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L’esigenza di un tempo per vivere

Sono state circa due milioni le dimissioni volontarie nel 2021, stando ai dati del ministero del Lavoro, e in base ai primi studi resi pubblici nel 2022 il fenomeno delle “grandi dimissioni” prosegue anche quest’anno segnando un grande distacco in termini percentuali dagli anni pre-Covid (come abbiamo visto nell’inchiesta a pagina 6). Sono sempre di più in Italia i lavoratori, soprattutto giovani, che rifiutano orari insostenibili, impieghi sottopagati o frustranti, e si licenziano per cercare altro, sfidando anche il rischio di una prolungata disoccupazione specie al centro-sud. Oltre alle motivazioni appena elencate ci sono altre molle che fanno scattare questa scelta? Ne parliamo con lo psichiatra e psicoterapeuta Andrea Filippi, segretario nazionale Fp Cgil medici e dirigenti Ssn. «Il fenomeno delle dimissioni volontarie è certamente molto articolato – osserva Filippi -, spesso si cerca una ricollocazione interna all’azienda oppure si punta al pre pensionamento, laddove ci siano le condizioni, a causa della frustrazione che comporta il proprio lavoro. Ma volendo fare una riflessione specifica politica e sindacale il vero nodo è rappresentato dal tentativo di riconciliare i tempi di vita/lavoro». Vale a dire? «In Italia, non solo nel privato ma anche nel settore pubblico siamo al rischio del lavorare per vivere. Cioè non è più neanche un vivere, siamo ancora nella fase in cui il centro di tutto diventa il lavoro e non è più la vita».

Il problema, secondo Filippi, è che nelle economie neoliberiste, come la nostra, il modello di lavoro che ci viene proposto è ancora tutto fordista, cioè tutto è imperniato sulla catena di montaggio. E questo accade anche laddove c’è maggiore autonomia professionale e maggiore indipendenza o creatività. «Di fatto – osserva il segretario nazionale Fp Cgil medici – si sta andando verso una dimensione di progressiva sempre maggiore delegittimazione dei ruoli professionali e delle competenze». In pratica, “tu” lavoratore devi entrare nell’ingranaggio che a “me” imprenditore serve, limitando sempre di più – perché rischiano di essere improduttive – le tue capacità creative, di fantasia e di intraprendenza personale.

«Rispetto a questo, le testimonianze di…


* In alto, un’immagine tratta dalla serie tv Severance

L’inchiesta prosegue su Left del 27 maggio 2022 

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Mininni (Flai Cgil): «Carestia e speculazioni, anche per questo la guerra va fermata»

«Fermare la guerra è l’unica scelta possibile per evitare ulteriori lutti, devastazioni, e un aggravamento della crisi economico-sociale che già stiamo vivendo». Il segretario generale della Flai Cgil, Giovanni Mininni, ne è convinto. Guarda con preoccupazione crescente alla corsa agli armamenti. Non solo da parte dell’Ucraina, rifornita generosamente dall’Occidente, e della Russia, ma anche al riarmo deciso dalle principali nazioni europee.

Segretario, non è certo questa l’Europa in cui credeva Altiero Spinelli.
Questa non è l’Europa libera e unita che volevamo costruire dopo la Seconda guerra mondiale, con ancora negli occhi gli orrori che ogni conflitto armato porta con sé: decine di milioni di morti, immani devastazioni, sofferenze inaudite. Non dobbiamo mai dimenticare ciò che è stato. Quella che si è venuta configurando non è l’Unione europea che avevamo sognato, non è quell’Europa dei popoli capace di far sentire tutto il suo peso politico – stiamo parlando di 500 milioni di persone – e svolgere così un’efficace opera di mediazione fra i russi, gli ucraini, e anche gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. L’Europa ha agito in ordine sparso, non è riuscita a evitare l’escalation bellica che ha provocato la morte di migliaia di civili innocenti. Nulla è stato fatto negli ultimi anni di fronte alla palese violazione degli accordi di Minsk, che avevano bloccato, pur temporaneamente, il primo conflitto russo ucraino. Questo non toglie che la guerra si sia riaccesa con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia.

La sinistra dispersa nei suoi cento rivoli e soprattutto la maggior parte del popolo italiano, sondaggi alla mano, è apertamente contraria alla guerra. In questa primavera che sta per finire non c’è stato appuntamento di piazza che non sia stato contrassegnato dalle bandiere arcobaleno…
La guerra è il fallimento della politica, non sono il primo e non sarò l’ultimo a dirlo. La guerra è anche la negazione dell’umanità. Eppure, gran parte della politica italiana si è subito arresa di fronte alla supposta inevitabilità di un conflitto armato all’interno dei confini europei. E ora, dopo tre mesi di guerra, documentata dai media con tutte le possibilità tecnologiche offerte oggi, quelle per intendersi che ti fanno entrare la guerra in casa, la politica stenta ancora a sintonizzarsi con il proprio elettorato. La maggior parte dei governi europei, compreso quello italiano, invece di attrezzarsi per tempo a una difesa continentale comune, ha delegato alla Nato a guida statunitense questo compito. Ora poi, sull’onda dell’emergenza, la vecchia richiesta della Nato di portare al 2% del Pil le spese militari dei singoli Paesi Ue è stata di fatto approvata. In Italia succederà fra qualche anno, ma succederà. Un riarmo, plurimiliardario, che…

L’intervista prosegue su Left del 27 maggio 2022 

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Dove sono i garantisti per i ragazzi in cella dopo aver manifestato?

Foto Yunus Boiocchi/LaPresse 18 Febbraio 2022 Milano, Italia News Studenti bloccano il traffico per protestare contro l’alternanza scuola - lavoro in Corso Buenos Aires, interviene polizia per lo sgombero Photo Yunus Boiocchi/LaPresse February 18, 2022 Milan, Italy News Students block traffic to protest against school-work alternation in Corso Buenos Aires, police intervene for the eviction

La vicenda la sta seguendo da giorni Selvaggia Lucarelli per Domani:

«Negli ultimi dieci giorni, – scrive Lucarelli – decine di ragazzi in tutta Italia hanno subito perquisizioni e perfino arresti. I fatti contestati sono diversi, apparentemente neppure tutti in correlazione tra loro, se la correlazione non si chiamasse dissenso. A Roma, dove la manifestazione contro l’alternanza scuola-lavoro era stata tra le più pacifiche, diversi ragazzi sono stati perquisiti e denunciati per reati bizzarri che vanno dal travisamento all’istigazione su minore. A Milano sono stati denunciati e perquisiti ragazzi per i fatti già descritti (compreso mio figlio) ma anche tre attivisti di Fridays for future, rei di aver scritto con una bomboletta “Il gas fossile uccide” e “Basta affari con i dittatori” il 19 marzo fuori dalla sede di Centrex, una controllata dell’azienda russa Gazprom. Insomma, da una parte inviamo armi all’Ucraina, dall’altra trattiamo come delinquenti ragazzi che chiedono di smettere di fare affari con la Russia e di inquinare il pianeta. Ragazzi a cui, durante le perquisizioni, è stato chiesto di spogliarsi e fare flessioni, per umiliarli. E poi c’è Torino, dove la situazione è più complicata, perché sono state perquisite le case di numerosi studenti (anche di una ragazza che, per le manganellate, era stata ricoverata in ospedale), è ai domiciliari una neo-diciottenne che aveva parlato al megafono, ci sono tre neo-maggiorenni incensurati in carcere da una settimana accusati di aver colpito degli agenti davanti alla sede di Confindustria con le aste delle bandiere».

Nicola Fratoianni ha annunciato la sua intenzione di entrare nel carcere Lorusso e Cotugno (Vallette) per incontrare Emiliano, Francesco e Jacopo, incensurati, agli arresti cautelari all’interno della struttura per le proteste studentesche del 18 febbraio contro l’alternanza scuola-lavoro: «Trovo incredibili – ha detto Fratoianni – e sproporzionate le misure cautelari. Questo prescinde completamente da un giudizio sui procedimenti giudiziari in corso. C’è un uso della misura cautelare che va proporzionato, mandare in un carcere qualcuno che è incensurato, a molte settimane, a molti mesi dai fatti, dal mio punto di vista è sbagliato, pericoloso anche dal punto di vista delle politiche pubbliche. Credo che quei provvedimenti vadano rapidamente ripensati».

Ragazzi in carcere, in attesa del Riesame, per una manifestazione. Noi che siamo sempre attenti (per fortuna) alla libertà degli altri quando si tratta di cose nostre, qui in Italia, diventiamo tutti timidi. Dove sono i garantisti?

Buon venerdì.

Nella foto: manifestazione contro l’alternanza scuola-lavoro, Milano, 18 febbraio 2022

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O il lavoro o la vita

I'm running away from problems. Young man - clerks in business clothes running on abstract background. Concept of finance, economy, professional occupation, business, ad. Creative art collage

«Il mio lavoro mi piaceva tantissimo ma era diventato estenuante. Durante il lockdown potevo arrivare a lavorare anche quindici ore di seguito. In più avevo solo due settimane di ferie a disposizione. In pratica non avevo più tempo di programmare la mia vita al di fuori del luogo di lavoro. Quindi mi sono licenziata e ora sto cercando un’altra occupazione, non importa se a tempo indeterminato, purché mi possa consentire di vivere in un modo nuovo, che mi corrisponda». Selene è una giovane operatrice nel sociale e ci racconta con trasporto i motivi della sua decisione. Una decisione che in questi ultimi due anni si son trovati a prendere milioni di persone nel mondo occidentale, riconsiderando e rimodulando drasticamente le proprie ambizioni, esigenze e priorità di vita. Questo fenomeno, che riguarda anche l’Italia, viene chiamato The great resignation, in italiano “le grandi dimissioni”. Se ne è iniziato a parlare, e si è cominciato a osservarlo, negli Stati Uniti, nel pieno della pandemia. Nel 2021, secondo un report dell’Ufficio statistiche del ministero del Lavoro statunitense le great resignation hanno coinvolto oltre 42 milioni di persone. Uno studio pubblicato sull’Harward business rewiew dal titolo Who is driving the great resignation? ha tracciato l’identikit di chi abbandona il proprio lavoro. Colpisce il dato che riguarda l’età: a prevalere sono gli impiegati fra i 30 e i 40 anni.

Orari di lavoro non personalizzabili, ambienti lavorativi non accoglienti e aziende che non sanno o non vogliono valorizzare i propri dipendenti, sono fra le motivazioni di questo fenomeno. Nel nostro Paese il fenomeno delle “grandi dimissioni” sembrerebbe aver attecchito in forma meno aggressiva rispetto agli Usa e certamente su questo incide la diversa conformazione e flessibilità del mercato del lavoro. Ma non lo si può considerare un fenomeno marginale.

Secondo i dati del…

L’inchiesta prosegue su Left del 27 maggio 2022 

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Si vive una sola volta

Due milioni di lavoratori in Italia si sono dimessi nel 2021. Sono dati del ministero del Lavoro. E il fenomeno delle dimissioni volontarie continua a crescere nel 2022 mettendo a nudo tutti i deficit di un antiquato modo di fare impresa e di organizzazione neoliberista del mondo del lavoro.

Secondo l’Associazione italiana direzione personale (Aidp) il fenomeno delle grandi dimissioni (detto “Great resignation” negli Stati Uniti) interessa il 60% delle aziende italiane e riguarda soprattutto i giovani fra i 26 e i 35 anni, perlopiù nel Nord Italia. «Ad alimentarlo concorrono in modo particolare la ricerca di condizioni economiche più soddisfacenti e la speranza di trovare un migliore equilibrio fra vita privata e lavoro». A riportarlo è Il Sole 24 ore, il quotidiano di Confindustria. Le aziende si trovano così finalmente costrette a considerare e a mettere al centro la questione del benessere non solo economico ma anche psicofisico dei lavoratori, fosse pure «per non perdere talenti».

Beninteso il fenomeno delle “grandi dimissioni” riguarda uno spicchio di lavoratori a fronte di un mare magnum di lavoratori precari, a contratto a termine, lavoratori a chiamata, working poor, disoccupati. Ma è rivelatore: segnala che quei posti fissi non sono quello che sembrano. Nascondono condizioni di sfruttamento intensivo. Per uno stipendio spesso neanche sufficiente si è costretti a mettere a valore tutto di se stessi, fino allo sfinimento, fra straordinari, rinuncia alle ferie e alla vita privata. (Le inaccettabili affermazioni di Elisabetta Franchi sono emblematiche e rappresentano solo la punta di un iceberg).

Il fatto nuovo è che sono soprattutto i giovani a rifiutare queste realtà di sfruttamento e sottomissione, costi quel che costi. Non è dunque solo la scelta elitaria di chi si può permettere di lasciare il posto fisso. Anche perché dalla nostra indagine risulta che molti di quelli che, per scelta, si dimettono, sono alla ricerca di un work-life balance, anche in assenza di un’altra opportunità di impiego, senza avere le spalle coperte come accadeva invece alla generazione dei baby boomers.

Quindi, andando più a fondo, cosa c’è dietro questa onda che è cresciuta anche in Italia durante e dopo la pandemia?

La risposta non è semplice, né univoca. Ciò che colpisce è che il fenomeno delle dimissioni di massa ha che vedere con una complessiva riconsiderazione delle priorità della vita e dei valori maturata durante la pandemia. In alcuni casi le dimissioni sono concomitanti a situazioni acute di stress, di depressione, di burnout (basta guardare quel che sta accadendo in ambito medico e infermieristico dopo due anni di pandemia).

Più in generale le “grandi dimissioni” esprimono un rifiuto, seppur solitario, non organizzato, di condizioni di sfruttamento considerando che si vive una sola volta. (Negli Usa il fenomeno inizialmente è stato denominato come Yolo economy, dove “Yolo” sta per “you only live once”, (vedi Left del 30 luglio 2021 e su questo numero l’intervista a Sarah Jaffe, autrice del libro inchiesta Il lavoro non ti ama (Minimum Fax).

Periodi di crisi come quello che stiamo attraversando – fra pandemia e guerra – ci spingono a ripensare ciò che davvero conta: gli affetti, la qualità dei rapporti umani, la possibilità di potersi realizzare insieme agli altri, il rifiuto della violenza, della sopraffazione, dello sfruttamento.

Molte storie di giovani che abbiamo raccolto ci parlano dell’esigenza di trovare un’occupazione più interessante e creativa, ci parlano dell’esigenza di sperimentarsi, di fare “ricerca”, ma anche e soprattutto di un nuovo e netto rigetto di condizioni di sfruttamento. Difficile però dire se sia l’inizio di una consapevolezza politica.

Certamente le loro parole rivelano una maturazione sul piano personale, esistenziale, una interrogazione radicale di senso.

In sintesi: Lavorare per vivere ma non vivere per lavorare soltanto, costretti a una vita povera di socialità e relazioni private. Lavorare meno e lavorare tutti diceva un vecchio slogan oggi più attuale che mai come argomenta il sindacalista Cgil Fausto Durante nel suo nuovo libro, Lavorare meno, vivere meglio (Futura edizioni), che traccia una panoramica non solo europea delle proposte e delle sperimentazioni più avanzate in questo ambito.

Una riorganizzazione su larga scala del tempo di vita e di lavoro sarebbe utile anche per contrastare gli alti tassi di disoccupazione giovanile. In Italia il numero dei giovani che non studiano e non cercano lavoro (Neet) è tra i più alti in Europa.

Il tema delle grandi dimissioni dunque si intreccia a una più ampia problematica sociale.

La questione del lavoro nella società globale impone nuove sfide e problemi. Compreso un ripensamento più complessivo del senso del lavoro, che non è “solo” possibilità di vivere sul piano materiale, ma anche occasione di socialità e di realizzazione di sé e tuttavia non definisce tout court la nostra identità di esseri umani.

Il lavoro è un diritto e deve essere garantito in una Repubblica democratica come la nostra fondata sul lavoro. Ma al contempo “io non sono il mio lavoro”, come scriviamo in copertina, per dire che l’identità umana non coincide con quella razionale dell’Homo faber e comunque non si esaurisce in essa. Una persona disoccupata non ha meno dignità e diritti, non deve essere discriminata. Per questo da molto tempo portiamo avanti la battaglia per un basic income universale, tema purtroppo sparito dal dibattito politico, mentre c’è chi inopinatamente – facendo guerra ai poveri – raccoglie le firme per cancellare il reddito di cittadinanza.

Il punto cruciale è: quale modello di società vogliamo realizzare? Quale giustizia sociale? Che cosa è il lavoro oggi? Come integrarlo nei tempi di vita più intima?

Il dibattito è importante e ambizioso e parte anche dalla rilettura critica della storia, fin dall’antichità. Nella Grecia antica e nella romanità l’otium letterario era l’aspirazione del cittadino ma era realizzata da pochi e sulla pelle degli schiavi e delle donne.

Nel medioevo cattolico il lavoro era castigo divino, condanna biblica. Sono stati i protestanti poi a creare l’etica del lavoro e del razionalismo ascetico a tutto vantaggio del capitalismo.

Se per molti secoli il lavoro è stato per i più una necessità per la soddisfazione dei bisogni, oggi potrebbe essere mezzo per una realizzazione di sé nel rapporto con gli altri, purché ci sia tempo per esigenze di vita affettiva e di ricerca. Paradossalmente però proprio ora che la rivoluzione tecnologica ci potrebbe permettere di affrancarci dai lavori di fatica il turbo capitalismo produce disoccupazione e nuovi schiavi.

* L’illustrazione è di Fabio Magnasciutti per Left

L’editoriale è tratto da Left del 27 maggio 2022 

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Illegalità di Stato in alto mare: le navi quarantena

Migrants carry their belongings as they queue to get their temperature checked for COVID-19 symptoms before boarding the GNV Azzurra ship to undergo a period of quarantine after being transferred from the migrant center on the Sicilian island of Lampedusa, southern Italy, Thursday, May 13, 2021. (AP Photo/Salvatore Cavalli)

La guerra ha sotterrato la discussione sulla pandemia. Eppure in Italia continuano a essere in vigore comportamenti (illegali) di cui nessuno sembra avere voglia di occuparsene. Con un decreto del 7 aprile 2020 il governo ha chiuso i porti italiani a tutte le imbarcazioni straniere che soccorrono persone in mare al di fuori della zona Sar (Search and Rescue) italiana indicando l’Italia come porto non sicuro. A seguito di quella decisione vennero istituite le cosiddette “navi quarantena” come strutture dove imporre una sorveglianza sanitaria obbligatoria. Le navi quarantena, manco a dirlo, sono state un’esperienza disastrosa: dalla mancanza di assistenza sanitaria (nel silenzio generale sono morti due minorenni) alla mancata assistenza legale per ottenere lo status di rifugiato, quelle navi sono diventate l’ennesimo esempio della criminale gestione dell’immigrazione.

Come racconta Annapaola Maritati del progetto “in limine” di Asgi «introdotta come misura eccezionale, quella delle navi quarantena è sicuramente una misura che si pone in continuità con tutta una serie di politiche e pratiche di gestione dei flussi migratori. È una misura che esaspera gli approcci che mirano a limitare i diritti dei migranti attraverso detenzioni arbitrarie, restrizioni al diritto di asilo, al diritto di accesso al territorio e semplicemente alle informazioni. Quindi si tratta di una misura che si pone in continuità con le politiche migratorie ma che, allo stesso tempo, rappresenta un precedente pericoloso, nel senso che rischia di comportare ulteriori deroghe a quelle che sono le libertà garantite a livello costituzionale e internazionale. Un precedente su cui bisogna fare particolare attenzione affinché non diventi una procedura ordinaria o comunque rappresenti l’apripista per ulteriori dispositivi di contenimento dei flussi in senso restrittivo e securitario come è accaduto già con l’approccio hotspot».

A partire dal 30 aprile però sono venute meno le disposizioni che regolano gli ingressi in Italia (certificazione verde, obbligo di quarantena preventiva) e conseguentemente anche le disposizioni che obbligano i migranti ad essere sottoposti a quarantena al loro ingresso nel territorio nazionale, ovviamente salvo che risultino positivi. Le navi quarantena però continuano a esistere e sono (ancora più) illegali. Irene di Valvasone, addetta ufficio per il processo presso la Corte di Cassazione ed esperta in diritti umani, lo scrive chiaramente: «Senza oltre indugiare su equivocabili paragoni, quello che preme sottolineare con forza è che dall’analisi delle previsioni normative in materia di quarantena per la prevenzione del contagio da Covid-19 sono venute meno tutte le premesse logico-giuridiche che hanno accompagnato l’adozione della misura della quarantena in nave per i migranti soccorsi in mare o sbarcati in Italia autonomamente, quantomeno a partire dal 30 aprile 2022. Ne deriva che l’utilizzo delle cd. navi quarantena appare del tutto illegale e arbitrario, con la conseguenza che le persone ad oggi sottoposte a tale misura si trovano in stato di detenzione arbitraria e devono essere immediatamente liberate».

Diritti in alto mare. Al solito.

Buon giovedì.

Nella foto: l’imbarco di alcuni migranti in una nave quarantena, Lampedusa 13 maggio 2021

Strage in una scuola, l’ennesima negli Usa. Come interpretare questo agghiacciante fenomeno

Law enforcement personnel stand outside Robb Elementary School following a shooting, Tuesday, May 24, 2022, in Uvalde, Texas. (AP Photo/Dario Lopez-Mills)

La strage alla Robb Elementary School di Uvalde in Texas è l’11esima in 23 anni negli Stati Uniti. Come è stato ricostruito fin qui, dopo aver ucciso la nonna, il 18enne Salvador Ramos è entrato nella scuola e ha sparato ad alunni e insegnanti, uccidendo 19 bambini e due adulti. Diversi media hanno riscontrato delle similitudini con la Strage di Sandy Hook del 14 dicembre, dove il 20enne Adam Lanza uccise 27 persone: venti bambini e bambine tra i sei e i sette anni, sei persone dello staff scolastico e sua madre prima di uscire di casa. Fatto sta che un agghiacciante rituale che torna a ripetersi negli Usa. A spiegarlo non basta il fatto che la vendita delle armi sia diffusissima Oltreoceano. E’ necessario indagare a fondo il pensiero malato che spinge ad acquistare armi per uccidere. Per tentare di capire cosa c’è dietro a un fenomeno che – in Italia, fino all’attentato di Macerata, e in Europa prima della strage di Utoya – credevamo solo made in America, riproponiamo qui la riflessione dello psichiatra Domenico Fargnoli sul caso di Adam Lanza responsabile della strage in una scuola elementare a Newtown nel Connecticut il 14 dicembre 2012.

Adam Lanza sarebbe stato in diretta competizione con Anders Breivik il mass murderer norvegese autore nel luglio del 2011 della strage di giovani nell’isola di Utoya. È quanto riferisce l’emittente CBS sulla base di fonti rimaste anonime. La notizia, secondo il portavoce del polizia del Connecticut, sarebbe puramente speculativa. In realtà , indipendentemente da fatti che provino la validità dell’ipotesi emulativa, sono riscontrabili negli innumerevoli episodi di mass shooting commentati nei media di tutto il mondo, dei tratti comuni, individuati anche in studi di psichiatria forense, che fanno pensare ad una componente “imitativa”.

Molti dei soggetti, autori di stragi ai danni di individui inermi e quindi bersagli ideali, hanno dei profili psicologici compatibili con una diagnosi di schizofrenia come nel caso di Breivik e di Lanza. Ora che uno schizofrenico imiti un altro schizofrenico o che un gruppo di schizofrenici possa creare uno stile particolare e riconoscibile di omicidio di massa mette in discussione conoscenze psichiatriche che sembravano acquisite. Noi sappiamo che il termine schizofrenia fu coniato di Eugen Bleuler nel 1913 il quale , ispirandosi, a Freud ritenne che le persone affette da questa malattia vivessero in un mondo a parte perdendo la capacità di condividere con altri esseri umani affetti, valori ed obiettivi.

Lo schizofrenico sarebbe stato simile ad un anacoreta per ritiro progressivo dalla società. Bisogna ricordare che Freud, che non ha mai avuto in carico uno schizofrenico da lui riconosciuto come tale, riteneva che nella psicosi ci fosse una incapacità assoluta di stabilire un transfert o vivere una risonanza empatica con chicchessia per effetto della regressione che avrebbe riattivato una condizione di isolamento , cioè di narcisismo assoluto simile a quello del neonato. Questa idea rivelatasi poi completamente falsa sia alla luce della ricerca psichiatrica successiva che degli sviluppi della neonatologia, ha escluso le forme schizofreniche dal trattamento analitico classico ritenuto inadatto se non addirittura pericoloso per le forme di schizofrenia latente.

Ora se Lanza , come anche il professore universitario che, recentemente, in Polonia voleva fare un attentato al parlamento con una potentissima bomba, ha imitato Breivik, com’è verosimile pensare , e se quest’ultimo ha tratto a sua volta ispirazione dall’Una bomber americano, il matematico che uccideva per fare propaganda al suo libro-Manifesto, e se altri hanno perseguito strategie criminali analoghe, noi saremmo di fronte al fatto, che gli schizofrenici si influenzano ed entrano in risonanza gli uni con gli altri determinando addirittura uno stile criminale , sfidandosi sullo stesso terreno come in un videogioco on line..

Che cosa dobbiamo concludere? che siamo di fronte ad una evoluzione nel modo di manifestarsi della schizofrenia a cui deve far seguito un adeguamento delle nostre categorie psicopatologiche e diagnostiche?

Che ne sarà allora delle concezioni organicistiche che sostengono la “naturalità” della malattia mentale legata a cause biologiche e genetiche? Il diabete dal tempi di Ippocrate ad oggi non è molto cambiato mentre sembra difficile pensare ad una schizofrenia che attraversi le epoche e le culture mostrando dei tratti immodificabili come quelli del diabete i. Il famoso presidente Schreber, il giudice affetto da schizofrenia paranoide, pubblicò nel 1903 Memorie di un malato di nervi che sono state un materiale di riflessione per i tutti i più importanti psichiatri e psicoanalisti del 900 come lo stesso Freud , Jung, Melanie Klein e Jacques Lacan. Del caso Schreber ha dato una originale e magistrale interpretazione Massimo Fagioli nel suo libro Teoria della nascita e castrazione umana la cui prima edizione risale al 1974: la psicosi con caratteristiche allucinatorie e deliranti si sarebbe sviluppata a partire dall’incapacità del tedesco di distinguere, nel passaggio dal sonno alla veglia le immagini mentali dalle percezioni reali.

La malattia di Schreber avrebbe dovuto essere la stessa di quella che ha colpito Lanza o Breivik che secondo la prima coppia di periti psichiatri intervenuti al processo per la strage di Utoya avrebbe agito in preda ad allucinazioni e deliri di grandezza e persecuzione. Ma fra la biografia e gli scritti di Schreber che non ha mai fatto male ad una mosca, salvo disturbare i vicini con urla disumane, e per esempio quelli di Breivik , ben 1500 pagine di copia-incolla propedeutiche alla strage, c’è un vero e proprio abisso.

Si potrebbe approfondire la ricerca su quello strano fenomeno che è il mass shooting seguendo una fondamentale indicazione di Fagioli stesso quando egli afferma che se è vero che esiste un’entità nosografica che fa capo al termine schizofrenia è altresì vero che esistono gli schizofrenici. Come dire che nell’ambito di tratti psicopatologici comuni è necessario in ciascuna malattia individuarne la singolarità: ci sono elementi caratteristici presenti in alcuni casi se non addirittura presenti in un solo caso. E’ per questo che il DSM V, il più famoso ed utilizzato manuale diagnostico, è inutilizzabile poiché non garantisce la veridicità della diagnosi: vengono proposti criteri generici e descrittivi rilevabili anche da un computer, che non permettono di individuare il nucleo psicopatologico nascosto della malattia che si manifesta diversamente in ciascun caso.

L’omicidio di massa, nello stile detto pseudocommando, è una modalità di agire criminale emerso in forma quasi epidemica da pochi decenni prevalentemente negli Usa. Verso di esso per una concomitanza di fattori ambientali e personali, possono orientarsi persone con gravi patologie psicotiche ed alterazione profonda del senso di identità. Alcuni mass murderers hanno fatto scuola diventando i capostipiti di una tendenza e tracciando un percorso che altri hanno seguito.

Uno studioso americano Louis A. Sass, autore del libro Madness and Modernism: Insanity in the Light of Modern Art, Literature and Thought ha sostenuto che pochi individui affetti da patologie più o meno manifestamente schizofreniche hanno avuto una grande importanza non solo sul terreno della psicopatologia e dell’agire criminale, quanto nel campo dell’arte o della filosofia introducendo temi ed atteggiamenti che poi si sono largamente diffusi. In effetti nell’arte moderna e postmoderna e nella filosofia di derivazione esistenzialista sono ampiamente presenti tematiche “schizofreniformi” evidenti nella stranezza dei contenuti e nell’ipertrofizzazione della coscienza, fredda e lucida che li produce.

Il vissuto schizofrenico secondo la studioso americano non tenderebbe a rimanere monadicamente chiuso in se stesso, come sembra suggerire il termine autismo nell’accezione originaria di Bleuer, ma avrebbe una risonanza profonda nell’opinione pubblica e nella cultura come è accaduto per la filosofia di Heidegger. Il paradigma della schizofrenia non è più solo l’introversione ed il deterioramento mentale ma anche l’estroversione e l’azione.

Qual è è la lunghezza d’onda sulla quale si sintonizzano i mass murderers con i loro potenziali proseliti ed imitatori ? Questi ultimi, individui anaffettivi ed insensibili ai normali stimoli sociali, reagiscono con un comportamento imitativo rispetto al modello mass shooting. Siamo di fronte ad un vero e proprio processo di infezione psichica e di induzione all’acting out violento contro la quale alcuni, non hanno capacità di resistere. Il punto di vulnerabilità è quella che gli psicopatologi del secolo scorso chiamavano una frattura nella linea della vita cioè un vissuto di totale annullamento del rapporto interumano e di vuoto interiore in un contesto sociale e culturale in cui predomina ’ideologia della guerra: si esalta l’azione eroica ed il ricorso alle armi, sacrificando il valore della vita umana al criterio dell’utilità personale e dell’affermazione megalomanica .

Il quadro di questa nuova psicopatologia non sarebbe completo se noi non includessimo un fattore iatrogeno: l’uso e l’abuso di sostanze psicotrope, sostenuto dalla psichiatria organicistica al servizio delle case farmaceutiche un vera e proprio miccia per eventi violenti e catastrofici.

Sia Adam Lanza che Breivik hanno agito sotto l’influenza di droghe psicotrope e psicofarmaci che è risaputo possono in persone predisposte, avere l’effetto di un innesco detonate per condotte di omicidio-suicidio. La scelta della strage, invece dell’omicidio singolo, potrebbe essere motivata dall’effetto di amplificazione della notizia che i mass media perversamente garantiscono a chi commette crimini particolarmente efferati: per un momento di notorietà e di esposizione pubblica si è disposti allora a sacrificare centinaia di vite umane.

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L’aporofobia come programma

Se vi ha sempre infastidito che Matteo Salvini utilizzasse i poveri, i fragili, i disperati come carne da cannone per la sua propaganda politica sappiate che l’aporofobia (ossia la paura, l’avversione per i poveri, ndr) ha un nuovo illustre interprete che ha ripreso gli stessi concetti della Lega peggiore (fin dai tempi di Bossi), li ha travestiti da concetti eleganti e liberali e li sta versando sul dibattito politico (ma sopratutto sulle persone) con lo stesso astio, seppur simulato meglio.

Non c’è differenza tra un leghista che disegna l’Italia assillata dai terroni fannulloni o dai giovani indolenti (mica per niente vorrebbe il militare per “metterli in riga”) e Matteo Renzi che usa il Reddito di cittadinanza come clava per cavalcare gli stessi sentimenti. Che poi Renzi decida di usare il referendum per cavalcare l’onda è qualcosa al limite del sadismo. Per noi e per lui. Anche perché è lo stesso Renzi che il 2 settembre scorso al Tg4 (!) aveva presentato il quesito referendario che sventolava da un po’ e che poi ha dimenticato fino a ieri. Usare il referendum come ultimatum è già triste, che lo usi chi da un referendum è stato seppellito è parossistico. Anche perché lo stesso Renzi si diceva “soddisfatto per avere aperto una discussione”.

Ora, in mancanza di argomenti, il padrone di Italia viva ci riprova. E annuncia via social che «dal 15 giugno partirà la raccolta ufficiale di firme» per «abolire il reddito di cittadinanza».

La sua battaglia contro questa misura è il leitmotiv di chi non ha molto altro da dire, come Salvini con i “clandestini”, come Berlusconi con i giudici, come Adinolfi con i gay. Macchiette, personaggi di una Commedia dell’arte che non fa nemmeno ridere e che si trascina seguendo sempre lo stesso canovaccio.

Ma odiare i poveri in fondo è il modo migliore per dichiarare il proprio amore ai ricchi senza doverli nominare.

Buon mercoledì.

 

Campioni del mondo (di sfruttamento)

01.04.2022, Doha, QAT, FIFA WM, Quatar 2022, Vorbericht zur bevorstehenden FIFA Fussball Weltmeistertschaft in Katar vom 21. Nov. 2022 bis 18. Dez. 2022, im Bild Eine Stadt voller Baustellen und Arbeiter, in Doha sind die Bauarbeiten in vollem Gange, von Hotels bis hin zu begleitenden Einrichtungen für die Fans // construction work is in full swing in Doha, from hotels to accompanying facilities for the fans during a preliminary coverage of the upcoming FIFA World Cup in Qatar from Nov. 21, 2022, to Dec. 18, 2022. Doha, Qatar on 2022/04/01. EXPA Pictures © 2022, PhotoCredit: EXPA/ Pixsell/ Igor Kralj *****ATTENTION - for AUT, SLO, SUI, SWE, ITA, FRA only*****

Tra i Rinascimenti di cui ci dobbiamo vergognare in giro per il mondo un capitolo se lo merita il prossimo Mondiale di calcio che si terrà in Qatar. Prima ancora che inizino le partite si è già riusciti a quantificare almeno 440 milioni di dollari che la Fifa (secondo i calcoli contenuti nell’ultimo rapporto di Amnesty International) dovrebbe dare ai lavoratori migranti che hanno subito “violazioni dei diritti umani in Qatar” prima della Coppa del Mondo del 2022.

La richiesta di Amnesty, sostenuta da altre organizzazioni per i diritti umani, è stata avanzata dopo le ripetute critiche per il ritardo della Fifa nel reagire alle precarie condizioni dei lavoratori impiegati nei cantieri collegati ai Mondiali nel ricco Stato del Golfo. Secondo Amnesty, questa somma, che sarà divisa tra le 32 squadre partecipanti al torneo, è il “minimo necessario” per risarcire i lavoratori e proteggerli da futuri abusi. L’organizzazione ha citato in particolare «i salari non pagati, le estorsive tasse di assunzione pagate da centinaia di migliaia di lavoratori e il risarcimento per infortuni e morti». Amnesty aveva accolto con favore le riforme sociali decise dal Qatar nel 2018 e il miglioramento delle condizioni sui siti ufficiali dei Mondiali inaugurati nel 2014. Tuttavia, secondo la Ong, queste regole non sono sempre rispettate e gli abusi persistono.

«Secondo i Principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani, la Fifa deve garantire il rispetto dei diritti umani nell’organizzazione e nell’organizzazione della Coppa del Mondo, anche effettuando il proprio monitoraggio indipendente e regolare dei progetti e delle sedi della Coppa del Mondo e conducendo la diligenza dovuta per identificare e prevenire qualsiasi violazione dei diritti umani associata al torneo» ha scritto Amnesty International. «Fondamentalmente, la Fifa ha anche la responsabilità di garantire che tutti i danni subiti dai lavoratori nei progetti relativi alla Coppa del Mondo fino ad oggi siano adeguatamente risolti, in collaborazione con le autorità del Qatar e altre parti interessate». «Questa Coppa del Mondo semplicemente non sarebbe possibile senza i lavoratori migranti, che costituiscono il 95% della forza lavoro del Qatar. Ma troppo spesso questi lavoratori scoprono ancora che il loro tempo in Qatar è caratterizzato da abusi e sfruttamento», ha affermato Steve Cockburn, Head of economic and social justice di Amnesty International.

La Coppa del Mondo della sfruttamento è già assegnata. Ora non resta che godersi le partite sul divano ringraziando il cielo perché anche questa volta non è toccato a noi.

Buon martedì.

Nella foto: un cantiere a Doha, 1 aprile 2022

Subito una commissione d’inchiesta sulla pedofilia nella Chiesa e apertura degli archivi segreti delle diocesi: la lettera del Coordinamento ItalyChurchToo alla Conferenza episcopale

«Chiediamo la piena collaborazione della Chiesa italiana a una indagine indipendente, condotta da professionisti credibili e super partes», che faccia luce sulle violenze di matrice pedofila compiute «dal clero in Italia» che veda uniti gli sforzi di diverse e altissime professionalità e che utilizzi contemporaneamente metodi qualitativi, quantitativi e documentali; in questa prospettiva, rigettiamo anticipatamente qualsiasi ipotesi di lavoro condotto con strumenti e risorse interne alla Chiesa stessa, che non avrebbe le caratteristiche di terzietà necessarie e risulterebbe non credibile, carente e in ultima analisi inutile, se non dannosa».

È questa la prima delle richieste avanzate dal “Coordinamento contro gli abusi nella Chiesa cattolica – ItalyChurchToo” tramite una lettera recapitata alla Conferenza episcopale italiana – e per conoscenza al segretario di Stato vaticano, card. Parolin – che dal 23 maggio è riunita in assemblea in vista, tra l’altro, della nomina del nuovo presidente (l’unico al mondo scelto direttamente dal papa), successore del card. Bassetti. Le strategie di lotta contro la pedofilia all’interno della Chiesa italiana saranno oggetto di discussione al sinodo della Cei di questi giorni e il Coordinamento “ItalyChurchToo” espressione delle vittime di abusi, del laicato cattolico, di istanze del dialogo interreligioso, della cittadinanza e di alcuni media sensibili (oltre, naturalmente a Left, c’è Adista), chiede ai vescovi italiani di inoltrarsi una volta per tutte sul percorso della verità e della giustizia per le vittime di violenze, abusi e soprusi – minori, adulti, adulte, persone vulnerabili, religiose – perpetrati da persone a vario titolo impegnate nella Chiesa.

L’Italia è rimasto l’unico grande Paese a tradizione cattolica nel quale a livello istituzionale – laico e religioso – non si è nemmeno mai parlato della possibilità di realizzare un’indagine su scala nazionale per far luce sull’entità del fenomeno criminale della pedofilia di matrice clericale. L’inchiesta non solo restituirebbe giustizia e verità a migliaia di vittime fino a oggi ignorate e inascoltate, ma darebbe fondamentali informazioni alle istituzioni preposte nell’ottica della prevenzione. Chi è il pedofilo? Cos’è la pedofilia? Cosa contraddistingue quella di matrice ecclesiastica? Quali sono le conseguenze per una vittima? Quanti sono i preti pedofili in Italia? Quante sono le loro vittime? Cosa fare quando si viene a conoscenza di una violenza subita da un bambino? A chi rivolgersi e a chi non rivolgersi per denunciare? Sono tutte domande che troverebbero risposta grazie a un’inchiesta seria.

Alla necessità di realizzare un’indagine indipendente il nostro settimanale ha dedicato negli anni decine e decine di pagine, conducendo questa battaglia di civiltà a fianco delle vittime e dei sopravvissuti. E’ nata così l’idea di realizzare in collaborazione con Rete L’Abuso (onlus che fa parte del Coordinamento ItalyChurchToo) un Database che non si “limita a documentare i casi di violenza su minori nella Chiesa cattolica italiana (ad oggi ne abbiamo accertati 90 – con 269 vittime – in 20 anni).

Si tratta della prima indagine permanente realizzata da un giornale in Italia per far luce su questo orrendo fenomeno criminale in tutti i suoi aspetti per fornire all’opinione pubblica un quadro d’insieme della situazione italiana e fare pressione sulla politica e le istituzioni affinché pongano in essere tutte le misure necessarie per prevenire ulteriori violenze – la pedofilia è notoriamente un crimine seriale – e per garantire tutta la necessaria assistenza psicologica alle vittime.

L’archivio è quindi corredato oltre che di un numeratore dei casi accertati e delle vittime, anche da inchieste, interviste, analisi e riflessioni con il contributo di esperti di varie discipline per spiegare con linguaggio chiaro e divulgativo cosa è la pedofilia, in particolare quella di matrice ecclesiastica, chi è il pedofilo, quali sono le conseguenze per la vittima, cosa fare nel caso in cui si venga a conoscenza di una presunta violenza subita da un bambino, a chi rivolgersi e a chi NON rivolgersi per denunciare.

 

Un altro punto chiave della lotta contro la pedofilia è la trasparenza. «Chiediamo che siano aperti e resi disponibili gli archivi di diocesi, conventi, monasteri, parrocchie, centri pastorali, istituzioni scolastiche ed educative cattoliche» è scritto al secondo punto della lettera di ItalyChurchToo che implicitamente fa riferimento ai luoghi dove notoriamente vengono custodite le informazioni “personali” sui presunti responsabili di violenze, mai consegnate alle istituzioni laiche. Il Coordinamento chiede inoltre, appunto, «che siano posti in essere canali di fattiva collaborazione con le istituzioni dello Stato italiano perché i colpevoli di crimini contro i minori vengano perseguiti». «Non siamo disposti – scrivono i componenti di ItalyChurchToo – ad accogliere sinergie con istituzioni statali che non contemplino una seria indagine sul passato, un coinvolgimento diretto delle vittime e una riparazione proporzionata al danno arrecato. È necessario che le responsabilità personali dirette, così come omissioni e indebite coperture, causa di rivittimizzazione delle vittime, siano accertate e rese note, a tutti i livelli, ai fini di una corretta presa in carico delle conseguenze delle proprie azioni, alle quali tutte e tutti siamo chiamati».

Infine il riferimento ai centri diocesani di ascolto, presentati dalla Conferenza episcopale italiana come luoghi di attenzione alle vittime e di sensibilità alle loro necessità quando in realtà, come è stato ricostruito da Left, sono stati istituiti nelle diocesi per intercettare le vittime prima che vadano a denunciare alle autorità laiche quanto subito da un sacerdote: «Chiediamo che si affronti il nodo critico della mancanza di terzietà dei centri diocesani di ascolto esistenti, elaborando una proposta alternativa che offra figure professionali neutrali e competenti, per rendere meno psicologicamente gravosa e più agevole e rigorosa la raccolta di storie e testimonianze». Come è noto ai nostri lettori questi centri sono dei veri e propri sportelli aperti in un centinaio di diocesi presso i quali chi ha subito una violenza da un sacerdote può recarsi per raccontare la propria storia e chiedere “giustizia” (…ai superiori del presunto violentatore…). Per farsi un’idea, nella sola diocesi di Bolzano nell’ultimo decennio sono arrivate un centinaio di segnalazioni di casi di pedofilia e non risulta che una sola di essi sia poi stata inoltrata alla magistratura italiana affinché indagasse concretamente.

La lettera del Coordinamento ItalyChurchToo alla Conferenza episcopale italiana si conclude con la sollecitazione ad affrontare un altro punto cardine della lotta contro il crimine violentissimo della pedofilia: la prevenzione. Questa, scrive il Coordinamento deve certamente partire dalla «formazione al ministero ordinato» nei seminari, con particolare attenzione all’educazione psico-affettiva dei seminaristi e dei/delle candidati/e alla vita religiosa e al ripensamento delle dinamiche della cura pastorale. Ma quel che è altrettanto importante è l’estensione «anche al clero e al volontariato attivo nella Chiesa l’obbligatorietà del certificato antipedofilia, previsto dalla Convenzione di Lanzarote, adottata dal Consiglio d’Europa e ratificata dal Governo italiano, al fine di restituire maggiore trasparenza alle istituzioni ecclesiastiche». Queste richieste – conclude il Coordinamento ItalyChurchToo – sono intese ad allineare l’operato della Chiesa italiana a quello di altre Conferenze episcopali e singole diocesi, e a spazzare via ogni dubbio relativo alle reticenze che l’episcopato italiano potrebbe avere riguardo all’emersione della reale portata» del fenomeno criminale della pedofilia di matrice ecclesiastica in Italia.

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I primi firmatari della lettera alla Conferenza episcopale italiana

Francesco Zanardi – Rete L’Abuso – ECA
Mario Caligiuri – avvocato – Rete L’Abuso
Cristina Balestrini – Sezione Vittime e Famiglie Rete L’Abuso
Beppe Pavan – Comunità cristiane di base
Paola Lazzarini – Donne per la Chiesa
Giovanna Bianchi – Donne per la Chiesa
Agnès Théry – Donne per la Chiesa
Michelangelo Ventura – Noi siamo Chiesa
Vittorio Bellavite – Noi siamo Chiesa
Angelo Cifatte – Noi siamo Chiesa
Paola Cavallari – Osservatorio Interreligioso sulle Violenze contro le Donne – OIVD
Clelia Degli Esposti – OIVD
Marzia Benazzi – OIVD
Piera Baldelli – OIVD
Maria Teresa Milano – OIVD
Marco Campedelli – teologo e narratore – OIVD
Paolo Cugini – presbitero e teologo – OIVD
Doretta Baccarini – OIVD
Ludovica Eugenio – giornalista – Adista
Eletta Cucuzza – giornalista – Adista
Giampaolo Petrucci – giornalista – Adista
Ivana Santomo – Associazione Officina Adista
Federico Tulli – giornalista – Left
Federica Tourn – giornalista indipendente
Comité de la Jupe
Chantal Götz – Voices of Faith
Lorita Tinelli – presidente Centro Studi Abusi Psicologici (CeSAP)
Luigi Corvaglia – CeSAP – direttivo FECRIS
I membri dell’Organizzazione internazionale Ex Focolari – OREF
Carlo Bolpin – presidente Associazione Esodo
Giuseppe Deiana – Associazione Puecher
Emanuela Provera – numeraria Opus Dei dal 1986 al 2000
Renata Patti – membro interno del Movimento dei Focolari dal 1967 al 2008
Giuseppe Lenzi
Piero Cappelli – giornalista e scrittore
Francesco Antonioli – giornalista
Federica Roselli – avvocato
Maria Armida Nicolaci – biblista
Mauro Concilio – educatore
Laura Verrani – teologa
Ugo Gianni Rosenberg – baccalaureando in Teologia
Roberto Fiorini – responsabile rivista PretiOperai
Antonietta Potente – religiosa domenicana e teologa
Mauro Castagnaro – giornalista
Francesco Peloso – giornalista vaticanista
Giorgio Saglietti – Tempi di Fraternità
Franco Barbero – biblista e teologo
Giulia Lo Porto – biblista

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