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Così la Cina si prepara, in Africa, all’esame di peacebuilding

Chinese and Hong Kong flags are hanged to celebrate the 25th anniversary of Hong Kong handover to China, in Hong Kong, Friday, June 17, 2022. Hong Kong is preparing to introduce new middle school textbooks that will deny the Chinese territory was ever a British colony. (AP Photo/Kin Cheung)

Nell’aprile del 1955, ventinove Paesi del Sud del mondo, compresa la Cina, si riunirono a Bandung, in Indonesia, per dire no al colonialismo. L’incontro terminò con l’adozione dei principi di non ingerenza e neutralismo, rimasti da allora le direttrici della politica estera cinese, nonché la pietra angolare dei rapporti con l’Africa e i paesi emergenti.

Oggi, quasi settant’anni dopo, la Cina torna capofila del Sud globale. Mentre il conflitto russo-ucraino ha riportato la guerra in Europa, ad Addis Abeba, in Etiopia, il 21 giugno si è conclusa la conferenza cinese per la pace nel Corno d’Africa. Un’iniziativa storica in quanto è la prima del genere a coinvolgere il gigante asiatico. Dalla fine degli anni 90 la Cina è diventata un’assidua frequentatrice dell’Africa: ha superato gli Stati uniti per interscambio commerciale e investito centinaia di miliardi di dollari in progetti di trasporto. Ma, fedele al comandamento della non interferenza, mai si era addentrata nello scivoloso terreno del “peacebuilding”.

La due giorni, che ha visto protagonista il nuovo inviato cinese per il Corno, Xue Bing, ha confermato l’importanza attribuita da Pechino alla regione con affaccio sullo stretto di Suez e ricca di risorse naturali. Strategica, quindi, ma scossa da colpi di Stato, lotte tribali, e minacciata dal terrorismo islamico. Xue ha annunciato che il governo cinese continuerà a supportare gli stati del Corno nella promozione del trasferimento di tecnologia, nello sviluppo delle infrastrutture e nel rafforzamento del settore finanziario. Di più. «La Cina sosterrà i Paesi della regione nella lotta al terrorismo, garantendo così pace e stabilità», ha dichiara l’inviato speciale. 

L’iniziativa nel Corno d’Africa ribadisce la…

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La scoperta di una inedita Irène Némirovsky

Tempesta in giugno, appena pubblicato da Adelphi, ha un titolo che sembra suscitare un effetto di straniamento nel lettore accaldato di questo torrido giugno 2022. Eppure, c’è un anelito simile tra il soffocante bollore di questi giorni e la “tempesta” che Irène Némirovsky sceglie come titolo inequivocabile nell’ultima versione della prima parte di Suite francese, al posto di un “temporale di giugno” forse troppo banale.

La scrittrice ebrea, nata a Kiev nel 1903, che aveva scelto la Francia come patria anzitutto come lingua e come cultura (fu educata in francese da una tata fin dalla primissima età), intuisce infatti che l’immane tragedia della guerra e dell’occupazione tedesca della Francia non solo provocherà morti e esuli, distruzione e sconquassi: la tempesta richiederà la sua vita, e le pagine che sta scrivendo, immaginando una sinfonia in cinque movimenti che si opponga al rumore delle bombe, saranno le ultime. «Niente illusioni: non è per adesso», lascia in un appunto.
La si avverte, leggendo questa versione inedita, l’urgenza della storia. Per i tanti lettori che hanno amato la scrittrice fin dal 2005 – anno di pubblicazione di Suite francese – questa versione è, al contempo, un ritorno e una rivelazione.

Una giovane e appassionata ricercatrice dell’università di Bari, Teresa Lussone, ha il merito di aver riportato alla luce questa seconda (o, per essere più precisi, terza versione) del capolavoro incompiuto di Némirovsky: si tratta di una dattilografia – a opera probabilmente del marito di Irène, Michel Epstein – corretta puntualmente da note a penna della scrittrice, contenente quattro capitoli nuovi e altri profondamente rimaneggiati, scoperta da Lussone negli archivi dell’Institut Mémoires de l’édition contemporaine (Imec), in Normandia. La studiosa, che ha anche integrato la traduzione di Laura Frausin Guarino con le parti mancanti, ha dimostrato con gli strumenti della filologia che questa dattilografia della prima parte di Suite francese è l’ultima rivista da Némirovsky, prima del suo arresto da parte della guardia nazionale francese nel luglio 1942 e del suo trasferimento a Auschwitz. È dunque, in definitiva, una versione che segue quella manoscritta, contenuta nella celebre valigia che le due figlie di Némirovsky si portarono appresso, scappando dai tedeschi.

Si tratta indubbiamente di un testo più maturo dal punto di vista della composizione narrativa e della cifra stilistica: la scrittrice sembra padroneggiare al meglio quell’arte dei “contrasti” che Némirovsky cercava per il suo ultimo capolavoro. Le bassezze e le viltà si stagliano con contorni più nitidi su un racconto che è strutturato su un ritmo più asciutto, più secco. A differenza di Suite francese, i capitoli portano titoli che identificano chiaramente le varie classi sociali che affrontano la fuga da Parigi invasa dai tedeschi. Al contempo, decidendo di limare il più possibile i commenti del narratore omnisciente o di eliminare i dettagli inutili, la prosa di Némirovsky fa emergere con nitore il…

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«Egr. cardinal Zuppi, al report della Cei sulla pedofilia mancherà proprio la serietà»

Foto Cecilia Fabiano /LaPresse 24/05/2022 Roma, Italia Cronaca : il Card. Matteo Maria Zuppi di Sant’Egidio , Arcivescovo di Bologna nominato Presidente della CEI rilascia una dichiarazione all’hotel Hilton di Fiumicino durante l’assemblea Generale dei Vescovi Italiani Nella Foto : Matteo Maria Zuppi Photo Cecilia Fabiano/ LaPresse May, 24, 2022 Rome (Italy) News : Cardinal Matteo Maria Zuppi of Sant'Egidio, Archbishop of Bologna appointed President of the CEI , issues a statement during the General Assembly of the Italian Bishops In The Pic : Matteo Maria Zuppi

Il Coordinamento ItalyChurchToo contro gli abusi nella Chiesa (di cui Left fa parte), promotore di una linea di contrasto agli abusi clericali ben precisa, espressa articolatamente nella “Lettera ai vescovi” del 16 maggio scorso, giudica gravemente inadeguate e contraddittorie le scelte attuate dalla CEI in relazione al «I Report sulle attività dei Servizi Regionali, dei Servizi Diocesani/Interdiocesani e dei Centri di ascolto per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili», così come illustrate nel comunicato stampa del 23 giugno scorso e nell’intervista rilasciata dal presidente della CEI card. Matteo Zuppi ai maggiori quotidiani italiani (Corriere della Sera, la Repubblica, il Messaggero, La Stampa 23/6).

1) Presidente, i centri diocesani non sono indipendenti. Il Report in sé appare inadeguato a cogliere il dato quantitativo e qualitativo del fenomeno: in primo luogo perché in capo a una rete di servizi interna alla Chiesa e dunque non caratterizzato da quella terzietà necessaria per arrivare a una valutazione oggettiva e super partes del problema. Per fare un esempio, all’interno della Commissione per la tutela dei minori dell’arcidiocesi ambrosiana è stato nominato, nel 2019, l’avv. Mario Zanchetti, difensore di tanti preti accusati di abuso: non proprio un modello di neutralità. In secondo luogo, l’arco temporale sul quale tali servizi possono avere competenza è estremamente limitato (2020-2021), non essendo oltretutto essi nemmeno distribuiti in modo omogeneo in tutte le diocesi italiane. Contestiamo pertanto l’affermazione del cardinale secondo cui i servizi diocesani sarebbero assolutamente «indipendenti», con la curiosa precisazione che «a Bologna sono tutte donne, professioniste, guidate da una psichiatra. E discutiamo, sono assolutamente indipendenti». Un singolare sillogismo: ma non basta che un centro diocesano sia in mano a équipe femminili per avere la patente di indipendenza. A meno che le professioniste suddette, in quanto donne, nella visione del cardinale siano percepite come esterne alla Chiesa.

2) Presidente, la statistica non è un opinione, è una scienza. Il comunicato della Cei non fa alcun riferimento all’altra componente dell’“indagine”, che dovrebbe avere come oggetto i dati provenienti dal Dicastero per la Dottrina della Fede (DDF) inerenti al ristretto arco temporale 2000-2021. Nel frattempo, però, il cardinale Zuppi definisce nell’intervista «oggettivi», «sicuri» i dati in possesso del DDF, ponendoli in contrapposizione con i risultati del Rapporto francese della Commissione CIASE, giudicando negativamente la loro natura di «proiezioni statistiche», e affidandosi alla valutazione di «tre inchieste di universitari» che «demoliscono il lavoro della commissione». Un giudizio grossolano sull’enorme lavoro di ascolto delle vittime della Commissione d’Oltralpe, durato due anni, che abbraccia un periodo di 70 anni e che ha messo all’opera personalità di alto profilo: è un sorprendente e ingiustificato attacco alla Chiesa sorella. Il cardinale sembra ignorare che le “proiezioni statistiche” utilizzate nel Rapporto CIASE sono uno strumento caratterizzato da rigore scientifico, come ribadito anche di recente da p. Hans Zollner, il quale ha sottolineato come «la metodologia usata dal gruppo è quella utilizzata dalle istituzioni come l’OMS ed è una metodologia valida. È una stima e un’estrapolazione, certo, che viene usata ad esempio per scoprire quante persone a Parigi sono malate di cancro della pelle. Non si conoscerà mai esattamente il numero, ma si avrà un’immagine dell’ampiezza del fenomeno». (Paris, Centre Sèvres, IV Conferenza del ciclo “Dopo la Ciase, pensare insieme la Chiesa”). Oltretutto lo stesso cardinale dimostra di fidarsi di dati statistici ottenuti da proiezioni, quelli dell’Istat, quando afferma, nell’intervista rilasciata ai quotidiani italiani, che «in Italia ci sono sei milioni di persone in povertà, una su dieci, anche a causa della solitudine»

3. Presidente, “metodo qualitativo” ha un significato preciso. Nell’intervista, lei parla di metodo “qualitativo” come metodo che consiste nel «distinguere i numeri grezzi, capire le differenze». Non è corretto. Il metodo qualitativo non rappresenta infatti un lavoro “di qualità” su dati quantitativi ma raccoglie elementi da interviste in profondità e storie di vita: proprio il tipo di lavoro compiuto dalla Commissione Ciase.

4. Presidente, quali e quanti dati possiede il Dicastero per la Dottrina della Fede? Per quanto riguarda l’arco temporale dei dati del DDF ai quali i vescovi intendono fare riferimento (2000-2021), curiosamente si tratta dello stesso periodo preso in considerazione nell’indagine permanente del settimanale Left, avviata a metà febbraio e consultabile da chiunque su chiesaepedofilia.left.it. Inoltre, altrettanto singolare è che tale operazione contraddirebbe l’affermazione di mons. Scicluna che, nel 2014, incalzato dalla Commissione Onu per i diritti dell’infanzia, dichiarò che i dati sugli abusi non sono nella disponibilità del DDF ma delle diocesi. Certo, sono trascorsi otto anni da allora, molto può essere cambiato nella collaborazione tra DDF e Chiesa italiana, ma pare di cogliere la stessa difficoltà appena un mese fa, quando il medesimo mons. Scicluna (ora segretario aggiunto della sezione disciplinare del DDF), interpellato sull’applicazione globale di “Vos estis lux mundi”, risponde che «oggi non disponiamo di un’indagine globale o di dati esaurienti», e che «molte diocesi e giurisdizioni hanno ora creato uffici dove si possono denunciare casi di abusi sessuali su minori». Che sarà, inoltre, dei casi di preti denunciati solamente alle autorità italiane e condannati dalla nostra giustizia?

5. Presidente, la Chiesa esamini se stessa. Sempre nell’intervista, lei mira a proporre il Report della Chiesa come strumento di prevenzione per «capire il fenomeno più vasto nella società, se non c’è pregiudizio». Anche questo elemento è irricevibile: la Chiesa non deve spostare il suo focus da ciò che accade al suo interno, e non è nelle condizioni di porsi come esperta o consulente in iniziative di carattere statale.

6. Presidente, qual è il suo concetto di “indipendenza”? Il Coordinamento ItalyChurchToo considera irricevibile la scelta dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza come istituzione “indipendente”, motivata dai vescovi con il suo ruolo pregresso di soggetto valutatore all’interno del progetto “SAFE”. L’Università Cattolica del Sacro Cuore, infatti, non soddisfa il requisito dell’indipendenza rispetto alla Chiesa: per statuto, come tutte le università cattoliche è regolata dal Codice di Diritto Canonico (can. 807-814), dalla Costituzione Apostolica Ex Corde Ecclesiae (15 agosto 1990), dalle Norme applicative delle Conferenze episcopali e dai suoi Statuti interni; la sua missione è di «servire a un tempo la dignità dell’uomo e la causa della Chiesa» (Ex Corde Ecclesiae, art. 4); la sua missione è svolta «in armonia con il magistero della Chiesa» (art. 11). Insomma, l’alto profilo scientifico e accademico della Cattolica non è condizione sufficiente a garantire oggettività, terzietà e, nel caso del Report sugli abusi, valutazioni scevre da conflitti di interessi. Altrove sono state investite del compito istituzioni prive di legami con la Chiesa: in Germania, ad esempio, lo Studio nazionale MHG (2018) è stato portato avanti da tre università statali, quelle di Mannheim, Heidelberg e Giessen; stesso genere di incarico svolge l’Università di Zurigo per la Svizzera.

7. Presidente, la Cattolica di Piacenza ha partecipato al “progetto della Chiesa italiana” sugli abusi… La sede di Piacenza dell’Università Cattolica – come lo stesso comunicato della CEI riporta – ha oltretutto già lavorato “a fianco” della Chiesa, nel progetto “Supporting Action to Foster Embedding of child safeguarding policies in Italian faith led organizations and sports club for children – SAFE”, accanto a un altro istituto universitario, il CiRViS, Centro Interdisciplinare di Ricerca sulla Vittimologia e sulla Sicurezza del Dipartimento di Sociologia e Diritto dell’Economia dell’Alma Mater Studiorum-Università di Bologna, con l’obiettivo di creare le competenze per la prevenzione degli abusi su minori all’interno dell’associazionismo cattolico. Un lavoro – svolto in partnership con l’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, il Centro Sportivo Italiano e la Presidenza Nazionale di Azione Cattolica Italiana – la cui efficacia è stata valutata proprio dalla Cattolica di Piacenza; un lavoro di tale rilievo per la Chiesa da essere definito, sul quotidiano Avvenire (18/2), “il progetto della Chiesa italiana”.

Per tutti i suddetti motivi, il Coordinamento ItalyChurchToo ritiene inaccettabili la metodologia, gli standard e i partner dell’operazione intrapresa dalla CEI e ribadisce la necessità di rendere accessibili tutti gli archivi ecclesiali ai fini di una indagine realmente esterna, indipendente, libera da conflitti di interesse, che riguardi un arco temporale molto più vasto: unica garanzia di verità, di giustizia per tutte le vittime e di reale ed efficace prevenzione.

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Maria Gabriella Gatti: L’assurdità di considerare l’embrione e il feto vita umana

Il 24 giugno la Corte suprema degli Stati Uniti, con una decisione storica che riporta gli Usa indietro di 50 anni, ha annullato la sentenza Roe vs Wade del 1973, che proteggeva l’accesso all’interruzione di gravidanza fino al momento in cui un feto può vivere al di fuori dell’utero – ovvero intorno alle 23 o 24 settimane di gravidanza. Ed è stato proprio questo il punto dirimente attaccato dai giudici ultra conservatori  in sintonia con le associazioni anti abortiste e le Chiese evangeliche che negano la nascita umana e confondono il feto con il bambino. Per rispondere alle loro argomentazioni religiose e anti scientifiche abbiamo rivolto alcune domande a Maria Gabriella Gatti, che da anni svolge ricerche in questo ambito ed è autrice di molte pubblicazioni scientifiche. Psicoterapeuta, per tanti anni neonatologa dell’Azienda ospedaliera di Siena, insegna alla scuola di psicoterapia Bios Psychè a Roma.

Professoressa Gatti, facciamo chiarezza, quale è la radicale differenza tra feto e neonato?
Affermare che il “concepito” cioè l’embrione è un soggetto di diritto deriva da un pregiudizio ideologico di natura religiosa cristiana: l’identità umana sarebbe rappresentata dal solo genoma. Le sequenze nucleotidiche del Dna nello zigote o nella blastocisti sono necessarie ma non sono sufficienti a definire una singolarità umana biologica. Le cellule indifferenziate e tutte uguali della Blastocisti, dopo circa cinque giorni dal concepimento, quando avviene l’impianto nella parete uterina o qualche settimana più tardi, quando l’embrione non ha ancora formato la corteccia cerebrale, non possono essere considerate persona e quindi “soggetto di diritto”. Il genoma dello zigote è il punto di partenza per la costruzione della biologia umana ma non è persona. Il pensiero religioso completamente astratto altera sia il rapporto con la realtà materiale in questo caso biologica che con la realtà psichica umana. Possiamo pensare che l’embrione è persona senza far ricorso all’anima che scende dal cielo per dar vita ad una materia biologica senza pensiero? 

Cosa contraddistingue la nascita umana? Nel cinquantennale della pubblicazione di Istinto di morte e conoscenza quali sono le nuove acquisizioni delle neuroscienze e della neonatologia a conferma di ciò che Massimo Fagioli aveva affermato con la Teoria della nascita?
Lo psichiatra Massimo Fagioli in Istinto di morte e conoscenza pubblicato nel 1972 e di cui quest’anno si celebra il cinquantenario ha scoperto l’…

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Divieto di abortire o obbligo di partorire?

«L’America è tornata indietro di 50 anni” è la sostanza di quello che leggiamo in questi giorni sui giornali. Indietro a prima della sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti del 1973 “Roe vs Wade”, quando una donna texana (il cui nome di fantasia era Roe), abusata da un marito alcolista e violento, sposata a 16 anni, madre di due bambini e già vittima di violenza sessuale, assistita da un gruppo di avvocate vinse contro lo stato del Texas rappresentato dall’avvocato Wade. Quella sentenza (arrivata dopo tre anni) riconosceva il diritto all’aborto anche in assenza di problemi di salute della donna e del feto e si rifaceva al 14esimo emendamento della Costituzione che riconosce il diritto alla privacy e alla libera scelta per ciò che attiene alla sfera più intima dell’individuo. Permetteva inoltre l’intervento fino a quando il feto può sopravvivere al di fuori dell’utero materno.

Gli Usa non hanno una legge federale valida per tutti gli Stati e quindi il ribaltamento della storica sentenza del ’73 nei giorni scorsi, ad opera della Corte Suprema ora a maggioranza conservatrice (repubblicana), lascia liberi gli Stati di adottare le norme che vogliono. Almeno in 26 Stati abortire sarà illegittimo totalmente o parzialmente, con norme più restrittive e punitive; risultato per cui gli aggressivi movimenti pro-vita si sono adoperati in tutti questi anni. Quello che sta già succedendo e che succederà a breve è che un numero impressionante di donne in età fertile negli Usa (da 36 a 40 milioni di donne secondo le diverse stime) verrà privato della possibilità di ricorrere alla volontaria interruzione di gravidanza, se necessaria, in quanto vive in Stati che sono contrari all’aborto. Oppure verrà obbligata a… 

 

* L’autrice: Irene Calesini è psichiatra, psicologa clinica e psicoterapeuta, si occupa da anni di vittime di violenza domestica e collabora con la Scuola di psicoterapia dinamica Bios Psychè

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In Libia il sangue cola e il mondo resta a guardare

Foto Vincenzo Livieri - LaPresse 15-11-2016 - Mar Mediterraneo Operazione di salvataggio di 121migranti condotta dall'Ong Moas (Migrant Offshore Aid Station) e dalla Croce Rossa a bordo della nave Topaz Responder al largo della costa libica Vincenzo Livieri - LaPresse 15-11-2016 - Mediterranean sea News 121 migrants rescue operation carried out by the Ngo Moas (Migrant Offshore Aid Station) and the Red Cross on the Topaz Responder vessel off the Libyan coast

La Missione conoscitiva indipendente delle Nazioni Unite sulla Libia ha pubblicato un nuovo rapporto in cui riafferma i rapporti precedenti che evidenziavano gravi crimini contro l’umanità perpetrati nella Libia dilaniata dalla guerra. Ha specificato che le donne migranti sono spesso costrette a subire alcuni degli abusi più gravi.

Il rapporto afferma che “la missione ha ragionevoli motivi per ritenere che i crimini contro l’umanità di omicidio, tortura, detenzione, stupro, sparizione forzata e altri atti disumani siano stati commessi in diversi luoghi di detenzione in Libia dal 2016”.

Autorità, trafficanti di esseri umani e altri agenti trattengono regolarmente i migranti in Libia, che è diventato un importante punto di partenza per decine di migliaia di persone – che provengono principalmente dall’Africa subsahariana – che tentano di raggiungere l’Europa. I funzionari, tuttavia, continuano a negare davanti al mondo.

Il generale senso di anarchia che regna nel Paese da quando il sovrano libico Moammar Gheddhafi è stato rovesciato e ucciso nel 2011 è diventato una fonte di opportunità e profitto per i trafficanti di esseri umani organizzati.

Secondo il rapporto della missione conoscitiva, in Libia ci sono prove sostanziali che dimostrano che migranti e rifugiati sono sistematicamente esposti a “detenzioni arbitrarie prolungate”. Ciò include l’ abuso sessuale e la tortura dei bambini .

Gli inquirenti che hanno redatto il rapporto dopo aver compiuto numerosi viaggi in Libia, hanno dettagliato “atti di omicidio, tortura, stupro e altri atti disumani”, a cui sono sottoposti i migranti tenuti in cattività. Il rapporto sottolinea tra l’altro l’uso comune della “violenza sessuale per mano di trafficanti e trafficanti, spesso con l’obiettivo di estorcere denaro alle famiglie”.

“La missione ha anche documentato casi di stupro in luoghi di detenzione o prigionia in cui le donne migranti sono costrette a fare sesso per sopravvivere, in cambio di cibo o altri beni essenziali”, afferma il documento.

Il rapporto aggiunge che molte ragazze e donne migranti sono persino consapevoli del rischio di essere esposte a violenze sessuali, tanto che “alcune donne e ragazze migranti si mettono un impianto contraccettivo prima di recarsi lì per evitare gravidanze indesiderate a causa di tali violenza.”

Gli investigatori citano esempi di violenti abusi sui migranti in Libia nel loro rapporto; questi vanno da una donna che descrive in dettaglio come “i suoi rapitori hanno chiesto sesso in cambio dell’accesso all’acqua” a esecuzioni sommarie di persone scaricate in dozzine di fosse comuni.

La missione conoscitiva delle Nazioni Unite in Libia, creata dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (Ohchr) nel giugno 2020, vedrà scadere il suo mandato tra pochi giorni.

Tuttavia, diversi Paesi africani hanno presentato al consiglio una bozza di risoluzione per consentirle di continuare per altri nove mesi, poiché la situazione in Libia continua ad essere instabile e altamente pericolosa.

Mohammad Aujjar, presidente della Missione conoscitiva in Libia, afferma che “la Missione ha denunciato gravi violazioni del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, alcune delle quali equivalgono a crimini contro l’umanità e crimini di guerra”.

La missione ha anche redatto un elenco di individui e gruppi ritenuti responsabili di alcuni di questi crimini, ma per il momento lo mantiene riservato.

“L’obiettivo è porre fine all’impunità prevalente di fronte a schemi chiari e persistenti di gravi violazioni dei diritti umani, in molti casi perpetrati da gruppi di milizie”, ha aggiunto Aujjar.

“Ora più che mai, il popolo libico ha bisogno di un forte impegno per aiutarlo a portare pace e giustizia durature nel suo Paese e per stabilire uno stato basato sullo stato di diritto e sui diritti umani”.

Buon venerdì.

Se cento preti pedofili vi sembran pochi

Pope Francis prays during the opening session of the CEI, Italian Episcopal Conference, at the Vatican, Monday, May 16, 2016. (AP Photo/Alessandra Tarantino)

Un mese dopo essere stato annunciato dal nuovo capo della Conferenza episcopale italiana (Cei), il cardinale e arcivescovo Zuppi, il 23 giugno è stato avviato il primo Report della Chiesa italiana sulla pedofilia basandosi sulle attività dei Servizi regionali, dei Servizi diocesani/interdiocesani e dei Centri di ascolto per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili. Cosa siano i Centri d’ascolto lo abbiamo raccontato su Left del 18 febbraio 2022. Qui per brevità ricordiamo che sono stati istituiti dalla Cei nelle diocesi italiane per raccogliere informazioni e segnalazioni dalle vittime di preti pedofili e dare loro sostegno psicologico e giuridico. Il Report rientra in una delle 5 linee di azione varate a maggio dall’assemblea generale dei vescovi e volte – a detta loro – a una “più efficace prevenzione” del fenomeno criminale.

Nella ricerca saranno coinvolti 16 coordinatori per i Servizi regionali, 226 referenti per quelli diocesani e 96 responsabili dei Centri di ascolto. L’esame dei dati raccolti spetterà a ricercatori dell’Università Cattolica del sacro cuore di Piacenza, specializzati in economia, statistica, sociologia con esperienza specifica in analisi di policy children safeguarding. Il risultato dell’indagine sarà reso noto in autunno e gli esperti avranno il compito «non solo di presentare una radiografia dell’esistente, ma di trarre suggerimenti e indicazioni per implementare l’adeguatezza dell’azione preventiva e formativa delle Chiese che sono in Italia».

La scelta dell’Università Cattolica spiega la Cei, si è fondata sul suo coinvolgimento come soggetto valutatore del progetto “Safe – Educare e accogliere in ambienti sicuri” che ha interessato per due anni, dal 2019 al 2021, la Comunità papa Giovanni XXIII, il Centro sportivo italiano, l’Azione cattolica italiana e il Centro interdisciplinare di ricerca sulla vittimologia dell’Alma mater studiorum di Bologna. Potrebbe sembrare tutto coerente – la Cei che si avvale dell’Università cattolica per affrontare un problema radicato profondamente all’interno della Chiesa – se non fosse che Zuppi, presentando il progetto a maggio, aveva dichiarato che l’incarico sarebbe stato affidato «a due centri universitari indipendenti».

E che cosa ha di “indipendente” l’Università cattolica rispetto alla Chiesa? Nulla di nulla. Come scrive Ludovica Eugenio su Adista – che insieme a Left e ad altre importanti realtà associative fa parte del Coordinamento ItalyChurchToo (v. Left del 18 febbraio 2022) – per statuto, le università cattoliche sono regolate dal Codice di diritto canonico (art. 807- 814), dalla Costituzione apostolica Ex corde ecclesiae sulle università cattoliche e dalle Norme applicative delle Conferenze episcopali. Per capire ancora meglio ecco alcuni riferimenti giuridici. Art. 808 Cdc: «Nessuna università di studi, benché effettivamente cattolica, porti il titolo ossia il nome di università cattolica, se non per consenso della competente autorità ecclesiastica»; art. 4 Ex corde ecclesiae: le università cattoliche devono «servire a un tempo la dignità dell’uomo e la causa della Chiesa»; art. 14: «In una università cattolica, quindi, gli ideali, gli atteggiamenti e i principi cattolici permeano e informano le attività universitarie conformemente alla natura e all’autonomia proprie di tali attività».
Lo stretto legame dell’ateneo con la Chiesa è codificato anche nello Statuto, precisa Ludovica Eugenio. La Cattolica «secondo lo spirito dei suoi fondatori, fa proprio l’obiettivo di assicurare una presenza nel mondo universitario e culturale di persone impegnate ad affrontare e risolvere, alla luce del messaggio cristiano e dei principi morali, i problemi della società e della cultura».

Tutto chiaro, no? Sicuramente i ricercatori della Cattolica sono preparati e formati per svolgere il compito che è stato loro assegnato ma di certo appartengono a un’istituzione priva totalmente della terzietà necessaria per arrivare a una valutazione oggettiva e super partes del problema in questione. Un problema che è gigantesco e che dal febbraio scorso noi di Left – che indipendenti lo siamo per davvero – stiamo cercando di fotografare in ogni suo aspetto (statistico, sociale, psichiatrico, storico, giuridico, etc) attraverso l’indagine permanente pubblicata nel nostro Database (consultabile su chiesaepedofilia.left.it).

E qui vi proponiamo un primo … “report” del lavoro di analisi dei dati in gran parte provenienti dall’unico Archivio esistente in Italia e che fa capo all’associazione di tutela delle vittime Rete L’Abuso. Ebbene, dopo un’accurata verifica delle fonti, su 126 posizioni esaminate (pari a poco meno di un quarto di quelle totali monitorate, circa 450) abbiamo individuato 100 casi di sacerdoti pedofili per un totale di 332 vittime in età prepuberale; 94 di questi crimini sono avvenuti tra il 2000 e i primi mesi del 2022, altri 6 tra il 1995 e il 1999 (e giudicati nei primi anni Duemila); 86 sacerdoti su 100 sono stati condannati in via definitiva, per 11 ecclesiastici sono in corso indagini o un processo “laico”, in 3 sono stati denunciati solo alle autorità ecclesiastiche; in 10 sentenze su 100 è stata emessa una condanna per pedopornografia, pertanto in questi casi il numero delle vittime è imprecisato; infine, i 100 sacerdoti coinvolti appartengono a 61 diocesi diverse, pari al 26,9% del totale.

E gli altri 26 casi? Per 5 di loro non è stato possibile completare le verifiche perché sono stati rimossi dagli archivi dei giornali tutti gli articoli sulla vicenda che li ha visti coinvolti. Gli altri 21 hanno compiuto reati che vanno dallo stalking alla violenza “sessuale” su minori non prepuberi o su persone maggiorenni (di cui una disabile), dal favoreggiamento della prostituzione alla resistenza a pubblico ufficiale, dallo spaccio di droga alla circonvenzione di incapace.

Questo nostro primo rapporto non comprende 111 casi indagati dal 2010 al 2021 dalle diocesi di Trento e di Bolzano (v. Left del 18 febbraio 2022). Quel che sappiamo è che nessuno è stato contestualmente segnalato dai vescovi alle autorità italiane.
In queste due diocesi come in tutte le altre con il “nuovo corso” inaugurato dal card. Zuppi, la Chiesa in Italia continua beatamente a lavare i panni sporchi in famiglia come se fosse il modo più efficace per prevenire e sradicare la pedofilia al suo interno. Di fronte a questa strategia – che resta un unicum a livello mondiale considerando che in altri Paesi sono state autorizzate dalle Chiese locali inchieste indipendenti che hanno portato innegabili risultati – noi di Left restiamo basiti di fronte all’inerzia totale dello Stato italiano. Oggi noi documentiamo 100 casi di pedofilia e il coinvolgimento di oltre un quarto delle diocesi a conferma dell’esistenza di un problema strutturale nella Chiesa italiana. Poi ci sono le segnalazioni ai vescovi di Trento e Bolzano.

Ma se in sole due diocesi in una decina di anni si contano 111 casi, quanti altri ce ne sono, sommersi, nelle altre 224? Quante vittime si devono contare affinché lo Stato inizi a muoversi? Affinché intervenga e non deleghi un’indagine delicatissima a chi è parte in causa? Noi riteniamo che sia compito delle istituzioni laiche indagare e ci sembra assurdo anche doverlo ribadire. Pertanto chiediamo nuovamente che intervenga il Parlamento italiano realizzando una Commissione d’inchiesta come quella sul femminicidio. Già perché questi due crimini, la violenza sulle donne e la violenza sui bambini, sono strettamente connessi avendo una matrice “culturale” comune fondata sull’alleanza tra mentalità patriarcale e pensiero religioso. È ora che in Italia se ne prenda atto.

La nostra inchiesta esclusiva è tratta da Left dell’1 luglio 2022 

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Talebani d’occidente

La scioccante sentenza della Corte suprema Usa del 24 giugno segna un passaggio epocale nella storia degli Usa, che fanno un salto all’indietro di almeno 50 anni.
D’un tratto la sentenza Roe versus Wade è stata cancellata e il diritto delle donne di poter accedere all’interruzione di gravidanza non è più riconosciuto a livello federale. Il che significa che ogni Stato ora deciderà per sé. La battaglia per abolire del tutto il diritto all’aborto è già cominciata in 50 Stati portando alla luce una vistosa spaccatura fra nord e sud, fra Stati democratici e repubblicani. E anche se lo Stato di New York dichiara di voler accogliere e dare risposta alle donne, anche se il divieto quasi totale di aborto nello Utah è stato bloccato almeno temporaneamente da un tribunale, anche se una corte della Louisiana ha sospeso la messa al bando dell’interruzione di gravidanza (e molte altre battaglie in tribunale sono attese) a livello nazionale saranno moltissimi i divieti e le discriminazioni.

Con tutta evidenza solo le donne delle classi medio alte potranno viaggiare e accedere ai servizi sanitari che negli Usa perlopiù sono fruibili solo con assicurazione privata. «L’aborto non è mai stato gratuito negli Usa. Se lo Stato lo richiedeva bisognava pagare» ha ricordato Emma Bonino, senatrice di Più Europa e protagonista di storiche battaglie radicali per affermare il diritto al divorzio e per la legalizzazione dell’aborto.

Molto peggio sarà ora negli Usa. Già è partita in molti Stati conservatori anche la battaglia contro l’aborto farmacologico e contro la pillola del giorno dopo, mentre si prepara una ancor più ampia retromarcia sui diritti che – come tristemente abbiamo già visto durante il Covid – colpirà soprattutto i neri, gli ispanici, i nativi americani. È la polpetta avvelenata lasciata dal suprematista Trump che, oltre ad aver tentato il golpe di Capitol Hill, ha blindato la Corte suprema nominando i giudici conservatori che hanno compiuto questo scempio del diritto e questo micidiale attacco alle donne, invocato a gran forza dai fondamentalisti pro-life e dalle Chiese evangeliche. Ora l’ex presidente e tycoon esulta: «L’ha voluto dio».

Rileviamo anche che nell’arco di soli 7 giorni la Corte suprema ha colpito il diritto all’autodeterminazione delle donne, ha autorizzato le preghiere nelle scuole pubbliche e ha rafforzato il diritto a portare armi dichiarando incostituzionale una legge dello Stato di New York che lo limitava. Con tutta evidenza impedire alle donne una sessualità libera slegata dalla procreazione è prioritario per la Corte, ma non lo è altrettanto tentare di fermare le stragi nelle scuole. Di fronte a tutto questo molte migliaia di persone in America si sono riversate nelle strade per protestare. Poco incisiva è parsa fin qui la risposta del presidente Biden su cui pende la spada di Damocle delle elezioni di Midterm.

Da sinistra lo ha incalzato la deputata Alexandria Ocasio-Cortez ricordando un episodio doloroso della sua vita quando fu violentata poco più che ventenne. Drammaticamente oggi la possibilità di interrompere una gravidanza conseguenza di uno stupro, in molti Stati Usa, potrebbe non essere più possibile, aggiungendo dolore a dolore. “Talebani d’Occidente” avrebbe potuto essere il titolo della copertina di Left. Abbiamo scelto “Talebani di casa nostra” ponendo l’accento su quel che accade in Italia, dove la Chiesa – sulla scia della sentenza Usa – tenta di rimettere in discussione la legge 194 e di colpevolizzare le donne affermando contro ogni evidenza scientifica che l’aborto sia un omicidio. Del resto lo stesso papa Bergoglio aveva detto che le donne che si rivolgono a un medico per abortire assoldano un killer.

Per contrastare questa ennesima crociata oscurantista, rilanciata senza contraddittorio su media mainstream con interviste a cardinali e prelati, interpellati su temi medici che riguardano la salute psicofisica delle donne di cui nulla sanno, ci siamo rivolti a autorevoli esperte in ginecologia, psichiatria, neonatologia come Anna Pompili, Irene Calesini e Maria Gabriella Gatti. Già due settimane fa avevamo pubblicato un ampio speciale sul tema dell’aborto denunciando, dati alla mano, come la 194 sia disattesa e disapplicata. Avendo avuto più che sentore di quell’onda nera che stava montando negli Usa, con l’americanista Alessia Gasparini avevamo già fatto un quadro dei diritti delle donne minacciati Oltreoceano. Il filo dell’inchiesta continua su questo numero in cui siamo andati oltre la ricostruzione dei fatti interrogandoci sulla radice culturale, politica e religiosa di questo feroce attacco all’identità delle donne che non viene solo dai talebani in Afghanistan o dai wahabiti in Arabia Saudita, ma in maniera più sottile attraversa anche la civilissima Europa.

Basta guardare a quel sta accadendo in Ungheria e in Polonia dove il drastico restringimento della legge sull’aborto ha causato la morte di giovani donne per setticemia. Basta guardare a quel che accade in Croazia o a Malta (da cui proviene la presidente del Parlamento Ue, la conservatrice Roberta Metzola) dove l’aborto è proibito nella maniera più assoluta e i medici che lo favoriscono rischiano da tre mesi a 6 anni di carcere. Ma appunto parliamo anche e soprattutto dell’Italia che dalla legge 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita a oggi ha fatto molti passi indietro rispetto al diritto delle donne di poter scegliere se e quando fare figli, ma non solo. Dopo la sentenza americana politici anche di destra si sono affrettati a rassicurare che la legge 194 non è in pericolo. Intanto però è sabotata nei fatti dall’alto numero di medici obiettori mentre i governatori regionali della Lega e di Fratelli d’Italia hanno fatto di tutto in Umbria, nelle Marche e altrove per mettere paletti all’aborto farmacologico.

E spuntano ovunque cimiteri ad hoc per i feti. Da Roma a Marsala se ne contano almeno una cinquantina, scandalosamente.

L’editoriale è tratto da Left dell’1 luglio 2022 

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Corte suprematista

Abortion rights activists are seen through a hole in an American flag as they protest outside the Supreme Court in Washington, Saturday, June 25, 2022. The Supreme Court has ended constitutional protections for abortion that had been in place nearly 50 years, a decision by its conservative majority to overturn the court's landmark abortion cases. (AP Photo/Jose Luis Magana)

L’aborto è legale negli Usa dal 1973, quando la Corte suprema americana emise la famosa sentenza Roe vs Wade. Dopo quasi 50 anni, il 24 giugno, la stessa Corte si è pronunciata sul caso Dobbs vs Jackson women’s health organization, ossia sulla legittimità di una legge del Mississippi, che vietando l’aborto dopo la quindicesima settimana, violava apertamente i principi affermati nella Roe vs Wade.

Nella causa contro il governatore del Texas Henry Wade, Jane Roe, pseudonimo di Norma Mc Corvey, chiedeva che le fosse riconosciuta la possibilità di interrompere la terza gravidanza, in virtù del diritto alla privacy considerata come libera scelta riguardo a ciò che attiene alla sfera più intima di una persona. Allora, la Corte suprema stabilì che il diritto alla privacy, inteso come diritto all’autodeterminazione, aveva fondamento costituzionale, e ne definì la universalità; erano pertanto illegittime in tutti gli Stati le leggi che vietavano l’aborto. Nel 1992 questo principio fu ribadito e consolidato con la sentenza Planned parenthood of Southeastern Pennsylvania vs Casey.
Sebbene l’aborto fosse già stato legalizzato nel Regno Unito con l’Abortion act del 1967, la Roe vs Wade ha avuto un’importanza fondamentale, perché per la prima volta si ammetteva il diritto all’aborto, un diritto umano fondamentale, sulla base dei principi di autonomia e autodeterminazione. In virtù della dichiarata universalità del principio di autonomia, gli Stati Uniti non si sono dati una legge federale sull’aborto.

La sentenza della Corte suprema del 24 giugno ha di fatto cancellato la Roe vs Wade, riportando drammaticamente indietro gli Stati Uniti d’America, ad un periodo in cui i diritti civili erano privilegi per pochi. In essa si sostiene che la Costituzione non fa alcun riferimento al diritto all’aborto, e che dunque i singoli Stati sono nel pieno diritto di approvare leggi che lo vietano. Nel Texas, nel Missouri e in almeno altri 13 Stati, quelle leggi sono già pronte. A breve, secondo le stime del Guttmacher institute, l’aborto sarà vietato o pesantemente limitato in 26 Stati.
Se le donne vogliono l’aborto legale, affermano i giudici della Corte suprema, non devono far altro che votare, per cercare di eleggere democraticamente politici non contrari ad esso. Sono le regole della democrazia, bacchettano candidamente e arrogantemente quei giudici, per i quali le disuguaglianze e le ingiustizie fanno parte del gioco; nella loro delirante interpretazione è normale che i diritti all’autodeterminazione e alla salute siano subordinati agli equilibri e alle maggioranze politiche del momento e del luogo.

La sentenza rischia di rafforzare nel mondo posizioni ostili all’affermazione dei diritti sessuali e riproduttivi; di fronte a queste minacce sempre più concrete, l’8 giugno il Parlamento europeo, riunito in sessione plenaria, ha votato la “Risoluzione sulle minacce globali ai diritti all’aborto” che, auspicando che il presidente Biden e la sua amministrazione possano garantire in ogni caso l’accesso all’aborto alle donne americane, «chiede che l’Ue e i suoi Stati membri includano il diritto all’aborto nella Carta dei diritti fondamentali».

«L’accesso all’aborto viene eroso», si legge nella risoluzione, che cita come esempi Malta, dove l’aborto è ancora vietato, la Polonia, l’Ungheria, la Slovacchia, ed anche l’Italia; il Parlamento europeo richiama tutti i Paesi membri a «depenalizzare l’aborto e a eliminare e combattere gli ostacoli all’aborto sicuro e legale e all’accesso all’assistenza sanitaria e ai servizi sessuali e riproduttivi».

Come negli Usa, anche in Italia la legalizzazione dell’aborto ha preso le mosse da una sentenza, ma ad essa è seguita una legge, la 194 del 1978. Pur riconoscendo che la tutela della vita dell’embrione/feto ha fondamento nell’art. 2 della nostra Costituzione, nel 1975 la Corte costituzionale affermò il principio secondo il quale il diritto alla salute di chi è nata prevale sul diritto alla vita di chi non è ancora nato. Nessuno spazio all’autodeterminazione, dunque; l’aborto è ammesso solo per garantire il diritto alla salute delle donne.

Nonostante la debolezza ideologica di tale impianto, la legge è solida, ed essendo…

*L’autrice: La ginecologa Anna Pompili è componente del consiglio generale dell’Associazione Luca Coscioni e cofondatrice di Amica (Associazione medici italiani contraccezione e aborto)

L’articolo prosegue su Left dell’1 luglio 2022 

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Un assaggio del governo che sarebbe con Giorgia Meloni

Se volete un antipasto del mondo che sarebbe con Fratelli d’Italia al governo vi basta fare un salto a Rieti dove il neo sindaco di Rieti, Daniele Sinibaldi (FdI), eletto al primo turno lo scorso 12 giugno, ha ufficializzato ieri mattina i nomi degli assessori che formeranno la nuova giunta comunale del capoluogo reatino, a trazione centrodestra. Della giunta fanno parte anche assessori della Lega, oltre che di Fratelli d’Italia e di liste che hanno sostenuto la candidatura di Sinibaldi.

Tra loro come assessora alla Cultura e scuola è stata nominata Letizia Rosati, una che si è meritata uno spicchio di cronache nazionali nel 2019 scrivendo in un post su Facebook, a proposito a proposito della candidatura della città per il Lazio Pride: «Il mondo Lgbt è contro i miei valori perché nega il dato biologico da cui deriva l’identità delle persone e soprattutto i diritti dei bambini che vengono strumentalizzati a scopi di cui non si parla mai a sufficienza. Utero in affitto, sdoganamento della pedofilia, poliamore sono gli obiettivi da raggiungere. Rassicuro pertanto che tale candidatura non è stata promossa dal Comune».

«Riteniamo inaccettabile la sua nomina a qualsiasi incarico istituzionale – spiega il portavoce del partito Gay LGBT+, Solidale, Ambientalista, Liberale di Rieti Fabrizio Marrazzo – è come se oggi per la comunità nera o ebraica nominassero un assessore antisemita o razzista. Peraltro è assurdo che una candidata non eletta che ha preso 200 voti contro i 330 di Domenico Di Cesare, nostro referente di Partito Gay LGBT+ , capolista di SiAmo Rieti, Ambiente, Diritti, Solidarietà, che è stato il più votato del polo progressista, possa imporre nelle istituzioni le sue idee medievali».

Fratelli d’Italia ha scelto come assessora Rosati non per meriti politici ma perché con certa destra accade così, mettere al comando le persone per marcare ostilità contro i diritti di qualcuno. Altro che progressisti, il gioco sta nell’intestarsi una regressione in nome della Patria e dei valori (che non lo sono) giocando sempre sul filo dell’odio. Poi accade inevitabilmente, come negli Usa, che un diritto dato per assodato improvvisamente si perda.

Buon giovedì.