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Ucraina, escalation radioattiva

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«Bisogna che si capisca che non si può disporre della vita delle persone con leggerezza. È importante che io mi possa curare, ma è anche importante che si faccia luce sul perché io e tanti altri soldati ci siamo ammalati». Risuonano ancora come un monito fortissimo le parole del maresciallo Marco Diana, morto nell’ottobre di due anni fa, a cinquant’anni, dopo una lunga lotta contro un tumore, conseguenza dell’esposizione all’uranio impoverito, durante missioni militari in Somalia e in Kosovo (Nato).

«Certamente in Somalia gli americani hanno usato armi all’uranio impoverito. Ma non è l’unica spiegazione», denunciava nel 2005 intervistato da Il Manifesto. «Che cosa succede quando i proiettili esplodono ad altissime temperature? Che cosa accade quando un missile colpisce un carro armato, su un teatro di guerra ma anche in un poligono d’addestramento, a Quirra qui in Sardegna, ad esempio, o a Capo Teulada? Le ricerche dicono che in quelle circostanze si sprigiona una nube che contiene nano particelle di metalli pesanti, pericolose quanto l’uranio impoverito. Chi protegge i ragazzi che si esercitano a Capo Teulada e a Quirra? Chi protegge i militari che mandiamo a combattere non si sa bene perché e che ora crepano di cancro?»

In questo modo in Italia sono morti centinaia di militari che avevano partecipato alle missioni Nato nei Balcani e in Iraq. Il pensiero corre anche a Fabio Maniscalco, archeologo che tra il 1995 ed il 1998 da ufficiale dell’esercito italiano monitorò la situazione del patrimonio culturale della Bosnia ed Erzegovina, rimettendoci la vita, per esposizione all’uranio impoverito utilizzato dalle truppe Nato. E ancora altri casi devono essere raccontati altrettanto drammatici e urgenti. Ma grazie alla lotta di Marco Diana (che ha dovuto combattere per dieci anni con la malattia e con le istituzioni per vedere riconosciuta la sua causa di servizio) grazie all’impegno dell’avvocato Angelo Fiore Tartaglia la correlazione fra gravi forme tumorali e uranio impoverito è diventata giurisprudenza in Italia come scrive Gregorio Piccin nella sua inchiesta per Left che solleva questioni dirimenti rispetto al presente e all’invio di armamenti in Ucraina fra cui ve ne sono alcuni che contengono e rilanciano torio, fortemente radioattivo. In Francia – dove se ne è discusso pubblicamente – Macron ha ammesso l’invio di missili pericolosi anche sotto questo riguardo. In Italia il governo Draghi ha imposto il segreto sul tipo di armamenti mandati a Kiev. Quali e quanti provengono da vecchi arsenali Nato? La domanda è lecita e la risposta è quanto mai urgente. Draghi risponderà anche su questo quando il 21 giugno riferirà in Parlamento in vista del Consiglio europeo? Sollecitiamo che a questo riguardo sia avanzata una interrogazione parlamentare.

Ricordiamo anche che per quella data il M5s aveva chiesto un confronto in Aula e un nuovo voto sull’invio di armi in Ucraina, per imboccare una strada diversa rispetto al decreto votato dagli stessi pentastellati che autorizzava l’invio di armi fino a fine anno. Sinistra italiana e il gruppo parlamentare ManifestA (che hanno votato contro quel decreto) tornano a tematizzare la questione con urgenza. Ma – come emerge dall’approfondimento di Leonardo Filippi – M5s, Pd, Lega pur di non far cadere questo governo delle larghe intese cercano un accordo e una mediazione. Le armi per l’Ucraina sono il paravento dietro il quale si nasconde l’Europa, impotente dal punto di vista della trattativa diplomatica e divisa sulle sanzioni denuncia, Nicola Fratoianni intervistato da Left.

Tanto che sul gas ancora non si è fatto praticamente niente e continuiamo ad acquistarlo, perfino in rubli, finanziando la guerra di Putin, il quale non disdegna di utilizzare armi proibite, comprese le bombe a grappolo e quelle al fosforo, e possiede missili e carri armati di antica fabbricazione, risalenti ad epoche in cui l’uso di uranio impoverito era una prassi. Ma l’Occidente che si dice diverso e civile? E l’Italia che gioco gioca in questa partita? Vogliamo aspettare di vedere gli effetti di una “epidemia” di contaminati dalle radiazioni dell’uranio impoverito tra i civili ucraini e i soldati di entrambi i fronti o vogliamo fare la nostra parte oggi per prevenire questa ulteriore strage?

L’editoriale è tratto da Left del 17 giugno 2022 

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Uranio impoverito e torio, la guerra in Ucraina è cancerogena

Il segretario generale dell’Interpol Jurgen Stock ha detto di recente che l’abnorme quantità di armi che circola in Ucraina sta già diventando oggetto di un traffico criminale e mafioso. «I criminali si stanno concentrando già adesso su queste armi. Anche le armi usate dai militari, le armi pesanti, saranno disponibili sul mercato criminale. I criminali di cui sto parlando operano a livello globale, quindi queste armi verranno scambiate tra i continenti» ha detto Stock senza mezzi termini.

Tutto ciò che è trasportabile diventerà potenziale oggetto di traffico in Europa ed oltre. Non solo fucili e pistole ma varie armi da guerra, compresi missili portatili anti aereo e anti carro. La notizia non sembra avere scalfito minimamente la fede nel riarmo ucraino del presidente del Consiglio Draghi e di quasi tutto il Parlamento. Il fatto che l’Ucraina stia diventando il centro di un traffico internazionale di armi viene definito dalla realpolitik come un “effetto collaterale”. Ma questo effetto collaterale potrebbe non essere l’unico.

Tra le armi partite dagli arsenali di parecchi Paesi della Nato verso l’Ucraina (e che potremmo ritrovarci nelle nostre strade) ci sono anche i missili anti carro portatili Milan, di produzione franco-tedesca. I vecchi modelli di questi missili, oggetto dei trasferimenti in questione, hanno un sistema di puntamento che contiene e rilascia torio, un metallo pesante altamente radioattivo.

Nei poligoni Nato di Capo Teulada e Quirra, in Sardegna, ne sono stati sparati a migliaia con conseguenze devastanti per ambiente e salute. Proprio al Tribunale di Cagliari, lo scorso 10 giugno, è iniziato il processo per disastro ambientale dell’area di Capo Teulada che vede imputati i generali Valotto, Graziano (già “promosso” alla presidenza di Fincantieri), Errico, Rossi e Santroni.

Risulta che i missili in questione siano stati inviati in Ucraina non solo dalla Francia ma anche dall’Italia. Mentre in Francia Macron lo ha dichiarato ufficialmente, in Italia il governo Draghi segue la…

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A Gaza un’intera generazione in trappola, da 15 anni

A Palestinians girls walk in the street during cold weather in a slum in Gaza City, Thursday, Jan. 27, 2022. (AP Photo/Hatem Moussa)

A 15 anni dall’inizio del blocco israeliano su Gaza, ancora 2,1 milioni di persone vivono recluse, in quella che di fatto è una prigione a cielo aperto. Un’intera generazione di giovani palestinesi, oltre 800mila, hanno trascorso la loro intera vita in questa situazione, senza conoscere nient’altro.

È la denuncia lanciata da Oxfam alla vigilia del quindicesimo anniversario dall’inizio delle restrizioni imposte sulla Striscia, di fronte ad una situazione di cui non si intravede nessuna soluzione negoziata tra le parti, nonostante gli sforzi umanitari sostenuti dalla comunità internazionale e dalle Nazioni Unite, che fino ad oggi hanno stanziato 5,7 miliardi di dollari in aiuti.

«Siamo di fronte ad una crisi divenuta cronica, che costringe organizzazioni come Oxfam,  da anni operativa sul campo, a lavorare per garantire la mera sopravvivenza di una popolazione sfinita, eppure straordinariamente resistente  – ha detto Paolo Pezzati, policy advisor di Oxfam per le emergenze umanitarie – In questo momento 7 persone su 10 a Gaza dipendono dagli aiuti umanitari per far fronte ai bisogni essenziali di ogni giorno. Il controllo di Israele sulla Striscia è pressoché totale e si spinge a livelli paradossali e punitivi nei confronti della popolazione. Pensiamo alle regole sull’esportazione di pomodori, che di fatto impediscono ai produttori di vendere ciò che hanno coltivato. Rivolgiamo un appello al Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, affinché una revoca immediata del blocco su Gaza divenga prioritaria nell’agenda internazionale».

«Molte restrizioni israeliane hanno ragioni politiche, non certo di sicurezza. Le famiglie palestinesi di Gaza subiscono collettivamente una punizione illegale – ha aggiunto Pezzati – Israele impedisce l’esportazione di pasta di datteri, biscotti e patatine fritte, ha interdetto l’uso del 3G e del 4G sui cellullari, non c’è PayPal. Certamente questo non è un Paese per giovani».

Non sarebbe ora di consegnare alla storia questi 15 anni di blocco? Ora che sono diventati tutti esperti di invasi e di invasori non è il momento di volgere lo sguardo anche qui?

Buon giovedì.

La truffa della 194 inapplicata

©Lapresse 14/05/2008 Genova,italia Cronaca Protesta aborto davanti all'ospedale galliera protesta di alcune associazioni e dei centri sociali per le parole del papa contro l'aborto e per la culla per la vita messa al galliera Nella Foto:la protesta

L’ultima relazione al Parlamento sullo stato di applicazione della legge 194 è stata pubblicata nel settembre 2021 e riporta i dati definitivi relativi agli aborti volontari eseguiti ben due anni prima, nel 2019, nonché i dati provvisori relativi al 2020. Come nelle precedenti edizioni, una parte della relazione è dedicata all’ormai solita litania nella quale si ribadisce che, nonostante le percentuali altissime, l’obiezione di coscienza non è un problema, se non in alcune aree ristrette del Paese, e che il carico di lavoro che ciascun ginecologo non obiettore deve sopportare è in ogni caso assai modesto. Basandosi su calcoli che dovrebbero risultare convincenti, nella relazione ministeriale si sostiene che in media ogni ginecologo non obiettore dovrebbe eseguire 1,1 Ivg (Interruzione volontaria di gravidanza) a settimana, il che certamente non è una gran fatica; solo in alcune regioni questo valore risulterebbe significativamente più alto, come nel caso delle 17,7 Ivg a settimana della Sicilia.

Da operatori abbiamo sempre ritenuto inaccettabilmente offensiva un’impostazione basata sull’idea che il lavoro di chi si occupa di aborto volontario sia valutabile attraverso la contabilizzazione del numero degli interventi eseguiti, che invece sono (e a volte non sono, perché in alcuni casi le donne decidono poi di portare avanti la gravidanza) solamente la conclusione di un lavoro molto più complesso ed impegnativo. Lasciando da parte il fastidio per la ostilità manifesta verso chi applica una legge dello stato, spesso sobbarcandosi costi professionali ed umani non indifferenti, abbiamo sempre avuto, da operatori, la sensazione che questa semplificazione ragionieristica non corrispondesse esattamente alla realtà con la quale ci confrontiamo quotidianamente. Prendendo ad esempio i dati del Lazio, sappiamo che ogni operatore esegue tra i 15 e i 20 aborti a settimana; dunque, per far tornare i conti, ci dovranno essere moltissimi che non li fanno.

Che la relazione ministeriale ci restituisca una fotografia assai sfocata della situazione italiana ce lo conferma il libro “Mai dati. Dati aperti (sulla 194). Perché sono nostri e perché ci servono per scegliere”, scritto a quattro mani da Chiara Lalli, docente di storia della medicina e giornalista, e Sonia Montegiove, giornalista e informatica. Inviando richieste di accesso civico generalizzato a circa 200 strutture sanitarie, le autrici ci dimostrano la sostanziale inutilità di una relazione basata su dati aggregati, chiusi, non aggiornati. Dalle informazioni ufficiali, seppur parziali, inviate loro, emerge un’altra realtà, nella quale, ad esempio, non tutti i ginecologi non obiettori si occupano di interruzioni di gravidanza, vuoi perché lavorano in ospedali nei quali non esiste un centro IVG, vuoi perché sono impegnati in altri servizi e non fanno aborti, ecc. In questo senso è illuminante il caso dell’Ospedale Sant’Eugenio di Roma, dove solo due dei dieci ginecologi non obiettori censiti si occupano di IVG.

Il libro di Lalli e Montegiove, dunque, analizzando i dati e le risposte ricevute da un certo numero di strutture sanitarie (non sono tutte, non è un campione, ma certamente ci fa capire molto) ci mostra i problemi nella loro dimensione reale, che è quella che ci serve se vogliamo capire, e se vogliamo individuare le criticità per cercare di risolverle o comunque di minimizzarle.

Con la pandemia la consapevolezza dell’importanza dei dati aperti e aggiornati è certamente aumentata. Nella relazione sullo stato di applicazione della legge 194, nonostante il Ministero della Salute avesse sottolineato che le IVG sono urgenze indifferibili, i dati preliminari relativi al 2020 riportano che, per l’emergenza sanitaria, alcune strutture hanno deciso in autonomia di ridurre il numero di interventi, o di sospendere le procedure farmacologiche o chirurgiche o addirittura di sospendere il servizio IVG. Quali sono queste strutture? Impossibile capirlo attingendo al calderone dei dati aggregati, ormai vecchi, vecchissimi. Cosa è successo alle donne che non hanno avuto risposta alle loro richieste, in un periodo nel quale gli spostamenti tra le regioni erano difficilissimi?

“Mai dati. Dati aperti (sulla 194). Perché sono nostri e perché ci servono per scegliere” non è un libro sull’obiezione di coscienza, ma da quella prende le mosse per dimostrare quello che non può emergere se non in maniera sfumata ed edulcorata dai dati chiusi e aggregati per macroaree. Dire che il 67% dei ginecologi italiani è obiettore può tener vive le polemiche ma non serve alle donne che hanno il diritto di essere informate per poter scegliere; l’obiezione di coscienza di per sé può non essere un problema, ma certamente lo diventa quando le amministrazioni regionali non applicano la legge. Disporre di dati aperti ci permette di individuare le aree nelle quali l’accesso alla IVG è ostacolato, se non addirittura negato, e di inchiodare gli amministratori alle responsabilità che la legge 194 attribuisce loro, in termini di erogazione dei servizi, in termini di organizzazione, in termini di formazione e aggiornamento del personale.

Partendo dai dati e dalle osservazioni che le autrici hanno preliminarmente comunicato al suo congresso nazionale, l’associazione Luca Coscioni per la Libertà di ricerca scientifica ha inviato una lettera aperta al Ministro della Salute e alla Ministra della Giustizia, nella quale si chiede che i due dicasteri, attraverso la valutazione di dati aperti e aggiornati, verifichino nella realtà lo stato di applicazione della legge 194, e che alcuni finanziamenti previsti per le regioni siano subordinati alla reale applicazione della legge (https://associazionelucacoscioni.it/wp-content/uploads/2022/05/Lettera-aperta-al-Ministro-della-salute-Roberto-Speranza-1.docx.pdf ).

Se, all’indomani del 44mo compleanno della 194, vogliamo assicurare a tutte le donne l’accesso all’aborto, la possibilità di scegliere la procedura, i migliori standards clinici, minimizzando le diseguaglianze tra le regioni, dobbiamo rompere l’inerzia del riferire passivamente i dati complessivi, dobbiamo scoprire le inadempienze, dobbiamo agire su di esse. E forse, dopo 44 anni, i dati aperti possono aiutarci a capire anche che vi sono parti della legge che andrebbero modificate, per garantire realmente a tutte il diritto alla salute.

29.5.2022

Anna Pompili, ginecologa, membro del Consiglio Generale Ass. Luca Coscioni, cofondatrice di AMICA (Ass. Medici Italiani contraccezione e aborto)

 

 

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Egregi G7, così potreste salvare l’Africa dalla fame

20 May 2022, Berlin: German Chancellor Olaf Scholz (SPD - M), receives the demands to the G7 from Carolina Claus and Benjamin G'nther, the co-chairs of the G7 Youth Summit. The delegates of the Y7 Summit from the member states and the guest delegations developed their political demands to the G7 on current issues and gave them to Chancellor Scholz to take to the meeting in Elmau. Photo by: Michael Kappeler/picture-alliance/dpa/AP Images

Le attuali crisi stanno producendo effetti molto severi sulla sicurezza alimentare, tema che interessa numerose zone del mondo, ma che si manifesta soprattutto nei Paesi africani. L’accesso sicuro al cibo è un bisogno fondamentale per la sopravvivenza delle persone e precondizione per sfruttare al meglio le opportunità della loro vita. Le crisi convergenti del cambiamento climatico, dei conflitti e della pandemia, con conseguenti crisi economiche e alimentari hanno effetti devastanti sulla salute delle persone, soprattutto di quelle che vivono nelle aree più vulnerabili. Il numero di persone che soffrono la fame estrema in Kenya, Somalia ed Etiopia è più che raddoppiato rispetto all’anno scorso, passando da 10 milioni agli attuali 23 milioni. Il gruppo dei delegati Youth7 ha avuto la fortuna di vedere la partecipazione di rappresentanti di Paesi e organizzazioni diversi dai soli membri del G7, in particolare l’Ue, il Senegal, l’Indonesia, il Sudafrica e l’Ucraina. In vista del vertice del G7, i giovani rappresentanti hanno colto l’occasione per discutere di soluzioni immediate e strutturali alla crisi alimentare globale.

La guerra in…

(In collaborazione con Alessio Laconi)

 

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Il Wto alla prova dei prezzi

FILE - Farmers harvest with their combines in a wheat field near the village Tbilisskaya, Russia, July 21, 2021. The Organization for Economic Cooperation and Development is warning that Russia's war in Ukraine will disrupt commerce and clog up supply chains, slashing economic growth and pushing prices sharply higher around the globe. In a grim assessment out Thursday, March 17, 2022, the 38-country OECD said that over the next year the conflict would reduce the broadest measure of economic output by 1.08% worldwide. (AP Photo/Vitaly Timkiv, File)

Nel 2030, anno entro cui la comunità internazionale aveva promesso di sconfiggere la fame, le persone che non potranno mangiare tutti i giorni potrebbero superare gli 840 milioni. Nel 2021 193 milioni di persone sono rimaste stabilmente senza cibo, 40 milioni in più del 2020, 85 milioni in più rispetto a solo 5 anni prima. Produciamo, però, abbastanza cibo per tutti, se solo se lo potessero permettere: secondo il Rapporto globale 2022 sulle crisi alimentari, redatto da una ventina di agenzie internazionali sotto la regia dell’Onu, sono stati gli shock economici mal governati negli ultimi anni ad aver tolto il cibo dalla bocca a oltre 139 milioni di persone, che si sono aggiunte ad altri 30 milioni di affamati da condizioni climatiche estreme, e ad altri 23 milioni e mezzo ridotti al digiuno dalle guerre o dall’insicurezza dei propri territori. Tutte vittime dell’incapacità della politica di regolare i mercati per garantire loro il diritto fondamentale di rimanere in vita.

Il cibo c’è ma i prezzi aumentano lo stesso
«Non abbiamo un problema di disponibilità: il cibo c’è. Ogni anno il mondo produce circa 780 milioni di tonnellate di grano, e quest’anno ne mancano appena 3 milioni». Eppure il suo prezzo internazionale è cresciuto del 61% tra gennaio e marzo 2022. Luca Russo, analista senior sulle Crisi alimentari della Fao, ha chiarito in un’intervista a Al Jazeera che «la crisi alimentare in corso non è nuova: è esplosa in 20-30 Paesi negli ultimi 6 anni».

Nonostante la…

 

* L’autrice: Monica Di Sisto è giornalista e vicepresidente di Fairwatch, osservatorio italiano su clima e commercio.

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Giorgia Meloni ovvero la normalizzazione dei reazionari

Giorgia Meloni vola in Andalusia per sostenere la candidata di Vox. Impugna il microfono e comincia a strillare: «Non ci sono mediazioni possibili, o si dice sì o si dice no. Sì alla famiglia naturale, no alla lobby Lgbt, sì alla identità sessuale, no alla ideologia di genere, sì alla cultura della vita, no a quella della morte». Poi continua a modo suo: «Sì all’universalità della croce, no alla violenza islamista. Sì ai confini sicuri e no all’immigrazione di massa. Sì al lavoro dei nostri cittadini, no alla grande finanza internazionale. Sì alla sovranità del popolo, no ai burocrati di Bruxelles. Sì alla nostra civiltà e no a coloro che vogliono distruggerla».

Il pubblico bela qualche olé a tempo, una televendita dal vivo solo che al posto delle pentole e la bicicletta in omaggio qui si celebrano i “patrioti d’Europa”. Scandalo dalle nostre parti. È comprensibile, a forza di normalizzare Giorgia Meloni per inginocchiarsi al prossimo probabile potentato d’Italia molte penne italiane ce l’hanno rivenduta come una simpatica canaglia che sembra cattiva ma in fondo non è pericolosa.

Giorgia Meloni è pericolosa, eccome. Nelle sue parole, nel suo programma, tra le sue idee si trovano pericolosi ritorni. Ha ragione Lia Quartapelle (Pd) quando dice che «nel deserto che sta diventando la destra, la Meloni sembra quella con le idee chiare, quella meno peggio degli altri. Ma la realtà è che, sotto sotto, lei è sempre la stessa cosa: parole d’ordine fasciste e un passato che non è mai passato». Quartapelle prosegue: «Quando la Meloni parla di lobby Lgbtq, di trame della finanza, di famiglia naturale come se ci fossero famiglie innaturali, quando definisce “l’abisso della morte” i legittimi diritti delle donne ad abortire, sta usando le parole d’ordine della destra estrema. Inoltre, si rifà a una politica dell’identità come se ci fosse un attacco alla tradizione. Ma io di attacchi non ne vedo da nessuna parte. La politica dell’identità si fa quando non sai cosa fare sulle politiche sociali o del lavoro».

Giorgia Meloni se l’è presa per le parole dell’esponente Pd. Sapete cosa ha negato? Di aver preso soldi dalla Russia. Sul resto, evidentemente è d’accordo, se non fiera. Se poi Meloni riuscirà a prendersi in mano il Paese e mostrerà i suoi lati neri vedrete che gli stessi che oggi contribuiscono alla sua potabilità lanceranno l’allarme.

Che danni procura il giornalismo al servizio del potente. Che Paese sempre pronto allo sbando è quello in cui il potere è una virtù.

Buon mercoledì.

In Francia ha vinto Mélenchon

Hard-left figure Jean-Luc Melenchon arrives to vote in the first round of the parliamentary election, Sunday, June 12, 2022 in Marseille, southern France. French voters are choosing lawmakers in a parliamentary election as President Emmanuel Macron seeks to secure his majority while under growing threat from a leftist coalition. (AP Photo/Daniel Cole)

La Nuova unione popolare ecologista e sociale guidata da Mélenchon è la vera vincitrice del primo turno delle elezioni francesi. Ha ottenuto gli stessi voti di Macron (il 25,7%) e ha distanziato di 8 punti Marine Le Pen. Il risultato è straordinario e se dalle nostre parti ci fosse anche solo una goccia di sinistra nel sedicente partito di centrosinistra ieri avremmo dovuto assistere almeno a qualche timido assaggio. Dal Pd invece si scorge addirittura una certa preoccupazione. È comprensibile: Mélenchon è la dimostrazione plastica che qualsiasi timidezza nell’attuare pratiche realmente di sinistra non sia una “mediazione” ma sia una calcolata ricerca del compromesso.

Mélenchon ha costruito uno schieramento che non si limita a proclamarsi di sinistra ma si oppone nettamente anche al liberismo fintamente progressista. È andato oltre all’idea di “partito” tenendo insieme movimenti, sindacati, malesseri organizzati e organizzazioni. Ha interpretato i conflitti, piuttosto che negarli, facendosene carico anche nel renderli pubblici parlandone ovunque. Non si è messo in testa una fantomatica “unità della sinistra” che avrebbe inglobato storie inconciliabili con i valori di cui si fa portatore: è fiero della propria radicalità. Una parola che da noi suona come una bestemmia.

Quello che qui in Italia qualche penna definisce «exploit del populismo gauchiste di Mélenchon» (che teneri i nostri editorialisti spaventati da chi smodatamente vorrebbe rovesciare i soliti poteri) è semplicemente un programma che non consente smussature. Potrebbe funzionare qui? Resta ovviamente tutta da vedere la declinazione italiana di un’esperienza politica francese. Siamo fin troppo abituati al giochetto deludente del papa straniero. Ma come osserva Nicola Fratoianni la scelta di Mélenchon «ha consentito alla sinistra e agli ambientalisti francesi di bucare il tetto di cristallo del voto utile, che li aveva sempre penalizzati in precedenza». Se leggete il programma elettorale di Mélenchon vi accorgerete che esiste una visione del mondo che non rimane imbucata nella cassetta degli idealisti e ottiene enorme consenso popolare. Ognuno tiri le somme.

Buon martedì.

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Maurizio Martina: Il dovere di sfamare il mondo

16 October 2015, Milan, Italy - Maurizio Martina, Minister of Agriculture, Food and Forestry Policies of Italy delivering his speech during World Food Day Ceremony at Expo Milan. Photo credit must be given: ©FAO/Giuseppe Carotenuto. Editorial use only. Copyright ©FAO

«Secondo il Global report on food crises, pubblicato il 4 maggio, nel 2021, circa 40 milioni di persone in più hanno sofferto di insicurezza alimentare acuta rispetto al 2020, portando il totale a 193 milioni di persone in 53 Paesi e territori». Maurizio Martina, vice direttore generale della Fao (l’organizzazione Onu per l’alimentazione e l’agricoltura) ed ex ministro delle Politiche agricole, esordisce così, con i numeri allarmanti del rapporto pubblicato dall’alleanza internazionale di cui fanno parte Ue, Fao e Wfp. E la situazione nel 2022 desta ancora più preoccupazioni, soprattutto in quei Paesi «che già sperimentano situazioni catastrofiche rispetto alla fame e alla malnutrizione come Yemen, Somalia, Sud Sudan e Afghanistan». Di fronte alla crisi alimentare causata dalla guerra in Ucraina che si è innestata in un sistema però già fragile, abbiamo chiesto a Martina di fare il punto sull’emergenza attuale ma anche di delineare soluzioni a medio-lungo termine per garantire quella sicurezza alimentare in tutti i Paesi del mondo che, ricordiamo, è uno dei 17 obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu.

Quali soluzioni politiche possono essere messe in atto per superare nell’immediato la chiusura dei porti e l’impossibilità per gli agricoltori ucraini di procedere ai raccolti?
In questi giorni si sta tentando di trovare mezzi alternativi alle navi, con tentativi via camion, treni e fiumi, ma sono soluzioni insufficienti. Rimane quindi fondamentale trovare una chiave politico-diplomatica per negoziare lo sblocco dell’esportazione delle circa 20 tonnellate di cereali presenti nei silos ucraini. Le negoziazioni devono concentrarsi sul trovare criteri di sicurezza per il trasporto via mare lasciando partire le navi dal porto di Odessa.

In questa situazione qual è il ruolo della Fao?
La Fao sostiene le…

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Nessuna mela al giorno

23 September 2021, Saxony-Anhalt, Stendal: Employees of the Stallbaum fruit farm harvest apples of the Elstar variety. With the beginning of autumn, the apple harvest is slowly coming to an end. The last apples are expected to be harvested from the plantations in mid-October. The season was good, according to the operators of the Stendal barn shop, which is part of the fruit farm. The rain in spring had allowed the fruit to thrive. Until the end of the harvest, about 150 tons will be harvested on the orchards of the fruit farm. Photo by: Klaus-Dietmar Gabbert/picture-alliance/dpa/AP Images

Siamo oramai abituati a vivere in un mondo in cui pressoché ogni cosa può essere sottoposta a proprietà privata per trarne un guadagno. Anche quando quella cosa, se fosse liberamente utilizzabile da tutti, potrebbe salvare numerose vite umane. Ne abbiamo avuto una tragica conferma durante la pandemia, con India, Sudafrica e un centinaio di altri Paesi a chiedere al resto del mondo la sospensione dei brevetti su vaccini e cure anti Covid che ne rallentavano tragicamente la produzione e la distribuzione (richiesta peraltro mai accettata dall’Organizzazione mondiale del commercio). Ma questo non è l’unico episodio concreto e attuale in cui l’uso di brevetti alimenta e aggrava una crisi mondiale. Se guardiamo al climate change e all’insicurezza alimentare – un fenomeno già grave, ora acuito dalla guerra in Ucraina – incontriamo un altro tipo di licenze proprietarie che aggravano questi drammi, di cui poco si parla. È anche a causa di questi brevetti se intere produzioni agricole rischiano di saltare senza essere rimpiazzate a causa del surriscaldamento globale o di nuovi patogeni, oppure se il mondo contadino è sempre più impoverito a tutto vantaggio dei grandi colossi dell’agroindustria, e a tutto svantaggio dei cittadini, specie dei Paesi più poveri. Stiamo parlando dei brevetti sulle piante e sui semi. Uno strumento nato un centinaio di anni fa, che ha del tutto ridisegnato il paradigma produttivo nel mondo agricolo e agroalimentare. E ci ha accompagnato fino all’odierna realtà, in cui “club” gestiti da potenti aziende di breeding – impegnate cioè nella selezione genetica delle piante – decidono chi può coltivare una determinata varietà, di fatto dominando la filiera dell’ortofrutta. Proprio a questo tema è dedicato Chi possiede i frutti della terra (Laterza), nuova opera di Fabio Ciconte, direttore della associazione ambientalista Terra! e autore di diverse inchieste giornalistiche e pubblicazioni su filiere agroalimentari, caporalato e climate change.

Il saggio, nelle sue prime pagine, ci teletrasporta negli Stati Uniti di inizio Novecento, una realtà fatta di imprenditori agricoli e agronomi pionieri, e di vicende che spiazzano chi le legge per la prima volta. Come quella che parte da una scatola con una dozzina di mele, recapitata ad uno dei più grandi vivai degli Usa, la Stark bro’s nurseries. All’azienda ogni anno arrivano mele da tutto il Paese, inviate dai contadini per partecipare al tradizionale concorso dei vivai Stark per la frutta migliore. Quando le assaggia, Paul Stark non ha dubbi. Deve…

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