Home Blog Pagina 301

Gli infiniti mondi di Joyce

Tra i massimi traduttori delle opere di Joyce in italiano e ordinario di letteratura inglese all’Università per Stranieri di Perugia, Enrico Terrinoni ha scritto un bruciante libro su Joyce a Roma: Su tutti i vivi e i morti (Feltrinelli). Non è una biografia, non è un saggio, non è un romanzo, ma un’opera originale, appassionata e appassionante, che nasce dalla fusione di generi diversi. Squisitamente joyciana questa piccola «opera mondo» si è già guadagnata il Premio De Sanctis ed è entrata nella terna del Premio Viareggio. Ne abbiamo parlato con l’autore.

Enrico Terrinoni, come si appresta a festeggiare il Bloomsday del 16 giugno 2022, anno del centenario dell’Ulisse di Joyce?
Sarò a Dublino a presentare un libro che ho curato assieme a Declan Kiberd e Catherine Wilsdon dal titolo The book about everything. L’Ulisse di Joyce è infatti un libro che riguarda ogni aspetto della vita, da quelli visibili a quelli invisibili, il pensiero, il sogno. E che ci riguarda tutti. È un libro in cui possiamo sempre ritrovarci, ma anche perderci. Per questo abbiamo deciso di mettere insieme un gruppo di diciotto scrittori, intellettuali, artisti e anche professionisti – uno chef, un’ostetrica… – nomi non necessariamente associati a quello di Joyce, assegnando a ognuno un episodio del libro da rileggere. Da loro abbiamo ricevuto una serie di letture interessantissime, provocatorie, eretiche, molto sui generis proprio perché non provengono da joyciani di professione ma da lettori che hanno la voglia e il coraggio di cimentarsi ancora con questo mostro sacro della letteratura. Tra gli autori Jhumpa Lahiri, Joseph O’Connor, Tim Parks, Edoardo Camurri, e poi il grande filosofo Richard Kearney, il brillante economista David McWilliams e tanti altri amici. Festeggeremo il Bloomsday così, cercando di restituire l’Ulisse alla gente, a quei lettori eterogenei per cui Joyce l’ha scritto, strappandolo se vogliamo alle mani esclusive ed esclusiviste degli esperti.

Anche quest’anno è difficile pensare questa data senza Giulio Giorello, filosofo laico, amante dell’Irlanda. Un suo ricordo del vostro incontro

A Giulio ho dedicato la mia ultima traduzione bilingue di Ulisse. Era un uomo straordinariamente generoso, soprattutto con i giovani. Un pensatore libero, curioso, affascinato dalla sfida di sondare strade pericolose. La prima volta che ci vedemmo fu a Firenze, per presentare il mio primo Ulisse assieme a Riccardo Michelucci. Ne aveva parlato bene proprio su Left e diventammo subito amici. Poi abbiamo fatto tanti viaggi e conferenze in Italia e in Irlanda. Proprio con lui e Riccardo avremmo dovuto presentare gli scritti di Bobby Sands al Salone di Torino, e per questo lo chiamammo da Dublino il giorno delle elezioni del febbraio 2019. Ci disse che era entusiasta di venire. Per lui Bobby era il simbolo più autentico della libertà e del coraggio. Fu l’ultima volta che lo sentii. Ci manca immensamente.

In questa sua biografia letteraria di Joyce a Roma lei tratteggia anche alcuni aspetti dei suoi esordi. Quanto contò l’incontro con Yeats e poi con Pound? Si emancipò da loro?

Possiamo certamente affermare che senza di loro non avremmo oggi il Joyce che conosciamo. Fu Yeats a credere in Joyce e a convincere il grandissimo Pound a puntare su di lui. Malgrado l’aneddotica del primo incontro e qualche giudizio iniziale giovanile possa non dare questa impressione, per Yeats Joyce nutrì grande stima sempre. Anche negli ultimi anni, era in grado di recitare per ore le sue poesie. Per Pound rimase l’amicizia nonostante la sua deriva fascistoide che Joyce prese in giro a più riprese e che non poteva condividere. Non credo tuttavia che né Yeats né Pound ebbero un’influenza sostanziale su Joyce dal punto di vista stilistico o letterario. Lo aiutarono a inserirsi nel panorama internazionale delle lettere e a condurre battaglie rilevanti. Yeats ebbe, per il primissimo Joyce, una qualche importanza per via del comune interesse per l’esoterismo; e di certo l’afflato celticheggiante del Finnegans wake deve molto anche alle ricerche e alle scoperte di Yeats. Di Pound invece non risulta che ammirasse più di tanto la poesia. Ne ammirava la capacità manageriale e il genio editoriale.

Joyce fu sempre in esilio. E al contempo dall’Irlanda non si separò mai con la mente. Mai con il cuore. Come lei scrive in Su tutti i  vivi e i morti. Quella lontananza – vicinanza fu il motore della sua opera?

Ci avviciniamo sempre a quello che ci spaventa, altrimenti non avrebbero tutto questo successo i film horror. Joyce lasciò l’Irlanda per via di due forze che ne minavano la libertà e lo sviluppo morale, intellettuale e politico: l’impero britannico (o «brutannico», come dice lui) e la Chiesa cattolica romana. Se abbandonò l’Irlanda fu per sfuggire ai tentacoli di queste forze, non perché non si sentisse irlandese o perché odiasse il suo Paese. Al contrario, con la propria opera voleva far aprire gli occhi innanzitutto al suo popolo, e poi, in seconda battuta, a tutti noi. L’esilio è un tratto caratteristico di tanti scrittori irlandesi, pensiamo a Beckett o al grande Brendan Behan che disse «L’Irlanda è un gran bel posto… da cui ricevere una cartolina». A volte la lontananza serve a tenere acceso un fuoco, a mantenere in vita una scintilla capace di incendiare. Tanti grandi rivoluzionari vissero in esilio, e forse possiamo considerare la condizione dell’esule affine a quella del rivoluzionario. Per vedere meglio, a volte bisogna allontanarsi un po’ dall’oggetto che si osserva. La vicinanza deforma, anche se, come ci spiegano i fisici della materia, consente di vedere le dinamiche microscopiche. Ma poi, alla fin fine, è con quelle macroscopiche che dobbiamo fare i conti. 

Perché prima del suo libro la vicenda di Joyce a Roma era rimasta un “buco nero degli studi”?

Roma è un luogo “strano”. Così ne parla negli appunti del suo unico dramma Exiles – che può significare “esuli”, “esiliati” o persino “esilii”. Strano perché riproduce l’abbraccio di quelle due forze da cui era fuggito, una monarchia al comando e la Chiesa di Roma. Più che un buco nero degli studi su Joyce – perché di libri e articoli accademici di grande rilievo ce ne sono eccome – direi che fino ad ora Roma non era stata messa al centro dell’esistenza e degli sviluppi della carriera di Joyce per un pubblico non specialistico. E invece ha un posto centrale, perché è a Roma che Joyce ha l’idea di scrivere qualcosa dal titolo Ulysses, a Roma nasce nella sua mente The Dead, Roma è il luogo dell’esilio della coppia autobiografica protagonista di Exiles che abbandona Dublino, a Roma abbiamo le prove di una maturazione di una coscienza politica di stampo socialista, e così via. In virtù di certi suoi giudizi spietati sulla capitale, si è voluto dare l’impressione che Roma non fosse centrale per Joyce, ma non è così, come dimostra una meravigliosa parola inventata del Finnegans wake, “Jeromesolem”, che fonde insieme Gerusalemme, Roma, san Girolamo e forse persino Salem con i suoi ricordi di streghe condannate a morte. Insomma, Roma fu per Joyce un luogo del trauma, ma non è detto che non sia il fulcro della sua esperienza letteraria.

Joyce arrivò nella Capitale solo per trovare un lavoro bancario che gli consentisse di vivere più decentemente o anche per una ricerca più personale sulle orme di Giordano Bruno e del suo universo infinito?

Entrambe le cose. Come sempre, nel suo caso, motivazioni pratiche si mescolano a intenzioni profonde. Bruno era presente nel suo immaginario già da molto tempo prima. Nel 1903 Joyce recensì puntualmente uno studio su Bruno che ha una importante sezione biografica, e il Nolano è già citato in Stephen Hero, l’opera che è alla base di Un ritratto dell’artista da giovane, ossia il Dedalus. Bruno sarà poi sempre più presente in Ulisse e nel Wake. Da Bruno, Joyce trae l’idea che viviamo in un mondo umbratile, dai contorni sfumati, e che vivere nella luce ci accecherebbe. Da lui prende il coraggio e l’audacia di sfidare tutto e tutti. Fu Bruno, a mio avviso, a insegnare a Joyce che da un universo infinito non può che procedere l’idea di una mente infinita, «immarginabile» come si legge nel Wake, e dunque di un linguaggio anch’esso infinito, perché la nostra mente è strutturata linguisticamente. Poi, Joyce ventiquattrenne andò a vivere a due passi dall’ultima prigione di Bruno a Tor di Nona. Una coincidenza strabiliante. Mi ricorda quando, a vent’anni, mi trasferii a Dublino e presi casa a due passi da dove era nato e cresciuto il mio scrittore preferito, Brendan Behan.

L’educazione cattolica ebbe un enorme peso su di lui ma cercò una emancipazione dall’obbedienza alla Chiesa. Si liberò anche del pensiero religioso?

Joyce si allontana dalla Chiesa, ma non dalla religiosità intesa in quanto campo di azione della spiritualità. Sappiamo che era estremamente superstizioso, e questo è un aspetto della trasformazione di quel suo esser stato profondamente religioso. Continuano a interessarlo sia i dibattiti teologici sia la ritualità, ma ovviamente l’astio nei confronti dell’istituzione fa sì che le strutture religiose rimangano, nella sua mente, appunto delle strutture, delle impalcature. Fondamentali per la sua scrittura, ma svuotate da una qualunque fede. I suoi testi, soprattutto quelli della maturità, sono a loro modo dei testi “sacri” e misterici. Non sono letteratura nel senso stretto del termine. Puntano continuamente a rivelare “ri-velando”. A Joyce non interessa una didattica spicciola, non interessa dare istruzioni su come vivere o intrattenere, o farsi dire bravo. Lui mira a renderci individui emancipati, consapevoli della propria libertà, padroni delle nostre scelte.

Dalle lettere di Joyce al fratello Stanislaus rimasto a Trieste dopo il trasferimento dello scrittore a Roma in qualche modo sembra di vedere la trama del rapporto “complesso” fra Vincent van Gogh e suo fratello Theo. Che ne pensa?

È un parallelo interessante, perché entrambi credettero ciecamente nei rispettivi fratelli geniali. Ma Theo fu sconvolto dalla morte di Vincent mentre Stannie lo fu dal cambio di rotta di Joyce, quando abbandonò la strada dell’iperrealismo di Ulisse per inoltrarsi nelle selve dell’inconscio sognante e “incubista” del Wake. Stannie rifiutò, per poi pentirsene, la copia del Finnegans che James si offrì di fargli avere. Poi morì nella notte tra il 15 e il 16 di giugno del 1955, ossia a Bloomsday. Senza Stanislaus, Joyce non avrebbe vissuto come ha vissuto nei primi anni difficili a Trieste e a Roma. Mi piace però ricordare un altro rapporto simile tra fratelli, quello tra Elio ed Ettore Schmitz (Italo Svevo). Anche Elio come Stannie annotava in un taccuino “le gesta” del fratello maggiore per il quale aveva un affetto assoluto – e ricambiato.

Come legge il rapporto di Joyce con Nora?

Nora è la musa ispiratrice di Joyce. Non solo lo accompagna, lo segue, lo sorregge, ma lo rimprovera, lo insulta, lo rimette al suo posto. Da lei Joyce importa nella sua scrittura un immaginario legato all’Irlanda dell’ovest, quella più a contatto con la cultura gaelica. Da lei trae l’ispirazione per la scrittura del cosiddetto flusso di coscienza, senza punti o virgole. Molly Bloom è in gran parte Nora Barnacle. È Nora a suggerire a Joyce, a mio avviso, che ogni uomo ha in sé una parte femminile, proprio come ogni donna conserva aspetti maschili. Questa verità lapalissiana, che la psicologia ha scandagliato, ancora fatica ad essere accettata da chi è ossessionato dall’idea di un’identità fissa e marmorea dell’umano. Joyce, grazie a Nora, ci dice che “identità” è una parola falsa, perché parla di differenza e non di essere identici ad alcunché.

A Trieste nacque sua figlia Lucia, concepita a Roma tra il 1906 e il 1907. Lui che aveva drammatici problemi di vista, scelse religiosamente questo nome. Che rapporto ebbe con questa figlia che si ammalò di schizofrenia?

Lucia è anche il personaggio di un romanzo di Svevo che Joyce amava. Non sappiamo abbastanza di Lucia, e non c’è da fidarsi troppo delle tante speculazioni romanzate che circolano. Joyce amava sua figlia più di ogni altra cosa, lo dimostrano i documenti e i fatti. Letteralmente, si svenò per lei, e fece di tutto per portarla con sé a Zurigo quando era confinata in una clinica nella Francia occupata. Non ci fu attimo della sua vita in cui non pensò alla figlia sfortunata e geniale. Non sappiamo neanche bene di cosa soffrisse. Anche in quel campo, in gran parte ci fidiamo di speculazioni e diagnosi sommarie. Di certo, Lucia è per Finnegans wake quel che Nora era stata per Ulysses. Per Joyce fu una musa, un pensiero costante, una guida nell’oscurità in cui avrebbe brancolato senza di lei.

Disegno di Vittorio Giacopini

L’intervista prosegue su Left del 10 giugno 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

 

</a

Chiesa e pedofilia, lo Stato inesistente

Pope Francis, left, speaks to Achbishop Matteo Maria Zuppi during his visit to Bologna, Italy, Sunday, Oct. 1, 2017. Pope Francis is in Cesena and Bologna for a one-day visit. (L'Osservatore Romano/ Pool photo via AP)

Viviamo in uno strano Paese. Sono passate due settimane dalla controversa conferenza stampa di insediamento del card. Zuppi a capo della Conferenza episcopale italiana (Cei), tutta incentrata – come era facilmente prevedibile – sull’annuncio delle strategie che la Chiesa metterà in campo per combattere, in questo nuovo corso, la diffusione della pedofilia e delle violenze “sessuali” al suo interno e non un giornale, non un talk show, non un telegiornale Rai o privato, in questo lasso di tempo, ha notato e fatto notare ai suoi lettori e ascoltatori l’assordante silenzio, l’inerzia mortale, l’indifferenza totale delle istituzioni italiane riguardo un problema che ci riguarda tutti, laici e non.

Già perché quello di cui si dovrebbe occupare la Cei – da un lato indagando, giudicando, ed eventualmente punendo i sacerdoti responsabili, dall’altro tutelando l’incolumità psicofisica e i diritti dei minori che frequentano chiese, parrocchie, oratori, campi scout e scuole cattoliche – è un crimine feroce compiuto da cittadini italiani adulti nei confronti di cittadini italiani bambini (ma tanto ci sarebbe da dire – e lo faremo presto – anche sulle violenze subite dalle donne in ambito ecclesiastico, stimate in rapporto 3 a 1 rispetto ai casi di pedofilia. Fonte: Oivd-Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne, #Italychurchtoo).

Poiché non lo dice nessuno lo diciamo noi: dov’è la politica? Dov’è la magistratura? Dov’è il garante per l’infanzia? Dove sono gli ipocriti di “e allora Bibbiano”? Dove sono le istituzioni laiche quando Zuppi il 27 maggio – durante una conferenza stampa di fronte a pochi giornalisti italiani e a decine di giornalisti stranieri – rompe con il passato, si smarca dalle reticenze dei suoi predecessori e ammette, finalmente, che all’interno della Chiesa italiana, ebbene sì, c’è un grosso problema? Lo stesso gigantesco, orrendo, inaccettabile problema che riguarda tutte le Chiese del mondo: la presenza di un numero inaccettabile di cacciatori di bambini al suo interno. Intendiamoci, queste non sono parole del card. Zuppi, men che meno l’ammissione è avvenuta in via diretta. Ma, nel momento in cui il nuovo capo dei vescovi presenta alla stampa il piano in 5 punti per prevenire le violenze sui minori e documentare quelle avvenute negli ultimi 20 anni nella Chiesa italiana, ebbene sta “ammettendo”, suo malgrado, che, in primis sa chi e dove andare a cercare e poi che fino a oggi poco o nulla è stato fatto in difesa dei bambini (e tanto, di riflesso, è stato fatto in difesa dei preti che li hanno stuprati).
Ritorna doverosa la domanda: perché indaga la Chiesa e non lo Stato? Quando accade un…

L’inchiesta prosegue su Left del 10 giugno 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

 

</a

Perché è la finanza internazionale che affama il pianeta

Esiste una narrazione ormai assai diffusa secondo cui vaste parti del mondo rischiano una durissima crisi alimentare dovuta al conflitto in Ucraina e al blocco dei porti sul Mar Nero. In realtà, la causa principale di questa grave crisi, già iniziata ben prima del conflitto, è rintracciabile nella colossale speculazione finanziaria che colpisce tutte le materie prime e le commodities. I numeri parlano chiaro in tal senso. La produzione mondiale di cereali è pari a poco meno di 2.800 milioni di tonnellate annue, di cui quasi mille sono prodotte da Cina e Stati Uniti. Le tonnellate bloccate nei porti ucraini non arrivano a 25 milioni. Dunque il tema non è la quantità di cereali ma il prezzo; la Fao stima che ogni aumento di prezzo dell’1% provoca 10 milioni in più di affamati. Negli ultimi mesi i prezzi dei cereali sono cresciuti, in media, del 60%, con conseguenze devastanti. Ma da cosa dipende questo aumento? Per oltre i 4/5 dalle scommesse al rialzo fatte dagli speculatori che comprano i derivati finanziari sul grano e puntano sull’aumento dei prezzi non per la carenza “fisica” di cereali ma in base alle aspettative di una possibile, futura diminuzione dell’offerta, alimentata ora dal conflitto ucraino. Forse sarebbe utile ricordare a riguardo che, in buona misura per effetto degli accordi in sede Wto, la principale esportatrice di grano nel mondo è, da anni, l’Unione europea, seguita da Russia, Stati Uniti, Canada e Australia; tali esportazioni, peraltro, non si indirizzano a tutto il mondo “povero”, ma ad alcune realtà, consumatrici di grano, come l’Egitto, l’Algeria, la Nigeria, nel continente africano, poi l’Indonesia, il Brasile e il Messico.

Non sono quindi le produzioni dell’Ucraina a generare la crisi alimentare, che potrebbe essere superata, in termini quantitativi, con l’intervento di Unione europea e Stati Uniti, a cui non mancano le capacità produttive, spesso inutilizzate proprio per tenere alti i prezzi che ora sono drogati dalla finanziarizzazione. Non bisogna trascurare neppure il fatto che la Russia sta continuando ad esportare cereali verso varie parti del mondo non utilizzando i porti del Mar Nero. Il vero problema è, invece, come già ricordato, l’aumento del prezzo dei cereali che è alimentato dalla speculazione finanziaria, prontissima a utilizzare proprio le notizie sulla carenza di cereali.

Se in sede Wto si decidesse di eliminare tali meccanismi, raffreddando i prezzi, e si provvedesse a rifornire le realtà ora in difficoltà, l’approvvigionamento delle zone dipendenti dai cereali sarebbe…

 

* L’autore: Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea, di Storia del movimento operaio e sindacale e di Storia sociale presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. È autore di numerose pubblicazioni e articoli sulle tematiche della storia economica e dell’economia

L’intervista prosegue su Left del 10 giugno 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

 

</a

La bambina nata in nessun luogo

Migrants and refugees sailing adrift on an overcrowded wooden boat, wait to be assisted by aid workers of the Spanish NGO Aita Mary in the Mediterranean Sea, about 114 miles (183 kms.) from Libya coast on Friday Jan. 28, 2022. (AP Photo/Pau de la Calle)

Un tribunale spagnolo ha concesso la cittadinanza a una bambina nata su una barca di migranti in viaggio verso la Spagna nel maggio 2018.

Dalla sua nascita da madre camerunese, la bambina ha vissuto solo in Spagna. Tuttavia, essere nati in (o vicino) alla Spagna, non è sufficiente per conferire la nazionalità a un bambino. Come molti altri paesi la Spagna richiede che un bambino nasca da almeno un genitore con la nazionalità spagnola, o che sia figlio di qualcuno che vive in Spagna da più di dieci anni, o che sia figlio di qualcuno che è sposato con un cittadino spagnolo,

Ma, secondo l’agenzia di stampa francese Agence France Presse (AFP), le autorità giudiziarie della provincia di Guipuzcoa nei Paesi Baschi, hanno affermato di aver preso la decisione di concedere al bambino la cittadinanza spagnola in base all’interesse superiore del bambino, che hanno descritto come un “obiettivo costituzionalmente legittimo”.

La corte ha sostenuto che lasciare la bambina apolide l’avrebbe “messa in una situazione di disuguaglianza rispetto ad altri bambini” e sarebbe stata una “negazione significativa dei suoi diritti fondamentali, incluso il diritto all’istruzione”.

Negli anni successivi, la madre della ragazza è stata registrata dalle autorità spagnole, ma la figlia è rimasta apolide, il che le ha impedito di accedere all’assistenza sanitaria o all’istruzione.

La sentenza, ha riferito Euronews, è una conferma di una precedente decisione del tribunale risalente al novembre 2021 che il governo spagnolo aveva contestato. Tuttavia, la Corte Suprema spagnola potrebbe ancora ribaltare quest’ultima decisione.

L’agenzia di stampa AP, ha affermato che l’ufficio stampa della corte e la Commissione spagnola per i rifugiati hanno dichiarato che questa decisione è stata la prima del suo genere per un Paese dell’Unione europea.

Buon venerdì.

</a

La tempesta perfetta

A round storm cloud over a wheat field. Russia

Il 3 giugno il presidente del Ciad ha dichiarato lo stato di emergenza alimentare e nutrizionale. Secondo l’Onu 5,5 mln di abitanti (un terzo della popolazione) avranno presto bisogno di assistenza umanitaria. Tutto ciò è accaduto nel giorno in cui il presidente senegalese e dell’Unione africana Macky Sall ha incontrato Putin a Sochi per discutere delle forniture di grano, bloccato nei porti ucraini. Sall aveva già lanciato l’allarme – anche presso l’Unione europea – per il rischio di una carestia storica in Africa, legata alla guerra in Ucraina e al blocco delle esportazioni di grano dal Paese sotto attacco, e amplificata nel continente dalla penuria di fertilizzanti. Con le sanzioni alla Russia i prezzi si sono triplicati o non si riescono ad acquistare per l’uscita delle banche russe dallo Swift. Questi sono solo alcuni esempi della situazione che si sta determinando in Africa, vittima principale degli effetti collaterali del conflitto europeo. Per capire in che modo può evolvere il quadro abbiamo rivolto alcune domande alla ricercatrice e analista dell’Ispi-Istituto per gli studi di politica internazionale, Lucia Ragazzi, esperta in questioni africane.
Allo stato attuale quali sono le prospettive per la sicurezza alimentare nel Continente e quali sono i Paesi o le aree più a rischio?
Il conflitto in Ucraina ha provocato una congiuntura di fattori che dal punto di vista della sicurezza alimentare creano pressione in generale sull’Africa. Una combinazione che poi si innesta sulla crisi climatica, sugli effetti a lungo termine della crisi provocata dal Covid e su varie instabilità politiche. Tutti problemi che adesso vengono aggravati dallo shock dei prezzi dei beni alimentari sui mercati internazionali .
In che modo?
L’Africa è un importatore netto di cereali e quindi è già di per sé esposta alle diminuzioni delle forniture a livello globale attraverso il canale dei prezzi. Per cui l’aumento della volatilità dei prezzi, oggi a livelli record, e le difficoltà di approvvigionamento materiale legate al blocco delle esportazioni nelle zone di guerra hanno creato un mix che grava pesantemente sulle economie del Continente.
Ci può fare qualche esempio?
Basterebbe dire che 25 Paesi africani importano più di un terzo del loro grano da Russia e Ucraina e 15 ne importano più della metà. Questi sono i Paesi più esposti. In questa situazione una crisi alimentare è data praticamente per inevitabile dai principali organismi internazionali e la Banca africana di sviluppo si sta preparando a questa evenienza. L’Onu ha paventato un “uragano di carestie nel mondo”, un timore che coinvolge naturalmente anche molti Paesi africani.
Quali sono le aree più a rischio?
Nell’Africa subsahariana ad essere particolarmente esposte sono l’Africa occidentale, il Sahel e il Corno d’Africa. Qui grandi livelli di dipendenza dalle importazioni si uniscono a una forte vulnerabilità a livello climatico. Il Corno d’Africa e la Somalia in particolare stanno affrontando la peggiore siccità degli ultimi 40 anni. Gli ultimi 4 anni sono stati molto difficili in tal senso, per cui la Fao stima circa 16mln di persone in condizione di insicurezza alimentare acuta.
Già prima della guerra in Europa c’erano dei segnali…
L’attuale pressione sui mercati dei beni alimentari…

L’intervista prosegue su Left del 10 giugno 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

 

</a

Guerra infame

An unexploded rocket is photographed in a wheat field on the outskirts of Kyiv, Saturday, April 23, 2022. (AP Photo/Emilio Morenatti)

Fin dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina, oltre alla feroce guerra guerreggiata ingaggiata da Putin che ha fatto e continua a fare centinaia di vittime ogni giorno, tre tipi di conflitti si sono intrecciati: quello del gas e del petrolio, quello del grano e quello cibernetico. Delle tre guerre, sul piano economico e umanitario, quella del grano rischia di diventare a breve la più devastante, perché quello che accade in Ucraina produce un effetto domino, a lunga gittata, in Medio Oriente e in Africa, in Paesi già alle prese con siccità e fame, che non sono mai entrati in questo conflitto, inviando armi o in altro modo, ma ingiustamente ne patiscono tutte le conseguenze a causa del grano bloccato nei porti ucraini, a causa dei prezzi dei fertilizzanti e del carburante schizzati alle stelle.
«I Paesi africani sono vittime collaterali di questa guerra», ha detto il presidente dell’Unione africana, nonché presidente del Senegal, Macky Sall, rivolgendosi all’Unione europea, anche se l’Europa appare sorda e distante a gran parte dei Paesi africani che hanno avuto modo di saggiarne l’egoismo durante la pandemia con le partite di vaccini praticamente scadute e le licenze dei brevetti mai liberalizzate.

Il presidente dell’Unione africana si è anche recato a Sochi per incontrare Putin. La Russia è fra i primi produttori di grano al mondo e diversi Paesi dipendono dalle sue esportazioni fino al 100%. È il caso della Mongolia, della Georgia e del Kazakistan ma anche, seppur in misura minore, della Turchia, del Libano, della Tunisia e di altri Paesi africani alcuni dei quali – come Sudan, Mali e Repubblica Centroafricana – hanno anche richiesto l’intervento dei contractors russi della famigerata Wagner in conflitti locali. Il fatto che molti Paesi africani siano legati a doppio filo alla Russia spiega plasticamente la geografia della loro astensione in sede Onu e della loro contrarietà a sanzionare il regime di Putin.

Lo scenario globale che si prospetta è a dir poco complicato. Mosca da un lato ricatta chi da lei dipende per l’approvvigionamento alimentare e dall’altro colpisce l’Ucraina, anche tenendone in ostaggio i raccolti, lasciandoli deperire nei silos, distruggendoli deliberatamente, saccheggiandoli. Se il gatto Putin cinicamente affama mezzo mondo, la volpe Erdoğan a sua volta ci guadagna tenendo i piedi in due staffe: quella della Nato e quella della alleanza con la Russia. Il «dittatore necessario» (parole di Draghi) da arbitro del Bosforo (in virtù della convenzione di Montreux del 1936) dopo aver lasciato passare le navi russe cariche di grano ucraino rubato, ora si accredita come mentore di corridoi umanitari di cereali dall’Ucraina via Bosforo e Dardanelli chiedendo che si dirigano le operazioni da Istanbul.

La Russia usa la leva alimentare anche per destabilizzare, per creare quei nuovi flussi di profughi dall’Africa che l’Europa teme massimamente. E il presidente turco, che già ha ricevuto fiumi di soldi dalla Ue per impedire che arrivino in Europa, già si frega le mani.
Abbiamo approfondito questo complesso quadro geopolitico e questa esplosiva crisi umanitaria con l’africanista dell’Ispi Lucia Ragazzi, con lo storico Alessandro Volpi dell’Università di Pisa, con il vice direttore della Fao Maurizio Martina, con Monica Di Sisto vicepresidente di Fairwatch e con le ricercatrici Jessica Antonisse e Antonia Kuhn che insieme ad altri loro colleghi hanno dato vita al G7 dei giovani avanzando proposte concrete. Lo abbiamo fatto in questa nuova copertina di Left denunciando le responsabilità di autocrati come Putin e Erdoğan (che intanto torna a invadere i territori curdi in Siria e in Iraq) ma anche cercando di comprendere quali sono le concause di questo tragico scenario di carestia e fame, che sta mettendo in ginocchio il Sud del mondo. A cominciare dalla speculazione finanziaria di chi lucra sul conflitto.

Non è stato solo il blocco dell’export dall’Ucraina a determinare l’impennata dei prezzi. Le multinazionali dei cereali, molte delle quali sono statunitensi, hanno tutto l’interesse a tenere alto il costo del grano. Negli Usa e in Europa, avverte Volpi, non mancherebbero le capacità produttive per supplire alle carenze attuali ma «spesso sono inutilizzate per tenere alti i prezzi, che ora sono drogati dalla finanziarizzazione». Lo stesso Wto potrebbe intervenire immettendo sul mercato grano per abbassarne e governare il prezzo derogando da una impostazione liberista. Dal 12 al 15 giugno a Ginevra si terrà la conferenza interministeriale, batterà un colpo? Non nutriamo molta speranza. Anche Cina e India, grandi produttori di grano, potrebbero intervenire. Ma al momento entrambi i Paesi hanno bloccato le esportazioni per rispondere a crisi interne.

E si ritorna al punto di partenza: il problema come scrive George Monbiot sul Guardian «è che solo 4 società al mondo controllano il 90% del commercio dei cereali a livello globale».
E nel mondo si è diffusa sempre più una dieta global standard basata su grano, riso, mais e soia. Occorre dunque spezzare la morsa della speculazione finanziaria, ma al contempo è necessario e urgente diversificare la produzione alimentare. Oggi 811 milioni di persone soffrono la fame. Siamo tornati al livello del 2005. Occorre dunque fermare la guerra in Ucraina ma anche indagare e risolvere i problemi che attanagliano, e non da ora, la produzione alimentare globale, basata su modelli di produzione, di commercio e di finanza niente affatto equi e rispettosi dell’ambiente.

L’editoriale è tratto da Left del 10 giugno 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

 

</a

Ambientalisti à la carte

Members of the parliament vote on plans to reduce carbon emissions, at the European Parliament, Wednesday, June 8, 2022 in Strasbourg, eastern France. The future of car transport in Europe may become clearer — and cleaner —on Wednesday when the European Parliament decides whether to ban vehicles with a combustion engine starting in the middle of the next decade. (AP Photo/Jean-Francois Badias)

Hanno deciso che dal 2035 saranno proibite le auto a benzina e diesel nell’Unione europea. Fin qui una buona notizia. Ma a Strasburgo si è consumata l’ennesima puntata della finzione ecologista dei governi bravi a sventolare buoni propositi e poco altro.

Sul piano Fit for 55, il testo base del Green Deal europeo, su 3 capitoli degli 8 al voto in questa plenaria sui 14 totali del «pacchetto clima» (che impegna la Ue a diminuire del 55% le emissioni di Co2 entro il 2030 per arrivare alla neutralità Co2 nel 2050) l’Europarlamento ha bocciato – e rimandato in commissione Ambiente (Envi) per un nuovo negoziato – la riforma del mercato delle emissioni di Co2, con la conseguenza della sospensione del voto che doveva approvare la carbon tax alle frontiere esterne – la contropartita per far passare la riforma del permesso a inquinare – e il punto sull’istituzione del Fondo sociale per il clima, che dovrebbe compensare le difficoltà della transizione climatica per i meno abbienti.

Ora non se ne parla almeno fino a settembre. Ci sono consistenti segnalazioni delle pressioni delle lobby sui parlamentari europei avvenute nelle ultime settimane. Vista la bocciatura in Aula della riforma dell’Ets (Emissions trading system), la maggioranza ha deciso di rimandare altri due voti previsti per oggi sul pacchetto Fit for 55, quello sul fondo sociale per il clima e anche il voto finale sul Carbon Border Adjustment Mechanism, il “dazio climatico”. Entrambi sono stati rinviati in attesa che si raggiunga un accordo sulla riforma dell’Ets.

Dentro c’è anche un dato politico importante tutto italiano: della maggioranza (finta) che sostiene il governo Draghi la Lega ha votato contro, Fi a favore, M5s si è astenuto e 4 del Pd (che si è in maggioranza astenuto) hanno votato contro. Continuiamo a immaginare coalizioni future e maggioranze di governo senza tenere conto delle posizioni sul clima, come se fosse un aspetto secondario. Siamo immaturi su tutto: il fatto stesso che non ci interroghiamo sulle posizioni ambientali di un’eventuale alleanza politica dimostra che risparmio energetico, clima e cambiamento climatico siano considerati temi semplicemente emergenziali mentre pretendono visione e armonizzazione di tutte le politiche connesse (che sono quasi tutte).

Siamo ancora all’ambientalismo come vezzo, un punto da aggiungere al programma elettorale con distrazione. Stiamo messi così.

Buon giovedì.

Chi paga i costi della guerra?

26 February 2020, Kenya, Kakuma: Children walk through Kalobeyei near Kakuma with blue backpacks with the Unicef logo. Kakuma is one of the largest refugee camps in the country. More than half a million refugees from over 30 countries currently live in Kenya. Photo by: Bernd von Jutrczenka/picture-alliance/dpa/AP Images

«Se il mondo non allarga il suo sguardo dalla guerra in Ucraina e non agisce immediatamente, nel Corno d’Africa si verificherà un vertiginoso aumento di morti di bambini». Sono le parole di Rania Dagash, Vice direttore regionale Unicef per l’Africa orientale e meridionale.

Poi ci sono i numeri: «Circa 386mila bambini in Somalia – spiega Rania Dagash – adesso hanno bisogno disperato di cure salvavita per la malnutrizione acuta grave, che mette a rischio la loro vita – superando i 340mila bambini che avevano bisogno di cure al tempo della carestia del 2011. Il numero di bambini che stanno affrontando la forma più letale di malnutrizione è incrementato di oltre il 15% in 5 mesi. In Etiopia, Kenya e Somalia, oltre 1,7 milioni di bambini adesso hanno urgente bisogno di cure per la malnutrizione acuta grave».

Nel corso di due anni sono mancate quattro stagioni delle piogge, distruggendo i raccolti e il bestiame e prosciugando le fonti d’acqua. Le previsioni indicano che anche le prossime piogge di ottobre-dicembre potrebbero non verificarsi. Tutti e tre i Paesi – Etiopia, Kenya e Somalia – hanno registrato un numero significativamente più alto di bambini gravemente malnutriti ammessi a cure nei primi tre mesi del 2022, rispetto allo stesso periodo nel 2021: in Etiopia il tasso è stato più alto del 27%; in Somalia del 48%; in Kenya del 71%.

Anche i tassi di mortalità sono preoccupanti. «Quest’anno – torna a dire Dagash – in diverse delle aree più duramente colpite del Corno d’Africa, il numero di bambini morti per malnutrizione acuta grave con complicazioni mediche nei centri di trattamento ospedaliero è triplicato rispetto all’anno precedente. Tra febbraio e maggio, il numero di famiglie senza un accesso affidabile all’acqua pulita e sicura è quasi raddoppiato, passando da 5,6 milioni a 10,5 milioni».

«Le vite dei bambini nel Corno d’Africa – spiega ancora la vice direttrice – sono esposte a maggiori rischi a causa della guerra in Ucraina. Solo la Somalia importava il 92% del grano da Russia e Ucraina, ma le linee di approvvigionamento sono bloccate. La guerra sta acuendo l’aumento vertiginoso dei prezzi globali di cibo e carburante, il che significa che molte persone in Etiopia, Kenya e Somalia non possono più permettersi i generi alimentari di base di cui hanno bisogno per sopravvivere».

Funziona così il mondo: i potenti si dichiarano guerra, i figli dei poveri vengono mandati sul campo a morire e i poverissimi del mondo ne pagano i costi.

Buon mercoledì.

 

In foto, alcuni bambini camminano nel campo profughi di Kakuma, in Kenya

L’Africa come posacenere del mondo

Young boys play soccer on a dusty field in Duduza, east of Johannesburg, South Africa, Wednesday, June 23, 2021. (AP Photo/Themba Hadebe)

Cento milioni di morti nel 20° secolo. 1.500 miliardi di dollari di costi sanitari. Secondo un rapporto dell’organizzazione di politica sanitaria globale Vital Strategies e dell’Università dell’Illinois Chicago nell’ultima edizione del Tobacco Atlas , l’era del grande tabacco sta volgendo al termine: c’è un calo inequivocabile dei tassi di fumo globali, a 19,6 % nel 2019 dal 22,6% nel 2007.

Ma tra le righe c’è anche la strategia per garantire profitti alle industrie del tabacco: il nuovo mondo da conquistare sarà l’Africa. Come delineato in una ricerca dell’Università di Bath, un partner del watchdog dell’industria del tabacco, Stopping tobacco organizations and products (Stop): «Per proteggere i propri profitti, le società transnazionali del tabacco (Ttc) hanno iniziato a spostare la propria attività verso mercati relativamente non sfruttati in alcune parti del il mondo in cui le opportunità di crescita sono in gran parte illimitate … In nessun luogo questa prospettiva sottosfruttata è matura per la raccolta come l’Africa. I Ttc si stanno espandendo nei Paesi africani, dove, escluso il Sudafrica, il mercato del tabacco è cresciuto di quasi il 70% negli anni 90 e nel primo decennio del 21° secolo». Mentre i profitti vengono soffocati in occidente, il grande tabacco ha preso di mira le comunità africane, e in particolare i loro giovani, come incubatori di nuove iniziative mortali. L’ Africa Center for Tobacco ha riferito nel 2016 di come negozi e carretti a mano che vendevano sigarette insieme a dolci operavano vicino alle scuole in Camerun e Burkina Faso. L’Atlante del tabacco fornisce dati concreti sull’attenzione globale ai giovani del settore, rilevando che i tassi di fumo tra i 13 ei 15 anni sono in aumento in 63 Paesi.

Le economie africane continuano a essere vulnerabili: il colonialismo ora passa attraverso i prodotti come il tabacco, già certificati pericolosi e limitati in Europa eppure pronti per ritrovare una seconda vita in Africa. Così abbiamo un mondo in cui i Paesi ad alto reddito costruiscono un futuro senza tabacco mentre i poveri, come sempre, diventano il sacchetto dell’umido. In questo caso sono pronti a farsi anche posacenere pur di non spegnere il sorriso alle multinazionali. Noi, come sempre, qui fermi a guardare.

Buon martedì.

Pechino e il lockdown delle diseguaglianze

Deliverymen sleep under a bridge in Shanghai, China Sunday, April 24, 2022. Many deliverymen resorted to camping in order to be able to work in the metropolis still under the Covid lockdown. (YUYU CHEN/FeatureChina via AP Images)

Una cabina telefonica come casa. A Shanghai una donna e il suo cane hanno vissuto per più di un mese nella piccola postazione durante il rigidissimo lockdown imposto per fermare la diffusione del Covid-19 nella capitale economica cinese. La donna, una lavoratrice migrante, è stata costretta a trasferirsi nella cabina telefonica dopo aver perso il lavoro a causa delle misure epidemiche. La sua è una delle tante storie strazianti generate dalla strategia “Zero Covid”, la politica adottata dal governo cinese che punta a mantenere l’ex Celeste Impero virus-free, facendo uso di metodi coercitivi: immediato isolamento delle aree infette, test di massa, e il tracciamento dei positivi attraverso l’impiego di app obbligatorie.

A due anni dal focolaio di Wuhan, mentre il resto del mondo torna lentamente alla normalità, la Cina – dove il tasso di vaccinazione tra gli anziani è ancora intorno al 50% – non accenna ad abbassare la guardia. A pagare il prezzo più elevato delle misure sanitarie sono proprio i migranti (mingong). Un terzo della popolazione cinese vive e lavora lontano dal proprio luogo di origine in condizioni di precarietà e, spesso, senza un regolare contratto, senza copertura contro gli infortuni. Senza diritti.

Dopo l’imposizione della quarantena, alcuni stabilimenti di Shanghai hanno continuato ad operare obbligando i propri operai a dormire in fabbrica, come richiesto dalle autorità. Altri invece hanno sospeso la produzione, lasciando molti mingong senza uno stipendio e un tetto sotto cui stare. Un’amara ricompensa per chi, come loro, ha contribuito attivamente alla lotta contro il Covid: sono i migranti che hanno collaborato alla costruzione degli ospedali temporanei. Sono i migranti che hanno distribuito viveri e beni di prima necessità ai concittadini rinchiusi in casa.

Secondo la Bbc, circa 20mila rider hanno continuato a girare per Shanghai assicurando le forniture essenziali durante le fasi più critiche del lockdown, quando la logistica statale ha lasciato i residenti a corto di medicine e provviste alimentari. Regole ad hoc hanno disposto libertà di movimento per gli spedizionieri, ma l’attuazione discrezionale delle direttive nei singoli complessi residenziali ha lasciato molti fattorini senza casa: additati come untori, una volta usciti dalla propria abitazione, si sono visti negare l’accesso al loro rientro. Non potendo permettersi un affitto hanno dormito in tenda, sotto i ponti, distesi sui cartoni. O nelle cabine del telefono.
Come altrove, anche in Cina, la pandemia ha portato a galla vecchie distorsioni sociali mai risolte. Le disparità di reddito sono una caratteristica ricorrente nelle metropoli cinesi, dove negli ultimi decenni si è…

L’articolo prosegue su Left del 3 giugno 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

 

</a