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This is not America

Oggi, 2 giugno, una nuova strage negli Usa, questa volta in un ospedale a Tulsa. 4 morti e una decina di feriti. Il bollettino senza sosta.

Solo qualche settimana fa, a metà maggio, la strage a Buffalo nello Stato di New York. A fare fuoco è stato un diciottenne, Payton Gendron, che si dichiarava emulo dello stragista della Nuova Zelanda, Brenton Tarrant. Il ragazzo aveva sviluppato una ossessione fantasticando di una imminente, (quanto del tutto inesistente) sostituzione etnica a danno dei bianchi. L’ideologia suprematista aveva “dato ragione” al suo delirio, alimentato dal razzismo di presidenti d’assalto come Trump ma anche da sovranisti nostrani. Gendron, infatti, via Tarrant aveva preso ad esempio Luca Traini, ex candidato della Lega con simpatie neonaziste che il 3 febbraio 2018 tentò una strage di cittadini immigrati a Macerata.

L’America aveva ancora davanti agli occhi quell’assalto al supermercato in cui sono state uccise dieci persone ed ecco che, come un macabro rituale, pochi giorni dopo un’altra strage, a Uvalde in Texas, compiuta, anche questa volta da un diciottenne, Salvador Ramos. È stato un agghiacciante massacro di bambini il ragazzo ne ha uccisi 19, insieme a due insegnanti.

All’indomani Trump, come niente fosse, è andato a parlare alla convention dei costruttori di armi, una lobby così potente da riuscire a imporre i propri presidenti degli Stati Uniti. In un bagno di folla è tornato a benedire come sacrosanto il secondo emendamento che garantisce agli statunitensi la libertà di armarsi, come da noi la Costituzione parla di diritto al lavoro. Dopo che Biden, campione di invio di armi all’Ucraina, aveva balbettato qualcosa a proposito della necessità di regolamentare l’acquisto di armi in patria, Trump, riaccendendo i fantasmi dell’assalto a Capitol Hill, ha gridato di volersi riprendere il Paese, promettendo di comprare più armi. Pistole e fucili da mettere in mano anche ai docenti, obbligandoli così a pervertire il loro compito di educatori, addestrandoli e abituandoli all’eventualità di sparare contro i propri studenti, qualora se ne dia il caso. Già adesso nelle scuole del Texas, come ha raccontato a tutta la città ne parla di Radio3 lo scrittore Andrea Bajani (che da qualche tempo vive là) i giovanissimi fanno esercitazioni per essere pronti in caso si trovino di fronte un mass shooter nei corridoi o in classe. Come fosse normale. Come se fatti agghiaccianti di questo genere fossero ineluttabili, come se la natura umana fosse abitata da una violenza innata, che al più si può solo cercare di controllare con la ragione e con le armi. Questo è il perverso, angosciante, messaggio di rassegnazione e impotenza che le istituzioni americane trasmettono ai più giovani. Senza preoccuparsi di indagare le cause di quel che accade, senza interrogarsi sul perché e per come un ragazzino possa arrivare a fantasticare una strage e attuarla. Non parlano di malattia mentale, di isolamento malato, di patologica perdita di rapporto con la realtà e con la realtà umana in modo particolare come invece fa lo psichiatra Fernando Panzera su Left.

Come è possibile che nessuno intorno a Salvador si sia accorto di quanto stesse male? Perché in questo e in molti altri casi, tutti molto simili – da Columbine del 1999 alla strage nella Sandy Hook elementary school, in Connecticut nel 2012 – non si è potuto o voluto vedere e prevenire? I segnali c’erano ma nessuno li ha voluti davvero cogliere.

Salvador Ramos era stato del tutto abbandonato a se stesso, dai familiari, dalla scuola, dai vicini…. Che cultura è quella di un Paese che si dice democratico e che risulta così “indifferente”? Che cultura è quella che esalta la “libertà” di armarsi fino ai denti, di vincere sugli altri, di affermarsi a qualunque costo? Che cultura è quella che esalta l’ideologia della guerra, che ammette la pena di morte e considera normale isolarsi in preda a un assoluto vuoto interiore? Non abbiamo letto sui giornali e non abbiamo ascoltato in tv non dico risposte, ma almeno domande radicali su questi temi. E ci è sembrato importante tornare ad esplorarli. Il nostro compito e la nostra ragione di essere come settimanale non è descrivere la realtà, e tanto meno giudicare, ma andare oltre la cronaca, provare a leggere oltre la superficie delle cose ricostruendo i contesti indagando l’humus culturale in cui certi fatti avvengono. Cercando di comprendere le dinamiche di ciò che – come in questo caso – appare del tutto incomprensibile. E che tale non è.

L’editoriale è tratto da Left del 3 giugno 2022 

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La fine della vergogna delle navi quarantena, finalmente

Migrants line up on the dock to get their temperature checked for COVID-19 symptoms before boarding the GNV Azzurra ship to undergo a period of quarantine after being transferred from the migrant center on the Sicilian island of Lampedusa, southern Italy, Thursday, May 13, 2021. (AP Photo/Salvatore Cavalli)

L’avevamo scritto qui che le navi quarantena erano un’illegalità di Stato in mezzo al mare. E infatti il governo italiano ha deciso di abbandonare l’uso delle navi da quarantena adottate durante la pandemia per isolare i migranti in mare dopo il loro arrivo in Italia.

Al culmine della pandemia di Covid-19, cinque navi erano in servizio per isolare irregolarmente i migranti appena arrivati in Italia. Ne rimangono solo due, ma tra pochi giorni il sistema di quarantena offshore finirà e le navi saranno riportate alla loro “missione” originale: il trasporto di turisti.

Le navi di quarantena sono state attivate nel bel mezzo dell’emergenza Covid nell’estate del 2020. I migranti sono stati isolati offshore al loro arrivo per alleviare la pressione sul sistema sanitario.

Martedì 31 maggio, è stata ordinata una proroga ordinata dal ministero della salute che ne ha permesso la scadenza dell’uso e non sono previsti ulteriori rinvii. Ciò significa che, una volta terminato il periodo di quarantena per le persone attualmente a bordo delle navi Azzurra e Aurelia (rispettivamente a Lampedusa e Pozzallo), il servizio terminerà.

Le misure sanitarie per i nuovi arrivati – poiché si prevede che i flussi migratori aumenteranno in modo significativo in estate – si svolgeranno a terra.

Venerdì 27 maggio, il Garante per i diritti delle persone detenute, Mauro Palma, ha chiesto la loro abolizione il prima possibile. Le navi da quarantena, ha detto, erano «una soluzione transitoria ed eccezionale connessa allo stato di emergenza sanitaria». «Lo stato di emergenza tuttavia è terminato il 31 marzo (quasi due mesi fa!) e non sono ancora state dismesse», ha osservato.

Due decreti emessi dal ministero della Salute avevano esteso l’uso del sistema di quarantena offshore per i nuovi arrivi sul territorio nazionale. Ora le prefetture in prima linea negli arrivi, in particolare quelle sull’isola di Sicilia e nella regione meridionale della Calabria, gestiranno gli arrivi quest’estate – con il coordinamento del ministero dell’Interno – utilizzando centri di accoglienza e hotspot sulla terraferma.

Nel frattempo le partenze dal Nord Africa sono in aumento: 18.841 sbarchi sono già stati registrati nei primi cinque mesi dell’anno, in aumento di 4.500 rispetto allo stesso periodo del 2021. Le navi di soccorso per migranti gestite da Ong sono in piena attività: lunedì mattina (30 maggio) l’Ocean Viking gestito da Sos Mediterranee ha portato 294 migranti al porto di Pozzallo. Altri 80 sono stati salvati nel pomeriggio lo stesso giorno dalla Aurora, la nuova nave dell’organizzazione di soccorso tedesca Sea-Watch. Secondo quanto riferito, una barca con 280 persone a bordo è arrivata a Reggio Calabria; e si dice che l’hotspot di Lampedusa sia ancora una volta sovraffollato.

Buon giovedì.

Nella foto: migranti si imbarcano nella nave quarantena Azzurra a Lampedusa, 13 maggio 2021

Il capitano faccendiere

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 24-05-2022 Roma, Italy Politica RAI - trasmissione Porta a Porta Nella foto: Matteo Salvini ospite della trasmissione condotta da Bruno Vespa Photo Mauro Scrobogna / LaPresse May 24, 2022 Rome, Italy Politics RAI - Porta a Porta broadcast In the photo: Matteo Salvini guest of the program conducted by Bruno Vespa

Il quotidiano Domani svela che Matteo Salvini (e il suo nuovo consulente, l’ex deputato di Forza Italia Antonio Capuano) l’1 marzo hanno incontrato in gran segreto l’ambasciatore russo Sergej Razov a Roma, in una bella cenetta intima come ai bei tempi quando il leader della Lega sognava di essere il nuovo Putin all’amatriciana. È stato il primo di una serie di incontri (in tutto sarebbero 4) in cui un esponente di uno dei principali partiti di governo ha intavolato una trattativa parallela con la Russia (sulla base di rapporti che non abbiamo mai conosciuto nella loro interezza) senza informare il governo di cui fa parte, senza informare la classe dirigente del suo partito e senza informare il ministero italiano.

Il viaggio in Russia di Salvini (che faceva schifo anche prima di conoscere tutti i retroscena) era solo la nuova puntata di una saga che si consumava sotto traccia (sembra anche con l’aiuto di alcuni esponenti del Vaticano) e. che avrebbe dovuto (nell’idea di Salvini e Capuano) rendere il leader della Lega “salvatore del mondo” con una pace firmata in tasca dopo una gita a Mosca.

Ci sono diversi profili in tutta questa storia che sono piuttosto imbarazzanti. C’è innanzitutto l’abituale scollegamento di Salvini con la realtà, convinto davvero di poter essere il Sancho Panza che con il suo poco peso politico, le sue poche competenze e la sua scarsa credibilità avrebbe potuto risolvere un conflitto. Poi c’è lo stato dell’arte del centrodestra italiano che sostanzialmente non esiste ma è semplicemente un recinto elettorale in cui tutti pascolano a modo loro, senza rinunciare al boicottaggio dei loro stessi alleati. Infine c’è un governo, questo che ci ritroviamo in Italia, che incomprensibilmente si tiene insieme su convergenze difficili da individuare.

L’ennesima figura barbina, ancora.

Buon mercoledì.

Nella foto: Matteo Salvini a Porta a porta, 24 maggio 2022

Quella doppia violenza contro le donne

C’è una violenza strisciante, subdola e invisibile che attenta alla vita di donne e bambini. Una violenza che assomiglia a un paradosso kafkiano, una trappola infernale che scatta a suon di carte bollate e perizie psicologiche, nell’ambito dei procedimenti giudiziari, quando le madri trovano il coraggio di denunciare i compagni o i mariti che le hanno maltrattate nell’ambito delle relazioni familiari, sotto gli occhi di quei minori che lo Stato dovrebbe proteggere.
I tecnici la chiamano “vittimizzazione secondaria” e si verifica nel procedimento per la custodia dei figli quando gli abusi nei confronti di donne e bambini non vengono “letti” e quindi non vengono tenuti in alcuna considerazione, e i tentativi di protezione delle madri nei confronti dei bambini vengono annoverati come disturbi psichiatrici da indagare.

Quando i piccoli rifiutano il genitore violento intorno a loro scatta, quasi in automatico, la “molla” dell’indagine psichiatrica o psicologica. Perché la bigenitorialità non ammette rifiuti. Le madri vengono considerate ostative, maligne, narcisiste, simbiotiche. È questa la teoria della alienazione parentale, Pas, ormai sconfessata in tutte le possibili sedi scientifiche e anche, ripetutamente, dalla nostra Cassazione, ma che tende a risorgere, con altre denominazioni, nelle aule dei tribunali.
Il rischio grande per la donna che si ribella alla violenza, anche denunciandola, è allora mquella di essere punita con una violenza atroce: la perdita della custodia dei figli, a volte irreversibile, cui si dà sempre più spesso attuazione con l’intervento, traumatizzante e drammatico, della forza pubblica.
Questo meccanismo crudele è al centro di una relazione, corredata di analisi condotte su un numero rilevante di casi giudiziari, che la Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio guidata dalla senatrice Valeria Valente ha presentato nei giorni scorsi (v. Left del 20 maggio, ndr). Un documento fondamentale che…

L’autrice: Maria Cecilia Guerra (Articolo Uno) è ordinario di economia e sottosegretaria al ministero dell’Economia e delle finanze

L’articolo prosegue su Left del 27 maggio 2022 

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Confindustria rea confessa

Foto LaPresse 30 Maggio 2022 Milano, Italia Cronaca Milano, Assemblea Generale di Assolombarda 2022 e inaugurazione di Mind Nella foto: Carlo Bonomi Photo LaPresse May 30, 2022 Milan, Italy News Milan, General Assembly of Assolombarda 2022 and inauguration of Mind In the picture: Carlo Bonomi

Ieri all’Assemblea di Assolombarda il ministro Colao non ci è andato leggero: «I costi del Pnrr sono debito – ha detto il ministro – , non sono regali ma impegni presi. Per questo ci dobbiamo ricordare dei ragazzi: assumete di più, pagateli di più senza differenze di genere. Le risorse umane sono l’asset più importante che avete e c’è anche una legislazione favorevole. E poi c’è la formazione, rinunciarci è autolesionista».

Ti saresti aspettato che dopo un invito (o forse un monito) del genere gli imprenditori avrebbero risposto cogliendo l’opportunità ma qui in Italia certi imprenditori hanno visioni lunghe al massimo dal loro ufficio fino alla macchinetta del caffè e così accade che il solito Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, confessi: «Quando cerchiamo i giovani per dargli lavoro abbiamo un grande competitor che è il reddito di cittadinanza». «È vero – ha aggiunto – che il reddito di cittadinanza esiste anche in altri Paesi europei. Ma è anche vero che quando rinunci ad un posto di lavoro ti tolgono il reddito. Si sono trovati i soldi per rifinanziare il reddito di cittadinanza ma senza riformarlo, nonostante non abbia nessun valore dal punto di vista di politiche attive del lavoro».

Finalmente ha confessato, finalmente abbiamo le carte in tavola. Il presidente di Confindustria ritiene il Reddito di cittadinanza, quei pochi spicci che sono ossigeno per persone che spesso risultano inoccupabili come certifica l’Inps, un “competitor” dell’industria italiana. E poiché gli imprenditori quando giocano a fare gli imprenditori splendenti ripetono spesso “dimmi chi sono i tuoi competitor e ti dirò chi sei” possiamo tranquillamente dedurre che un pezzo dell’industria italiana ha in testa di competere con un sussidio di dignità e sopravvivenza considerandolo un vero e proprio salario.

Sia quindi benvenuto questo tempo in cui i cittadini hanno le forze e lo spirito per rifiutare l’essere schiavi di una classe imprenditoriale inetta che ha come unico talento quello di lucrare sulla povertà mentre finge di puntare sulla qualità del lavoro. Ben venga la confessione di Bonomi che certifica, più di qualsiasi marchio e certificazione, lo spessore di certa imprenditoria italiana. Di quel mondo industriale ne facciamo volentieri a meno.

Buon martedì.

Balneari, la ricreazione è finita

Foto LaPresse - Massimo Paolone 14 agosto 2020 Rimini (Italia) Cronaca Stagione balneare 2020 in Romagna con le strutture ricettive organizzate per l'emergenza coronavirus Covid 19 Nella foto: la spiaggia di Rimini Photo LaPresse - Massimo Paolone 14 August 2020, Rimini (Italy) 2020 bathing season in Romagna with the accommodation facilities organized for the Covid 19 coronavirus emergency In the pic: the beach of Rimini

Ciò che sta accadendo sulle concessioni balneari è una fotografia interessante dello stato del Paese. Su twitter l’utente @portakittepare la spiega semplice semplice: «Cos’è una concessione amministrativa di beni pubblici? La premessa di fondo è che le spiagge sono beni che appartengono al demanio necessario. Cioè sono PER FORZA DELLO STATO, cioè sono PER FORZA DI TUTTI. Come si spiega che ci si fa soldi sopra? E n’attimo, mo vi dico. Essendo le spiagge roba di tutti, il loro sfruttamento economico è subordinato ad una condizione fondamentale: deve soddisfare l’interesse pubblico (in questo caso) ad una migliore fruizione della spiaggia. Badate: sta cosa vale per TUTTE LE CONCESSIONI. Prendete ad esempio, cazzo ne so, le concessioni per la telefonia: l’etere è di tutti, ma per sfruttarlo per telefonare e per internet servono competenze specifiche e infrastrutture costose, e si ricorre al mercato. Si ricorre alla CONCESSIONE, in generale, se la risorsa pubblica sia limitata.

2. La direttiva Bolkestein. Si tratta di una normativa europea, recepita in Italia, che vincola gli stati membri a garantire che, laddove le risorse da attribuire in sfruttamento ai privati siano per loro natura limitate, deve essere garantita la concorrenza. Come si garantisce la concorrenza? Attraverso il rispetto di alcuni principi, fra i quali la TEMPORANEITÀ della concessione; la PARITÀ DI ACCESSO, tipicamente attraverso lo svolgimento di una gara. In sostanza, si vuole evitare il consolidamento di posizioni dominanti nel mercato. In altre parole, è VIETATO costituire concessioni perpetue o irragionevolmente lunghe.

3. Il simpatico Stato italiano. Il punto è che in Italia, apparentemente, amiamo fare promesse agli imprenditori che poi ci regalano cose. Le nostre concessioni sono state storicamente lunghissime, poco costose e la gente ci ha mangiato assai. Solo che poi è arrivata Bolkestein. Il diritto europeo funziona così: se una norma nazionale contrasta con una norma europea, la norma nazionale è un uomo morto. Cioè si disapplica. Cioè il giudice la prende e dice: “Oh tu non esisti più” e quella muore, come GM Volonté contro C Eastwood in un film di S. Leone. Il tenacissimo legislatore se ne è storicamente catafottuto e ha disposto proroghe su proroghe. Il Consiglio di Stato è intervenuto, da ultimo, con una pronuncia della Adunanza Plenaria. La Plenaria è importante perché vincola il giudice amministrativo quasi come il Common Law.

4. Il Consiglio di Stato. Le pronunce della Plenaria sono in effetti due, la 17 e la 18 del 2021, e le trovate qui. La Plenaria dice una cosa pazzesca: non solo la proroga è illegittima, ma QUALSIASI PROROGA, anche futura, è illegittima e va disapplicata NON SOLO DAL GIUDICE, MA ANCHE DAI FUNZIONARI AMMINISTRATIVI. La Plenaria dice “Legislato’, hai voglia a fare, sto giro non passi. Se pure la legge dicesse “proroga”, la pubblica amministrazione stessa sarebbe comunque TENUTA a ignorare l’esistenza della proroga e dovrebbe fare i bandi nuovi e le gare”. Gli indennizzi. Permettetemi una premessa: che significa indennizzo? L’indennizzo, diciamo in questo caso, va pensato come una contropartita rispetto a qualcosa di spiacevole ma tutto sommato lecito. Più in generale “indennizzo” si differenzia dal “risarcimento” per questa ragione: il risarcimento presuppone un illecito (un danno ingiusto, un inadempimento contrattuale). Un indennizzo è un aglietto, diciamo. Nel caso delle concessioni, si legge che l’indennizzo dovrebbe mitigare il pregiudizio subito da chi ha investito, presupponendo di ammortizzate i costi per tempi lunghissimo, e poi si è ritrovato all’improvviso con uno Stato che decide che guarda un po’? La concorrenza. Il problema, di natura politica, è quindi: 1) se accordare un indennizzo a chi esce e non riesce ad aggiudicarsi una gara nuova; 2) quanti soldi dargli. La regola (ve la semplifico ma il concetto è questo) è che la PA non può pagare soldi a chi non è in regola col pagamento di tasse e contributi, per valori superiori a 5000 euro. Cioè se hai buffi con fisco, INAIL, INPS ecc. per oltre 5000 euro non puoi essere pagato. Sembra una regola di buon senso, vero? È una cazzata, in realtà, almeno in generale: pensate che la PA è spesso in ritardo coi pagamenti. L’appaltatore che non viene pagato ritarda a pagare tasse o contributi e quindi non può essere pagato. Al posto del pagamento si attiva un bizantino procedimento di pignoramento dei debiti fiscali e nel frattempo si va incontro a tutta una serie di altri cazzi potenziali, che vi risparmio. Si risolverebbe facile con un sistema di compensazione automatica dei debiti e dei crediti, tanto va tutto sulla stessa piattaforma elettonica del MEF, ma le cose facili non ci piacciono, preferiamo avere evasori che falliscono, that’s how we do it, deal with it. Insomma, lo scherzo: alcuni imprenditori della balneazione, diciamo, si troveranno a chiedere l’indennizzo e a sentirsi rispondere: “Eh no, tu hai i buffi”. La quantificazione dell’indennizzo poi andrebbe commisurata al tempo (magari indefinito) della concessione interrotta oppure al valore effettivo degli investimenti effettuati? Dovrebbe tenersi conto dell’eventuale valore irrisorio, rispetto a quello di mercato, del canone concessorio che si pagava prima? Si tratta di una questione “politica”, rispetto alla quale contano i voti che le forze politiche vanno cercando. Non andrebbe trascurato un elemento, che ora vi dico. Alcune vecchie concessioni, rinnovate in automatico, furono rilasciate da amministrazioni di cui non si può dire che fossero infiltrate dalla mafia, ma erano infiltrate dalla mafia. Oppure se ne è fatto merce di voto di scambio, molto semplicemente, facendo regali ad amici e ad amici di amici. Sono storture aberranti su cui è impossibile indagare con qualche obiettivo concreto, a distanza di anni. Il sistema delle gare dovrebbe in teoria limitare, se non eliminare, proprio questo tipo di cose. La temporaneità della concessione dovrebbe poi consentire un ricambio. Qual è il problema allora? Ce n’è uno semplice. Il contesto di mercato. Il mercato dei servizi balneari a me pare piuttosto chiuso. Cioè uno che ne esce avrà difficoltà a rientrarvi a distanza di anni. Questo porterà ad un fenomeno simile a quello che sta succedendo, per ragioni diverse, in un altro mercato pure contingentato, che è quello delle farmacie. Il mercato, cioè, sarà via via occupato da operatori molto grossi che potranno fare investimenti maggiori, su zone diverse d’Italia, correre il rischio di perdere alcuni lotti compensando con altri, ed espellere dal mercato le imprese più piccole. Per le farmacie è stato lo stesso: oggi molte piccole farmacie di paese sono entrate in crisi (anche a causa, guarda un po’, della lentezza dei pagamenti delle ASL) e sono state fagocitate da grosse società con grossi capitali, che se le comprano a pacchi. In questo modo, la “liberalizzazione” ammazza la concorrenza in un modo diverso, tendendo all’oligopolio e all’accentramento dei capitali. Senza che questo offra alcuna garanzia di rispetto delle condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici, va aggiunto».

Come osserva giustamente Mario Tozzi la media dichiarata su 12mila balneari è di 20mila euro/anno (Il Sole 24 ore). Mettiamo 5-6 mesi/anno, lettini+ombrellone, fate voi quanti clienti e quanti mq. Sembra, ma dico sembra, ci sia qualcosa che non torni. Dice che chiudono: sempre troppo tardi. Allora perché si lamentano? Dovrebbero essere ben felici di liberarsi di un business così poco vantaggioso. Pagheranno di più? Ognuno valuterà poi cosa fare. I balneari se adeguare i prezzi e perdere parte della clientela oppure rinunciare a parte del profitto e mantenere stessi prezzi. Dall’altra parte la clientela sceglierà se farsi salassare, premiare chi non ha aumentato i prezzi o spiaggia libera. È il mercato, bellezza. Quello che idolatrano i liberisti che ora si lamentano.

Buon lunedì.

Telmo Pievani: Quella scoperta che proprio non ti aspetti

Mai come negli ultimi due anni la ricerca scientifica è stata al centro dell’attenzione pubblica. È accaduto, purtroppo a causa della pandemia da Covid 19. Ma è stato un fatto epocale, con scienziati da ogni parte del mondo che hanno messo in comune il loro sapere e le loro conoscenze per mettere a punto rapidamente un vaccino. In breve tempo hanno realizzato un grande obiettivo, impensato. Ma poi non tutto è andato come doveva andare. Il fatto più grave è stato l’accesso limitato che i Paesi del Sud del mondo hanno avuto al vaccino, a causa della speculazione delle grandi aziende farmaceutiche. Nel frattempo, incredibilmente, in quell’Occidente che aveva e ha la possibilità di vaccinarsi sono emerse frange negazioniste. Minoritarie, per fortuna. Ma grazie ai media mainstream hanno avuto grande visibilità e risonanza. E ben al di là dello zoccolo duro, dogmatico, dei no vax, la pandemia ha portato alla luce un fenomeno più vasto di scarsa confidenza con il metodo scientifico, che chiede indagine, capacità di continuare a farsi domande anche nell’incertezza, studio, ma anche coraggio, fantasia. «È proprio questa la ragione per cui ho deciso di accelerare la scrittura di questo libro su un tema che mi sta a cuore da molto tempo, la serendipità», ci racconta Telmo Pievani, a margine della presentazione di Serendipità. L’inatteso nella scienza, il volume edito da Raffaello Cortina, al Salone del libro di Torino (il 29 maggio il filosofo della scienza ne parlerà a Pistoia per i Dialoghi sull’uomo)

Pievani, la comunicazione scientifica durante la pandemia non sempre è stata ottimale?
Sinceramente molti colleghi parlando di scienza in pubblico si sono dimenticati un punto fondamentale: quando si condivide la conoscenza, per questione di trasparenza democratica non basta raccontare i risultati, le scoperte. Bisogna principalmente spiegare la scienza come un metodo, come processo, come insieme di attività che possono essere fallibili, imperfette. Ma che ci portano a conoscenze attendibili anche se, talora, rivedibili. È una attitudine importante anche dal punto di vista democratico, contro ogni autoritarismo.

Questo processo della conoscenza andrebbe spiegato, divulgato adeguatamente?
Sì, andrebbe spiegato. Invece ho visto tanto narcisismo, tanto paternalismo, tante rivalità inutili, tante contraddizioni. Tante previsioni quando non era prematuro avanzarle. Bisognava invece fare comunicazione in modo diverso, perché questa pandemia ha sorpreso tutti, compresa la comunità scientifica che ha brancolato nel buio nelle prime settimane e poi ha sempre avuto a che fare con l’incertezza nei risultati. Anziché negare quella incertezza imbarazzati andava e va spiegata perché è proprio la natura del metodo scientifico.

Il metodo scientifico «è democratico ma non populista», lei ha detto. In ogni caso però i dati, anche disaggregati, dovevano essere resi pubblici e messi a disposizione di chiunque. O no?

Con questa metafora politica intendo dire che la scienza è democratica nel metodo che porta ad ottenere risultati. I dati hanno dei vincoli, legati alla competenza di chi li ha raccolti e occorre saperli leggere. Non c’è nulla di più lontano dal metodo scientifico che “l’uno vale uno”. Dopodiché i dati vanno resi trasparenti. E questa è stata una lezione dura, ma anche positiva che ci ha inferto la pandemia. Mai come in questi due anni sono stati condivisi dati che prima invece erano trattati in modo molto più riservato e geloso. Li abbiamo visti uscire anche nei preprint, il che – va detto – è anche un po’ pericoloso perché andrebbero presi un po’ con le pinze. Però gruppi di ricerca nel mondo hanno condiviso subito informazioni come prima non facevamo. È stato uno choc che ha portato a una maggiore condivisione aperta.

Tanto che questa ricerca sui vaccini anti Covid-19 ha portato ad acquisizioni inaspettate anche in altri settori medici?

Direi che lo stesso vaccino mRna è una bella storia di serendipità. Mi viene da sorridere quando dicono che il vaccino è sperimentale. In realtà, fin dagli anni Ottanta circola l’idea di usare l’mRna. Anche in questo caso va detto: molti scienziati non ci credevano. Perfino un premio Nobel negli anni Novanta sentenziò: “Non riuscirete mai a fare farmaci o vaccini con mRna”. Ciò suggerisce che nella scienza dobbiamo sempre evitare di fare previsioni generali, perché si rischia sempre di essere smentiti. Questa della mRna è una vecchia idea, applicata in ambito oncologico che è stata applicata sui vaccini influenzali. Fa vedere molto bene anche la modalità artigianale del metodo scientifico.

La ricerca è stata produttiva grazie a massicci investimenti pubblici, come abbiamo visto.

In quei mesi del 2020 c’era una pressione fortissima, sono stati investiti tanti soldi per trovare i vaccini al più presto possibile. Qualcuno ha preso la strada tradizionale, ricorrendo a virus attenuati, e qualcun altro si è detto vediamo se c’è una tecnologia già esistente che possiamo convertire e riutilizzare per fare qualcosa e per fortuna ha funzionato. Questo dà anche un po’ l’idea del bricolage su cui si fonda la ricerca scientifica: si usa quello che c’è e si prova a dargli un senso diverso.

L’impiego dell’mRna è un esempio di serendipità forte o debole?

È un esempio di serendipità debole, perché c’era già in ricerca. È un riutilizzo nell’ambito dei vaccini. Ma gli scienziati in questo caso non stavano cercando qualcosa di completamente diverso. Frutto di serendipità debole fu anche la penicillina. È un caso classico ma si dimentica spesso che Fleming stava lavorando sugli antibiotici. La sua ossessione era trovare gli antisettici per i soldati in guerra e, più in generale, per combattere le infezioni. Poi, certo, ci arrivò in modo rocambolesco, fortunato, con un paio di eventi inattesi. La lacrima che gli cadde sulla piastra e la muffa che ci finì dentro. Come lui ammise, fu una scoperta serendipitosa, aiutata dalla fortuna, ma lui stava cercando proprio quello. La serendipità forte, quella più misteriosa e affascinante, si concretizza quando qualcuno intraprende una ricerca perché ha una sua domanda, un suo obiettivo e poi cammin facendo trova tutt’altro e scopre qualcosa che non stava cercando. Quella è la serendipità che ci interroga di più sulla bellezza del metodo scientifico.

Qualche esempio di serendipità forte?

Sono tanti: il velcro fu scoperto per caso da uno scienziato svizzero attraverso la bardana alpina che si attacca al pelo degli animali. Ma penso anche a tutte quelle serendipità – che a me paiono bellissime – in cui si trova prima la soluzione del problema e poi si scopre il problema. Penso per esempio a quei matematici che si misero a giocare con geometrie alternative che poi rimasero lì in un cassetto, come un gioco matematico. Settanta anni dopo, Einstein si rese conto che proprio una di quelle era un gioco matematico che descriveva l’universo della relatività generale. È straordinario come la mente umana, giocando con il rigore matematico, riesca a trovare prima il linguaggio e poi il contenuto di quel linguaggio. Questa per me è la serendipità più interessante.

Scoperte serendipitose implicano una spiccata capacità di immaginare? Penso per esempio al bosone scoperto da Higgs prima di averne le prove.

Il caso del bosone è proprio un esempio che ricalca la favola dei tre principi di Serendippo da cui sono partito. Da lì comincia tutta questa storia. Nella favola persiana originaria i tre principi indovinano la presenza di oggetti che non hanno visto. Quella metafora poi fu ripresa da Voltaire in Zadig e nella scienza ha portato a scoperte fondamentali. Il bosone è stato predetto a livello teorico e sessant’anni dopo venne osservato. Esattamente come i tre principi di Serendippo: sapevano della presenza di un cammello con certe caratteristiche e poi, anni dopo, lo trovarono. Qualcosa di analogo è accaduto per le onde gravitazionali. Einstein ne previde l’esistenza in via teorica, non c’erano gli strumenti per osservarle. Molti anni dopo abbiamo trovato uno strumento che permette di vedere ciò che lui aveva soltanto immaginato e previsto. È una forma di immaginazione rigorosa su basi scientifiche.

I Nobel Rita Levi Montalcini e Giorgio Parisi hanno parlato dell’importanza nelle scoperte scientifiche di una intuizione, di un elemento inconscio, di un pensiero che non è quello diurno. Che ne pensa?

Questo è uno dei motivi per cui questo tema è stato trattato molto poco nella filosofia della scienza. Da Popper in avanti molti filosofi hanno sostenuto che il contesto della scoperta sarebbe troppo irrazionale, difficile da irreggimentare. In modo un po’ squalificante hanno sostenuto che questa sia materia per psicologi e sociologi, non materia per logici ed epistemologi. Oggi sappiamo che non è così: indagare queste dinamiche più inconsce delle scoperte è molto interessante. La storia dei sogni di Friedrich August Kekulé von Stradonitz sotto questo riguardo è molto bella. Sostenne di aver scoperto la struttura del benzene dopo aver sognato l’uroboro. Era molto affascinato da quella figura mitica del serpente che si arrotola su se stesso. La soluzione ad un rompicapo su cui ti stai arrovellando da tempo ti arriva da una sorgente laterale, non dal punto di focalizzazione in cui tu sei. Quindi, più ti incaponisci sul problema, più non trovi la soluzione. La soluzione ti arriva lateralmente quando allenti un po’ l’attenzione focalizzata sul problema. Questo lo hanno notato tantissimi scienziati.

Un elemento di irrazionalità creativa c’è anche nel riuscire a vedere l’invisibile. Rimanere attaccati al dato di realtà superficiale non permette di vedere ciò che sta sotto?

È così. A questo proposito Darwin dette una bella definizione: “La scienza è vedere connessioni invisibili fra fatti sparsi”. Davanti a te hai un puzzle con solo qualche tessera qua e là. Hai soltanto qualche frammento di fatti, di evidenze. La scoperta è trovare le connessioni invisibili. Un’altra cosa che mi ha sempre divertito è che quando qualcuno fa una grande scoperta, una di quelle che ti aprono gli occhi, immediatamente i suoi colleghi dicono: “Ma come ho fatto a non vederlo, era lì”. Non è causale. È proprio questo che dobbiamo capire: Perché l’ha visto lui e non io? Anche se anche io l’avevo sotto gli occhi. Questo è l’elemento irrazionale difficile da modellare della scoperta.

L’ideologia, la religione sono d’ostacolo alla ricerca? Penso alla scoperta delle pitture parietali di Altamira che furono stigmatizzate come false da religiosi e positivisti. Penso a Ruben de la Vialle che nel Seicento scoprì importantissimi graffiti a Tarascon ma non li riconobbe come tali; ci mise la firma accanto e se ne andò. Quanto i pregiudizi e l’ideologia frenano la possibilità di fare scoperte?

Il punto è come definiamo un pregiudizio. Dobbiamo essere onesti: tutti noi abbiamo dei pregiudizi, per non dire sistemi di credenze. Lo scienziato, come diceva Louis Pasteur, non è una tabula rasa che si lascia permeare dai dati. Lo scienziato è una persona che si fa delle domande. Se ti fai delle domande significa che hai delle aspettative, hai già una tua teoria, una tua visione del mondo. L’attitudine creativa alla scoperta viene quando queste tue aspettative sono disponibili a farsi fecondare dai dati che poi tu raccogli. Quando le aspettative pregiudiziali diventano un filtro ideologico portano a una cecità  come appunto nell’esempio che facevamo ora dell’arte preistorica: in quel caso tu vedi ma in realtà non stai vedendo perché hai un filtro selettivo ideologico – che può essere religioso o di altro tipo – che ti impedisce di vederlo. Il confine è quello lì, è quando il pregiudizio diventa una cecità selettiva che non ti fa vedere le cose. E questo per me è una emergenza del nostro tempo. Basta vedere come avvengono i dibattiti sui social network. Sono proprio la negazione del dubbio. Tutti sono pieni di certezze, sono tutti convinti di possedere la verità. Non ci sono più sfumature. Io penso che questo sia un grosso problema che attanaglia il modo con cui dibattiamo.

E addirittura emergono dogmi, dei tabù intoccabili. Guai a smascherare illusioni come l’omeopatia Nel dibattito online si viene addirittura aggrediti.

Sì, scatta una sorta di riflesso condizionato. Non ne vogliono sentir parlare.

Il suo libro, Serendipità, scardina anche un altro pregiudizio, quello dell’incompatibilità fra letteratura e scienza?

Anche da questo punto di vista la serendipità mi è sempre piaciuta molto come concetto. Ne parlavo con il mio maestro Giulio Giorello che l’amava molto, perché travalica tutti i confini, di scienza, letteratura. La serendipità è una idea che arriva nella scienza tutto sommato abbastanza tardi, nella prima metà del Novecento. Ma in realtà circolava in tante altre forme di sapere molto tempo prima. Nell’Ottocento era una parola che usavano i bibliofili, gli antiquari, i cercatori di libri antichi. Era una specie di musa per loro. Stai cercando qualcosa ma poi su una bancarella improvvisamente ti compare qualcosa di molto più prezioso che non stavi cercando.

Da questo punto di vista dobbiamo riabilitare Horace Walpole e il suo Castello di Otranto e al suo ciarpame gotico che ci sembrava tanto peregrino quando lo studiavamo al liceo. Coltivare la bizzarria, il desueto, le cose che appaiono minori può portare su un terreno creativo e di scoperta?

Walpole ha il merito involontario di aver coniato il concetto di serendipità attraverso un fraintendimento. Lo mutuò dalla novella del “Dante persiano” Amir Khusrau (1253-1325) tradotta da Cristoforo Armeno a Venezia nel 1557. Anche se in quella favola i principi non trovano qualcosa che non stavano cercando, lui la interpretò in quella chiave, per cui ebbe a dire: per me la serendipity è scoprire qualcosa che non stavi cercando. Introdusse una deviazione nell’accezione che poi ebbe grande fortuna. L’idea rimase sotto traccia qualche secolo e poi nel Novecento venne usata in ambito scientifico. Ho cercato di capire anche quante altre formulazioni abbiano sfiorato quel concetto, anche se non lo chiamavano in quel modo. Chiaramente Pasteur quando diceva che gli scienziati davvero creativi sono quelli in cui il caso aiuta una mente preparata, stava sostanzialmente ripetendo il concetto di Walpole in un altro modo.

Il concetto di serendipità in qualche modo decostruisce l’opposizione Occidente Oriente, per cui l’Occidente sarebbe la razionalità illuminata superiore e l’Oriente invece sarebbe la dispersione. L’incontro fra Oriente e Occidente è invece fruttuoso?

Assolutamente sì, dobbiamo smantellare l’eurocentrismo sul tema della razionalità scientifica. Ormai è chiaro. Purtroppo non viene insegnato nemmeno agli scienziati quali sono le molteplici radici del metodo sperimentale, che ha attinto alla cultura araba, alla cultura orientale e da molti punti di vista. A me piace molto anche che la favola di Khusrau arrivi dall’Oriente attraverso un percorso di molti anni. Dall’Oriente e della Grecia arrivavano tradizioni orali molto antiche che ricalcavano delle strutture narrative di grande successo. Secondo me la grande fortuna dei principi di Serendippo, citati anche da Voltaire in Zadig risiede nel fatto che è una struttura narrativa di successo che descrive una attitudine umana profondissima, che è anche quella del metodo indiziario, come l’ha chiamata Carlo Ginzburg.

L’intervista prosegue su Left del 27 maggio 2022 

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Enrico Pieranunzi: Music Inn, la fucina del jazz

“Il jazz ha bisogno di Music Inn” titolava un articolo di Renato Nicolini apparso su l’Unità il 12 aprile 1990. E oggi sembra volerlo riaffermare Carola De Scipio con il suo docufilm Music Inn, arriva il jazz a Roma che sarà proiettato in prima assoluta alla Casa del jazz il 5 giugno (ore 11). La narrazione è su più livelli, in primo piano c’è il locale, una sorta di cantina in Largo dei Fiorentini a Roma, sul Lungotevere, destinata a diventare fino agli anni 90 il luogo per eccellenza del jazz in Italia agli occhi del mondo. Il club fu creato agli inizi degli anni 70 e gestito dal principe Giuseppe “Pepito” Pignatelli D’Aragona Cortés, batterista, e da sua moglie Maria Giulia Gallarati Scotti, detta “Picchi”. La coppia finanziò senza riserve questa loro creatura, con la vendita dei propri beni, e si prodigò con passione a tessere una rete di rapporti che consentì un modo nuovo, diverso, di vivere la musica tra musicisti e con il pubblico. Alcuni musicisti vissero all’interno del club per mesi, come Chet Baker e Tony Scott, molti erano di casa, come Massimo Urbani, Enrico Pieranunzi e tanti altri. A causa della grande affluenza di pubblico e date le piccole dimensioni del locale, gli spettacoli spesso venivano replicati e molti concerti venivano trasmessi in diretta radiofonica o registrati, per la televisione, dalla Rai.
Incontriamo il pianista e compositore Enrico Pieranunzi, autore della colonna sonora del film.

Enrico Pieranunzi parlaci del tuo rapporto con la regista. Come si è articolato il vostro lavoro?
Conosco Carola De Scipio dalla fine degli anni 90, dai tempi della stesura del suo bel libro su Massimo Urbani per il quale usò lo stesso modo di procedere utilizzato per il film: ha fatto raccontare i musicisti. Ho apprezzato molto questo suo metodo, intelligente e anche originale. Circa cinque anni fa Carola mi ha contattato per il film, insieme a tanti altri musicisti, e fin da principio sembrava avere un’idea chiara, ben precisa, che non ha mai messo in discussione, pur procedendo in seguito per espansione. Carola ha messo le mani nel passato remoto, mi ha chiesto molte cose e spesso le ho dato un mio contributo, al di là delle domande. Mi ha spinto involontariamente con delle pretese ed io, stimandola molto, perché ha dimostrato di essere una donna coraggiosa ed onesta, non mi sono tirato indietro. Il nostro rapporto è quindi cresciuto nel tempo, ogni tanto mi chiedeva della musica ed io le portavo dei miei dischi oppure ho cercato foto di quell’epoca che potesse utilizzare. Stiamo parlando di…

L’intervista prosegue su Left del 27 maggio 2022 

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Sarah Jaffe: Si deve “amare” il proprio lavoro?

13 October 2021, Mecklenburg-Western Pomerania, Neubrandenburg: Employees sort parcels from online retailer Amazon at the new distribution center. The retailer's second distribution center in Mecklenburg-Western Pomerania is officially opened today. According to the operator, around 10,000 parcels from European logistics and sorting centres are unloaded here every day and assigned to delivery vehicles. Photo by: Jens B'ttner/picture-alliance/dpa/AP Images

Sarah Jaffe è una giornalista indipendente che ha fatto del lavoro e degli schemi di potere che lo accompagnano la colonna portante della sua indagine da cronista ora raccolta in Il lavoro non ti ama edito in Italia da Minimum fax. Il libro è un saggio in cui si susseguono interviste e approfondimenti su vari aspetti della vita lavorativa, e che mostra come il neoliberismo non sia un mostro imbattibile, ma anzi che sfruttando l’antico principio per cui «l’unione fa la forza» se ne possono smantellare i meccanismi oppressivi.

«Sono una giornalista del lavoro da ormai 13 anni – racconta Sarah Jaffe a Left e il libro è cresciuto organicamente quasi da solo mentre provavo a documentare i cambiamenti della vita lavorativa nei Paesi industrializzati e come le nostre aspettative nei confronti del lavoro sono cambiate».

Jaffe, cosa sta cambiando oggi nel modo di pensare e vivere il lavoro?
A questo riguardo, il tempismo con cui ho lavorato al mio libro è stato più azzeccato di quanto pensassi. Mi spiego. Ho finito la prima stesura del libro a febbraio del 2020, proprio nel momento in cui il coronavirus contagiava i Paesi di cui stavo scrivendo (cioè Stati Uniti e Regno Unito). Quando sono arrivata al momento di correggere le bozze, il rapporto con il lavoro era drasticamente cambiato per le persone di tutto il mondo, e per la maggior parte di loro era peggiorato, molto in fretta. Momenti come questi possono essere illuminanti: il lento declino delle condizioni lavorative all’improvviso è diventato ben visibile.

Spesso parla dell’«etica dell’amore per il lavoro». Di cosa si tratta?
È la versione dell’etica del lavoro alla quale ci si aspetta che…

L’intervista prosegue su Left del 27 maggio 2022 

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Cesare Damiano: Inflazione, guerra, salari, a rischio la tenuta sociale

Foto Fabio Cimaglia / LaPresse 18-06-2019 Roma Politica Partito Democratico. Riunione della Direzione Nella foto Cesare Damiano Photo Fabio Cimaglia / LaPresse 18-06-2019 Roma (Italy) Politic Democratic party. Leadership meeting In the pic Cesare Damiano

«Nel mese di marzo, secondo l’Istat, rispetto a febbraio cresce l’occupazione in Italia sia per i contratti a termine che per quelli a tempo indeterminato. Per questi ultimi, ed è una novità, il valore assoluto è molto superiore ai primi, +103mila rispetto a +16mila. Un buon segno? Sicuramente sì dopo due anni di pandemia caratterizzati, nella ripresa del 2021, dalla crescita del lavoro temporaneo. Eppure è un dato che ora deve fare i conti con le conseguenze della guerra in corso in Ucraina e con un fenomeno, le great resignation – ossia le grandi dimissioni (v. inchiesta a pag 6, ndr) -. che inizia a farsi sentire anche in Italia, a causa delle cattive condizioni di lavoro e dei bassi salari. Siamo di fronte all’ennesimo bivio: mettere in atto le misure per contrastare l’aumento dell’inflazione e la crisi che la guerra si porta dietro tutelando i settori più colpiti e dunque i lavoratori più esposti, o rischiare tensioni sociali che sarebbe bene non sottovalutare». Secondo l’ex ministro Cesare Damiano, oggi consulente del ministro del Lavoro Andrea Orlando, il rischio concreto è quello di una vera e propria recessione economica se non si corre ai ripari.

Damiano, partiamo dal dato dell’occupazione che nello scorso marzo ha segnato un piccolo record: crescono i contratti sia a termine che permanenti. E nello stesso tempo crescono le dimissioni.
I dati Istat di marzo sull’occupazione segnalano un andamento positivo. Crescono ancora di 19mila unità, rispetto al mese precedente, i lavoratori dipendenti a termine, che raggiungono quota 3,2 milioni circa, il livello più alto dal 1977, ma crescono ancor più in valori assoluti i lavoratori dipendenti permanenti, che sono 14,9 milioni, con un aumento rispetto a febbraio di 103mila unità. La novità consiste nel fatto che a marzo l’aumento occupazionale è di gran lunga riferibile al lavoro stabile, a differenza di quanto è capitato da un anno a questa parte. Infatti, pur essendo il lavoro a termine appena il 17% del totale dell’occupazione dipendente, se calcoliamo l’aumento occupazionale nel periodo tra marzo 2021 e marzo 2020 abbiamo un aumento dei contratti a termine di 430mila unità e dei contratti permanenti di appena 312mila unità: i primi rappresentano il 58% del totale. Ci auguriamo che questo andamento finalmente si interrompa passando a vantaggio del lavoro stabile.

Ma c’è anche chi dice “basta” e si rimette in gioco.
Secondo i dati del…

L’intervista prosegue su Left del 27 maggio 2022 

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