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A Verona si sostiene la destra nel nome di dio

Foto Claudio Martinelli/LaPresse29 marzo 2019, Verona, ItaliacronacaNella foto: Mons. Giuseppe Zenti vescovo di Verona al suo arrivo al World Congress of Families ospitato alla Gran Guardia a Verona.

Immancabile, a Verona, scende in campo il vescovo. Che accada in una delle città più neofasciste d’Italia (dove associazioni come Circolo Pink Lgbte Verona, Sat Pink Aps, Pianeta Milk Verona, Non una di Meno Verona, Yanez, Udu Verona, Rete degli Studenti Medi Verona, Eimì sono al fronte per difendere i diritti) non è un caso. Monsignor Giuseppe Zenti lo scorso 18 giugno ha preso in mano la penna per vergare una lettera ispirata da uno spirito tutt’altro che santo per ricordare a sé stesso «e ai fedeli di individuare quali sensibilità e attenzioni sono riservate alla famiglia voluta da Dio e non alterata dall’ideologia del gender, al tema dell’aborto e dell’eutanasia».

Al netto di questa spiritualità meschina l’invito è quello di votare al prossimo ballottaggio per le elezioni amministrative in città il sindaco uscente Federico Sboarina, candidato di Lega e Fratelli d’Italia, preferendolo all’ex calciatore Damiano Tommasi (sostenuto dal Pd, M5s e liste civiche). Del resto parliamo dello stesso vescovo che nel 2015 scrisse agli insegnanti di religione per condividere il programma elettorale di una candidata della Lega alle elezioni regionali. È lo stesso personaggio che sul ddl Zan disse che «l’omosessualità praticata non è un valore agli occhi di Dio» scrivendo, dimostrando di avere poca capacità di comprensione delle leggi, «auspichiamo che si possa continuare a dire, che non resti traccia nel ddl di bavagli o di possibili carceri. Sarebbero residuati da Gestapo».
Essere gretti nel nome di dio dovrebbe essere peccato, nel mondo dei comandamenti giusti. Il vescovo Zenti mostra tutto il suo buio nelle lettere che scrive e nei modi in cui le scrive.

Per avere idea di come sia più arioso e libero il mondo basta buttare l’occhio sul documento politico del Comitato Verona Pride 2022: «La nostra Verona sta reagendo, stiamo costruendo una comunità democratica forte e coesa, le cui discussioni infervorano sempre di più gli spazi di confronto. Solo attraverso questo movimento politico possiamo aprirci a tutte le soggettività con le quali percorrere questo cammino.  “Casa nostra” è dove siamo. I nostri corpi sono “case nostre”. Tutto il mondo è “casa nostra”.  Ma se tutto il mondo è casa nostra, allora, anche la piazza lo è, e non possiamo più farci marginalizzare né accettare le violenze che ci infliggono. Dobbiamo continuare a ripopolare le piazze, a farle nostre, ed è compito di tuttз tenere il passo per vivere la città in una forma nuova. Plasmiamo la società che desideriamo, cominciando con l’educare chi – in buona o in malafede – non conosce l’Abc del vivere insieme. Ecco quindi che le nostre rivendicazioni devono essere intersezionaliste e vigili sulle esigenze collettive. Facciamo di Verona una grande piazza in cui insegnare a chi la vive come rispettare il diritto di tuttз all’autodeterminazione».
Il personale è politico, sempre. Se la Chiesa si butta in politica trascinata dalle idee mediocri di un monsignore non resta che combatterla.

Buon martedì.

Nella foto: Monsignor Zenti al Congresso delle famiglie, Verona, 29 marzo 2019

Pål Brunnström: Alleanza atlantica? No grazie

Army Gen. Mark Milley, chairman of the Joint Chiefs of Staff, and Swedish Prime Minister Magdalena Andersson meet in Stockholm, Saturday, June 4, 2022. (Fredrik Persson/TT News Agency via AP)

La Svezia e la Finlandia hanno avuto una lunga storia di neutralità in campo internazionale. Per quanto riguarda la Svezia, questa dura da più di un secolo. Ciò le ha evitato la partecipazione al conflitto mondiale (non senza diverse contraddizioni, come la decisione di lasciare passare le truppe naziste dirette verso il fronte finlandese). Questa posizione ha permesso a un piccolo Paese come la Svezia di avere un ruolo importante in campo internazionale a sostegno della pace, dei diritti umani, della lotta contro il razzismo. Questa posizione di lunga durata, sedimentatasi nei decenni nel popolo svedese, viene oggi stravolta sull’onda dell’emozione per la guerra in Ucraina da un governo socialdemocratico di minoranza a pochi mesi dal voto. Non tutti sono d’accordo in Svezia, tanto tra la popolazione che in Parlamento. Per questo abbiamo intervistato Pål Brunnström, membro del consiglio direttivo del Vänsterpartiet (Partito di sinistra), un forza politica solidamente schierata a difesa della neutralità svedese.

Nei giorni scorsi tutti i media hanno parlato della domanda di adesione alla Nato di Svezia e Finlandia. I due Paesi hanno abbandonato la loro storia di neutralità in favore di un’adesione all’alleanza militare. Cosa comportava la neutralità precedente? E quale valutazione ne dava il Vänsterpartiet?
La Svezia è stata neutrale per molto tempo. Ma la sua neutralità è stata continuamente contestata e messa in discussione dai partiti della destra. Con l’obiettivo, per esempio, di coinvolgere il Paese nei combattimenti della Prima e della Seconda guerra mondiale, in entrambi i casi per allearsi con i tedeschi. Se la Svezia ha potuto finora restare neutrale è grazie all’…

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Anna Donati: Mobilità sostenibile vo cercando

Siamo tra i Paesi più motorizzati d’Europa, rispetto al numero degli abitanti: oltre 600 auto ogni mille persone. Al tempo stesso i nostri mezzi pubblici sono tra i più vecchi in circolazione e rispetto alla media dei Paesi europei abbiamo meno della metà di linee metropolitane (42,5%), poco più della metà di linee tranviarie e il 56,1% di linee ferroviarie suburbane. Di fronte a questi dati del 18esimo Rapporto mobilità Isfort 2021, appare del tutto evidente che la mobilità sostenibile sia una delle questioni chiave per la transizione ecologica. Dopo il voto del Parlamento europeo sullo stop alle auto diesel e a benzina dal 2035 – ora inizierà il confronto con il Consiglio europeo -, abbiamo chiesto ad Anna Donati di delineare la situazione in cui ci troviamo. Già deputata per i Verdi e senatrice per la lista Insieme con l’Unione, Anna Donati è stata assessore alla mobilità a Bologna, a Napoli nella giunta De Magistris e da marzo è presidente e amministratore delegato di Roma servizi mobilità e continua ad essere molto attiva sul fronte ambientalista.

Anna Donati, come giudica il voto a Strasburgo sullo stop alle immatricolazioni di auto a benzina, Gpl e diesel dal 2035?
Lo giudico molto positivamente. Su questo obiettivo, come associazioni ambientaliste abbiamo lavorato sodo per almeno due anni. E il motivo è presto detto: il trasporto su strada è responsabile del 26% di emissioni di gas serra. Quindi è chiaro che se si vuol decarbonizzare secondo gli obiettivi che la Commissione europea si è data – meno il 55% al 2030 e zero emissioni nel 2050 – si deve cominciare subito. Purtroppo non c’è più tempo. Abbiamo bisogno di veicoli elettrici, da quelli privati a quelli commerciali fino agli autobus e alla bici con pedalata assistita.

In Italia sono subito emerse preoccupazioni: dal mondo del lavoro, dell’automotive in particolare, ma anche dalla politica.
Il processo è necessario ma va governato. È una svolta per la giusta transizione che va attuata con azioni precise per riconvertire il settore della produzione di auto a motore termico, e cioè attraverso un vero e proprio progetto industriale e con un dialogo con il sindacato e le aziende mentre il soggetto pubblico – governo e Parlamento – deve dare una missione molto chiara in questa direzione. Come associazioni abbiamo contestato fortemente il punto di vista e le dichiarazioni del ministro per la Transizione ecologica Cingolani – diverso l’atteggiamento del ministro delle Infrastrutture Giovannini – quando a proposito dello stop alle auto ha parlato di una prospettiva “lacrime e sangue”. Ecco, noi ambientalisti la pensiamo esattamente all’opposto.

Vale a dire?
Se non si fa nulla, se non si prendono queste decisioni anche molto nette, se non si governano i processi di cambiamento, se non si danno aiuti al sistema industriale, sarà davvero una stagione “lacrime e sangue”. I Paesi del Nord Europa hanno già anticipato lo…

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A proposito di salari da fame (e delle notizie curiosamente taciute)

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 18-06-2022 Roma, Italia Cronaca CGIL - manifestazione pace lavoro giustizia sociale democrazia Nella foto: Militanti CGIL alla manifestazione in Piazza del Popolo Photo Mauro Scrobogna / LaPresse June 18, 2022 Roma, Italy News CGIL - demonstration peace work social justice democracy In the photo: CGIL militants at the demonstration in Piazza del Popolo

La Cgil è tornata in piazza. L’avete letto? Poco, sicuro. Figurarsi se ci si può permettere di rovinare la festa e la narrazione. Il sindacato di Landini è tornato in piazza del Popolo a Roma ma questi sono tempi in cui i sindacati non tornano utili per bastonare qualche nemico per cui non sono nemmeno attaccati, semplicemente si nascondono.

In piazza si sono ascoltate storie che dovrebbero finire sui giornali. E invece niente. Si è ascoltato Dario Salvetti, delegato Gkn della Fiom che ha raccontato che la lotta è gioia e cura. Perché sarebbe ora di educarci al conflitto, da sempre mezzo per ottenere diritti.

Ci sono stati gli studenti che hanno raccontato storie come quelle di «Nadia che lavora dai 16 anni ma sempre in nero o tirocinio e dopo 10 anni ha 3 mesi di contributi pensionistici». «Non siamo più disposti a farci calpestare: non abbiamo nulla da perdere e per questo che non potranno fermarci», dice uno studente universitario.

Auli ha raccontato la precarietà di Stato: «Noi 700 somministrati che lavoriamo per il ministero dell’Interno al servizio immigrazione: primo contratto 6 mesi, secondo 3 mesi, terzo 40 giorni. Poi grazie alla lotta con Nidil Cgil ora 9 mesi. La precarietà è soprattutto donna e io sono dovuta tornare a lavorare 48 ore dopo aver perso mio figlio in grembo».

Poi c’è Maurizio Landini che chiede alla politica di «cancellare le leggi folli sulla precarietà» che sono la «prima causa dei bassi salari dopo 20 anni di competizione giocata solo sulla loro compressione da parte degli imprenditori». E infine, sul salario minimo, un argomento tabù che qui da noi non accenna nessuno: l’estensione del Trattamento economico complessivo con diritti, ferie e tredicesima anche per le partite Iva.

Sarà un autunno caldo.

Buon lunedì.

Afroeuropei, se non ci fosse stata l’America

La tratta schiavistica deportò nelle Americhe circa dieci milioni di africani tramite il Middle passage, il viaggio della deportazione atlantica effettuato in condizioni disumane, e durante il quale forse uno o due milioni di deportati morirono, spesso per suicidio. Su questa economia di tratta, spietata e brutale, si formarono e crebbero gli Stati colonialisti europei, e con essi, grazie alle straordinarie ricchezze apportate dalle coltivazioni agricole intensive che sfruttavano il lavoro schiavile, il capitalismo occidentale. La schiavitù in Europa già esisteva, come una forma di servaggio talvolta volontaria, o basata sui prigionieri di guerra, e spesso i suoi soggetti erano europei orientali; ma gradualmente, nel corso del Rinascimento, e con la complicità di papi come Nicola V, cominciò a essere importata dall’Africa la maggioranza degli schiavi. In alcuni luoghi e momenti ci furono collari metallici e marchiature a fuoco, ma anche leggi a tutela degli schiavi che punivano le malversazioni; e in generale prevalsero la curiosità verso la diversità, la relazione umana, l’empatia. Anche perché gli schiavi neri …

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Ucraina, guerra e dissenso

Nord Europa, località segreta, a chilometri di distanza da Rambzan Kadyrov e dai padroni della Cecenia. Abubakar Yangulbaev è il nemico numero uno della dittatura cecena. Lui e la sua famiglia si sono esposti a più riprese contro il sistema di violenza del suo Paese. Abubakar è un giovane avvocato per i diritti umani, è scappato dal suo Paese perché nemico giurato del presidentissimo Kadyrov, alleato fedele di Vladimir Putin. Abubakar è un oppositore di famiglia, perché anche suo padre e suo fratello sono pubblicamente nemici del dittatore ceceno. Il papà è stato giudice di spicco in Cecenia. A rimanere nel Paese è rimasta solo la mamma. È stata arrestata anche lei, ostaggio della dittatura. «Quando con mio padre e mio fratello fummo condotti nella villa di Kadyrov fummo picchiati, poi lui in persona ci ordinò di leccare il sangue a terra. Questo è il regime di terrore che spetta a chi si oppone a lui».

A Groznyj, capitale cecena, una manifestazione governativa ha visto bruciare i ritratti di tutta la famiglia Yangulbaev, stigmatizzati da tutti come nemici del popolo. «Fare opposizione è impossibile» racconta Abubakar. «Vivo qui, braccato, cambio casa ogni settimana, non posso invitare amici, incontrare familiari, è una vita clandestina non per mia scelta. Dall’estero provo a monitorare la rete degli oppositori di Kadyrov. In Cecenia in molti vorrebbero opporsi alla guerra di Putin, che noi ceceni invece stiamo sostenendo militarmente. Molti dei miei coetanei stanno morendo in guerra in Ucraina occupando città che non meritano questo. Ma come ti opponi alla chiamata alle armi? I morti ceceni in questa guerra il governo non li comunica. Non ci sono dati ufficiali. Così li ricostruiamo noi, con segnalazioni che arrivano dalle famiglie, dagli amici».  Abubakar in queste settimane sta ricevendo attacchi pubblici direttamente da Kadyrov, che ordina a tutti i ceceni di cercare gli oppositori politici. Abubakar tramite i suoi legali ha deciso di proporre al regime uno scambio. Lui rientra in Cecenia in cambio del rilascio della madre, consapevole d’imboscate. 

Il telefono squilla, un altro morto del…

 

 

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Bosnia Express, la guerra vista dalle donne e la bellezza della cura

Sono mesi che il film Bosnia Express sta girando l’Italia e sono mesi durante i quali spesso ci siamo sorpresi per l’interesse e la dialettica che questo film suscita.
Oggi vi vogliamo però raccontare di un invito particolare. Un invito ricevuto da parte di Emergency-Venezia a proiettarlo presso la loro sede nell’Isola della Giudecca.
Forse perché si trattava di andare a Venezia, forse perché era il 19 maggio, forse perché stimolato da discussioni con amici, forse chissà per quale altro motivo ho pensato di condividere questa avventura con un’amica, Marcella Fagioli che per mestiere fa la psichiatra-psicoterapeuta. La responsabile di Emergency della città lagunare, la dottoressa Mara Rumiz, coordinatrice dell’evento, con il contributo all’organizzazione e alla comunicazione da parte di Miriam Viscusi e Francesca Basile si è mostrata subito interessata alle possibili suggestioni derivate dal confronto con una particolare branca della medicina rappresentata dalla psichiatria. Ecco il nostro racconto.

La proiezione/evento concludeva la rassegna “Le donne nella guerra” ideata dalle organizzatrici di Emergency e introdotta con queste frasi: «La guerra, come le malattie, deve essere prevenuta per non doverne curare le conseguenze. L’abolizione della guerra sembra oggi un’utopia che tuttavia abbiamo la responsabilità di trasformare in realtà».
L’occasione di Venezia ha quindi stimolato una riflessione più ampia che ha visto il confronto tra due grandi nomi della Medicina degli ultimi decenni: Gino Strada e Massimo Fagioli.

Nonostante la significativa differenza anagrafica e la differente storia personale e professionale che si è sviluppata lungo la direttrice di differenti campi di ricerca medica, quello che è emerso in occasione di questo evento è stato forse l’elemento comune a questi due personaggi: l’essere medico.
Due medici diversi che hanno lottato tutta la vita per abbattere il dogma della violenza e dell’impossibilità della cura, per smascherare despoti reali e mentali.
Non sappiamo se in vita le strade di Massimo Fagioli e Gino Strada si siano mai incrociate, ma andando a Venezia (per entrambi Venezia è stata una città importante) e riflettendo su quell’incontro, tanti pensieri si sono accavallati nella nostra mente in un momento storico che vede in primo piano l’ennesima carneficina di persone inermi non lontano da noi.
Sorretti dal loro pensiero e dal loro esempio, il 19 maggio pomeriggio abbiamo preso posto sul vaporetto che ci ha condotto alla Giudecca sentendo intimamente che quello era semplicemente il luogo e il giorno giusto dove avremmo dovuto stare. Nell’introduzione al film abbiamo condiviso con il pubblico, insieme alla montatrice Paola Traverso, il percorso umano e professionale che ci…

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Un mondo in fuga da guerre e persecuzioni

Kurdish people manage to reach a refugee camp at Dohuk, the autonomous region of Kurdistan Region in Iraq on Nov. 5, 2019. Hundreds of Syrian Kurds have fled after the Turkish military operation has been staged in northeastern Syria while the U.S.military decided to withdraw abruptly. . ( The Yomiuri Shimbun )

I numeri non rendono giustizia. Dietro le cifre ci sono vicende individuali e diverse fra loro, ci sono tracce dolorose del passato, c’è la sofferenza del presente, c’è il dubbio di un futuro percepito come indecifrabile che a volte si traduce nel nulla. Ma anche i numeri servono. Al 23 maggio erano oltre 100 milioni i profughi e sfollati nel mondo – cifra stimata dall’Unhcr -, persone, uomini, donne, sempre più spesso bambini, costretti a fuggire dalle proprie case a causa di guerre, violenze, violazioni dei diritti umani, persecuzioni. Molti (53,2 mln), sono rimasti in aree più sicure del proprio Paese ma dopo aver perso casa, lavoro, vita quotidiana, molti altri hanno dovuto varcare le frontiere.

L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), sempre a maggio, aveva calcolato che l’anno scorso gli sfollati interni erano 59,1 milioni, quattro milioni in più rispetto al 2020 quando, anche a causa della pandemia, sono diminuiti i tentativi di lasciare il Paese in cui si vive. Sono poi divenuti normalità gli eventi metereologici estremi: inondazioni, tempeste, cicloni, hanno provocato circa 23,7 milioni di migrazioni interne nel 2021, principalmente nei Paesi del Sud Ovest asiatico e del Pacifico, senza contare quanti hanno dovuto spostarsi a seguito di siccità e aumento delle desertificazioni. Non si tratta solo di un orrendo record, ma della fotografia amara di un pianeta governato da leggi senza pietà, flagellato da decenni in cui la parola conflitto sembra essere divenuta la sola chiave interpretativa di ogni avvenimento.

Oggi abbiamo l’occhio giustamente rivolto alla crisi ucraina, con circa 8 milioni di profughi di cui almeno 6 hanno dovuto lasciare il Paese, ma questi costituiscono una parte del tutto. Già dalla fine dello scorso anno si erano aggravate le situazioni in Etiopia, Mali, Burkina Faso, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Yemen, Afghanistan e Myanmar, ma per chi si occupa di questi temi, anche in questo caso si tratta soprattutto di instabilità in evoluzione. L’emergenza in Siria, iniziata con la guerra civile 11 anni fa, sta riesplodendo. Le minacce turche di nuovi attacchi verso la frontiera settentrionale per eliminare le aree curde, gli attentati compiuti dall’esercito israeliano, quelli jihadisti, le repressioni di Assad, stanno facendo intensificare i tentativi di fuga nonostante molte strade siano precluse. Anche i confini nord dell’Iraq, da aprile attaccati dall’esercito di Erdogan stanno costringendo le popolazioni curde e yazide a spostarsi verso aree più sicure. La crisi alimentare e gli scontri militari spingono invece a…

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I piani dei partiti pacifisti contrari ad armare Kiev

Armi sì, armi no. Ad oltre cento giorni dalla decisione di Putin di invadere l’intera Ucraina, l’invio di materiali bellici verso Kiev è uno dei temi che più tiene banco nel dibattito pubblico italiano. E pure in Parlamento. Tanto che si è arrivati ad ipotizzare che possa far vacillare il governo. Il 21 e 22 giugno, infatti, Draghi riferirà in Parlamento (prima al Senato e poi alla Camera) in vista del Consiglio europeo, che avrà all’ordine del giorno anche la questione Ucraina. E lì lo attenderanno le forze politiche più critiche verso la politica estera di Palazzo Chigi. Al termine dell’intervento del presidente del Consiglio, come di consueto, si voteranno le risoluzioni sul suo mandato. E proprio in quei documenti, in un primo momento, si era detto che sia M5s, che Lega e parte delle opposizioni avrebbero potuto inserire un passaggio sullo stop alla spedizione di armi in Ucraina, mossa che avrebbe potuto mettere a repentaglio la tenuta dell’esecutivo.

Prima di capire cosa accadrà in Parlamento, però, è bene rispondere ad una domanda: perché persino leader dal curriculum pacifista a dir poco scarno – vedi Salvini, ma anche Conte – sono così attratti dal tema? Tanto più che il nostro sostegno bellico a Kiev è piuttosto marginale se paragonato agli altri attori nello scenario internazionale. Secondo i dati dell’Ukraine support tracker del Kiel institute for the World economy, che tiene conto degli aiuti militari, finanziari e umanitari all’Ucraina, al 10 maggio l’Italia aveva contribuito a rafforzare la difesa di Kiev per un totale di 150 milioni di euro, ed era al decimo posto nella classifica dei Paesi che hanno fornito questo tipo di sostegno. Dietro Usa (che da soli hanno da poco stanziato un nuovo pacchetto da ben 20 miliardi di aiuti militari), Regno Unito, Polonia e Germania, Canada e Francia. Ma anche dopo potenze più modeste come Norvegia, Estonia e Lettonia. In questo calcolo, va detto, non è considerata l’ultima tranche di aiuti bellici italiani, la terza, varata a metà maggio. E le rilevazioni dell’istituto si fermano ad un mese fa. Ma in sostanza poco cambia. Il punto, quello vero, è che i sondaggi politici parlano chiaro. Il 51,5% degli italiani è contrario all’invio di armi in Ucraina, a fronte di un 38,2% favorevole (Euromedia, 25 maggio). E il 44% sostiene che la Nato dovrebbe rifiutarsi di inviare a Kiev armi “più pesanti” di quelle inviate finora, a fronte di un 25% di opinioni opposte (Emg different, 31 maggio). Con un occhio ai consensi il fronte pacifista anti-Draghi potrebbe essere più largo di quanto previsto. Ma cosa accadrà davvero in aula nei prossimi giorni?

«Il nostro obiettivo non è far cadere il governo, né indebolirlo a livello internazionale, ma aprire la strada per un negoziato di pace» rassicura il…

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Scapperanno in 100 milioni

L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati ha dichiarato che 100 milioni di persone in tutto il mondo sono state costrette ad abbandonare le proprie case nell’ultimo anno. Questo è il numero più alto di sfollati registrato dalla seconda guerra mondiale.

L’Ucraina ha vissuto la crisi dei rifugiati più grande e in più rapida crescita da quando l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) è stato istituito nel 1951, ha affermato l’organismo nel suo Global Trends Report. Insieme all’invasione russa dell’Ucraina, la crisi in Afghanistan è stata anche uno dei maggiori eventi che hanno contribuito al “drammatico traguardo” di 100 milioni. Il rapporto scrive che nell’ultimo decennio c’è stata una tendenza al rialzo ogni anno.

L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi, ha affermato che questa tendenza continuerà, fino a quando la comunità internazionale non si sarà attivata per risolvere i conflitti e trovare soluzioni. La guerra in Ucraina ha creato una crisi di sicurezza alimentare, che costringerà più persone a fuggire dalle loro case nei paesi più poveri, ha affermato l’UNHCR. «Se hai una crisi alimentare oltre a tutto ciò che ho descritto – guerra, diritti umani, clima – questa accelererà la tendenza», ha detto ai giornalisti Filippo Grandi, descrivendo le cifre come «sbalorditive». Ha anche affermato che le risorse si stanno concentrando in Ucraina, mentre altri programmi in tutto il mondo sono rimasti sotto finanziati. «L’Ucraina non dovrebbe farci dimenticare altre crisi», ha detto, ricordando il conflitto in Etiopia e la siccità nel Corno d’Africa.

Grandi ha affermato che la risposta dell’Unione europea alle crisi dei rifugiati è stata “disuguale”. Questo sullo sfondo della generosità con cui sono stati accolti i profughi ucraini, qualcosa che Grandi vorrebbe che fosse concesso a tutti coloro che cercano rifugio. “Certamente si rivela un punto importante: rispondere agli afflussi di profughi, all’arrivo di disperati sulle coste o ai confini dei Paesi ricchi non è ingestibile”, ha affermato. Grandi ha detto che sempre più persone stavano fuggendo dalla regione africana del Sahel per sfuggire a aumenti di carburante, crisi climatiche e violenze. Questi sfollati potrebbero dirigersi a nord verso l’Europa per sfuggire alla crisi. Ha affermato che la regione ha già affrontato anni di siccità e inondazioni, disparità di reddito, scarsa assistenza sanitaria e malgoverno. La crescente crisi della sicurezza alimentare ha aggravato i problemi. “Sono molto preoccupato per il Sahel. E non penso che si parli abbastanza di questa regione che è, tra l’altro, così vicina all’Europa. E penso che l’Europa dovrebbe essere molto più preoccupata”, ha detto.

100 milioni di persone costrette a spostarsi per sopravvivere saranno il carburante per il prossimo sovranismo. E mai una volta che si abbia il coraggio di affrontare la questione alla radice.

Buon venerdì.

Per approfondire, Left del 10 giugno 2022 

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