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Tommy Kuti: «Diritto di cittadinanza, avvisate i politici che il mondo è cambiato»

Tommy Kuti, al secolo Tolulope Olabode Kuti, nigeriano, è in Italia dall’età di due anni e ha avuto un’infanzia non proprio facilissima tra Mantova e Brescia. Poi l’incontro con una maestra «illuminata», e la laurea in Inghilterra. È tornato in Italia per fare musica, rap in particolare. Un altro incontro fondamentale è stato con Fabri Fibra. Un singolo dal titolo emblematico, Afroitaliano lo ha fatto conoscere al più ampio pubblico. «Sono tornato perché sentivo il desiderio, quasi una “missione”, di raccontare la mia storia, che era la storia della mia generazione. E avendo studiato Scienze della comunicazione, sentivo di poter dare il mio contributo», dice a Left. Detesta scegliere tra Africa e Italia, e infatti rappa così: «Sono troppo africano per essere solo italiano e troppo italiano per essere solo africano». E ancora: «Afroitaliano, perché il mondo è cambiato». Tommy Kuti punta il dito contro la politica anti immigrazione delle destre, ma parla anche dell’attesa per la proposta di legge sullo ius scholae e ci racconta anche della nuova strada che ha preso la sua musica: «Prima facevo principalmente canzoni rap, ora faccio canzoni afrobeat, che è il suono tipico della mia terra».

Giorgia Meloni in Andalusia ha tenuto un comizio a sostegno di Vox in cui è tornata a scagliarsi contro l’immigrazione. Che ne pensi? Uscire dalla pandemia non avrebbe dovuto renderci migliori?
Per un attimo ci siamo illusi di essere un pochino più umani di quello che siamo, però siamo ancora indietro da un punto di vista culturale.

Come sta dal punto di vista dell’integrazione, la città dove vivi, Milano, spesso al centro delle cronache per la presenza di gang giovanili?
Mi sento un privilegiato con il mestiere che faccio. A parte qualche persona anziana che sul tram ancora mi guarda e storce il naso, io vivo nell’ambiente musicale che ha una certa apertura mentale. Per quanto riguarda i giovani al centro delle cronache, sono tanti oggi i ventenni di seconda generazione che vivono in Italia e talvolta accade che si facciano sentire, anche in modo scorretto, perché avvertono che questo Paese non li accetta anche se sono cresciuti qua. Non li accetta, a cominciare dal…

L’articolo prosegue su Left del 24 giugno 2022 

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Tutti i casi di soffocamento. Altro che taxi (di terra e del mare)

La scoperta di 46 migranti morti all’intento di camion a San Antonio, negli USA, ha riacceso flebilmente la luce sulle condizioni di viaggio dei migranti che cercano la salvezza con tutti i mezzi possibili. È una bella lezione per tutti coloro che continuano a cianciare di “taxi del mare” o di “africani in vacanza”.

Ora, passata l’emozione dell’indignazione da social potremmo ricordare tutti gli altri episodi, tanto per avere il polso del dramma:

Inghilterra, 23 ottobre 2019: 39 migranti vietnamiti morti per soffocamento e ipertermia sono stati trovati in una roulotte fuori Londra. Quattro uomini sono stati incarcerati per omicidio colposo; uno di loro, un uomo vietnamita, è stato condannato a 15 anni di carcere a febbraio dopo essere stato condannato per essere il capobanda.

USA, 23 luglio 2017: otto immigrati sono stati trovati morti in una soffocante roulotte in un parcheggio di San Antonio Walmart nella calura estiva del Texas. Altri due sono morti in seguito negli ospedali, l’autista è stato condannato all’ergastolo. Le autorità hanno descritto l’incidente come un tentativo di traffico di immigrati andato storto.

Libia, 20 febbraio 2017: 13 migranti africani soffocati all’interno di un container mentre venivano trasportati tra due città della Libia. Secondo la filiale locale della Mezzaluna Rossa, un totale di 69 migranti per lo più maliani sono stati stipati nel container. Secondo quanto riferito, erano rimasti intrappolati nel container per quattro giorni.

Austria, 27 agosto 2015: la polizia austriaca ha scoperto un camion abbandonato contenente i corpi di 71 migranti iracheni, siriani e afgani. Tra le vittime soffocate c’erano otto bambini. Il camion, trovato parcheggiato lungo un’autostrada, era entrato in Austria dall’Ungheria.

Pakistan, 4 aprile 2009: 35 migranti afgani soffocati all’interno di un container abbandonato nel Pakistan sudoccidentale. Le autorità hanno affermato che più di 100 persone sono state stipate all’interno del container, che avrebbe dovuto essere portato al confine iraniano.

Thailandia, 9 aprile 2008: 54 migranti birmani soffocati nella parte posteriore di un camion frigorifero ermetico nella città meridionale di Ranong. Il camion portacontainer a 10 ruote, solitamente utilizzato per il trasporto di pesce congelato, era in viaggio verso l’isola turistica di Phuket. I morti includevano 37 donne e 17 uomini. Altri 21 sono stati ricoverati in ospedale e i restanti 46 sono stati arrestati dalla polizia per essere entrati illegalmente in Thailandia.

USA, 14 maggio 2003: 19 migranti sono morti all’interno di un soffocante rimorchio di un trattore mentre viaggiavano dal sud del Texas a Houston.

Inghilterra, 18 giugno 2000: 58 immigrati cinesi sono stati trovati morti all’interno di un camion nella città portuale inglese di Dover. Il camion olandese aveva trasportato gli immigrati attraverso la Manica dal Belgio.

Il traffico di migranti è un crimine orrendo che si poggia su due pilastri fondamentali: l’incuria verso persone che sono viste come “altro” da noi e l’ignoranza di credere che l’ultimo dramma di cui sappiamo sia un caso isolato. Poi ci sono i fiancheggiatori morali, sono quelli che parlano con superficialità di “taxi” senza essere capaci di rispettare l’odore della morte.

Buon mercoledì.

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Istruzione non può fare rima con discriminazione

BAMBINI AL 1 GIORNO DI SCUOLA, ALLA SCUOLA ELEMENTARE DI VIA DEI NARCISI (MILANO - 2009-09-14, Duilio Piaggesi) p.s. la foto e' utilizzabile nel rispetto del contesto in cui e' stata scattata, e senza intento diffamatorio del decoro delle persone rappresentate

L’Italia ha una norma sulla cittadinanza – la legge 91/1992 – vecchia ormai di trent’anni che si distingue per miopia e insipienza nell’ambito dell’Unione europea: non solo perché nega il diritto legato al luogo di nascita, ma perché prevede misure straordinariamente restrittive in materia di residenza e tempistiche straordinariamente lunghe perché i minori possano ottenere la cittadinanza al compimento del diciottesimo anno di età.

Nel XXI secolo nessuna maggioranza parlamentare ha manifestato una vera volontà di modificarla nel senso dell’inclusione, dell’integrazione e dei diritti; l’unico tentativo intrapreso, nel 2015, è naufragato in Senato. A oggi, bambine e bambini, ragazzi e ragazze nonché adulti residenti di lungo periodo restano impietosamente esclusi dalla categoria di cittadino, ovvero dall’unica che rende titolari di pieni diritti.

L’Italia ha una legge sulla cittadinanza letteralmente incivile, perché del tutto inadeguata alle trasformazioni avvenute tanto nella società e nella composizione demografica del Paese quanto nel mondo intero. In coincidenza con la fine dell’anno scolastico 2021/22, la comunità educante ha avviato una mobilitazione perché questa legislatura approvi una riforma che almeno cominci a rispecchiare questi cambiamenti e a rispondere alle esigenze, alle sfide e anche alle opportunità che essi determinano e propongono. Il movimento parte dalle scuole, perché la legge sulla cittadinanza attualmente in vigore ha un impatto terrificante sulla comunità scolastica che si è creata in questi ultimi tre decenni, quella che è il nostro presente e a maggior ragione il nostro futuro: lascia infatti oltre 877mila minori, nati e/o cresciuti in Italia in una condizione di svantaggio rispetto ai coetanei in possesso della cittadinanza.

Nella scuola pubblica la diversità è un arricchimento che produce rapporti paritari, uguaglianza, emancipazione. Le pratiche virtuose della scuola pubblica dovrebbero trovare finalmente, in questa legislatura, una traduzione giuridica che inneschi un analogo arricchimento in tutta la società. Nella scuola si creano reti di rapporti interpersonali tra docenti, genitori, studenti e studentesse, ed è questa comunità che chiede di approvare una riforma della cittadinanza che sia a tutela dell’interesse dei e delle minori e a beneficio della convivenza e della salute del patto che tiene insieme la società italiana. Negare diritti, frammentarli, differenziarli significa, al contrario, gettare le basi di disuguaglianze, discriminazioni, gerarchie formali e informali.

Oggi, i minori stranieri scolarizzati in Italia sono esclusi, tra le altre cose, da percorsi ed esperienze scolastiche importanti (come gite di classe all’estero, scambi europei ed extraeuropei alla secondaria di secondo grado) e gli ostacoli sono se possibile ancora più alti al momento di passare all’università: impossibile immatricolarsi in quota studenti italiani, impossibile partecipare a…

Gli autori: Costanza Margiotta e Filippo Benfante fanno parte del movimento Priorità alla scuola

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Su Melilla fate schifo

Migrants arrive on Spanish soil after crossing the fences separating the Spanish enclave of Melilla from Morocco in Melilla, Spain, Friday, June 24, 2022. Dozens of migrants stormed the border crossing between Morocco and the Spanish enclave city of Melilla on Friday in what is the first such incursion since Spain and Morocco mended diplomatic relations last month. (AP Photo/Javier Bernardo)

Venerdì 24 giugno a Melilla c’è stata una carneficina. «Tutto era sangue, tutto sangue», ha raccontato a El Pais un testimone, «sangue sulla testa, pelle lacerata, piedi rotti, mani rotte… Chi non è morto finirà per morire, perché è stato picchiato molto». Il confine tra Spagna e Marocco (chiuso nel 2020 approfittando della pandemia) ha registrato il più grande tentativo di ingresso degli ultimi anni. Una strage alle porte dell’Europa.

Ho voluto aspettare di leggere i giornali di ieri, che era lunedì, di spulciare tra le dichiarazioni dei politici italiani e europei augurandomi che un carnaio del genere non potesse passare sotto silenzio. La portavoce della Commissione europea Nabila Massrali ha rilasciato un comunicato che ha la temperatura di un annuncio in un supermercato: «Le violenze e le vittime» che si sono registrate alla frontiera di Melilla «sono oggetto di seria preoccupazione» da parte dell’Ue. «La sicurezza dei migranti e l’astenersi dall’eccessivo uso della forza e il rispetto dei diritti umani restano prioritari».

I politici italiani erano troppo impegnati per celebrare il consigliere comunale conquistato nel piatto sperduto borgo sventolandolo come una vittoria nazionale. Il governo spagnolo si è «rammaricato per la perdita di vite umane di persone disperate che cercavano una vita migliore», sebbene abbia mantenuto il suo sostegno all’azione del Marocco, che «combatte e subisce anche quella violenza» degli assalti, secondo loro. Ovviamente non è mancata una generica accusa alle mafie che sono sempre dappertutto quando si tratta di immigrazione mentre non si notano mai mentre gestiscono gli esercizi commerciali e riforniscono i nasi della classe dirigente.

In compenso i migranti morti sono già pronti per essere seppelliti.  L’Associazione marocchina per i diritti umani (Amdh) ha pubblicato sui social una foto scattata alla periferia del cimitero dove ha bollato come “scandalo” la decisione che le autorità si preparano a seppellire «una parte degli emigranti morti» solo due giorni dopo i corpi arrivarono all’obitorio in una forma totalmente opaca. «Senza indagini, senza autopsia, senza identificazione, le autorità cercano di nascondere il disastro», si legge nella nota.

I membri dell’Amdh chiedono che si indaghi sulle circostanze della morte e se si sarebbe potuto evitare la tragedia. Omar Naji, capo dell’Amdh a Nador, afferma di aver assistito venerdì alla scena di subsahariani rannicchiati a terra mentre venivano identificati dalla polizia, immagini scioccanti che la sua organizzazione ha diffuso attraverso vari video. Naji afferma di aver visitato l’obitorio dell’ospedale Hassani venerdì, dove vengono trovati i corpi di emigranti subsahariani, e assicura di aver contato almeno 15 morti. «Erano a terra. Ciò significa che l’obitorio è stato sopraffatto. E c’erano solo due persone che lavoravano lì». Lo stesso venerdì, l’Amdh aveva già avvertito della possibilità che i morti venissero spediti rapidamente e ha chiesto che i defunti non fossero seppelliti in fretta e che si aprisse «un’indagine globale, rapida e seria per determinare responsabilità e conseguenze».

Un numero delle vittime preciso non c’è ancora. Di sicuro ci sono tutti i contorni che servono per chiamarla strage. E il silenzio intorno fa schifo.

Buon martedì.

 

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Raffaele La Capria e il suo poetico litigio con Napoli

Raffaele_La_Capria_-foto_di_Augusto_De_Luca wikipedia

Per ricordare un grandissimo scrittore, Raffaele La Capria, riproponiamo la toccante Introduzione a me stesso, brano della conferenza che lo scrittore tenne alla Sorbonne di Parigi il 28 novembre 2003. Lo pubblichiamo ringraziando la casa editrice Elliot che nel 2014 ci permise di pubblicarla su Left.

Il mio poetico litigio con Napoli

di Raffaele La Capria

Per uno scrittore nascere a Napoli comporta sempre un pedaggio da pagare. Io, per esempio, ho scritto più d’una dozzina di libri, di questi alcuni – come Ferito a morte o L’armonia perduta – avevano Napoli come tema centrale, ma gli altri erano saggi che parlavano d’altro, parlavano di Letteratura, parlavano del “senso comune” come difesa dal dilagare delle astrazioni, parlavano dei libri e del modo di leggere i libri, parlavano dell’Italia e delle sue anomalie che si riflettono anche nella letteratura. Tutti questi miei libri sono ora raccolti in volumi dei Meridiani – una collezione simile alla Pléiade – e visti tutti insieme fanno capire meglio il senso e il significato del mio percorso di scrittore, e fanno capire meglio che ogni singolo libro, inserito nel contesto degli altri, assume un diverso valore. E anche tutto quello che ho scritto su Napoli, dunque, collocato nell’insieme della mia opera, può essere considerato adesso in una luce diversa.

Dico tutto questo perché uno scrittore per il semplice fatto di essere nato a Napoli viene definito “scrittore napoletano”, e l’aggettivo napoletano gli viene imposto come un marchio di fabbrica, tutto quello che scrive è made in Naples. Io però dico – senza voler nulla rinnegare della mia identità – che i miei libri, anche quando parlano di Napoli, parlano prima di se stessi, cioè di come sono scritti, e poi di Napoli. Dico che una cosa è parlare di Napoli e un’altra cosa è essere parlati da Napoli. Io ho la pretesa nei miei libri di aver parlato di Napoli e non di essere stato parlato da Napoli, anche se senza la mia identità napoletana e il mio “poetico litigio” con la città, forse quei libri non li avrei mai scritti. Dunque non è l’argomento Napoli che definisce un libro, ma l’operazione letteraria messa in atto, il linguaggio, la costruzione, lo stile, e così via. Per uno scrittore napoletano però è quasi impossibile venir considerato, come tutti, uno scrittore e basta. Lo si deve sempre mettere in un angolo: scrittore sei, te lo concediamo, ma napoletano. Se si parla di Calvino non si aggiunge subito “scrittore ligure”. Se si parla di Moravia, non si aggiunge subito “scrittore romano”. E non lo si fa perché si riconosce come valore primo quello che hanno scritto, cioè i loro romanzi. Ecco, io vorrei lo stesso trattamento. Lo dico anche perché se sei uno scrittore napoletano finisci sempre intruppato con gli altri scrittori napoletani. Di notte, dice il proverbio, tutti i gatti sono grigi. E gli scrittori napoletani sono come i gatti, hanno tutti lo stesso colore, si confondono insomma tutti e sono tutti uguali nella notte napoletana. Ma per uno scrittore quel che conta è la differenza.

Tutto il suo lavoro è fatto per crearsi una sia pur piccola differenza che lo faccia riconoscere immediatamente per quello che è, per il suo stile, per la sua musica particolare. E visto che prima ho parlato di gatti, anche lo scrittore, come il gatto, vuole segnare il suo territorio. In uno dei saggi che ho scritto, Il sentimento della letteratura, c’è un capitolo dal titolo “quella piccola differenza”. Per quanto piccola, quella differenza per uno scrittore è tutto, perché lì è la sua “originalità”. Non è facile conquistare questa originalità, ma, ammesso che lo scrittore sia riuscito a conquistarla, è altrettanto importante che gli venga riconosciuta. E a uno scrittore napoletano questo non sempre accade. Io ammiro e rispetto Domenico Rea, ma non voglio essere confuso con Rea solo perché entrambi siamo nati a Napoli. Così non voglio essere confuso con la Ortese o con Prisco o con chiunque altro. E invece, un po’ per pigrizia un po’ per la tiepida corrente omologante che tutti ci trascina, si preferisce annegare ogni differenza nelle acque del Golfo di Napoli.

Ricordate Shakespeare? «Non è grande chi per una grande causa prende le armi, ma chi per una pagliuzza è capace di sollevare il mondo». Quella pagliuzza che mette in gioco l’onore è, per uno scrittore, la sua piccola differenza.

Questa premessa era necessaria per parlare del mio romanzo Ferito a morte, e voglio subito accennare rapidamente alla sua piccola differenza, a ciò che lo fa diverso dagli altri romanzi scritti a Napoli nello stesso periodo di tempo. La prima differenza sta nel fatto che Ferito a morte ha tenuto in conto, e ha fatto i conti, con la letteratura del Novecento, cioè con quella rivoluzione formale del romanzo che sta tutta nella sua costruzione, o meglio nella sua struttura simbolica. Che cosa intendo con struttura simbolica? Intendo quella disposizione figurata delle varie parti di un romanzo e dei vari elementi della narrazione capace di irradiare energia nel linguaggio e mettere in atto contemporaneamente più possibilità di significati, di diventare, al di là della trama e dei personaggi, il vero contenuto del racconto. Nei Faux monnayeurs André Gide ha spiegato bene l’importanza della struttura del romanzo novecentesco, e se pensate alla Recherche di Proust o ai romanzi di Virginia Woolf, di Joyce, di Faulkner e a come sono costruiti, e come la loro struttura sia importante per determinare la scrittura e per dare al tutto un significato ulteriore che va al di là di ciò che è esplicitamente scritto, e al di là del significato letterale, capirete meglio cosa voglio dire quando parlo di struttura simbolica e di rivoluzione formale del romanzo novecentesco.

Fanno parte di questo romanzo l’applicazione di tecniche narrative come il flusso di coscienza o monologo interiore, la concezione del tempo sincronica invece che diacronica, la polifonia, la minore importanza della psicologia o della trama, o del personaggio, perché appunto è il contesto che prevale, e cioè la struttura e il linguaggio. Quando Camus scrisse L’étranger, aveva capito bene come dalla costruzione e soltanto dalla costruzione del suo romanzo poteva venir fuori il vero suo significato. Infatti nella prima parte la descrizione della realtà vista da Meursault dà luogo a un linguaggio fatto di frasi brevi e staccate, ognuna indipendente dall’altra e ognuna equivalente, così come erano equivalenti tutti i momenti della sua vita immersi nell’immediatezza di un presente per lui vuoto e ingiustificabile. Naturalmente qui tutti i verbi sono al presente indicativo, un presente immediato e fuggevole. Nella seconda parte vediamo la ricomposizione di quella stessa realtà ma dal punto di vista dei giudici e dei testimoni in tribunale, e qui la sintassi cambia, ci sono frasi che rispettano l’ordine, le connessioni e le motivazioni normalmente accettate dalle persone comuni. Ed è questa differenza di linguaggio a far risaltare e a rendere immediatamente percepibile l’estraneità dello “straniero” Mersault e la distanza che lo separa dagli altri. Da lì verrà, senza bisogno di altra spiegazione, il sentimento dell’assurdo. Vedete bene come qui la struttura simbolica del libro non solo ne determina il linguaggio e dunque influisce sulla scrittura, ma diventa il suo vero contenuto. In qualsiasi altra maniera più esplicita si fosse detto, mai un lettore avrebbe percepito con più forza il senso dell’assurdo che il romanzo voleva trasmettergli. Una cosa simile ho fatto io nel mio libro Ferito a morte. Qui io ho sottratto al soggetto, al protagonista Massimo, la sua complessità e l’ho trasferita nella struttura del romanzo, in modo che questa parlasse per lui e facesse comprendere la sua condizione in mezzo agli altri (…).

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Come salvare l’Amazzonia?

A boy plays with a flower in front of a banner with images of British journalist Dom Phillips, left, and Indigenous expert Bruno Pereira and the word "Justice" written in Portuguese, during a rally demanding authorities conduct a thorough investigation into the circumstances leading to their deaths, and do more to protect indigenous lands against illegal miners, loggers, and fishermen, in Brasilia, Brazil, Sunday, June 19, 2022. (AP Photo/Eraldo Peres)

Per il suo nuovo libro il giornalista britannico Dom Phillips aveva scelto un titolo eloquente: “Come salvare l’Amazzonia”. E per documentarsi aveva chiesto all’indigenista Bruno Pereira, ex Coordinatore generale per la protezione degli indigeni isolati della Funai (Fondazione nazionale per l’Indio) di collaborare con lui. Il tema del libro era lo sviluppo sostenibile dell’Amazzonia nel rispetto dei nativi.
Bruno Pereira era stato rimosso dal suo incarico alla Funai nel 2019, dopo aver coordinato un’operazione che aveva portato alla distruzione dei mezzi e attrezzature utilizzate dai cercatori d’oro illegali (garimpeiros) all’interno del territorio Yanomami, nello stato di Roraima. Il suo braccio destro, Maxciel Pereira dos Santos, era stato ucciso pochi giorni prima. Diventato oggetto di mobbing all’interno del Funai e minacciato di morte da parte del crimine organizzato, l’indigenista è stato esautorato dal questore e pastore evangelico Marcelo Xavier, a capo della Fondazione. L’incarico che aveva fin lì svolto con successo è stato poi assegnato al missionario evangelico Ricardo Lopes Dias.

Il 5 giugno 2022, Dom Phillips e Bruno Pereira, sono scomparsi nel nulla dopo essere stati visti per l’ultima volta lungo il fiume Itaquaí ai confini con il Perù e la Colombia.
Alcuni indigeni, deputati al controllo di quell’area, hanno inviato due sms di allerta all’Ong Unijava (União dos povos indígenas do Vale do Javari), con la quale Bruno Pereira collaborava, informandoli di aver visto un potente motoscafo, con a bordo tre individui armati, inseguire il giornalista e l’indigenista..
In un’intervista pubblicata dal Wwf-Brasile a dicembre, Bruno Pereira aveva spiegato che grazie al progetto dell’Unijava per il controllo del territorio, le popolazioni indigene, di cui si occupava, avevano formato squadre addestrate all’uso di droni, computer e gps al fine di velocizzare le segnalazioni e quindi l’intervento delle forze dell’ordine per fermare le attività illegali all’interno dei territori protetti. «È assolutamente necessario che i popoli indigeni cerchino le proprie forme di organizzazione, istituendo un sistema di monitoraggio in grado di arginare i conflitti violenti», aveva affermato l’indigenista.

Mentre l’Ong e i nativi si adoperavano per ritrovare i due uomini scomparsi, le forze armate, nonostante i tecnologici mezzi a disposizione, giustificavano la loro inerzia adducendo come motivo la mancanza di «ordini superiori».
Sotto pressione dell’ambasciata britannica, delle famiglie degli scomparsi, delle Ong, del movimento indigeno e ambientalista e della stampa nazionale ed estera, al fine di minimizzare l’indignazione collettiva, il ministero della Difesa ha infine dispiegato finalmente le sue forze.
Per due anni Dom Phillips e Bruno Pereira si erano addentrati nella…

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Israele ha ucciso la giornalista Shireen Abu Akleh. E ora che fate?

A mural of slain of Al Jazeera journalist Shireen Abu Akleh adorns a wall, in Gaza City, Sunday, May 15, 2022. Abu Akleh was shot and killed while covering an Israeli raid in the occupied West Bank town of Jenin on May 11, 2022. (AP Photo/Adel Hana)

«Lo choc per l’uccisione a #Jenin in un raid di una giornalista di #AlJazeera. Chiediamo #veritàegiustizia per #ShireenAbuAkla», scriveva il segretario del Partito democratico Enrico Letta lo scorso 11 maggio. La verità è arrivata. Si è conclusa venerdì 24 giugno l’indagine indipendente dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr) sull’omicidio di Shireen Abu Akleh, la giornalista palestinese uccisa a Jenin, in Cisgiordania, l’11 maggio 2022, mentre stava svolgendo il suo lavoro per l’agenzia stampa Al Jazeera. Secondo l’Onu, non ci sarebbero più dubbi in merito alla responsabilità dell’uccisione della professionista: il proiettile letale sarebbe stato sparato dai soldati delle Forze armate Israeliane (Idf), colpendola alla testa e uccidendola sul colpo. Non c’entrano nulla i «palestinesi armati» di cui aveva parlato il governo israeliano, non esistono.

Scrivono le Nazioni Unite: «Secondo i nostri risultati, l’11 maggio 2022, poco dopo le 06:00, sette giornalisti, tra cui Shireen Abu Akleh, sono arrivati all’ingresso occidentale del campo profughi di Jenin nella Cisgiordania occupata settentrionale per coprire un’operazione di arresto in corso da parte delle forze di sicurezza israeliane e gli scontri che ne sono seguiti. I giornalisti hanno detto di aver scelto una strada laterale per avvicinarsi onde evitare la posizione dei palestinesi armati all’interno del campo e che hanno proceduto lentamente al fine di rendere visibile la loro presenza alle forze israeliane schierate lungo la strada. I nostri risultati indicano che non erano stati lanciati avvertimenti e che non si erano veroficati spari  in quel momento e in quel luogo.

Intorno alle 06:30, mentre quattro dei giornalisti imboccavano la strada che porta al campo, indossando caschi antiproiettile e giubbotti antiproiettile con scritto “Press”, sono stati sparati contro di loro diversi proiettili singoli, apparentemente ben mirati, dalla direzione delle forze di sicurezza israeliane. Un singolo proiettile ha ferito Ali Sammoudi alla spalla, un altro singolo proiettile ha colpito Abu Akleh alla testa e l’ha uccisa all’istante. Diversi altri proiettili singoli sono stati sparati mentre un uomo disarmato tentava di avvicinarsi al corpo di Abu Akleh e un altro giornalista illeso che si rifugiava dietro un albero. I colpi hanno continuato a essere sparati mentre questo individuo alla fine è riuscito a portare via il corpo di Abu Akleh».

«L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Michelle Bachelet continua a sollecitare le autorità israeliane ad aprire un’indagine penale sull’uccisione di Abu Akleh e su tutte le altre uccisioni e gravi ferite da parte delle forze israeliane in Cisgiordania e nel contesto delle operazioni di applicazione della legge a Gaza. Dall’inizio dell’anno, il nostro Ufficio ha verificato che le forze di sicurezza israeliane hanno ucciso 58 palestinesi in Cisgiordania, tra cui 13 bambini».

Quindi ora c’è la verità ma manca la giustizia. Che fanno ora Enrico Letta e tutti gli altri?

Buon lunedì.

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I crimini della Chiesa dimenticati: lo sterminio dei Catari

Ci sono autori di cinema che realizzano i propri film ispirati dalla cronaca, da episodi di vita vissuta, da figure o avvenimenti storici. Altri che indagano il presente, le relazioni fra gli uomini. Per il mio ultimo film Bogre – la grande eresia europea a ispirarmi è stata quella parola: bogre. La diceva mio padre, classe 1916, con cui parlavo occitano, per dire di una persona inaffidabile, bugiarda, di un povero babbeo da cui era meglio girare alla larga per non farsi imbobinare, altra parola occitana che sta per “circuire, sedurre…”. L’esplorazione delle parole ci riserva sempre delle sorprese. Ho scoperto così il vero significato di bogre, che è “bulgaro”, e ha a che fare con la più importante eresia del Medioevo in Europa. Bogomìli e Catari sono infatti i protagonisti del mio film. Bogomìli: così furono chiamati nel mondo balcanico, in particolare in Bulgaria dov’erano numerosi già nel decimo secolo, e in Bosnia. Dalla Bulgaria la predicazione bogomìla giunse in Italia, Francia, Occitania (ovvero il Midì della Francia) e nei Paesi di lingua germanica. Qui vennero chiamati Catari, che deriva dal greco e significa “puri”.

In Italia i Catari furono detti anche Patarini o Manichei; in Francia Tessitori; nelle Fiandre Pifles, in Occitania Bogre, quel bogre che sentivo dal babbo.
Era il Medioevo: fino a pochi decenni fa lo dicevano immobile e buio, mentre oggi sappiamo come le idee viaggiassero, con le merci dei mercanti, con gli eserciti delle crociate, con l’internazionale del monachesimo benedettino, con i matrimoni fra nobili, re, principi e duchi e con gli eretici.
Bogomili e Catari furono combattuti aspramente. I processi dell’Inquisizione – un’organizzazione che oggi potremmo dire di stampo staliniano e fascista – mandarono…

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Un messaggero di storie chiamato Paco

© CRISTIANO LARUFFA/ LAPRESSE 16-06-2003 ROMA CULTURA LO SCRITTORE SUDAMERICANO PACO IGNACIO TAIBO II

Nei dieci metri di vicolo che portano all’hotel arriva poca luce, ma per Paco è già troppa. Lo vedo che fuma, lo chiamo e vado ad abbracciarlo, la prima cosa che mi dice è questa: troppa luce, la città gli sembra avvolta da una nebbia che alle sette di sera di un giorno di giugno, con tutto l’amore che Perugia può nutrire per la nebbia, è impossibile. Gli occhi di Paco sono minuscoli, e l’occhio destro, oggi, ancor più dell’altro. La cataratta, mi fa lui, una settimana fa. Fuma, ci sediamo al tavolino solitario piazzato sui sampietrini a metà del vicolo. Non ci vediamo da tre anni.
Al festival Encuentro Paco Taibo II c’è sempre stato, fin dalla prima edizione, nel 2014. Quella di quest’anno è l’ottava, considerando anche la versione ridotta del 2021 ma non la versione online del 2020, in piena pandemia, quando proprio grazie a Paco e al suo Fondo de cultura económica siamo riusciti ad allestire una serie di dibattiti via Zoom di grande qualità.

Questo scrittore messicano nato in Spagna mentre l’Europa si leccava ancora le ferite della seconda guerra mondiale, uno degli intellettuali più illuminanti che si potrebbero incontrare in giro per il mondo di questi tempi, è un uomo generoso.
Non solo con gli amici, ma noi siamo amici, il che ha un peso. Quando ha accettato l’invito a Encuentro 2022, un paio di mesi fa, ci ha detto che non voleva nemmeno sapere cosa gli avremmo fatto fare. Senza nuovi libri in uscita noi lo consideriamo patrimonio integrale del festival: costruiamo il programma e cerchiamo di resistere alla tentazione di ficcarlo da tutte le parti, in ogni incontro possibile e immaginabile. Anche stavolta ci siamo riusciti poco, e in quattro giorni Paco ha finito…

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Figlicidi, quei segnali negati e ignorati

Nel pesante bilancio delle morti in famiglia dei giorni scorsi grava come un macigno la tragedia della piccola Elena, uccisa brutalmente a neanche cinque anni, in un piccolo centro del catanese, dalla giovanissima madre. E se è vero dei femminicidi che, sempre accanto alle ragioni culturali che innegabilmente li accomunano tutti, esiste la varietà delle dinamiche di rapporti umani malati, il figlicidio ribalta completamente la gerarchia dei fattori in gioco, chiamando immediatamente in causa la drammatica assenza dell’amore materno, un amore che si dà per scontato non debba, non possa mai mancare, come fosse istinto animale tramandato dal codice genetico.

La maternità è invece rapporto umano profondo, perché il neonato prima, il bambino poi, non hanno solo bisogni animali, hanno un’identità umana che esige di svilupparsi trovando conferme nel confronto con gli altri esseri umani: è questo il senso della nostra lunga dipendenza dall’altro, così lontana dalla quasi istantanea autonomia degli altri mammiferi. Dipendenza alla quale il bambino si lascia andare felice, finché può. Lo si vede bene dalla corsa di Elena tra le braccia della mamma arrivata a prenderla all’asilo, ripresa dalle telecamere e rimbalzata ovunque, nell’era dei social. Stando alle cronache Martina Patti, la madre ventitreenne, aveva già in mente l’orrendo piano che avrebbe messo in atto subito dopo: pare lo studiasse da tempo, tanto che gli inquirenti le imputerebbero anche la premeditazione. Di certo, malgrado i media abbiano riportato dichiarazioni della donna secondo le quali si sarebbe sentita come «posseduta» mentre agiva, l’intenzionalità di uccidere la bambina è maturata nel tempo e la sempre inverosimile teoria del raptus in questo caso non si è neanche ventilata. C’erano dei segnali di forte malessere: la nonna paterna avrebbe riferito episodi di gravi maltrattamenti della madre nei confronti della piccola Elena ma, come accade quasi sempre, nessuno ne ha colto il potenziale di devastante violenza. Giustamente si chiede a gran voce – come ha fatto Lucia Ercoli, coordinatrice dell’Osservatorio nazionale sui minori vulnerabili – un cambio di passo sulla tutela dei minori, così trascurata nel nostro Paese, stanziamento di fondi che possano aumentare le “sentinelle” capaci di intercettare il disagio
familiare. Ma la domanda più urgente, quella che purtroppo ci si pone sempre a posteriori, è come sia possibile che…

L’articolo prosegue su Left del 24 giugno 2022 

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