenze, già manifestatesi nel 2018, si sono confermate tutte. La destra ottiene più consensi nei comuni piccoli e delle aree “interne”, più marginali, o peri-urbane, mentre centro-sinistra, Azione e M5s (al Sud) prevalgono nei centri urbani più grossi. E questo è vero anche per la sinistra. Nei comuni con maggiore presenza di stranieri, soprattutto se piccoli, prevale la destra. Il centro-sinistra e la sinistra, invece, si affermano dove maggiore è la presenza di laureati. Tra disoccupati e persone in difficoltà economiche, prevale il non voto o, in alternativa, il voto ai 5Stelle (ma anche alla sinistra e non al Pd). E sono i comuni a più alto reddito a premiare il Pd e Calenda, mentre dove il reddito delle fasce basse è prevalente, soprattutto se periferici, prevale la destra o i 5 Stelle (al Sud) o, anche se in misura minore, la sinistra. In sostanza, i ceti popolari, i più colpiti da disuguaglianze e precarietà, si sono allontanati, non solo dalla sinistra, ma dal sistema tutto: non ci credono più, non si sentono più rappresentati.

L’altra sinistra (Up) prende relativamente più voti al Sud – dove evidentemente il suo messaggio “passa” meglio – e in varie altre zone a maggiore “politicizzazione”, come in Toscana ed Emilia-Romagna. Ciò ha a che fare sia con l’influenza dei media locali e nazionali – sui quali è stata bandita – che con la presenza sul territorio. I grandi media hanno oscurato, deliberatamente, le liste di sinistra, lasciando passare l’idea che non vi fosse altra sinistra oltre a quella raccolta sotto l’ombrello Pd. E su di essa ha anche pesato una campagna elettorale preparata troppo in fretta. Quanto la divisione tra le forze della sinistra le abbia penalizzate è difficile dire. Sinistra italiana ha preferito presentarsi sotto l’egida del Pd, di fatto separandosi da chi voleva invece rimarcare l’alternativa a quel blocco. È facile lamentare oggi tali divisioni. Ma finché in Italia non si prende atto che il “progetto Pd”, di una forza che pretende di rivolgersi alle classi popolari ma poi guarda (solo) ai ceti medi, è fallito, non se ne uscirà.

Il tempo è giunto, per la sinistra tutta, per ripensarsi, per tornare a “fare la sinistra”. Sinistra italiana dovrà decidere che strada prendere, se restare ancillare al Pd o lavorare in direzione unitaria. Unione popolare dovrà crescere, allargandosi verso quell’elettorato perduto, ridandogli una prospettiva. Il Pd, auspicabilmente, avvierà una discussione al suo interno, che andrà favorita. Tutta la sinistra dovrà incalzare il dibattito, dentro e fuori il Pd, per trarre finalmente una lezione da queste elezioni il cui risultato, per una volta, è chiarissimo.

L’autore:  Pier Giorgio Ardeni è professore ordinario di Economia politica e dello sviluppo all’Università di Bologna. È stato candidato per Unione popolare in Emilia Romagna

Alla faccia di Regeni

Che questo non sarà un governo attento ai diritti civili appare chiaro anche ai più stolti. L’idea di diritti civili che circola dalle parti di questa destra (che solo noi chiamiamo centrodestra nonostante non abbia nulla di centro, nulla di moderato, nulla di progressista) consiste in un conservatorismo che sfiora la restaurazione. Lo si vede nell’idea di famiglia, lo si sente in ogni discorso che riguardi il mondo LGBTQIA+, lo si nota nell’approccio che metta ad ogni problema.

Ieri però la presidente del Consiglio in pectore Giorgia Meloni, così attenta in questi giorni successivi alle elezioni a non dire una sola parola di troppo, ha vergato una risposta al presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi in cui è scivolata nella sua vera natura. Andiamo con ordine. Al Sisi, ebbro per il profumo di soldi che viaggia sull’asse italoegiziano ha pubblicato un messaggio sul suo profilo Facebook: «Estendo le mie più sincere congratulazioni alla signora Georgia Meloni per la vittoria del suo partito alle elezioni generali nell’amica Repubblica Italiana, augurandole il successo nel guidare l’Italia verso la prosperità e un futuro luminoso». «Non vedo l’ora di lavorare con lei, anche nel quadro della solida partnership che unisce Egitto e Italia, al fine di sviluppare le relazioni bilaterali e trasferirle verso orizzonti più ampi di proficua collaborazione in tutti i campi, coerentemente con l’antica storia di i due Paesi e la loro grande civiltà, e per il bene dei due popoli amici e dell’intera umanità», ha aggiunto Sisi concludendo il messaggio.

Nel mezzo di queste dichiarazioni di affetto politico del resto ci sono aziende come l’Eni che da anni gestisce importanti giacimenti petroliferi in Egitto e che poco tempo fa ha ottenuto una nuova assegnazione dal governo del Cairo. Ballano anche le armi, molte armi, che l’Italia spedisce in Egitto con il cuor leggero, non ultime le due fregate che italiane che il governo egiziano ha celebrato fastosamente.

Tra Italia e Egitto però si tende anche un filo nero sporco del sangue coagulato di Giulio Regeni, lo studente triestino fracassato di colpi dopo una lunga tortura dagli uomini della Guardia nazionale egiziana, direttamente comandata da al Sisi. Una tragedia che oltre al sangue ha ingoiato bugie di stato, depistaggi e una continua mistificazione. I presunti colpevoli dell’efferato omicidio sono da anni protetti dal presidente egiziano in persona ingolfando, si teme per sempre, un’indagine che si può classificare tra le più dolorose farse internazionali di questi ultimi anni nei confronti dell’Italia. Un’indagine circondata da promesse e rassicurazioni (anche dall’inetto e desaparecido ultimo ministro Luigi Di Maio) che non sono mai state mantenute. Tra Italia e Egitto c’è anche la dolorosa agonia giudiziaria di Patrick Zaki, studente egiziano a Bologna che dopo un ergastolo cautelare si ritrova ad affrontare un processo senza nessun rispetto dei diritti umani.

I diritti umani, appunto. Giorgia Meloni ha risposto alle felicitazioni di al Sisi così: «L’Italia è pronta a rafforzare la nostra cooperazione bilaterale su molti campi: sicurezza energetica, stabilità del Mediterraneo e del Medio Oriente, diritti umani e libertà religiosa. Grazie signor Presidente al-Sisi». Diritti umani. Come si possa “rafforzare la nostra cooperazione bilaterale sui diritti umani” con un Paese che con noi non ne ha minimamente tenuto conto è un mistero. In compenso la frase, così garbata e diplomatica come lo è Meloni in questi giorni, gronda sangue dappertutto.

Buon lunedì.

 

La grave distorsione del Rosatellum che ha impedito una libera scelta

Permettetemi di ripartire dalla spensierata dichiarazione di Matteo Renzi: «Se Meloni chiederà un tavolo per fare insieme le riforme costituzionali, noi ci saremo  perché siamo sempre pronti a riscrivere insieme le regole». Dunque Renzi offre al futuro governo il suo appoggio per imprimere una torsione presidenzialista alla Costituzione; abbattendo il suo equilibrio, il rapporto tra autonomie dei poteri e contropoteri. Ne parleremo, purtroppo, a lungo nei prossimi mesi. A Left interessa l’attuazione della Costituzione; a partire dalla difesa dell’impianto costituzionale sulla rappresentanza, di cui qualche giorno fa ha scritto anche l’avvocato Felice Besostri.

Parto, per tre osservazioni, dall’attualità, dall’esito elettorale, che nasce anche, sotto l’aspetto istituzionale, da una legge elettorale incostituzionale. Abbiamo potuto analizzare una distorsione del voto popolare, nel rapporto tra voti e seggi, altissima. Pari solo a quella delle elezioni del 1994, come dimensione. La “disproporzionalità” a favore delle destre è stata del 16 per cento. Parliamo di seggi regalati ai vincitori dal sistema maggioritario e tolti agli altri competitori.

Perché è accaduto? L’interrogativo ci porta alla seconda osservazione, perché le leggi elettorali maggioritarie dettano, purtroppo, atteggiamenti e propensioni centriste ed opportuniste ai partiti. Le divisioni tra Letta, Calenda e Conte hanno valorizzato in massimo grado la larga vittoria delle destre nella quota di tre ottavi di maggioritario (i seggi uninominali).

Abbiamo vissuto una terza distorsione: il Rosatellum non funziona nella distribuzione dei seggi quando una lista vince troppo in un’area del Paese e non ha candidati sufficienti. È accaduto al Movimento 5 Stelle in Campania: i campani non sapranno nemmeno chi hanno eletto, perché i parlamentari saranno stati eletti in altre Regioni. Il rapporto dialettico elettore/eletto, fondamento della rappresentanza, vede il ruolo dell’elettore completamente annichilito.

Ma esiste, di conseguenza, una libera competizione elettorale? L’articolo 48, primo comma, della Costituzione, prescrive: «Il voto è personale ed eguale, libero e segreto». Ma nei fatti non è “uguale”. Alcuni voti non eleggono, altri eleggono più di altri. Il “combinato disposto” tra il maggioritario (aggravato dal grave voto sulla riduzione dei parlamentari) e lo sbarramento rendono ineguale la competizione elettorale. Le elezioni diventano una competizione all’interno di una sorta di consiglio di amministrazione a numero chiuso: i più piccoli, i più autonomi, quelli che non si coalizzano, sono fuori. Il voto non è realmente “libero”, perché, in definitiva, è ingabbiato dentro la logica farlocca del cosiddetto “voto utile”. Il voto, talvolta, non corrisponde più alle intenzioni del votante. Forse anche per questi motivi, oltre a quelli sociali, allo spaesamento di tanta parte della società che avverte se stessa come priva di rappresentanza, vota sempre meno cittadine e cittadini. Più di un italiano su tre non vota. Ricordiamo che più di 5 milioni di lavoratrici e lavoratori migranti non godono del diritto di voto. Spero che le opposizioni istituzionali e sociali non rimuovano il dovere democratico di questa lotta.

Andrea Di Donna: Scrivo canzoni cercando il suono della parola

Sulla copertina del suo nuovo brano ci sono due sdraie vuote in riva al mare. Forse è l’emblema di un’attesa, chissà che cosa accadrà dopo. Questa sensazione di calma piatta e poi di un movimento improvviso e irrefrenabile lo si ha parlando con Andrea Di Donna. Romano, musicologo, non si sente né cantante né autore, tiene a precisare, ma “un qualcosa” che sta lì. Come Lucio Dalla, dice lui, che era arte. Non è superbia, quella di Andrea, ma solo la sincerità di chi parla col cuore. Soprattutto se si tratta di musica perché il 30 settembre, esce il suo nuovo brano: Cerchi lei.

La copertina del singolo Cerchi lei di Andrea Di Donna. Foto di Sofia Fioramonti

Ma torniamo alla foto e al motivo per cui l’ha scelta per presentare questo nuovo brano: «La foto è di Sofia Fioramonti e mi ha colpito subito. È l’emblema di qualcosa che non è come ti aspetti, che non è costruito, non è apparecchiato. È la scena tipica della mia vita, quella in cui mi dico: “Andrea, mi raccomando, devi dire queste parole in pubblico…”, poi io vado lì e viene un discorso incomprensibile. Io questo cerco di raccontare con le mie canzoni: il non essere come dovrebbe. Quindi vorrei una molteplicità di strade, che non ce ne fosse una sola soprattutto. La canzone deve essere una scoperta anche per me. Mentre la scrivo, deve sapermi sorprendere. Questo non significa che scrivo a caso. Odio la scrittura a flusso di coscienza. La scrittura deve essere divertente, mi deve divertire, formare; mi deve far sentire che ho detto qualcosa di importante». Non lo nasconde che non gli piace molto parlare in pubblico: «Dipende da come sto io, da quello che ho letto, da quello che ho sognato» anche se poi gli faccio notare che quando è stato ospite di Ernesto Assante, per la rassegna Retape all’Auditorium Parco della Musica, di bei discorsi ne ha fatti tanti. Ma preferisce scrivere, suonare e studiare.

Partiamo proprio dallo studio. Tu sei un musicologo.
Io ho fatto studi di storia e filologia della musica. Mi hanno aiutato a capire il senso di quello che faccio. Quando abbiamo deciso di preparare il terreno per l’uscita di Cadillac, io ho scritto un vero e proprio manifesto e la parola chiave era grezzo. L’idea era di pubblicare canzoni che non fossero trattate a menadito, che non fossero curate, ma che mostrassero in sé il loro backstage. Una canzone deve essere nuda, altrimenti non è vera. Motivo per cui quando siamo in fase di registrazione, di produzione, di missaggio, sia che lo faccia da solo sia che lo faccia con gli altri, io insisto perché il suono, il ritmo, non siano sempre mai perfettamente incastrati, deve sembrare un live.

E come è andata con Cerchi lei?
Un giorno sono tornato a casa, ho messo le mani sul piano e ho cantato “Cerchi lei, ma nel posto sbagliato…”. Pam! qualcosa vorrà dire? All’inizio è così chiaro e subito dopo non c’entra nulla. Non è un tipo di scrittura casuale, è un tragitto che deve raccontare non solo il qualcosa, ma il come. In questo, Leopardi insegna: il suono della parola, non soltanto cosa vuol dire la parola. Pensa alla parola “immensità”, le emme ti avvolgono e ti proteggono dal freddo oppure ti scoprono davanti all’infinito. Ti deve far provare cose, ma non è facile riuscirci. Io scrivo perché non trovo una musica adatta a me e quindi la faccio io.

Cerchi lei arriva dopo una serie di singoli, nell’ordine: Cadillac, Senza destinazione e Fulmine. Non hai pensato ancora a realizzare un album?
Ho una serie di brani da inserire in un futuro album, ma è solo un progetto, non c’è ancora niente di concreto che possa portarmi a fissare una data. Potrebbe anche essere che questi pezzi restino singoli o l’album ne contenga solo una parte o nessuno. Sono brani che ho scritto due anni fa, se dovessi fare un album mi attrae l’idea di includerci anche cose più vicine. Fare un album è qualcosa di impegnativo anche a livello di coerenza di sonorità, tra le canzoni. Il mio repertorio, a mio avviso, ancora non ha raggiunto uno stile che possa essere caratteristico. Sto cercando ancora. Un album è un traguardo che, secondo me, viene raggiunto quando hai acquisito una certa coerenza e ti sta bene. Quel vestito sonoro, quel gruppo di parole chiave. Più vado avanti e più cambio e non trovo mai una stazione, una base, un qualcosa da cui partire e a cui tornare.

Nel video Cadillac e Fulmine live comunichi una grande energia con il suono, con la voce e oggi, con il nuovo pezzo, torna questa sensazione del movimento, della ricerca.
L’ho scritto subito dopo il primo lockdown, ed è il primo della serie di brani che poi ho deciso di pubblicare. È stata la canzone che mi ha detto: “Ok, Andrea, ora questa cosa che ti è uscita dal pianoforte e dalla voce è il segno che devi andare avanti”. L’influenza del lockdown c’è, come in tutta la produzione, perché è stato un periodo che ci ha costretti ad un’introspezione, ad una ricerca interna.

La stessa cosa che cercavi allora la cerchi adesso?
È un’opera aperta, che si è declinata nel tempo, che ha fatto di tutto per restare attuale. Lo è ancora adesso; io avuto quel periodo lì di grande concentrazione creativa, non ce ne sono stati altri.

La tua biografia è ricca di collaborazioni teatrali, tra tutti quella con Filippo Timi, in Skianto, una tragi-commedia scritta e diretta dallo stesso Timi. Poi c’è la collaborazione con Antonella Costa, attrice e regista argentina, protagonista di Garage Olimpo di Marco Bechis. Senza tralasciare poi alcune incursioni nel cinema.
Per me è stato fondamentale lavorare con Filippo Timi che era uno eternamente scontento. Ogni volta che andavamo a fare lo spettacolo, lui puntualmente alla fine dello spettacolo cambiava tutto, ribaltava tutto. Come se il presente parlasse a voce alta ogni minuto. Il sentire che va avanti e non è mai fermo. Se mi blocco, se non cambia, mi annoio.

Apparentemente i tuoi brani sembrano canzoni d’amore, ma si ha la sensazione che contengano tanti sentimenti. Che cosa vuoi mettere veramente nelle canzoni?
In realtà, quando scrivo una canzone tengo a liberarmi della ricerca di un significato, cerco sempre di far accadere quello che non dovrebbe accadere; cerco di cambiare strada, di inserire un elemento insolito che fa sì che quello scenario cambi.

A proposito di cambiamento, di movimento, e di scenari futuri, come vedi quello nuovo in politica?
Non seguo la politica come politico, ma come musicologo. Io credo che la trasformazione debba essere la parola chiave di tutto questo e che quindi la tradizione, la fissità, in ogni ambito, siano dannose; sono le cose contro cui si son battuti tutti quelli che stimo di più come Galileo, Brecht, Marx. Per me è una guerra quotidiana dover superare concetti come la famiglia perché bisogna essere indipendenti, privi delle sovrastrutture. Mi viene in mente un film, Opera senza autore, dove le persone hanno il coraggio di fare qualcosa e questo coraggio viene dall’amore, dal rapporto d’amore. Politica e affettività, mentalità e affettività sono molto legate non le puoi scindere. Parlare d’amore, parlare di politica e di coraggio è la stessa identica cosa. Io sono per la raccomandazione di scenari che facciano da contraltare alle cose cattive, alla malattia.

Nella foto: frame del video Cadillac di Andrea Di Donna

Il rifascismo sarà dolce

La prima fase, com’era facilmente prevedibile, è la normalizzazione. In un Paese che da anni si concede la leggerezza di chiamare “centrodestra” una delle peggiori destre di sempre non stupisce che un governo con la fiamma fascista nel simbolo del partito principale venga accarezzato. Nei confronti di Giorgia Meloni, tra le altre cose, è scattata la corsa all’agiografia con quel vizio molto italiano del giornalismo che lecca il potere, qualsiasi forma abbia, per ingraziarsi la prossima vagonata di classe dirigente.

Che non esista un “pericolo fascismo” lo ripetono tutti, manipolando come sempre il dibattito secondo i soliti canoni: se non ti allinei al pensiero dominante (per di più certificato dalle elezioni) sei un nemico della patria, sei un antidemocratico e così via? C’è concretamente il pericolo di una restaurazione di un regime? No, ovviamente. Perché non è questo il punto. Gli storici, gli intellettuali e i commentatori ce l’hanno spiegato per anni: il rifascismo sarà dolce, garbato, perfino simpatico. La compressione dei diritti verrà presentata come un’urgenza per difendere “la nostra storia” e “la nostra identità”. La repressione delle voci contrarie non avverrà con violenza tangibile ma con un calcolato discredito organizzato che si proverà a far diventare egemonia.

Chi chiederà diritti verrà trattato come un perditempo che distoglie “dalle cose importanti da fare”. Chi chiederà cura per le minoranze sarà bollato come un buonista che vorrebbe sabotare la maggioranza. Chi chiederà uguaglianza sarà definito un pelandrone che vorrebbe ottenere tutto senza impegno o un fallito rancoroso. Il “merito”, che per anni è stato usato come clava (con il cretino favoreggiamento di certa sinistra) sarà il parametro soggettivo con cui si potrà dire no.

In un Paese truffato ogni volta dalla passione per il nuovismo si chiederà anche questa volta una sospensione del giudizio per “metterli alla prova”, come se le facce e le storie di questi “nuovi” non siano le stesse che da trent’anni hanno mostrato i loro denti. “Faremo un’opposizione dura valutando ogni singolo provvedimento ma senza pregiudizi” diceva ieri un dirigente del Partito Democratico, come se non esistesse un giudizio sulle parole, sui fatti, sui modi di questa destra.

Osservateli con attenzione: i ben disposti di questi giorni sono gli stessi che poi accuseranno noi di essere stati troppo morbidi. Appena i loro padroni gli daranno l’ordine di far cascare tutto vergheranno infiammati editoriali in cui fingeranno di averlo sempre saputo che questo governo aumenterà le disuguaglianze ancora di più. C’è un caso scuola che abbiamo dimenticato in fretta: qualche mese fa Silvio Berlusconi era stato condonato da tutto per il profumo del Quirinale. Ci chiedevamo: com’è possibile che questo Paese sia così predisposto alla dimenticanza? Semplice: bisogna essere capaci di ignorare, per esser servi.

Buon venerdì.

Salvini ha già cominciato a fare il Salvini

Si possono fare tutte le foto di questo mondo, si possono vergare amorevoli comunicati stampa congiunti ma alla fine non riusciranno mai ad ammansire la natura di Matteo Salvini, incapace di affrontare qualsiasi responsabilità di governo se non nel ruolo del guastatore interno vorace di recuperare voti. Così il nuovo governo italiano che dovrebbe essere tra qualche settimana – quello stesso governo che da anni racconta di essere stato bloccato da oscuri poteri forti – è incagliato prima ancora di partire sulle pretese infantili del capo della Lega.

Avrebbe voluto essere di nuovo ministro dell’Interno, come se fosse carta straccia il processo che gli pende sulla testa per avere lasciato lessare dei poveri disperati in mezzo al mare, e vorrebbe essere in una posizione politica quasi pari con Giorgia Meloni. Non conta che il suo partito sia uscito sonoramente sconfitto da una tornata elettorale in cui la destra ha fatto il pieno di voti. Non importa che tutti i maggiorenti del suo partito gli si scaglino addosso senza tregua da giorni. Matteo Salvini ha una sua idea della realtà senza nessun nesso con la realtà e vorrebbe plasmare ciò che gli accade intorno al suo sguardo sbagliato.

Il problema non è solo della presunta maggioranza di governo ma è un tema politico che tocca il Paese: se è vero che nel centrosinistra le relazioni sono a pezzi anche a destra la situazione non è migliore. Sullo sfondo il totonomi del governo Meloni sosta nomi che hanno dell’incredibile: Letizia Moratti messa alla Sanità dopo essere stata a capo della Caporetto lombarda per sistemare i rapporti in vista delle prossime elezioni regionali in Lombardia è un esempio lampante.

Non resta che stare a guardare il disastro che si è riusciti a far accadere.

Buon giovedì.

Riconoscere la politica

La campagna elettorale è finita. Se cinicamente possiamo perdonare l’abuso di promesse, di parole e di carezze agli oscurantismi durante la sfida elettorale (e qui no, non lo perdoniamo) ora sarebbe il caso di riconoscere che ciò che accade è tutta politica in purezza. Ora i gesti, i voti e le parole sono azioni che modificano il Paese.

Ieri nel Consiglio regionale della Liguria Fratelli d’Italia (il partito più pesante nel Parlamento che viene) si è astenuto su un ordine del giorno che sottolineava il diritto «di effettuare questa scelta senza dover superare alcuna difficoltà nell’accesso alle strutture che effettuano l’interruzione volontaria di gravidanza». L’ordine del giorno impegnava anche a «sostenere nelle sedi più opportune la richiesta del Parlamento europeo di inserire il diritto all’aborto legale e sicuro nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea».

Abbiamo passato settimane ascoltando Giorgia Meloni giocare sul diritto all’aborto come se fosse una bazzecola delle femministe, un privilegio che le donne si erano conquistato per vezzo. Abbiamo finto di credere a Giorgia Meloni che la lotta all’aborto non sia connaturata all’identità del suo partito, perfino non ci siamo accorti che la consigliera comunale che a Roma aveva esposto lo striscione con scritto “Potere alle donne. Facciamole nascere”, sia stata eletta senatrice sconfiggendo Emma Bonino (con l’aiuto santo di Carlo Calenda).

Non siamo più nella melassa elettorale. I voti di Fratelli d’Italia – anche quelli sparsi nelle amministrazioni locali – sono i voti consapevoli del primo partito d’Italia. Qui non siamo più nel campo dell’allarme democratico usato per propaganda. Non riconoscere la politica ora sarebbe un dolo. Giorgia Meloni – oggi concentrata nel recitare la parte della rassicurante – aveva promesso che avrebbe aggiunto diritti senza toglierne. Non riusciamo a vedere dove siano le aggiunte, in Liguria.

Buon mercoledì.

 

Riccardo Noury: Non lasciamo sole le donne iraniane che si ribellano al regime

renato ferrantini

Zan zindaghi azadi: le tre parole rosso fuoco sono dello stesso colore dello smalto della mano che sostiene il cartello in cui sono scritte. È uno dei principali slogan delle proteste che in questi giorni stanno attraversando l’Iran e le piazze solidali di tutto il mondo. Donna, vita, libertà. Tornano alla memoria le immagini delle rivoluzionarie curde che da anni cantano il corrispettivo in curdo, jin jiyan azadi nella loro lotta per la libertà. Il 13 settembre Mahsa Jina Amini è stata vittima degli abusi della polizia morale iraniana per non portare “correttamente” l’hijab, obbligatorio nei luoghi pubblici in Iran. È stata arrestata e picchiata. Fino alla morte, il 16 settembre. Le sue origini curde vengono onorate con questo coro, che al tempo stesso reclama l’urgenza di ribellione del popolo iraniano contro le repressioni quotidiane delle autorità in Iran.

«L’atroce assassinio di Mahsa Jina Amini per mano degli agenti della polizia morale è l’emblema di 44 anni di aggressione sistematica e di tirannia, che ha garantito la sopravvivenza del sistema attuale imponendo un clima di terrore nella società» si legge nel volantino che viene distribuito davanti all’Ambasciata della Repubblica Islamica dell’Iran a Roma, il 23 settembre, in occasione di una mobilitazione in solidarietà alle proteste in Iran che si è tenuta in contemporanea in varie piazze d’Italia e del mondo. È una lettera aperta delle studentesse e studenti del Politecnico di Teheran. Mentre qualche ragazza distribuisce questo e altri volantini, una mano si alza poco lontano dal cartello con la scritta “donna, vita e libertà”. L’indice e il medio formano una “V” di vittoria. Le voci dei manifestanti, membri della diaspora iraniana e non solo, sovrastano il rumore delle macchine del viale vicino. Tra i tanti, uno degli slogan attacca Ali Khamenei, Guida suprema dell’Iran (la massima carica amministrativa e religiosa).

Le informazioni giungono a tratti dal Paese, dove l’accesso a internet è limitato dal regime. Le poche notizie che arrivano dimostrano la natura repressiva del governo iraniano. Si cominciano a contare i morti, che giorno dopo giorno aumentano. Gli arresti e le violazioni dei diritti umani sono pratica sistematica di risposta alle proteste. Abbiamo parlato della situazione con Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, cercando di capire cosa stia avvenendo in Iran e quali sviluppi ci si possa aspettare.

Il 16 settembre è arrivata la notizia della morte di Mahsa Amini e subito sono iniziate le proteste che si sono velocemente diffuse in tutto il Paese. Che natura hanno queste proteste?
In Iran ciclicamente ci sono proteste di massa, nel 2009, 2017, 2019 e adesso 2022, scatenate da diversi fattori. L’obbligo di indossare il velo negli spazi pubblici è una norma che esiste da 44 anni, quando è stata istituita la Repubblica islamica. Già nel 2019 si era diffusa una campagna virale che consisteva nel condividere sulle piattaforme social dei video di donne che si toglievano il velo in luoghi importanti delle città. Questa campagna ha prodotto decine e decine di arresti di attiviste accusate e condannate per reato di prostituzione o induzione alla prostituzione. Quest’anno la scintilla non è stata neanche la storia di un’attivista, ma una vicenda vergognosa di un capello fuori posto, che avrebbe spinto la polizia morale a intervenire con la detenzione della 22enne Mahsa Amini, torturandola e uccidendola. Parliamo di una vittima che non è un’attivista, che potrebbe essere chiunque, una vittima casuale: le persone scese in piazza si identificano con lei. Inoltre bisogna ricordare che già il 12 luglio di quest’anno erano state introdotte norme restrittive sul velo e che hanno dato alla polizia morale un motivo per intensificare l’osservazione e il pedinamento in strada, punendo anche con frustate, con richiami e con arresti e pestaggi. Sono proteste contro il regime, contro la sua interpretazione radicale dell’islam, contro la discriminazione di genere strutturale nelle poliche della Repubblica islamica. Le persone in piazza non pongono un problema di religione, ma criticano un’interpretazione retrograda di essa.

Quali sviluppi possiamo aspettarci?
In passato in Iran, quando i movimenti di piazza sono stati lasciati soli o strumentalizzati per qualche ragione politica diversa da quella dei diritti umani, ha vinto la repressione. Ad oggi (27 settembre, ndr) il numero dei morti è di diverse decine, probabilmente oltre 70. Si contano centinaia e centinaia di feriti, molti dei quali non vanno in ospedale perché temono di essere arrestati. Ci sono stati oltre 700 arresti, tra cui anche giornalisti. La guardia rivoluzionaria, i basiji (una forza paramilitare), e gli agenti in borghese si aggirano in motocicletta con una persona alla guida e un’altra con il fucile pronta a sparare. Una novità è l’uso di determinate munizioni come i pallini di metallo che sono vietati a livello internazionale. Se non uccidono, producono ferite terribili. C’è un’ammissione parziale da parte delle autorità iraniane sul numero di vittime, però il loro dato è minore di quello reale. Inoltre si attribuisce la responsabilità della mobilitazione a cosiddetti nemici della Repubblica islamica, dando la solita narrazione ufficiale per cui sarebbero proteste dirette dall’esterno e in particolare dagli Stati Uniti, ignorando che sono più di quattro decenni che la popolazione è stanca di privazioni della libertà e di norme patriarcali, misogine e discriminatorie oltre che di una situazione economica sempre più difficile. Quindi la preoccupazione è che le autorità proseguano in quest’azione repressiva e noi, comunità internazionale, rischiamo di saperne sempre meno perché parte delle piattaforme social e internet sono già da ora bloccate.

Quali sono i fattori che influiranno negli sviluppi delle proteste?
Ci sono più questioni da cui dipende l’evoluzione delle prossime settimane. Intanto, la dimensione e la portata delle proteste, che per ora proseguono e sono sempre più numerose come partecipazione. Ci sono tanti giovani, essendo l’Iran un Paese giovane, ma le età sono comunque varie. Vale la pena sottolineare che tanti uomini scendono in piazza accanto alle loro mogli, figlie e sorelle. Un altro fattore è l’appoggio dato ai manifestanti da personalità molto popolari. Il calcio è popolarissimo in Iran e calciatori molto noti nel Paese hanno preso posizione a favore della mobilitazione. Bisogna poi capire se quelle voci all’interno del sistema sul frangente riformista (quello legato all’ex presidente Khatami), che chiedono l’abolizione della polizia morale e l’abrogazione delle leggi sul velo, abbiano la forza per portare avanti questa richiesta politica e se questa verrà accolta o meno.

Quali azioni sta intraprendendo Amnesty e con quale metodologia state registrando le violazioni dei diritti umani?
Abbiamo messo a disposizione un numero che può essere raggiunto attraverso messaggi sulle varie piattaforme social in cui chiediamo di ricevere video, testimonianze e altro ancora, chiaramente garantendo la sicurezza di chi ci contatta. Abbiamo inoltre promosso un appello mondiale che si rivolge al presidente Raisi chiedendogli di cessare la repressione. A ciò si accompagna la richiesta agli Stati membri del Consiglio Onu dei Diritti umani (la cui sessione è in corso a Ginevra) di istituire un meccanismo indipendente di indagine internazionale. Infatti non crediamo alla dichiarazione del presidente Raisi secondo la quale ci sarà un’indagine. Non ci crediamo e non sarà così. C’è grande attenzione e tanta solidarietà sia online sia in piazza, in Italia come altrove. Le persone in Iran non devono essere lasciate sole. L’attenzione internazionale deve rimanere alta.

Come dovrebbe comportarsi la comunità internazionale?
Gli Stati devono pretendere dall’Iran che rispetti il diritto di protesta pacifica, che sospenda immediatamente questa repressione e indaghi sulle morti che ci sono state. Questa richiesta è doverosa, però resta la necessità di un’indagine internazionale.

Il fatto che Mahsa fosse curda influisce in qualche modo nelle proteste e nella reazione delle autorità ad esse?
Direi che una relazione c’è: storicamente il governo centrale ha avuto un approccio molto duro o punitivo nei confronti delle minoranze etniche e religiose e questo è confermato dal fatto che il numero maggiore di vittime di questi giorni si conti nelle province a maggioranza curda. Per la popolazione il fatto che Mahsa fosse curda non cambia, la percepiscono come una di loro.

Questa vicenda potrebbe alimentare ulteriori discriminazioni verso le minoranze?
Può essere, anche perché è già stato così in altre situazioni. Penso all’uso della pena di morte che quest’anno sta registrando un record. Si sono verificate già 415 impiccagioni e non è neanche finito il nono mese dell’anno. Se si divide per gruppo etnico di appartenenza il numero delle persone messe a morte, si nota che per esempio i balouchi, che sono il 5% della popolazione, hanno una percentuale altissima tra i condannati. Lo stesso può riguardare il rischio di discriminazione contro i curdi o contro la minoranza araba. La rivolta in sé non mi sembra che abbia una prospettiva etnica particolare, essendo contro l’obbligo del velo.

Pensa che le proteste avranno un impatto nella regione e negli Stati delle zone limitrofe?
Può essere. Ogni movimento di protesta a partire dal Libano nella prima metà del primo decennio di questo secolo ha avuto un effetto galvanizzante nella regione. Ed è quello che i regimi di quella zona temono ora. Sicuramente queste proteste non li lasciano indifferenti perché quando si scende in piazza in uno Stato prendono coraggio anche i movimenti per i diritti umani negli Stati confinanti.

* In foto, un momento di una protesta in solidarietà a chi è sceso in piazza a Teheran dopo la morte di Mahsa Jina Amini, Istanbul, 20 settembre 2022

Il rosatellum è incostituzionale, già migliaia di reclami da parte degli elettori

Dopo il Porcellum e l’Italicum, anche il Rosatellum, su cui sono piovute critiche a non finire in queste ultime elezioni, potrebbe risultare incostituzionale? La legge elettorale 3 novembre 2017, n. 165 il cui relatore è stato Ettore Rosato (allora Pd ora di Italia viva) mai cambiata dalle forze politiche, nonostante le promesse seguite al taglio dei parlamentari, il 25 settembre è stata l’oggetto di migliaia di reclami presentati su apposti moduli da parte di singoli elettori che hanno chiesto che fossero messi a verbale dal presidente del seggio. Nel documento prestampato si dichiarava di ritenere la legge elettorale «incostituzionale e lesiva dei diritti politici del cittadino come garantiti dagli artt.3, 48,51, 56 e 58 della Costituzione». I reclami sono stati presentati alla luce delle sentenze in materia della Corte costituzionale: la n.1/2014 che ha dichiarato l’illegittimità del Porcellum e la 35/2017 che lo ha fatto per l’Italicum.

Cosa hanno messo in evidenza i cittadini? L’impossibilità, a causa del Rosatellum, di «esprimere un voto diretto, libero e personale, per scegliere, almeno in parte, tra i candidati nelle liste elettorali bloccate dai partiti». Entrando nei dettagli, il voto congiunto obbligatorio, si legge, «viola la libertà e personalità del voto» e insieme alla candidatura multipla «consente ai partiti di far eleggere i candidati a loro più graditi, indipendentemente dalle intenzioni di voto». E ancora: «Il voto dato a una lista plurinominale coalizzata può contribuire all’elezione di un candidato uninominale collegato sgradito al votante». C’è poi anche il riferimento ai diritti delle minoranze linguistiche non residenti in regioni a statuto speciale che verrebbero discriminate.

La protesta non è nata per caso. Si tratta di una iniziativa della Rete per la politicità sociale e dal Coordinamento per la rappresentanza di cui fa parte l’avvocato ed ex senatore Felice Besostri, che è un componente del Comitato esecutivo del Coordinamento per la democrazia costituzionale – Cdc, i cui comitati locali, come Milano, Trieste e Bari sono stati tra i promotori dell’iniziativa. Besostri, ricordiamo, è l’avvocato che insieme ad altri legali ha affossato sia il Porcellum che l’Italicum facendo ricorso per via giudiziaria e arrivando quindi fino alla Consulta che per due volte ha bocciato il legislatore. «A due giorni dal voto continuano ad aumentare le segnalazioni – dice Besostri -. Noi cerchiamo di raccoglierle perché vogliamo rimanere in contatto con chi ha seguito questa iniziativa e svolgere anche un’attività di controllo. Sappiamo che sono pochissime le situazioni in cui qualcuno si è rifiutato di allegare i reclami a verbale, ma qualcun altro ha detto “ci pensiamo noi” e chissà se l’ha fatto, e noi perciò dobbiamo verificare che questi documenti arrivino alle Giunte delle elezioni di Camera e Senato».

Man mano che passano le ore arrivano aggiornamenti. «In provincia di Bari sono stati un migliaio. Lo sappiamo grazie a Telenorba», continua l’avvocato che cita poi il caso di un intellettuale dal forte impegno civico come Tomaso Montanari che ha presentato il proprio reclamo. Besostri ci tiene a citare un altro caso, visto che nella 13esima legislatura, come senatore socialista nei Ds è stato il relatore della legge 482/1999 sulla tutela delle minoranze linguistiche: a Ostana, comune occitano in provincia di Cuneo, 27 elettori su 47 hanno fatto allegare al verbale di Camera e Senato il reclamo di protesta contro l’incostituzionalità del Rosatellum. L’Ansa dà notizia anche della identica protesta in Sardegna dell’ambientalista e attivista politico Angelo Cremone. Besostri calcola che siano stati migliaia i cittadini che si sono ribellati alla legge elettorale vigente.

Che cosa accadrà adesso? Tutti i reclami presentati agli uffici delle singole sezioni elettorali arriveranno alle Giunte delle elezioni di Camera e Senato che potrebbero inviarli alla Corte costituzionale. «Lì ci sarà il filtro – continua Besostri – e il precedente non è bello, perché per esempio nel 2009, i componenti delle due giunte dichiararono che il Porcellum era perfettamente costituzionale e lo votarono all’unanimità, una decisione smentita poi dalla Corte costituzionale». L’avvocato spiega che «caso unico in Europa, l’Italia ha l’art.66 della Costituzione che afferma come sulle elezioni siano competenti in autodichia le Camere di appartenenza. Da noi è stato già un successo di chi ha fatto i primi ricorsi – il primo l’avvocato Bozzi sul Porcellum e il secondo quelli coordinati da me sull’Italicum – che un giudice abbia potuto mandare le leggi elettorali in Corte costituzionale, perché fino alla sentenza 1/2014 c’era assoluta carenza di giurisdizione. Cioè, quando qualcuno voleva sollevare problemi di costituzionalità della legge elettorale e li segnalava alla giustizia ordinaria, i giudici dicevano “Noi non c’entriamo niente” perché avevano interpretato l’articolo 66 non solo limitato qual è alla proclamazione degli eletti ma anche a tutte le operazioni preliminari, accettazioni delle liste ecc.».

Adesso ai reclami degli elettori potrebbero aggiungersi gli eventuali ricorsi dei non eletti che chiedono il riconteggio dei voti. Ma soprattutto ci sono, continua Besostri «sette ricorsi giudiziari pendenti contro l’incostituzionalità della legge elettorale, sei li ho organizzati io, uno l’avvocato Vincenzo Palumbo. E diventeranno di più se finalmente qualcuno tra quelli bastonati dal Rosatellum capisce che è il caso di farlo. Quando presentammo il ricorso contro l’Italicum, ricordo che c’era un sostegno esterno, un ricorso venne firmato da Fico, Di Maio e Sibilia, a Napoli, da esponenti del M5s e di quella che allora era Sel. In questi ultimi anni, purtroppo le organizzazioni politiche non hanno fatto assolutamente niente».
Entro la fine di dicembre, continua l’avvocato, dei ricorsi teoricamente potrebbero arrivare alla Corte costituzionale. Entro l’anno infatti sulle incostituzionalità della legge elettorale si pronunceranno il Tribunale di Reggio Calabria e le Corti d’appello di Bologna e Roma.
E qui Besostri lancia un appello ai costituzionalisti: «Sto cercando di sollevare nei prossimi convegni la questione che in materia elettorale abbiamo una limitazione quantitativa, perché i ricorsi bisogna farli nei 26 tribunali delle città capoluogo di corte d’appello invece dei 120 tribunali ordinari, pur avendo detto la Cassazione che la difesa del diritto di voto si fa dove si esercita».

Infine un ultimo giudizio sul Rosatellum: «Adesso i conteggi dimostreranno matematicamente quando diventeranno definitivi che con il 43 % dei voti ho il 60% dei seggi, cioè ci si è avvicinati pericolosamente ai due terzi che sono tra il 66 e il 67%. Quando c’era il premio di maggioranza, diciamo ufficiale, con il 43% dei voti avresti avuto al massimo il 55% dei seggi. Il premio di maggioranza nascosto nel Rosatellum è più grosso dei premi di maggioranza espliciti dati con il Porcellum e con l’Italicum». Eppure la storica sentenza della Corte costituzionale 1/2014 , ricorda Besostri, «diceva che quando il legislatore adotta un sistema proporzionale anche in parte ci deve essere una proporzione non alterata tra i voti in entrata e i seggi in uscita, cosa che invece non c’è».

Le elezioni, è vero, ci sono già state, i giochi, per il momento, sono fatti. Ma la battaglia giudiziaria per dimostrare l’incostituzionalità del Rosatellum continua. E, conclude Besostri, «ha un senso se è una battaglia politica, non solo giudiziaria»

La solitudine di Matteo

Il centrodestra ha vinto ma Matteo Salvini ha perso. Ha perso già nella Lega che guida. Ora bisognerà vedere chi avrà il coraggio di dirglielo in faccia e, soprattutto farglielo capire. Le vie sono due: confidare nella presa di responsabilità – forse anche di coscienza – dei suoi collaboratori fidati e vicini, magari con la mediazione del solito Giorgetti, oppure andare allo scontro e accendere l’esagitazione.

Matteo Salvini non sarà presidente del Consiglio (non ci ha mai creduto nessuno, nonostante lo slogan elettorale) ma non sarà molto probabilmente nemmeno ministro agli Interni. Su di lui grava il processo Open arms e Giorgia Meloni non ha intenzione di spendere una forzatura con il Presidente Mattarella per il suo alleato e per quella casella. La leader di Fratelli d’Italia, anzi, sta pensando di presentarsi al Quirinale con una lista di nomi quasi “tecnici”, poco “politici” per ruoli di partito, anche per guadagnare credibilità nazionale. «Non deve sembrare un attacco alla diligenza, deve essere un governo credibile per il Paese, non per i partiti», dice un dirigente di Fratelli d’Italia.

Matteo Salvini, anche questo non l’ha capito, non avrà nemmeno lo spazio per cannoneggiare da oppositore interno come ha già fatto nel primo governo Conte e con Mario Draghi. L’idea che si sta provando a percorrere è quella di responsabilizzare Silvio Berlusconi per calmierare l’alleato leghista, magari spostando anche l’asse delle alleanze interne: non più Silvio-Matteo ma un filo diretto tra Giorgia e il presidente di Forza Italia.

Matteo Salvini, anche se fa finta di non sentirlo, ha intorno un partito che non vede l’ora di scendere dal suo carro, rovesciare la sua segreteria e correre per l’incoronazione di un nuovo leader. Quando ieri ha detto che prima di pensare a un congresso nazionale bisogna «completare i quadri provinciali» è sembrato un vecchio democristiano che vorrebbe ingolfare la sua caduta con un po’ di burocrazia.

La destra è molto più sfilacciata di quello che dicono i numeri delle elezioni e la distribuzione del potere, si sa, può essere colla o tritolo.

Buon martedì.