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Santiago Gamboa: La mia Colombia alza la testa. E svolta a sinistra

Gustavo Petro, presidential candidate with the Historical Pact Coalition, right, speaks during an event presenting his running mate Francia Marquez, left, in Bogota, Colombia, Wednesday, March 23, 2022, ahead of May 29 elections. (AP Photo/Fernando Vergara)

La Colombia compie un passo storico. Dopo lunghi anni di oppressione sotto due presidenti ultra conservatori come Uribe e Hernández (“il Berlusconi colombiano”) i cittadini hanno scelto di voltare pagina andando a votare in massa il candidato di sinistra alle presidenziali Gustavo Petro e la sua vice Francia Márquez.
«Il 19 giugno è come se avessimo realizzato una seconda indipendenza. Questa svolta doveva avvenire quando firmammo gli accordi di pace, ma il problema fu che una parte della popolazione si oppose per via referendaria. A sei anni di distanza celebriamo la vittoria della maggioranza dei colombiani su quel no», dice a Left lo scrittore Santiago Gamboa che abbiamo raggiunto telefonicamente a Bogota all’indomani del voto al ballottaggio.
Autore di numerosi romanzi (molto apprezzati anche da García Márquez) è da poco uscito in Italia il suo nuovo Sarà lunga la notte (Edizioni e/o), un thriller sulla corruzione delle Chiese evangeliche che sostengono le forze politiche più reazionarie. E allo stesso tempo un appassionato affresco di quell’altra parte della Colombia – i nativi, le donne, i giovani, le minoranze – che oggi cerca un riscatto, un futuro diverso, dopo lunghi anni di guerra e di feroce repressione. A cui il nuovo governo potrà – si spera – finalmente mettere fine.

Santiago Gamboa perché l’elezione di Petro e Márquez è storica tanto che lei parla di «rifondazione dello Stato colombiano»?
Fin qui la Colombia è stata una Repubblica oligarchica: tutte le persone che venivano elette appartenevano a una élite sociale e politica. L’economia e il commercio sono sempre state gestite da una esigua minoranza della società. Gustavo Petro è il primo presidente di sinistra nella storia del nostro Paese, la Colombia sarà finalmente uno Stato democratico, per questo parlo di “rifondazione dello Stato”.

Ex guerrigliero di M19, ex sindaco e parlamentare, che tipo di sinistra incarna il nuovo presidente?

Non rappresenta una sinistra in stile Maduro o Ortega. Io lo definirei piuttosto un socialdemocratico modello europeo: il suo programma politico punta molto sul welfare, sulla protezione sociale, sulla sanità pubblica, sull’educazione finanziata dallo Stato per una uguaglianza di opportunità. Nel suo discorso di insediamento ha detto anche che lui vuole creare ricchezza dando un messaggio molto chiaro ai mercati. La Colombia non diventerà un Paese comunista, ma socialdemocratico in stile europeo. Tra l’altro, una cosa che forse non tutti sanno, Petro ha anche la cittadinanza italiana, la sua famiglia è di origine siciliana.

Il suo romanzo Sarà lunga la notte è un potente affresco della Colombia di oggi. Scava profondamente nel sociale, raccontando un Paese percorso da profonde ferite e disuguaglianze, ci parla dei nativi ancora discriminati, dell’oppressione delle Chiese evangeliche, dei narcos, della corruzione. Riuscirà Petro a costruire un governo per affrontare queste questioni strutturali? Con quale rischio anche per la sua vita dacché sfida apertamente la corruzione?

La sua coalizione, Pacto historico, ha una forte maggioranza al Senato. Petro non dovrebbe avere problemi a fare un governo solido. Ma è anche vero che oggi comincia un’epoca, siamo agli inizi. La presidenza in Colombia dura quattro anni. E Petro ha già detto che non farà come il presidente di estrema destra Uribe che cambiò la Costituzione per avere un secondo mandato e oltre. La scommessa ora sarà far crescere persone in gamba. Ce ne sono tante nella sinistra colombiana che potrebbero portare avanti questo processo di cambiamento. Siccome non avevamo mai avuto un governo democratico le cose da fare sono tantissime. Il lavoro sociale è lungo e i mezzi sono comunque limitati. Va ricordato che la Colombia è un Paese in via di sviluppo, non è certo fra i 25 più ricchi del mondo, assolutamente no. È ricco in tante altre cose: acqua, aria pulita, verde, però è un Paese che continua ad appartenere a quello che una volta chiamavamo Terzo mondo.

Pedro punta molto sull’istruzione come leva per il cambiamento…

Ha proposto una cosa che a me sembra importantissima: fare della Colombia una potenza della conoscenza. L’educazione prima di tutto, per tutto. Qui in Colombia funziona un sistema all’americana nel gioco fra pubblico e privato. L’università pubblica è ottima per qualità ma è piccola. Su un milione di ragazzi che, supponiamo, vogliano andare all’università pubblica sono a disposizione 60mila posti. C’è l’università privata ma ha costi elevatissimi. Per farmi capire: una buona università di Bogotà costa una media di 6/7mila euro ogni semestre. Per una famiglia con due o tre ragazzi stiamo parlando di circa 40mila euro l’anno, oltre al vitto e all’alloggio. Cosa significa mi pare chiaro. Ossia che l’educazione in Colombia fin qui è sempre stata il primo filtro sociale. Annunciando una svolta radicale Petro ha detto che la scuola e l’università devono diventare il luogo dove tutti trovano una opportunità. Poi ognuno farà quello che può in base dal proprio talento e impegno, ma l’importante è che tutti partano senza discriminazioni.

Colpisce l’alta affluenza alle elezioni e al ballottaggio del 19 giugno. I giovani, gli studenti, sono stati protagonisti?

I giovani si sono ribellati all’oppressione del governo di destra e si sono presi per la prima volta la scena. Hanno preso la parola fortemente. Per la prima volta l’anno scorso si sono resi protagonisti della lotta. Hanno vissuto la repressione peggiore che ci sia stata negli anni della pandemia. Questo governo di destra che sta finalmente per finire, solo per far cassa, ha imposto tasse sul cibo, sul latte, riducendo le tasse e facendo sconti alle grandi imprese e alle banche. Ha attuato politiche antisociali. I ragazzi, soprattutto, sono usciti nelle strade e nelle piazze e sono stati repressi in un modo pazzesco. Nel suo discorso dopo la vittoria Petro ha dato il microfono alla madre di uno dei ragazzi uccisi durante una manifestazione dell’anno scorso. Il segnale che ha voluto dare, se ci pensiamo, è di una portata gigantesca. E poi non è solo Petro. È Gustavo Petro e Francia Màrquez. Perché come dice lui stesso non è uno e due ma uno e una.

La neo vice presidente della Colombia Francia Màrquez è avvocata ambientalista, femminista, nera. Ci dica di più di lei.

Quando dicevo che ora comincia un’epoca di democrazia piena pensavo anche a lei. Ora la cittadinanza colombiana è più rappresentata perché alla vice presidenza c’è una donna competente e che ha sperimentato sulla propria pelle i problemi di tante donne in Colombia. Giovanissima madre single ha dovuto lottare contro il razzismo. È un meravigliosa donna, un esempio per tutti. Entrambi, presidente e vice, vengono da strati sociali medio bassi. Fin qui i presidenti provenivano sempre delle famiglie più ricche, avendo alle spalle i poteri forti dell’industria e del commercio. Gustavo e Francia vengono dal popolo vero. Sta emergendo l’identità profonda di un Paese che finalmente riconosce se stesso.

Che ruolo hanno oggi le donne nella società colombiana, specie in un momento così cruciale di cambiamento?

Quella colombiana è una società molto complessa. Da una parte è molto tradizionalista con un ruolo molto forte della Chiesa, come racconto anche nel mio romanzo. Ma dall’altra parte, l’aver sofferto tanta violenza, tanta povertà, tanta ingiustizia ha fatto sì il dibattito sociale sia molto, molto acceso. La Colombia è comunque un Paese in cui le donne hanno un ruolo molto forte, importante. Da noi i diritti sociali degli omosessuali e delle comunità Lgbtq sono riconosciuti. Il matrimonio fra persone dello stesso sesso è legale. La vittoria alle presidenziali è la vittoria di quella Colombia che ha sviluppato di più un dibattito sui diritti civili. Quella che ha perso è quella parte del Paese che vuole che i diritti siano di pochi; è la Colombia maschilista rappresentata da Rodolfo Hernàndez, che si mostra su lussuosi yacht con giovanissime escort in bikini.

Protagoniste di Sarà una lunga notte sono due belle figure femminili, la giornalista Julieta e la sua collaboratrice Johanna, ex guerrigliera delle Farc che l’aiuta a leggere le matrici dei delitti. Julieta ha il coraggio di essere giornalista, donna, atea. In Colombia i giornalisti sono costretti a diventare eroi?

Sì e ci sono tante colleghe giornaliste bravissime. Tante giornaliste sono state uccise, penso per esempio a Silvia Dusan, un caso a cui fece riferimento anche Garcia Màrquez nel suo Notizie di un sequestro. Julieta è una giornalista che fa le cose per bene. Anche se la sua vita personale è un po’ un disastro, comunque va avanti, non molla. E poi c’è Johanna che è una ex guerrigliera delle Farc e oggi è una cittadina a pieno diritto dopo l’accordo di pace. Ho scelto come protagoniste queste due donne coraggiose, insieme a un ragazzino di origine indigena che è molto speciale, molto solitario. Per me sono un po’ la rappresentazione della società che emerge oggi. Io non avevo pensato a queste cose quando ho scritto il romanzo. Scrivo in modo intuitivo, ma oggi rivedo tutta questa galleria di personaggi e penso che questa svolta a sinistra è un po’ una vittoria politica del mondo che rappresentano.

Come potrà cambiare lo scenario geopolitico dopo la svolta a sinistra della Colombia, che fa seguito a quella del Messico, del Cile e, speriamo, prossimamente anche del Brasile con Lula?

Il messaggio più bello per il nostro nuovo corso è arrivato proprio dal presidente del Cile Boric. Speriamo che Lula fra un mese e mezzo riesca a cacciare quella specie di clown che è Bolsonaro. Sarebbe la vittoria di una nuova sinistra socialdemocratica latino americana che può trovare alcuni punti in comune con Biden. È molto importante che si sviluppi una sinistra democratica che lavori per affermare pienamente la parità uomo-donna, una sinistra ambientalista, una sinistra che si occupi delle sfide del presente.

Da ultimo una domanda sull’inquietante proselitismo delle Chiese evangeliche che riescono ad abbindolare le persone che hanno meno strumenti, derubandole. Nel romanzo sono rappresentati alcuni di questi predicatori carismatici, che sono acclamati come rockstar. Che origine ha questo fenomeno enormemente esteso per esempio in Brasile?

Accade la stessa cosa anche da noi in Colombia. Negli anni Settanta aveva preso piede la Teologia della liberazione in Latinoamerica. Alcuni sacerdoti presero parte anche alla guerriglia. Ernesto Cardenal fu protagonista della rivoluzione in Nicaragua e ministro della Cultura. Gli esponenti della Teologia della liberazione furono attaccati dalla Chiesa di destra proveniente dagli Stati Uniti. Le Chiese evangeliche sono spesso roccaforti di potere politico e riciclano i soldi sporchi. Sono il luogo ideale per questo. Non dimentichiamo anche che Trump dette alle Chiese evangeliche un avamposto nella Casa bianca. Il riciclaggio di soldi sporchi che passa per la Chiesa coinvolge tutti i Paesi del Nord. Trump aveva il sostegno di queste Chiese che sono tutte di destra. È un fenomeno continentale.

L’articolo prosegue su Left del 24 giugno 2022 

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L’insostenibile peso delle divise

Shadows of police officers are cast on a wall as people wait for Vatican Swiss guards to close the main door of the papal residence in Castel Gandolfo, south of Rome,Thursday, Feb. 28, 2013. Benedict XVI greeted the faithful for the last time as pope on Thursday, telling tearful well-wishers that he is beginning the final stage of his life as "simply a pilgrim," hours before he becomes the first pontiff in 600 years to resign. (AP Photo/Oded Balilty)

Era in servizio presso la Squadra mobile della Polizia di Salerno e con la sua pistola d’ordinanza si è tolto la vita. È accaduto il 15 giugno. Due giorni prima, a Canosa di Puglia, un altro poliziotto suicida, stesse modalità. Il 30 e 31 maggio erano stati due carabinieri, rispettivamente a Roma e a Fermo, a essere trovati dai colleghi privi di vita dopo essersi puntati la pistola contro e aver aperto il fuoco. Il 29 maggio, sempre a Fermo, di nuovo un poliziotto. E mentre scriviamo un ispettore della Polizia di Stato si trova in rianimazione (dal 19 giugno) dopo esser precipitato da una finestra della sua abitazione. Molto probabilmente si tratta di un gesto volontario, in tal caso sarebbe il terzo tentativo di suicidio tra le forze dell’ordine e militari (Polizia, Carabinieri, Guardia di finanza, Esercito, Marina etc) dall’inizio dell’anno. Già questa sequenza basterebbe a segnalare un fenomeno poco noto all’opinione pubblica tuttavia oltremodo preoccupante. La preoccupazione aumenta se si considera il dato dei suicidi tra gli operatori della sicurezza dall’1 gennaio scorso in Italia. «Sono stati ben 29» racconta Eliseo Taverna, segretario generale del Sindacato nazionale finanzieri (Sinafi). A lui ed altri sindacalisti delle forze dell’ordine – Felice Romano (Siulp) e Giuseppe Tiani (Siap) – abbiamo rivolto alcune domande per indagare le cause di questo fenomeno e per cercare di capire se e in che modo le istituzioni si stiano orientando per prevenire nuovi casi.

Stando alle cifre fornite dall’Osservatorio sui suicidi in divisa, tra il 2019 e il 2021 sono stati ben 177 le donne e gli uomini appartenenti ai vari corpi di polizia e dell’esercito che si sono tolti la vita, per una media di casi noti che sfiora i cinque al mese. Stessa media del 2022. Se consideriamo i soli agenti delle forze dell’ordine, ben 355 si sono tolti la vita dal 2014 al 2021, secondo i dati raccolti dall’Onsfo, l’Osservatorio nazionale suicidi. Questo significa che il suicidio è la prima causa di morte tra i carabinieri, i poliziotti, i finanzieri e gli agenti di Polizia penitenziaria e Polizia locale.

«È una strage continua e silenziosa» chiosa Taverna «ma questo sembra non scuotere le coscienze più di tanto. Talvolta i suicidi vengono bollati come “soggetti fragili” poco inclini alle ferree regole ed allo sforzo fisico e psicologico a cui sono chiamati a far fronte e il cerchio si chiude e il problema rimane». Ovviamente la “fragilità” c’è e molto probabilmente ha radici profonde ma si lasciano pochissimi spiragli a un’analisi più approfondita delle motivazioni e del contesto in cui si è sviluppata la “decisione”. Dietro ognuna di queste morti, prosegue il sindacalista, c’è …

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Che sia almeno ius scholae

TORINO - SCUOLA ELEMENTARE LESSONA - CLASSE MULTIETNICA - BAMBINI STRANIERI - ALUNNI - STUDENTI - BANCHI - EXTRACOMUNITARI

Tra i temi che in maniera ciclica si riaffacciano nel dibattito pubblico, la riforma della cittadinanza ha un ruolo di primo piano. Ci separano trent’anni dall’introduzione della legge attualmente in vigore. Più volte in questi tre lunghi decenni l’approvazione di una nuova disciplina è sembrata a portata di mano. Puntualmente, le iniziative legislative finalizzate alla riforma della legge n. 91 del 1992 sono state interrotte per motivazioni contingenti – inerzia, assenza di coraggio, mancanza di una maggioranza parlamentare.
È in corso un nuovo iter parlamentare che potrebbe concludersi con l’approvazione di una nuova legge. Si tratta della proposta «ius scholae» elaborata da Giuseppe Brescia, presidente alla Commissione affari costituzionali della Camera.
L’esito positivo del percorso parlamentare di riforma non è scontato. Ci sono molte variabili: la tenuta del governo, la posizione dei gruppi parlamentari, la fine della legislatura che incombe. Le prossime settimane saranno cruciali: il 29 giugno è previsto che il testo approdi in aula; dovrà essere discusso e approvato dalla Camera per poi passare all’esame del Senato. È una corsa contro il tempo densa di incognite.

Una proposta di mediazione
La locuzione utilizzata per definire il testo elaborato da Brescia è esemplificativa del suo contenuto. La proposta presentata dal relatore alla Commissione affari costituzionali il 3 marzo prevede che il minore straniero nato in Italia o che vi ha fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età, che abbia risieduto legalmente e senza interruzioni in Italia e che abbia frequentato regolarmente, nel territorio nazionale, per almeno cinque anni uno o più cicli scolastici, otterrebbe la cittadinanza italiana. La cittadinanza si acquisirebbe a seguito di una dichiarazione di volontà in tal senso espressa, entro il compimento della maggiore età dell’interessato, da entrambi i genitori legalmente residenti in Italia o da chi esercita la responsabilità genitoriale, all’ufficiale dello stato civile del comune di residenza del minore.
La frequenza scolastica è al centro della proposta. Se l’iter di riforma dovesse concludersi positivamente, la condizione giuridica dei minori in linea con i criteri disegnati da Brescia cambierebbe significativamente. L’esclusione dalla cittadinanza italiana produce effetti molteplici e stratificati. Durante la minore età sono spesso poco visibili; col passare degli anni diventano sempre più marcati. Con il compimento dei diciotto anni la privazione della cittadinanza italiana diventa un problema strutturale. Chi è privo della cittadinanza ha molte più difficoltà a spostarsi attraverso i confini, ha spesso una posizione subalterna nel mercato del lavoro, è escluso dal pieno godimento del diritto di voto. In definitiva, l’esclusione dalla cittadinanza produce diseguaglianze strutturali che derivano dalla condizione giuridica dei propri genitori: è inaccettabile. L’idea di…

L’autore: Francesco Ferri è programme developer migration di ActionAid

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Gli altri 546 milioni di studenti

Secondo l’Unicef e l’Oms, nonostante il costante calo della percentuale di scuole prive di servizi di base per l’acqua e di servizi igienici nel mondo, persistono profonde disuguaglianze tra i Paesi e all’interno degli stessi. Gli scolari dei Paesi meno sviluppati e dei contesti fragili sono i più colpiti e i dati che emergono mostrano che poche scuole dispongono di servizi idrici e igienici accessibili alle persone con disabilità.

Le scuole svolgono un ruolo cruciale nel promuovere la formazione di abitudini e comportamenti sani, ma nel 2021 molte non disponevano ancora di servizi idrici e igienici di base. Secondo gli ultimi dati del Programma di monitoraggio congiunto Oms/Unicef (Jmp):

  • A livello globale, il 29% delle scuole non dispone ancora di servizi di base per l’acqua potabile, con un impatto su 546 milioni di studenti; il 28% delle scuole non dispone ancora di impianti igienici (bagni) di base, con un impatto su 539 milioni di studenti; il 42% delle scuole non dispone ancora di impianti idrici (strutture per lavarsi le mani) di base, con 802 milioni di studenti.
  • Un terzo dei bambini privi di servizi di base nelle loro scuole vive nei Paesi meno sviluppati e oltre la metà vive in contesti fragili.
  • L’Africa subsahariana e l’Oceania sono le uniche due regioni in cui la copertura dei servizi igienici di base nelle scuole rimane inferiore al 50%; l’Africa subsahariana è l’unica regione in cui la copertura dei servizi di base per l’acqua potabile nelle scuole rimane inferiore al 50%.
  • Per raggiungere la copertura universale nelle scuole entro il 2030 è necessario aumentare di 14 volte gli attuali tassi di progresso per l’acqua potabile di base, di tre volte i tassi di progresso per gli impianti igienici di base e di cinque volte per gli impianti idrici di base.
  • Nei Paesi meno sviluppati e nei contesti fragili, il raggiungimento della copertura universale degli impianti igienici di base nelle scuole entro il 2030 richiederebbe un aumento di oltre 100 e 50 volte dei rispettivi tassi di progresso attuali.
  • Il miglioramento della preparazione e della risposta alle pandemie richiederà un monitoraggio più frequente dei servizi idrici e igienici e di altri elementi di prevenzione e controllo dei contagi nelle scuole, tra cui la pulizia, la disinfezione e la gestione dei rifiuti solidi.

«Troppi bambini vanno a scuola senza acqua potabile, bagni puliti e sapone per lavarsi le mani, rendendo difficile l’apprendimento», dichiara Kelly Ann Naylor, direttore Unicef per l’Acqua e i servizi igienici e il clima, l’ambiente, l’energia e la riduzione del rischio di disastri. «La pandemia da Covid-19 ha sottolineato l’importanza di fornire ambienti di apprendimento sani e inclusivi – aggiunge -. Per proteggere l’istruzione dei bambini, la strada verso la ripresa deve includere la fornitura alle scuole dei servizi più basilari per combattere le malattie infettive oggi e in futuro».

«L’accesso all’acqua e ai servizi igienici non solo è essenziale per un’efficace prevenzione e controllo dei contagi, ma è anche un prerequisito per la salute, lo sviluppo e il benessere dei bambino», spiega Maria Neira, direttore del dipartimento per l’Ambiente, il cambiamento climatico e la salute dell’Oms. «Le scuole dovrebbero essere ambienti in cui i bambini prosperano e non sono sottoposti a difficoltà o infezioni a causa della mancanza o della scarsa manutenzione delle infrastrutture di base».

Fornire servizi idrici e igienici accessibili alle persone con disabilità nelle scuole è fondamentale per raggiungere un apprendimento inclusivo per tutti i bambini. Tuttavia, solo un numero limitato di Paesi fornisce informazioni su questo indicatore e le definizioni nazionali variano, e un numero molto inferiore fornisce servizi idrici e igienici accessibili ai disabili.

I dati nazionali emersi mostrano che la copertura dei servizi idrici e igienici accessibile ai disabili è bassa e varia ampiamente tra i livelli scolastici e le località urbane e rurali, e le scuole hanno maggiori probabilità di avere acqua potabile accessibile rispetto a servizi igienici accessibili. Nella metà dei Paesi con dati disponibili, meno di un quarto delle scuole dispone di bagni accessibili ai disabili. Ad esempio, nello Yemen, 8 scuole su 10 avevano bagni, ma solo 1 scuola su 50 era dotata di bagni accessibili ai disabili.

Nella maggior parte dei Paesi con dati, è più probabile che le scuole abbiano infrastrutture e materiali adattati – come rampe, tecnologie assistive, materiali didattici – che bagni accessibili ai disabili. Ad esempio, in El Salvador, 2 scuole su 5 hanno infrastrutture e materiali adattati, ma solo 1 su 20 ha bagni accessibili ai disabili.

Buon venerdì.


In foto, due alunne di una scuola di Nairobi (Kenya) a lezione durante la pandemia da Covid

Diritto di cittadinanza, è la volta buona?

La cittadinanza indica la condizione di appartenenza di un individuo ad uno Stato e gli conferisce diritti e doveri nei confronti del proprio Paese. Attraverso l’esercizio della cittadinanza acquisiamo il diritto di voto, la possibilità di ricoprire dei pubblici uffici, ma anche l’obbligo di pagare le tasse, rispettarne le leggi o difendere lo Stato in caso di aggressione. Da anni la legge che ne disciplina le modalità di acquisizione in Italia, la legge 91 del 1992, è al centro del dibattito politico. La campagna “Dalla parte giusta della storia” è un’iniziativa promossa principalmente da organizzazioni di giovani in attesa di cittadinanza per chiedere che la cittadinanza sia un diritto da riconoscere a quanti nascono e/o crescono in Italia e non una concessione legata alla discrezionalità dei funzionari delle prefetture. L’assunto di base è che l’Italia abbia subito delle profonde trasformazioni che rendono inadatta una legge formulata oltre trent’anni fa per tutelare la discendenza degli emigrati italiani. Rispetto ai 200mila stranieri residenti nel ’92 oggi si parla di oltre 5 milioni di cittadini di origine straniera. Una riforma impatterebbe soprattutto sui giovani che vivono in una condizione di sospensione per cui sentono di appartenere al contesto italiano, perché nati o cresciuti qui, ma sono costretti ad attendere ben oltre i dieci anni richiesti dalla legge prima di…

*L’autrice: Ada Ugo Abara è una project manager di origine nigeriana, specializzata in cooperazione, sviluppo e tecnologie digitali. Attivista sociale e politica, è co-fondatrice di Arising africans Aps, una delle associazioni promotrici della campagna “Dalla parte giusta della storia”.

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Lotta alla pedofilia, la “via italiana” del card. Zuppi? Inadeguata e forse anche dannosa

Il 27 maggio, in conferenza stampa, il neo-presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei), card. Matteo Maria Zuppi, ha illustrato quella che ha definito la “via italiana” nella lotta agli abusi nella Chiesa, in cinque punti. In una nota diffusa il 23 giugno, il Coordinamento valuta le cinque linee d’azione non solo carenti, ma segno di una direzione divergente rispetto all’assunzione di responsabilità e trasparenza richieste. Andiamo per ordine:

1. Potenziamento della rete dei referenti diocesani e dei relativi Servizi per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili e
2. Implementazione della costituzione dei Centri di ascolto

Il Coordinamento ritiene che i servizi diocesani per la tutela dei minori, così come sono concepiti, non abbiano le caratteristiche di terzietà necessarie per accogliere la denuncia delle vittime, spesso restie a rivolgersi a un centro istituito dalla stessa istituzione all’interno della quale hanno vissuto l’abuso. La resistenza a fare riferimento a tali centri è spesso aggravata dalla presenza di preti quali referenti diocesani; nel merito, i Centri d’ascolto, inoltre, lungi dall’offrire una disponibilità di contatto continuativa e articolata, sono spesso affidati a singole figure con una limitata offerta di tempi e qualità di ascolto.

3. Realizzazione di un primo Report nazionale – poi annuale – sulle attività di prevenzione e formazione e sui casi di abuso segnalati o denunciati alla rete dei Servizi diocesani e interdiocesani negli ultimi due anni (2020-2021), raccolti e analizzati da un Centro accademico di ricerca, ai fini di un monitoraggio permanente dei dati e dell’efficacia delle attività messe in campo.

Il Coordinamento ritiene inutile, per i motivi di cui sopra, un Report annuale basato sui soli dati raccolti dai servizi diocesani, destinati a risultare gravemente lacunosi e parziali e, pertanto, a fornire un’immagine falsata del fenomeno. La collaborazione con un Centro accademico di ricerca in fase di analisi dei dati non costituisce quella garanzia di indipendenza necessaria a raggiungere la conoscenza più ampia possibile del fenomeno, che può essere ottenuta soltanto grazie all’accessibilità di tutti gli archivi ecclesiali, messi a disposizione di un Ente o una commissione super partes dotata di altissima competenza interdisciplinare.

4. Analisi quantitativa e qualitativa dei dati custoditi presso la Congregazione per la Dottrina della Fede, facenti riferimento a presunti o accertati delitti perpetrati da chierici in Italia nel periodo 2000-2021, condotta in collaborazione con Istituti di ricerca indipendenti.

Il Coordinamento ritiene insufficiente il ricorso ai dati in possesso della CDF, che notoriamente costituiscono solo il dato emerso e giusto a definizione processuale canonica.
Ritiene, inoltre, discriminatorio l’arco temporale preso in esame, in quanto escludente le vittime emerse in tempi precedenti, ma anche quelle non emerse in quanto non ancora giunte a maturazione della consapevolezza dell’abuso subìto, il cui tempo è stato attestato, anche in sede scientifica, fino a 30, persino 40 anni; tale arco temporale risulta inoltre insufficiente a determinare sia contesti in cui l’abuso sia stato sistemico, sia dinamiche strutturali più profonde, che solo possono essere individuati esaminando un periodo più ampio. Inoltre, non sono state pronunciate parole chiare in merito al tema dei risarcimenti morali ed economici, passaggi essenziali per dare concretezza alla ricerca di verità e all’offerta di giustizia.

5. Partecipazione della CEI in qualità di invitato permanente all’Osservatorio per il contrasto della pedofilia e della pornografia minorile, istituito con legge 269/1998.

Il Coordinamento ritiene inappropriata tale partecipazione, soprattutto alla luce della previa necessità di operazioni di verità e di giustizia che devono precedere qualsiasi sguardo su un futuro di prevenzione – al quale l’Osservatorio è per natura vocato, nonostante lunghissimi periodi di inattività –, nonché qualsiasi coinvolgimento diretto della CEI in qualità di “invitato permanente”.

I vescovi definiscono queste cinque linee di azione «non un elenco chiuso a eventuali sviluppi, tutt’altro: è volontà dei Vescovi compiere qualsiasi passo perché il fenomeno degli abusi venga contrastato decisamente, promuovendo ambienti sicuri e a misura dei più piccoli e vulnerabili».

Il Coordinamento ritiene che l’orientamento impresso all’operazione complessiva costituisca una scelta di campo ben precisa, difficilmente passibile di aggiustamenti che possano mutarne radicalmente la natura fino a trasformarla in un’operazione radicale e orientata decisamente alla verità e alla giustizia, quanto potrebbe invece essere assicurato da un’indagine indipendente.

Il mancato coinvolgimento attivo delle vittime fin nella sua concezione – realizzato, al contrario, ad esempio durante i lavori della Commissione CIASE in Francia, che hanno visto anzi la preminenza dell’ascolto dei sopravvissuti – lascia la porta aperta a gravi dubbi riguardo alla reale volontà della CEI di prendersene cura in primo luogo.

Il Coordinamento ItalyChurchToo, nato da un’iniziativa femminile che ha coinvolto donne e uomini sopravvissute/i a crimini di pedocriminalità, ad abusi psicologici e spirituali, non può non rilevare che la resistenza manifestata dalle gerarchie ad accogliere le legittime istanze di riconoscimento/riparazione di tali colpe si associa al parallelo rifiuto del riconoscimento delle offese e dei reati perpetrati nei secoli dal magistero cattolico contro il genere femminile.

Il Coordinamento ItalyChurchToo ringrazia le numerosissime persone che a vario titolo, da ogni settore della società e della cittadinanza e in particolare dalla base cattolica, dall’Italia e dall’estero, hanno aderito alle istanze promosse, dimostrando quanto sia radicato il bisogno di reale verità, giustizia e prevenzione per le sopravvissute e i sopravvissuti agli abusi.

*-*

Per approfondire leggi l’inchiesta di Federico Tulli su Left “CHIESA E PEDOFILIA, LO STATO INESISTENTE” e visita il nostro Database, un’indagine permanente sui crimini compiuti dal clero italiano, che non si limita al mero calcolo statistico ma – per contribuire a sradicarlo dalla nostra società – indaga le cause profonde della sconcertante diffusione di questo reato violentissimo all’interno della Chiesa dando la parola alle vittime e ad esperti LAICI di varie discipline: psichiatri, avvocati, psicoterapeuti, magistrati, storici, sociologi etc

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La lotta antirazzista riparte dallo ius scholae

“Con tutti i problemi degli italiani che non arrivano a fine mese, dobbiamo pensare agli immigrati?”. Questa è la frase che come un mantra, tutta la destra, con odio, ripete ogni qualvolta un giornalista chiede loro un commento sulla legge di cittadinanza. Sono decenni che usano questa scusa per negare diritti sacrosanti a giovani che in questa Italia ci sono nati o ci sono arrivati da piccolissimi. Stiamo parlando di quasi un milione e mezzo di ragazzi e di ragazze che a stento conoscono la lingua dei loro genitori, che invece parlano i dialetti delle città in cui vivono, che dicono “ti amo” in italiano e mangiano la pizza e gli spaghetti col parmigiano (citazione da Tommy Kuti).
A loro, che sono gli amici dei nostri figli, i loro compagni di banco, il futuro di questo Paese, hanno strappato via non solo la dignità ma anche il senso di appartenenza. Spesso mi chiedono: “Da dove può iniziare il nostro Paese per diffondere una vera cultura antirazzista?”.
La mia risposta è sempre la stessa: “Da una vera legge di cittadinanza. Perché se lo Stato riconoscerà come suoi figli tutti questi giovani, sarà naturale e normale farlo, anche per la società civile. Allora nessuno penserà più, vedendo un nero, che è uno straniero e che, in quanto nero, non può essere italiano.
Il razzismo è cosi profondamente insito nella nostra cultura che solo una legge così potente potrebbe aiutare il lento processo di decolonizzazione culturale.
Mia figlia ha 11 anni, è nata in Etiopia ed è di nazionalità italiana. Nel suo saggio di musical, con un ben noto teatro milanese, tutte e quattro le insegnanti hanno pensato bene di farla recitare con un accento inglese. L’unica nera sul palco, l’unica con un accento non italiano.
Cosa voglio dire con questo piccolo esempio? Che l’Italia è ancora troppo bianco-centrica per poter anche solo immaginare che una ragazzina con il colore della pelle diverso dal bianco possa essere italiana.
Questo accade a tutti i nostri figli, ogni giorno, quando vengono sistematicamente fermati dalle forze dell’ordine che invece di chiedere loro la carta d’identità, esigono il “permesso di soggiorno”, quando vengono seguiti in un negozio perché potrebbero rubare, quando gli servono al bar il caffè in una tazzina di plastica, quando le signore sull’autobus, vedendoli salire, si spostano e stringono al petto le borsette, quando gli sguardi li trafiggono come una lama tagliente.
Queste micro aggressioni, che non sono “episodi rari” ma quotidianità, ci raccontano quanto sia pericoloso questo sentimento afrofobico che viene alimentato anche dallo Stato. Come? Mettendo in un angolo buio giovani vite che chiedono solo quello che gli spetta di diritto, essere considerati alla stregua dei loro compagni, con gli stessi diritti e le stesse opportunità.
Negli anni, lo ius soli e lo ius culturae sono stati raccontati male e, in fondo, neanche la sinistra ci ha mai creduto. Si è arrivati a pensare che l’unico modo per diventare cittadini italiani fosse meritarselo. Se sei bravo nello sport, se eccelli in qualche attività, se salvi delle vite, invece della medaglia, ti do un bel premio: la cittadinanza.
Per questo motivo, un anno fa, la mia associazione, Mamme per la pelle, insieme all’avvocato Hillary Sedu e ad Amin Nour ha pensato di scrivere una nuova legge che potesse accontentare tutti i partiti, proprio perché questa non fosse una lotta politica ma di civiltà. Dopo mesi di studio, è stato scritto lo ius scholae, che abbiamo presentato a molti partiti e che il deputato Giuseppe Brescia ha sposato in pieno e fatto suo. Ottenere la cittadinanza alla fine della terza media, per chi è nato qui o è arrivato da piccolo. Questo perché la scuola è il primo luogo che cerca disperatamente di includere e perché la cultura è diritto di tutti.
Il 24 giugno verrà discussa in Parlamento, dopo vari rinvii e dopo centinaia di stupidi emendamenti scritti dalla destra, forse durante una cena molto alcolica. I più divertenti? Quelli che, come requisito per la cittadinanza, richiedevano il conoscere i santi patroni, le ricette regionali, le sagre di paese.
Sappiamo da chi e come sarà osteggiata la norma ma vorrei fare un appello a tutte quelle forze politiche che credono ancora nell’essere umano e nella giustizia.
A tutte quelle forze politiche che sanno che non stiamo parlando di immigrazione, di “barconi”, di “cittadinanza facile per tutti”.
Questa legge non toglierà nulla a nessuno di noi, neanche a quegli italiani “che non arrivano a fine mese”, darà solo diritti, orgoglio e dignità a tutti quei bambini nati o arrivati qui in età prescolare, che sognano sin da piccoli di poter gridare forte quello che sono e che sentono già nel cuore: “Io sono Italiano”!

Gabriella Nobile è scrittrice, attivista e fondatrice dell’associazione Mamme per la pelle

L’editoriale è tratto da Left del 24 giugno 2022 

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Ci è voluto un terremoto per ricordarsi dell’Afghanistan

Afghan children stand near a house that was destroyed in an earthquake in the Spera District of the southwestern part of Khost Province, Afghanistan, Wednesday, June 22, 2022. A powerful earthquake struck a rugged, mountainous region of eastern Afghanistan early Wednesday, killing at least 1,000 people and injuring 1,500 more in one of the country's deadliest quakes in decades, the state-run news agency reported. (AP Photo)

Era il 30 agosto quando gli esponenti del governo italiano (e di tutti i governi europei) insieme alla grancassa dei media promettevano all’Afghanistan che non si sarebbero dimenticati di loro. Se ne sono ricordati ieri, sono bastati più di un migliaio di morti (numeri definitivi non ce ne sono) e 1.500 feriti per un terremoto che ha aggiunto dolore al dolore.

Il terremoto ha colpito poco dopo le 01:30 (21:00 GMT martedì) mentre la gente dormiva. Centinaia di case sono state distrutte dall’evento di magnitudo 6.1, che si è verificato a una profondità di 51 km (32 miglia). È il terremoto più letale che ha colpito l’Afghanistan in due decenni e una grande sfida per i talebani, il movimento islamista che ha ripreso il potere l’anno scorso dopo il crollo del governo sostenuto dall’Occidente. Il terremoto ha colpito a circa 44 km dalla città di Khost e si sono sentite scosse fino al Pakistan e all’India. Testimoni hanno riferito di aver sentito il terremoto sia nella capitale dell’Afghanistan, Kabul, che nella capitale del Pakistan, Islamabad. Funzionari talebani hanno chiesto alle Nazioni Unite di «sostenerli in termini di valutazione dei bisogni e risposta alle persone colpite», ha detto Sam Mort dell’unità Kabul dell’Unicef alla Bbc.

Parlando con l’agenzia di stampa Reuters, la gente del posto ha descritto orribili scene di morte e distruzione. «Io e i bambini abbiamo urlato», racconta Fatima. «Una delle nostre camere è stata distrutta. I nostri vicini hanno urlato e abbiamo visto le stanze di tutti». «Ha distrutto le case dei nostri vicini», ha detto Faisal. «Quando siamo arrivati c’erano molti morti e feriti. Ci hanno mandato in ospedale. Ho visto anche molti cadaveri». «Ogni strada che vai, senti persone piangere la morte dei loro cari», ha detto un giornalista nella provincia di Paktika alla Bbc. L’agricoltore locale Alem Wafa ha pianto mentre diceva alla Bbc che le squadre di soccorso ufficiali dovevano ancora raggiungere il remoto villaggio di Gyan – uno dei più colpiti. «Non ci sono operatori umanitari ufficiali, ma persone provenienti da città e villaggi vicini sono venute qui per salvare le persone», ha detto. «Sono arrivato stamattina e io stesso ho trovato 40 cadaveri». La maggior parte dei morti, ha detto, erano «bambini molto piccoli». L’ospedale locale semplicemente non aveva la capacità di affrontare un tale disastro, ha aggiunto l’agricoltore.

Intanto sono ancora bloccati i corridoi umanitari dall’Afghanistan. Persone in pericolo di vita per cavilli burocratici. Un’assurda vicenda che coinvolge 1.200 persone in attesa di partire: nelle ambasciate italiane mancano le macchinette per prendere le impronte digitali e si posticipano le partenze. Miraglia (Arci): «Aspettano da mesi, i visti stanno per scadere non possono tornare in mano ai talebani».

“Non vi dimenticheremo”, dicevamo.

Buon giovedì.

Blaterano di meritocrazia e poi risparmiano sulla formazione

Sembra una notizia locale e invece è il termometro della deriva di questo Paese. In Lombardia, grazie a Letizia Moratti, dopo il super-infermiere sta per arrivare il vice-infermiere: Oss con 300 ore di corso post base potranno sostituire il professionista infermiere e a basso costo. Ciò che conta è avere manodopera poco formata che viva ogni occasione di lavoro come un privilegio, disposta a essere pagata sempre il meno possibile.

Lo scrive bene Assocarenews: «L’idea è dell’assessore al ramo Letizia Moratti, che già qualche settimana fa aveva introdotto la figura del super-infermiere o vice-medico, il professionista sanitario capace di sostituire il medico nelle cure primarie e di base. Insomma una confusione di ruoli e di responsabilità legate a presunte carenze da una parte di medici, dall’altra di infermieri. In realtà si cerca di risparmiare il più possibile attribuendo a figure come infermieri od Oss compiti di professioni più elevate. Pertanto il super-infermiere e il super-Oss servono a sostituire da una parte i medici di famiglia, dall’altra gli infermieri in Rsa e case di riposo e farlo a bassissimi costi. Da mesi si polemizza sul super-Oss in Veneto, ora la polemica si sposta in Lombardia dove anche la Federazione nazionale dei medici (Fnomceo) ha ribadito più volte che “un infermiere non potrà mai sostituire un medico”. Di contro la Federazione nazionale degli infermieri (Fnopi), ad oggi, non si è mai espressa direttamente contro la nascita del super-Oss. Eppure gli Infermieri restano insostituibili. Vedremo cosa accadrà, il rammarico resta e resta la sensazione che nel nome del dio denaro tutto è possibile, anche chiamare infermiere un operatore socio sanitario (senza laurea e con lo stipendio da Oss) o medico un infermiere (con laurea triennale, ma con stipendio da fame)».

Intanto sulla presunta “ripresa del mercato del lavoro” la Nota trimestrale sulle tendenze dell’occupazione pubblicata da Istat, ministero del Lavoro, Inps, Inail e Anpal ci dice che un terzo dei 2,1 milioni di contratti a termine (mai così tanti, osservando le serie storiche) attivati tra gennaio e marzo era per incarichi di meno di 30 giorni, il 9,2% un solo giorno. Solo il 27,5% da due a sei mesi e un piccolo 1% scavalla l’anno. Ma c’è di più: dalle Comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro si rileva una crescita dell’incidenza dei contratti di brevissima durata sul totale delle attivazioni. Quelli fino a una settimana sfiorano il 20%, ossia il 2,9% in più rispetto al primo trimestre del 2021. E sono in aumento anche i lavoratori somministrati e quelli a chiamata. Insomma il precariato impazza e questi la chiamano occupazione.

Quando ci si renderà conto della piega che ha preso questo Paese diventeranno minuscole le beghe di partito con fuoriusciti e nuovi fondatori. Siamo un Paese che non ha speranza nei numeri e che continua a non accorgersene.

Buon mercoledì.

Un governo senza energia

Foto Riccardo Antimiani/POOL Ansa/LaPresse 18 marzo 2022 Roma - Italia Politica Conferenza stampa del Presidente Draghi per illustrare i nuovi provvedimenti di contrasto al caro energia e agli effetti economici della crisi in UcrainaNella foto: Roberto Garofoli, Mario Draghi, Roberto Cingolani, Daniele FrancoPhoto Riccardo Antimiani/POOL Ansa/LaPresseMarch 18, 2022 Rome - Italy Politics (L-R) Italian Undersecretary to the Presidency of the Council of Ministers Roberto Garofoli, Italian Prime Minister Mario Draghi, Italian Minister of Ecological Transition Roberto Cingolani. and Italian. Economy Minister Daniele Franco, during a press conference at the end of the Council of Ministers, to illustrate the new measures to combat expensive energy and economic effects of the crisis in Ukraine, at the Multifunctional Hall of the Presidency of the Council of Ministers in Rome

In questo contesto di guerra e perdurare della pandemia l’Europa deve accelerare o rallentare la transizione ecologica? Molto più brutalmente l’interrogativo a cui le istituzioni europee dovrebbero rispondere è se l’invasione russa dell’Ucraina e il perdurare dei contagi consigliano di rinviare ad un futuro imprecisato il Next generation Ue o invece, proprio per questi motivi, bisogna accelerarne l’attuazione, eliminando tutte le ambiguità su cui

L’articolo prosegue su Left del 17 giugno 2022 

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