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Quanti recinti attorno ai rom

La prima immagine produce un effetto di straniamento. È quella del Cinegiornale dell’Istituto Luce, all’indomani della Seconda guerra mondiale. Ecco le frasi del servizio: «La guerra è passata e gli zingari tornano a circolare per l’Europa: piccolo e fausto segno del faticoso e lentissimo riassestamento della nostra società». Le carovane di quelli che allora erano chiamati semplicemente “zingari”, rappresentavano il ritorno alla normalità. Il percorso di ricostruzione di oltre 70 anni di presenza in Italia di rom, sinti e camminanti, realizzato da Sergio Bontempelli nel volume appena uscito I rom, una storia, (Carocci), prende spunto dalle parole del Cinegiornale e trascina chi legge in un testo accurato, capace di entrare nella complessità delle vicende raccontate senza ideologie di supporto. L’editore ha pubblicato questo saggio nella collana diretta da Michele Colucci (storico e ricercatore del Cnr), “Nodi dell’Italia repubblicana”, con la scelta di non circoscrivere le vicende delle comunità rom in un mondo a parte, ma di farle precipitare nella storia comune e condivisa. Non si separa, non si “etnicizza” un contesto, neanche per evidenziarne aspetti romantici o positivi o per alimentare il mito dei “figli del vento” che tanti danni ha prodotto.

L’operazione di Bontempelli è quella di riuscire a problematizzare senza astrarre, di raccontare senza alimentare stereotipi. Permette di non cadere nei tranelli tipici della nostra cultura coloniale. Così come non è mai stato realmente possibile censire numericamente le popolazioni che si definiscono rom, sinti e camminanti, non è sistematizzabile l’idea di costruire attorno a loro identità statiche senza trasformarle in gabbie, illusorie e fuorvianti, attraverso cui costruire l’immagine dell’altro, come forma di esclusione e separazione. Sono due assi strutturali del libro. Le gabbie non sono solo metaforiche, negli anni sono diventate “campi”, spesso recintati e vigilati, situati ai margini delle città. Luoghi di confinamento che per loro natura impediscono percorsi di convivenza con i “non rom”. La marginalizzazione si è accentuata fino ai giorni nostri, limitando l’accesso ai servizi basilari, dall’acqua alla sanità e all’istruzione e lo steccato si alza contribuendo a creare pregiudizi reciproci. Questo nasce, a detta dell’autore, intanto da una «lacuna conoscitiva». Chi identifichiamo come rom, oggi che il nomadismo è pressoché scomparso? Prendiamo come riferimento una lingua, parlata soprattutto da chi è giunto in Italia negli ultimi decenni? La prima realtà che…

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Il piano carbon free di Pechino sulla pelle degli Uiguri

The yurt village in front of Karakul Lake in Xinjiang Uighur Autonomous Region of China is the highest lake of the Pamir plateau, with Muztagh Ata peak of the Kunlun mountains, in the background.

Da quando Xi Jinping è giunto al potere, la Cina ha intrapreso un percorso che sta rivoluzionando il settore della produzione energetica. Nel settembre 2020 il presidente cinese ha annunciato che il Paese avrebbe imboccato con sempre maggior vigore la strada delle energie a basso impatto ambientale.
Secondo l’Istituto di energia, ambiente ed economia della Tsinghua University di Pechino, ad oggi il 52% dell’energia prodotta dalla Cina proviene dal carbone, il 18% dal petrolio, il 10% dal gas naturale, l’8% dall’idroelettrico, il 4% dall’eolico, il 3% dal nucleare e dal solare e il 2% dalla biomassa.

Nel 2060 le parti si invertiranno e la principale fonte di produzione energetica non sarà più il carbone, che scenderà al 3% della generazione totale, ma l’eolico, che garantirà il 24% della produzione energetica locale. Seguirà l’energia solare (23%), nucleare (19%), idroelettrica (15%). Le fonti fossili continueranno a giocare un ruolo importante, seppur non determinante, nella seconda metà del prossimo secolo: il petrolio fornirà l’8% dell’energia, la biomassa il 5% mentre il gas naturale e il carbone, rappresenteranno ciascuno il 3% dell’energia totale generata in Cina nel 2060.

I dati rilasciati dalla Tsinghua University affermano dunque che gli attori più importanti nella transizione energetica cinese saranno l’eolico, il solare e il nucleare.
Per quanto riguarda le prime due voci, la Cina, secondo l’Irena (International renewable energy agency) è già oggi il maggior Paese produttore di energia proveniente da queste fonti con il 38% dell’energia prodotta nel mondo nel campo eolico (282.000 Mw su un totale mondiale di 733.000 Mw) e il 35% in quella solare (255.000 Mw su un totale di 714.000 Mw).

Nel campo dell’energia solare gli Usa, con 100.000 Mw di produzione, sono secondi, ma ben distanti da Pechino che, tra l’altro, è il principale produttore di materie prime per la costruzione di pannelli solari (circa il 70% dei componenti di pannelli fotovoltaici vengono prodotti in Cina).
Ma, come spesso viene evidenziato, le fonti di energia rinnovabili che si affidano agli eventi naturali, non sono sempre affidabili. Anche se le batterie di accumulo, grazie alle tecnologie, sono oggi più economiche e performanti, non riescono ancora a tamponare i picchi di richiesta energetica che provengono dai vari settori delle attività economiche e sociali, specialmente in nazioni così popolate e in forte sviluppo come la Cina.
Ecco quindi che, in conformità con quanto raccomandato dall’Ipcc (Intergovernmental panel on Climate change), Pechino ha, in questi ultimi decenni, potenziato il settore nucleare. Secondo l’Iaea (International atomic energy agency), nel 2021 i 52 reattori nucleari cinesi producevano il 4,9% dell’energia totale (circa 50.000 Mw su un totale di 366.000 Mw di energia prodotta), ma con 14 nuovi reattori in…

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«Non siamo animali»

I Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) sono uno dei tanti buchi neri in un sistema che gode di impunita disattenzione dalla stragrande maggioranza dei media. Nel Cpr di Gradisca d’Isonzo accade che in virtù degli accordi tra Italia e Tunisia (una corsia preferenziale per i rimpatri con più di qualche lacuna dal punto di vista dei diritti) il rimpatrio venga utilizzato addirittura come minaccia contro famiglie con figli che sono in Italia e lavorano in Italia da anni.

La situazione la spiega bene Francesca Mazzuzi, della campagna LasciateCIEntrare:

«Tutto grazie agli accordi tra i due Paesi che consentono di eseguire rapidamente rimpatri collettivi, contrari alle norme internazionali. Anche il parlamentare tunisino Majdi Karbai ha recentemente mostrato le condizioni del Centro di Gradisca d’Isonzo in un video pubblicato sul suo profilo Facebook. I tunisini appena sbarcati nelle coste siciliane continuano a trovarsi in un vortice di privazione della libertà e di impossibilità di ricevere un’adeguata informativa legale per fare valere i propri diritti. Tanti sono trovati senza documenti in seguito a controlli di polizia, altri sono costretti a una nuova reclusione dopo avere già concluso la pena in un carcere. Tutti hanno una cosa in comune: nessuno è nel Cpr per avere commesso un reato, ma per un illecito amministrativo, violazione che solo per gli stranieri significa privazione della libertà personale. “Qui non funziona niente” raccontano dall’interno, “ci trattano come animali”, “non abbiamo diritti, non ci ascoltano”. “Ma è normale che qui non ci sia un assistente sociale o un operatore legale a cui rivolgersi?”. No, non dovrebbe essere così. Queste figure sono previste anche dai capitolati di appalto che regolano i servizi che l’ente gestore deve garantire, anche se il monte ore previsto è ridicolo rispetto al tempo che dovrebbe essere dedicato a ciascuna delle persone detenute nei Cpr. Alcuni non ricevono una terapia adeguata perché la visita con lo psichiatra avviene dopo oltre un mese dall’ingresso nel Cpr e solo dopo accese proteste si ha la possibilità di essere ascoltati. Succede di tutto: tentativi di suicidio, atti di autolesionismo, materassi incendiati, solo per ricevere cure ed essere trattati come “persone”. Solo per avere accesso ai diritti basilari. Se ingoi lamette e bevi candeggina non vieni portato immediatamente in ospedale, ma nell’infermeria del centro ti danno “uno sciroppo”.  In questo indegno gioco psicologico in cui si è continuamente minacciati di venire rimpatriati tutti e in qualsiasi momento, c’è chi non dorme da giorni… perché vengono a prenderti la mattina molto presto. Qualche giorno fa ci sono state “grandi pulizie”, pare fosse imminente l’ingresso di una qualche associazione per i diritti umani, ma finora non si è visto nessuno. Nessuno che possa raccogliere le testimonianze e le storie di chi chiede solo di essere ascoltato e di essere trattato con dignità.
A un certo punto pare aprirsi una breccia dalla quale scorgere un briciolo di umanità. La scorsa settimana sono stati messi a disposizione un pallone e delle carte da gioco. Una grande conquista, giocare aiuta a passare il tempo e a distrarsi dal chiodo fisso del rimpatrio, ma ecco che, alcuni giorni fa, insieme a un pallone arriva anche uno scontrino di euro 8.90 a carico delle persone recluse nel Cpr. Un altro misero modo di lucrare sulla pelle di chi è privato della libertà. …  Al momento è in corso la gara di appalto per la nuova gestione del Centro di Gradisca, per 150 posti, per un importo di circa due milioni e mezzo di euro per un periodo di dodici mesi, rinnovabile di altri dodici. Le offerte sarebbero dovute essere presentate entro il 31 marzo 2022 per l’avvio di gestione previsto al 16 giugno, ma per ora non è stata pubblicata alcuna notizia sui partecipanti alla gara e tantomeno del suo esito».

Continuando a tollerare sacche di illegalità prima o poi, la storia ce lo insegna, capita di finirci dentro.

Buon lunedì.

Teshigawara e la danza come essenza di vita

Saburo Teshigawara è oggi uno dei punti di riferimento non solo per quanto riguarda la danza ma anche per l’integrazione fra movimento e azione coreografica. Il coreografo e ballerino giapponese ha da sempre coltivato la “logica” della bellezza nella globalità dei linguaggi. La sua ricerca arriva da lontano, da quella che è stata la più importante presenza nel panorama contemporaneo: insieme a Kei Miyata ha fondato Karas, una compagnia di danza che è stata un vero laboratorio a cielo aperto delle espressioni corporee contemporanee. La sua arte trova in Italia una culla preziosa e necessaria per diffondere una idea di equilibrio fisico e psichico allineato ad una idea di creatività assolutamente unica. Per la sua forza creativa e la sua innegabile ricerca di nuove ispirazioni ha ricevuto dalla Biennale di Venezia per la danza il Leone d’oro alla carriera che gli verrà consegnato il 23 luglio. Sempre a Venezia Teshigawara sarà in scena con Petrouchka di Igor Stravinsky (e fino all’11 giugno al Coronet Theater di Londra con Tristano e Isotta). Il Leone d’oro quindi come una precisa indicazione di ciò che è oggi il linguaggio misto delle arti performative. In questa intervista per Left Teshigawara ci parla degli aspetti più significativi della sua idea di arte.

Innanzitutto Teshigawara, cosa significa per lei lo spazio corporeo? Come lo comprende e come lo vive?
Ogni volta, per prima cosa, comincio ripensando cosa sia lo “spazio”. È diverso da “luogo”. Un luogo è definito da regole fisiche. Non importa quanto sia grande, un luogo è un certo intervallo fisico. Uno spazio permette il cambiamento del movimento e delle dinamiche energetiche, misurabili e non misurabili. Può creare un certo “infinito” o un cambiamento qualitativo. Crea un rapporto intimo con il tempo e lotta sempre con l’immobilità. E se dovessi chiedermi che cos’è lo spazio corporeo, arrivo a pensare che è una realtà in movimento, una vita, che non consente una completa regolazione o conferma da parte di valori numerici o simbolici. Comprendo, praticamente e fisicamente, quel movimento della vita – e la danza, per esempio, è un’attività che genera e si genera così. Un luogo si trasforma in spazio attraverso la danza. Potremmo dire che la danza sia un movimento fisico multidimensionale che mescola organico e inorganico?

Come lavora con la musica, e in particolare con quella di Bach?
Inizio con la registrazione di basi che mi servono per ritrovare le mie impressioni attraverso l’ascolto. Ma il mio scopo non è nemmeno quello di abbinare esattamente le note o i toni musicali al movimento. È come se mi facessi domande e trovassi risposte con la musica e così mi preparo affinché essa sia viva nel mio corpo. Sento la…

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Quando il razzista è una statua

Red paint and writing reading in Italian "racist", top, and "rapist’’ are seen scrawled on a statue of late Italian journalist Indro Montanelli, inside a park in Milan, northern Italy, Sunday, June 14, 2020. Montanelli, who inspired a generation of Italian reporters, admitted in the late 1960s that he had a 12-year-old Ethiopian bride when he was a soldier during the Italian occupation of Ethiopia. The death of George Floyd at the hands of Minneapolis police officers sparked a reexamination of the injustices and inequalities underpinning many countries’ histories. (AP Photo/Antonio Calanni)

L’attacco politico alla statua di Indro Montanelli nei giardini pubblici di Milano ha prepotentemente inserito anche l’Italia nella geografia del dibattito sulla cancel culture, esploso in questi anni a proposito dell’abbattimento (o mancato abbattimento) di statue e monumenti pubblici. Il clamore, anzi il furore, che ne è conseguito nella sfera pubblica italiana ha seguito lo schema piuttosto semplicistico e riduttivo tipico del modo in cui i social media inglobano e metabolizzano le discussioni di carattere politico. I social, soprattutto Twitter e Facebook ma anche TikTok e altri, tendono a costringere il dibattito entro uno schema molto rigido e manicheo. Vale solo la presa di posizione, l’hot take (l’affermazione semisloganistica mirata a catturare lo Zeitgeist), la frase che simboleggia l’appartenenza a una determinata tribù politica, ideologica o sociale.

Il problema che è sorto intorno alla “cancel culture” – termine coniato nelle sfere mediatiche americane – è che conservatori e commentatori di destra si sono impossessati di questo concetto per farne un uso strumentale. Hanno sostenuto che le persone di sinistra, che cercano di promuovere un messaggio politico femminista, inclusivo, antirazzista e antifascista, vogliano “cancellare” dalla sfera pubblica (che in questo caso diventa sinonimo dei social) personaggi “scomodi” come Indro Montanelli, e che questo costituisca un pericolo alla libertà d’espressione. In altre parole, fare ricorso alla cancel culture viene visto dalla destra conservatrice come un modo antidemocratico per zittire o silenziare affermazioni e prese di posizione invise alla sinistra.

Il professore di Storia all’Università di Toronto Joshua Arthurs esamina le argomentazioni usate da parte della destra per opporsi alla legge Fiano, proposta dal parlamentare del Pd Emanuele Fiano, che aveva l’obiettivo di introdurre il reato di propaganda fascista. Il partito Fratelli d’Italia invocava la libertà di espressione per bloccare la legge alla Camera, affermando che la sinistra, nel prendere di mira la propaganda fascista, si stava comportando in maniera antidemocratica. Come Ignazio La Russa nel 2018, i proponenti di destra sui social che oggi attaccano la cancel culture si ergono a difensori dei valori liberali e democratici e tacciano i loro avversari di sinistra di essere dei comunisti sostenitori di una visione totalitaria dell’opinione pubblica. Tutto ciò dimostra che “cancel culture” è un termine in realtà coniato per criticare lo sforzo progressista di attivisti e militanti per la giustizia sociale, o quantomeno per criticare i mezzi impiegati per gettare luce su posizioni politiche e ideologiche discutibili e controverse. È anche vero che i sostenitori della posizione opposta controbattono in maniera veemente e il conflitto diventa subito estremamente polarizzato; la mediazione, il dialogo e il compromesso non si offrono più come soluzioni possibili. Tuttavia, si potrebbe dire, a difesa dei…

L’autrice: Neelam Srivastava è professoressa di letteratura postcoloniale e comparata all’Università di Newcastle, in Inghilterra. Si occupa di letteratura indiana in lingua inglese, di cinema anticoloniale e della storia del colonialismo italiano

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La rivoluzione possibile, senza armi

Di pacifismo in Germania non si discute molto, neanche a sinistra. Il tema è affrontato solo in ambienti culturali alternativi all’informazione mainstream dove storici (come Jörg Himmelreich), giuristi e politologi (come Albrecht von Lucke), politici e giornalisti (come Jochen Rack), raccontano del “punto di svolta” che ha significato la reazione del governo tedesco all’invasione russa dell’Ucraina, a partire dall’aumento della spesa militare fino a 100 miliardi.

«In pochi storici secondi» si sarebbero sgretolati pilastri apparentemente inconfutabili dell’immagine politica della Germania e della sua storia a partire dal 1945. Tra questi il «Nie wieder Krieg» (“Mai più la guerra”), dogma del movimento pacifista tedesco, sembra esser stato sostituito con il monito dell’antica Roma: “Si vis pacem para bellum” (“Se vuoi la pace, prepara la guerra”).

All’improvviso viene accusato di essere «utopico-idealista» un movimento pacifista che ha coinvolto centinaia di migliaia di persone che hanno sfilato ogni anno a partire dal 1960 fino a oggi nelle cosiddette “marce pasquali” (Ostermärsche) e che di fatto ha segnato l’identità stessa della Germania. Nel tentativo di rielaborare l’orrore del nazismo e dell’Olocausto, il movimento univa la lotta per il disarmo a quella contro il nucleare, utilizzando come riferimenti culturali la filosofia di Karl Jaspers e il cristianesimo dei profeti dell’antico testamento (la cui soluzione semplificata starebbe nell’idea del “meglio subire un’ingiustizia piuttosto che procurarla”).

Dall’altra parte c’è chi, come Tilman Brück, ex direttore dell’Istituto tedesco di ricerca sulla pace (Sipri), pensa che invece l’utopia possa diventare realtà e intende per pacifismo lo sforzo per stabilire un ordine basato su regole e norme che consenta solo alle istituzioni legittime dello Stato di usare la violenza, per esempio, per prevenire la criminalità.

Il potere non regolamentato sarebbe infatti, sostiene Brück, la vera fonte della violenza distruttiva che può assumere molte forme: dalle parole offensive e alla discriminazione e alla violenza sessuale, dallo sfruttamento eccessivo della natura fino alle armi nucleari che distruggono tutto. Solo una cultura della limitazione del potere sarebbe in grado di prevenire la violenza e «proteggerci da noi stessi».

Penso, quindi, che possano essere individuate tre posizioni: una religiosa, da cui è difficile aspettarsi un cambiamento reale vista la premessa di accettazione totale di un destino predeterminato; una razionalista che promuovendo una “diplomazia armata”, di fatto cancella con un colpo di spugna un centinaio di anni e di sforzi pacifisti additandoli furbescamente come «utopistici» e «antistorici» e, infine, una posizione regolamentista-normativa che ancora prova a perseguire la strada della nonviolenza, ma non si è liberata del vecchio “homo homini lupus” che impone il bisogno di regole per controllare la violenza che sarebbe insita nella natura umana.

A queste tre posizioni vorrei contrapporre il pensiero assolutamente nuovo (non in senso temporale, ma per la sua originalità) dello psichiatra Massimo Fagioli, autore della Teoria della nascita e psichiatra dell’Analisi collettiva.

L’Analisi collettiva era una prassi di lavoro psicoterapeutico alla quale partecipavano grandi gruppi di persone (150-200) che per 4 volte alla settimana per 4 ore e ininterrottamente per 41 anni andavano a chiedere una psicoterapia come cura e formazione allo psichiatra che interpretava i sogni e insieme ai partecipanti faceva ricerca. Ognuna di queste persone era completamente libera di andare, non andare, tornare, non tornare più, dato che non c’era alcuna forma di contratto scritto o verbale e molto spesso Fagioli non conosceva neppure il nome dei partecipanti. A questa massima libertà dei pazienti Fagioli ha risposto essendo sempre presente per 41 anni senza saltare mai una seduta e senza mai tirarsi indietro di fronte a una richiesta di cura. L’Analisi collettiva, quindi, non ha conosciuto la delusione. Mai è stata tradita dallo psichiatra la proposta di rapporto codificata fin dal primo fondamentale libro Istinto di morte e conoscenza (L’Asino d’oro ed.) come “frustrazione-interesse”: frustrazione delle dinamiche di rapporto parziali e violente per la pretesa, senza nessuna consolazione, di realizzare tutte le proprie possibilità umane (in particolare le possibilità di sviluppo della capacità di immaginare, che si crea in ogni essere umano al momento della nascita per la reazione della sostanza cerebrale alla luce).

Di fatto nella storia dell’Analisi collettiva, dove in 41 anni sono andate migliaia e migliaia di persone, non si sono mai verificati episodi di violenza fisica. Neanche uno. Fagioli stesso, parlando di sé, in più occasioni ha raccontato di non aver neppur mai dato uno schiaffo a qualcuno in vita sua e in Istinto di morte scrive di come i pazienti non riuscissero a comprendere il suo “non prendersela mai” per il suo sapere e la sua calma.

Una prassi nonviolenta dalle solide basi teoriche sintetizzabili nella frase espressa su Left nel 2008 e riproposta in copertina l’11 marzo scorso, «Una lotta senza armi, solo rivoluzione del pensiero e della parola», che ha alla base una nuova antropologia, assente negli altri movimenti pacifisti e che si basa sulla scoperta che l’essere umano è naturalmente “nonviolento”.

La violenza non è la verità dell’essere umano ma una sua distorsione. Il rapporto interumano è la verità dell’essere umano. Come fare a realizzare questo nel quotidiano? È necessario comporre due parole: resistenza e rifiuto. Due R bellissime e vitali che si oppongono alle due R mortifere di religione e ragione. Occorre «carpire il segreto delle donne di fronte all’oppressione violenta, il segreto di ribellarsi a dio che elimina ogni forma di vita» ha scritto Fagioli nella premessa alla quinta edizione de La marionetta e il burattino (L’Asino d’oro ed.). «Il segreto di una natura feconda di continuare a figliare nonostante l’oppressione violenta. Capire il gioco delle donne di lasciare l’oppressione violenta per ribellarsi all’istinto di morte che non opprime, elimina soltanto ogni forma di vita. Ribellarsi all’assenza, a ciò che non c’è, ai bambini non nati. Il segreto del ventre di donna. Che ha scoperto la ribellione all’assenza, la non rassegnazione alla morte».

La nuova antropologia di Fagioli consente di sviluppare una identità umana nuova, che non nega la donna, non nega il bambino, non nega il corpo e il suo contenuto di affetti, fantasia e vitalità, ma anzi trae forza proprio dal corpo, dalla fusione tra mente e corpo, superando la scissione che facendo rapporti parziali propone sempre una violenza.

Dall’altra parte c’è…

 

* L’autrice: Manuela Petrucci è psichiatra e psicoterapeuta

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Far west Italia

Foto LaPresse - Stefano Cavicchi 11/02/2018 Vicenza / ita Politica Salvini visita uno stand alla fiera delle armi di Vicenza Nella foto: Matteo Salvini

Treviglio, provincia di Bergamo, ore otto del mattino. È il 28 aprile. Silvana Erzembergher, 71 anni, passeggia davanti alla propria abitazione quando incrocia il vicino di casa che sta portando fuori il cane. La donna estrae dalla borsa una pistola e spara all’uomo uccidendolo. Nel frattempo, udendo l’esplosione dei colpi, la moglie del vicino si precipita giù dalle scale e raggiunge il marito: Erzembergher spara anche a lei che, per fortuna, rimane solamente ferita. Il movente? Futile: dissapori di vicinato. L’arma, un revolver calibro 38, era legalmente detenuta dalla donna che aveva una licenza per tiro sportivo: licenza scaduta, ma ancora valida grazie alle proroghe disposte per la pandemia.

Licata, provincia di Agrigento, 26 gennaio. Angelo Tardino, 48 anni, si sveglia presto e si presenta nella casa di campagna del fratello Diego con una pistola calibro 9×21 e spara. Prima uccide il fratello minore, poi la cognata e i due nipotini. Il movente? Anche questo futile: una lite per la suddivisione dei terreni. A casa aveva altri due revolver e un fucile da caccia, tutte armi legalmente detenute.

Due casi che ci raccontano come non solo negli Usa ma anche in Italia gli omicidi compiuti con armi da fuoco regolarmente detenute rappresentano un problema reale. Grazie soprattutto all’escamotage del porto d’armi ad uso sportivo, in Italia entrare legalmente in possesso di un arma da fuoco è tutto sommato semplice anche per chi non pratica nessuna disciplina sportiva.

Attualmente, infatti, sono circa 350mila nel nostro Paese coloro che possiamo definire “tiratori fantasma”. Persone che hanno ottenuto la licenza a “per tiro al volo” – comunemente detta per “uso sportivo” – solo per poter avere armi in casa. Il conto è presto fatto. Il numero di…

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Fernando Panzera: Non è vero che gli Usa sono il Paese della libertà

Two rings of chairs encircle the words "NEVER AGAIN" in a silent protest on the 19th anniversary of the Columbine High School shooting outside Trinity High School in Manchester, N.H., Friday, April 20, 2018. The inner ring chairs have names of the Columbine victims, the outer ring chairs have names of the Parkland High School shooting victims. (AP Photo/Charles Krupa)

Ancora una strage negli Stati Uniti, in una scuola. L’agghiacciante uccisione di 19 bambini e due insegnanti a Uvalde, in Texas, è stata messa in atto da un ragazzino che nel giorno del suo diciottesimo compleanno era corso a comprare armi d’assalto. Su episodi simili ci siamo molto interrogati, negli anni, su Left. Questa ennesima tragedia ci impone ulteriori domande. Nessuno in famiglia, nella scuola aveva intercettato il dramma del giovane Salvador Ramos? Perché? Quale “cultura” alimenta queste stragi che, con questa specifica agghiacciante modalità, avvengono solo negli Usa? Per cercare di leggere questo fenomeno più in profondità ci siamo rivolti allo psichiatra e psicoterapeuta Fernando Panzera.

«Il primo fatto che rileverei – dice a Left – è che nel dibattito generale si rimarca soprattutto la necessità del controllo delle armi. Beninteso, che un diciottenne si possa comprare due fucili d’assalto semplicemente sborsando soldi è una cosa folle. Ma – sottolinea lo psichiatra – io non ho letto sui giornali né ascoltato in tv una riflessione sul perché un ragazzo possa trovarsi in una condizione tale da fantasticare e poi realizzare una di quelle stragi che drammaticamente si vedono in Nord America con una certa regolarità. Dello stare male di questi ragazzi io non ho sentito parlare affatto. Certo si possono e si devono limitare le armi, ma bisogna occuparsi del fatto che adolescenti come Salvador Ramos possono stare molto male, possono essere malatissimi. Di questo mi sembra che ci si occupi veramente poco».

Drammi di questa portata fanno pensare a una grave carenza del sistema sanitario americano. Ci si interroga abbastanza su come prevenirli? Leggendo le cronache si ha l’impressione che negli Usa i problemi psichiatrici vengano trattati come una questione di emergenza sociale affidata alle forze di polizia che non sono adeguatamente formate. Cosa ci può dire in proposito?
Non conosco approfonditamente il sistema sanitario e il sistema di assistenza psichiatrico Usa. Posso però dire che c’è una sottile linea di confine tra una sofferenza comprensibile e giustificata da eventi sfavorevoli come lutti, separazioni difficili, problemi economici gravi che può comportare anche reazioni rabbiose o sfiducia verso il prossimo e che però nel tempo si risolve e un altro genere di sofferenza che può legarsi a eventi esterni occasionali ma ha radici molto più profonde e può sfociare in comportamenti come quelli di cui parliamo.

A cosa si riferisce? Ci aiuti a capire meglio.

Mi riferisco a situazioni che hanno origine nei primi anni o mesi di vita e che nel tempo vanno progressivamente verso la strutturazione di una personalità rigida, fredda, chiusa ai rapporti. Queste persone possono avere comportamenti anche manifestamente aggressivi o poco usuali che fanno intuire la loro condizione ma spesso il loro star male non consiste nel fare cose negative, devastanti, distruttive, quanto piuttosto nel perdere qualcosa, perdono soprattutto affetti, perdono entusiasmi, interessi, si chiudono. Questa perdita di rapporto con la realtà – e con la realtà umana in modo particolare – non viene colta perché non ha un impatto immediato sul contesto sociale, non ha riverberi immediati sul quieto vivere delle persone “normali” ma proprio questa perdita di rapporto con la realtà umana è forse il problema più grande da cui poi queste tragedie scaturiscono.

Ci sono degli aspetti ricorrenti nelle storie di questi giovani che compiono stragi?

Un elemento che ricorre spesso è la giovane età degli autori di questi delitti. Penso che questo aspetto andrebbe sottolineato perché potrebbe avere una grande importanza dal punto di vista della prevenzione. In un ragazzo i segnali di questa sofferenza possono essere poco evidenti ma non del tutto inesistenti e spesso i compagni di scuola o gli amici raccontano di aver osservato la chiusura o la freddezza di queste persone che in un primo momento non sanno integrarsi e poi, abbandonate al loro destino, non vogliono più integrarsi.

È diverso nel caso di adulti?

Intercettare un adulto che vive questa condizione è molto più difficile perché ha ormai organizzato delle strategie per sembrare assolutamente “normale” ma Salvador Ramos aveva 18 anni. Per la legge era in grado di badare a sé e comprare armi, tuttavia nei pochi anni precedenti il suo gesto nessuno aveva “badato” a lui in modo adeguato e questa credo sia stata una grande carenza. Aveva una madre tossicomane che l’aveva affidato ad un nonno che non aveva notato nulla di particolare, neanche l’acquisto di due fucili d’assalto. Aveva lasciato da tempo la scuola ed era disperatamente solo e deciso a fare qualcosa di “speciale” in un mondo che per lui era un posto insopportabile. Direi che in mancanza d’altro almeno l’abbandono scolastico doveva essere intercettato dalle istituzioni e affrontato in qualche modo. Per le situazioni di cui stiamo parlando la prevenzione è fondamentale e possibile direi e non solo in America.

Viene da domandarsi quanto una certa cultura possa essere patogena. Quanto possa ingenerare rassegnazione rispetto alla violenza spingendo a pensarla come ineluttabile. Lo scrittore Andrea Bajani racconta che nelle scuole in Texas si fanno esercitazioni anti mass murder, come da noi si fanno quelle anti incendio. Che messaggio ricevono i ragazzini americani?

Ricevono un messaggio certamente angosciante. A questo proposito mi tornano in mente le parole dello scrittore Joe Lansdale che, intervistato da Repubblica, ha preconizzato: «Non cambierà nulla. Questa strage non darà il via a una riduzione delle armi. Anzi, al contrario, sarà seguita da una ulteriore liberalizzazione». Speravo che si sbagliasse ma ho letto e ascoltato notizie che confermano questa previsione. In risposta alla strage molte persone si sono limitate a dire: ci sono dei mass murders, meglio prepararsi, cioè armarsi. Come dire che nel 2022, nella nazione che si dice la più evoluta e ricca del mondo, per molte persone è pensabile che si possa rischiare la vita andando a scuola o al supermercato. Una proposta di accettazione di una realtà simile certamente può spingere ad “avvicinarsi” alla realtà dell’aggressore.

Potremmo dire che c’è qualcosa nel mito fondativo degli Usa che spinge in questa direzione?

Possiamo immaginare che il mito delle armi negli Usa sia nato perché molti coloni dovevano vivere in territori sconosciuti e difendersi da una natura a volte ostile in cui peraltro venivano inclusi, senza troppi problemi, anche i nativi. La guerra di indipendenza ha poi avuto un suo peso perché era importante che anche i civili vi partecipassero attivamente e che fossero armati. Dunque le armi sono state per lungo tempo importanti per molti statunitensi. Oggi che non ci sono più orsi, lupi e altro, però, oltre all’idea di un pericolo sempre presente che sembra ancora attuale, vedrei un altro atteggiamento da considerare.

Vale a dire?

Chi decide di possedere un’arma e di usarla se lo riterrà giusto, evidentemente pensa che la realtà in cui vive sia veramente pericolosa e che dovrà essere in grado anche di difendersi da solo da questo pericolo. Cioè gli esseri umani sono pericolosi e, peggio ancora, lo Stato, le sue leggi e, aggiungerei, i suoi principi, non sono in grado o forse non si occupano di modificare o migliorare questa situazione. Vedo una abdicazione delle istituzioni ad affrontare la violenza se non con la repressione ed eventualmente la punizione che si fonda presumibilmente su un’idea di realtà umana violenta e sempre a rischio di cadere nella pazzia, una realtà non modificabile ma solo controllabile, malamente, con la forza. Penso anche però che ci siano molti americani che non vogliono armi, che non le usano. Ci sono americani che vivono e pensano diversamente, ma è come se non avessero voce, non so perché. Questo pensiero che ci sia il “male” negli esseri umani deve avere una grande presa Oltreoceano.

Pensiero economico neoliberista e pensiero religioso si intrecciano negli Usa. L’ideologia del self-made man incontra quella protestante. Lettura troppo azzardata?

Lettura impegnativa, certo il pensiero neoliberista e quello protestante hanno in comune l’idea che l’autoaffermazione sia oltre che un diritto, se non proprio un dovere, un compito a cui non ci si deve sottrarre e che testimonia sia della validità e delle qualità umane che della adesione ad un volere divino. Si tratta però di un’autoaffermazione che tiene poco conto di un impegno o attenzione verso la società per privilegiare il valore del singolo, che si realizza spesso in una continua competizione con gli altri. Vincere e perdere sono concetti molto utilizzati negli Stati Uniti e molto pericolosi. In certi ambienti per vincere si può fare di tutto e il cinema lo ha raccontato in molti modi. A me piace pensare invece a situazioni in cui se vince qualcuno vincono tutti, come quando si trova un accordo utile a tutti i contendenti, quello che in Ucraina sembra ancora lontano.

Gli Usa passano per essere il Paese della democrazia e della libertà. Vari presidenti hanno preteso anche di esportare questi valori. E lo hanno fatto con violenza invadendo l’Iraq, l’Afghanistan…

Questa idea di esportare la democrazia con le armi in realtà ha sempre voluto dire agire per la sicurezza e la prosperità americana. Non è vero che gli Usa siano il Paese della libertà. Gli Stati Uniti impongono delle limitazioni partendo da princìpi molto discutibili, come il divieto sull’aborto che si sta estendendo sempre di più a scapito della autodeterminazione delle donne o come il divieto per i diciottenni di acquistare alcolici ma non armi. Una strana coesistenza di libertà e divieti che è difficile comprendere se non orientandosi verso scelte fortemente legate ad un pensiero religioso che si lega ad un’idea di benessere molto attento alla realtà materiale e molto distratto riguardo ad altre dimensioni umane molto importanti come quelle che sono mancate ai ragazzi di cui abbiamo parlato.

A proposito di moralismo nordamericano, Eva Cantarella, che ha insegnato per anni negli Usa, nota che anche corteggiare una donna viene letto come un gesto oltraggioso e sui mezzi pubblici viene stigmatizzato anche uno sguardo “di troppo”.

In certi Stati tempo fa era condannata la fellatio ma non so se la legge sia ancora in vigore. Un controllo ossessivo sulla “moralità” dei cittadini nella nazione che si diceva la più libera di tutte. È come se ci fosse una enorme difficoltà ad andare oltre la visione “materiale”, piatta, dei rapporti e dei movimenti degli esseri umani. La realtà materiale dei fatti senza il suo contenuto è muta, priva di senso e non si può fare altro che limitarla al massimo non potendo conoscere nulla di ciò che contiene. Una carezza può essere un gesto d’amore o una prepotenza e dunque si deve decidere se accettarla o meno, ma si potrebbe osservare che anche un consenso scritto a questo gesto non può garantire nulla riguardo al contenuto psichico e affettivo. La cecità riguardo alla psiche umana fa muovere le persone come se brancolassero nel buio dove tutto può essere pericoloso.

Come mai anche movimenti nonviolenti e antirazzisti sono caduti nella trappola di una ribellione violenta, nella idea di farsi giustizia da sé? Manca loro una visione diversa dell’essere umano? Una prospettiva di cambiamento possibile?

Penso di sì. Anche il movimento antirazzista ha avuto delle derive. In America è stato prevalentemente un movimento nonviolento, in quel modo ha realizzato le sue più grandi conquiste però ha avuto anche momenti di distruttività, di rabbia, certo molto legati a eventi drammatici, come uccisioni da parte dei poliziotti. È vero però che per sostenere una scelta di nonviolenza è necessario comprendere la violenza come cercavo di dire prima, e soprattutto comprendere la violenza psichica per comprendere non solo la violenza che si subisce ma anche quella che in certe condizioni si può agire sugli altri.

Allargando lo sguardo anche ad altre zone del mondo si nota come istituzioni repressive riescano a pervertire movimenti nati come nonviolenti. Penso al movimento degli ombrelli gialli a Hong Kong. «Ci avete insegnato voi cosa è la violenza» hanno scritto i manifestanti sui muri delle istituzioni cinesi. È una sconfitta quando un movimento non violento accetta la logica dell’oppressore.

Di fronte alla violenza dell’oppressione, di fronte alla repressione a volte ci si riempie di rabbia. Ci si identifica con l’aggressore perché si accetta che l’unica dialettica possibile sia quella imposta da quest’ultimo. È una questione molto delicata…. Alzare una barricata è un gesto che si può capire, sparare agli agenti non è accettabile.

Anche in Italia c’è tutto un filone del pacifismo che usa la nonviolenza come prassi, praticando l’obiezione di coscienza, la diserzione, c’è un rifiuto di imbracciare le armi. È una tradizione che ha una sua dignità, che ne pensa?

Assolutamente! Questo è del tutto condivisibile. Tuttavia oltre a praticare l’obiezione in questi termini c’è da fare un percorso e un lavoro per affrontare le motivazioni per cui si arriva ad essere costretti ad imbracciare le armi o opporsi a qualcosa di non accettabile.

Che differenza c’è tra pacifismo e nonviolenza?

Il pacifismo è praticabile in una società democratica in cui puoi fare un lavoro sulle idee, sulla cultura della gente e convincere grandi masse di persone ad orientarsi in un certo modo ed è ovviamente il percorso privilegiato per arrivare a cambiare la realtà. La nonviolenza è un concetto molto più complesso per cui deve essere legata a un rapporto con la realtà ben preciso. L’atto del medico che incide, che tocca il corpo della persona, in sé potrebbe essere considerato come atto violento. In realtà per la finalità che ha non lo è. Ci sono delle situazioni, delle circostanze, per cui la trasformazione della realtà cui si tende deve essere realizzata con un rifiuto della realtà presente e attuale, altrimenti non ci si arriva.

Un esempio?

Lo psichiatra Massimo Fagioli ne faceva spesso uno: se qualcuno sta per farsi del male, sta per buttarsi da un ponte o sta per fare del male ad altri o a un bambino si usa la forza per impedirglielo. Questo avevo cercato di proporre nell’articolo che ho scritto per Left (ora riproposto nel libro L’Arte di costruire la pace, ndr). Per fermare il gesto suicida o omicida di una persona è possibile doverla contenere ma per il bene della persona stessa e delle eventuali vittime. Dunque il concetto di nonviolenza è molto più esteso, si declina in modo diverso e più ampio del pacifismo assoluto. Penso però che anche il movimento pacifista faccia la propria elaborazione su come svolgere una dialettica con la realtà. Il concetto che può unire pacifismo e nonviolenza è la modalità con cui ci si confronta con la realtà per trasformarla. Siccome la necessità di affrontare e trasformare la realtà in certi casi è stringente – come vediamo in America – su questo bisogna intendersi e ci si può intendere. Credo che per tutto quello che ci siamo detti quello che caratterizza le azioni umane sia l’intenzione più o meno visibile che le sostiene. La ricerca non può che essere questa.

L’intervista prosegue su Left del 3 giugno 2022 

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La guerra liquida nel Mediterraneo

Dozens of migrants fall in the water while they struggle to cling to the side of an upturning boat off the waters of Tunisia early Wednesday, May 25, 2022. Some 110 people were rescued by the non-governmental organization Open Arms during a mission in the Mediterranean Sea. (AP Photo/Valeria Ferraro)

Sono almeno 600 i morti della guerra che non interessa a nessuno e che fatica a fare notizia. Del resto i morti di questa guerra non entrano negli zoom dei cronisti di guerra, stanno sott’acqua impigliati in qualche pezzo di barca oppure si frollano prima di essere mangiati dai pesci. Nella guerra liquida del Mediterraneo (una delle trentatré guerre in corso nel mondo in questo momento) nel mese di maggio appena concluso 8.655 nuovi arrivi contro i 5.679 del 2021. Da inizio anno 19.416 contro i 14.692 del 2021. Oltre 600 persone scomparse e decedute nel tentativo di attraversare il Mediterraneo centrale (138 corpi ritrovati e 462 dispersi), a fronte di 7.067 persone violentemente respinte in Libia e riportate in detenzione illegale.

La situazione la riporta Meeting Pot Europa che ripercorre gli avvenimenti del mese appena passato, dei naufragi che hanno ottenuto ancora meno spazio del solito e che ancora una volta sono il risultato della criminale omissione di soccorso degli stessi Paesi così celeri quando c’è da chiudere lo scatolone delle armi. Ci sono i 76 morti del 25 maggio che non hanno nemmeno avuto un tweet dai politici, perfino quelli che si definiscono più democratici e progressisti. Ci sono i salvataggi in mare grazie alle navi di quelle Ong che nonostante il fango da cui sono state ricoperte continuano a svolgere il proprio lavoro, quello che dovrebbe fare l’Europa. Delle Ong non se ne parla più perché altrimenti bisognerebbe dare conto dei processi che erano solo accanimento politico senza nessuna base giudiziaria (e infatti sono finiti in niente) e perché effettivamente fa paura a una certa politica che questi nonostante tutto siano lì, tutti i giorni, a salvare vite: sono professionisti nel senso più alto del termine, professano i propri valori nel proprio mestiere.

A proposito di guerre: in un appello del Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane (C.I.S.D.A.) si scopre la situazione degli afghani. «Dopo tante risorse spese per spostarsi al di fuori del proprio Paese – si legge nell’appello -, i loro visti sono in scadenza, o scaduti,  e le spese di mantenimento diventano insostenibili. Per molte e molti, la permanenza in questi Paesi confinanti è un ulteriore fattore di rischio per la presenza di organizzazioni fondamentaliste legate, o meno, al governo talebano, o per la prassi sempre più diffusa dei rimpatri. Si tratta in gran parte di persone che si sono esposte pubblicamente durante il periodo dell’occupazione militare Nato a guida Usa, e che anche la clandestinità non può proteggere. La vergogna per le incresciose modalità con cui si è svolto il ritiro delle truppe occidentali, non è cancellata dal nuovo dossier ucraino perché le ragioni che sono all’origine del disastro a cui abbiamo assistito a metà agosto sono ben presenti alla nostra memoria e sono parte delle lezioni afghane che dovrebbero essere patrimonio anche della politica. Sale anche lo scandalo per l’incomprensibile blocco dei corridoi umanitari che avrebbero dovuto portare in salvo in Italia almeno un primo gruppo di 1.200 persone a rischio di vita e di persecuzione in Afghanistan, dopo il ponte aereo dell’agosto scorso».

Anche la guerra in Afghanistan alla fine è finita sott’acqua.

Buon venerdì.

 

Stato di terrore

May 24, 2022; Uvalde, TX, USA; Law enforcement investigates the shooting at Robb Elementary School in Uvalde, Texas on Tuesday, May 24, 2022. The shooting killed 18 children and 2 adults. Mandatory Credit: Mikala Compton-USA TODAY NETWORK (Photo by Austin American-Statesman-USA TO/USA Today Network/Sipa USA)

«Criminali si diventa, non si nasce». Annerito dal fumo di un incendio, inciso su una tavola di legno, questo messaggio fu trovato dai pompieri accorsi a spegnere le fiamme nella fattoria di Andrew P. Kehoe a Bath Township, nel Michigan (Usa), divampate per, fino a quel momento, motivi ignoti. Circa un’ora dopo un’altra chiamata allertò i vigili del fuoco della piccola cittadina a nordest di Landing, la capitale dello Stato. Questa volta si diressero verso la scuola elementare Bath consolidated school: qualcuno l’aveva fatta saltare in aria con la dinamite.

Mentre procedevano le operazioni di spegnimento e soccorso dei bambini e degli insegnanti sopravvissuti, una terza deflagrazione avvenne di fronte all’edificio scolastico distrutto. Un Ford pickup esplose dopo che il guidatore aveva sparato all’esplosivo che si trovava sul sedile posteriore. Con lui morirono altre persone che erano nei pressi. Il conducente del pickup era Andrew P. Kehoe.

In breve tutto divenne chiaro: prima di suicidarsi era stato lui a distruggere la propria fattoria con una bomba incendiaria, e successivamente la Bath Consolidated school con centinaia di kg di tritolo che aveva piazzato durante dei lavori che gli erano stati commissionati quasi un anno prima dalla direzione dell’istituto di cui tra l’altro era tesoriere. In tutto Kehoe uccise 45 persone e ne ferì altre 58. La maggior parte delle vittime erano piccoli scolari tra i 7 e i 13 anni.

Era la mattina del 18 maggio 1927 e l’attentato compiuto dal fattore di Bath Township, a distanza di 95 anni rappresenta, in termini di vite umane, il più grave massacro scolastico nella storia degli Stati Uniti. Più degli eccidi al Virginia Polytechnic institute del 16 aprile 2007 (33 morti compreso l’autore, e 29 feriti) e alla Sandy Hook elementary school del 14 dicembre 2012 (27 morti tra i quali 20 bambini di 6-7 anni). Più del tristemente famoso “bowling” alla Columbine high school del 20 aprile 1999 (13 morti, oltre i due autori suicidi). Più di quello compiuto dal 18enne Salvador Ramos alla Robb elementary school di Uvalde in Texas il 24 maggio scorso: 19 bambini e due insegnanti, oltre il responsabile. Più di quello alla Stoneman Douglas high school di Parkland (2018, 17 morti), più di… Fa gelare il sangue la scia di morti nelle scuole Usa in un secolo, così come è agghiacciante e umanamente intollerabile il fenomeno delle sparatorie di massa entro cui queste rientrano. Gun violence archive, un sito che tiene questa triste “contabilità”, ha calcolato che nel solo 2022, negli Stati Uniti, 213 comunità hanno vissuto una sparatoria di massa. Ben 23 sono avvenute in istituti scolastici. Per farsi un’idea, s’intende per “sparatoria di massa” un episodio in cui almeno quattro persone (ad eccezione del killer) sono vittime di violenza da armi. Di fronte a tutto questo, il Paese più potente del pianeta sembra totalmente inerme e incapace di organizzare un’efficace rete di prevenzione e di protezione. Non è capace? Non vuole? Non può? Vuole ma non può? Gli Stati Uniti, oltre…

L’inchiesta prosegue su Left del 3 giugno 2022 

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