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Effetto guerra, effetto serra. Una lunghissima estate calda

Burning world map made up of matches

La tragedia della Marmolada è una ferita aperta in primis per le vite umane perdute. Qualcuno dice che non si sarebbe potuta prevedere. Ma non possiamo negare che non si è voluto vedere cosa stava e sta accadendo: i ghiacciai alpini che ogni anno si ritirano mediamente di 30 metri, la lenta agonia delle montagne, il troppo caldo in quota (i dieci gradi registrati anche nel giorno della sciagura significano che il permafrost se ne va e sotto il ghiaccio si formano veri e propri fiumi d’acqua che portano via tutto).

Non si è potuto/voluto vedere che questo fenomeno andava avanti da tempo. «Non deve accadere più», ha detto il presidente del Consiglio Mario Draghi, «dobbiamo prendere provvedimenti». Ma intanto, rispondendo in maniera regressiva alla crisi energetica innescata dall’invasione di Putin all’Ucraina, il governo di larghe intese programma la riapertura delle centrali a carbone, trivelle nell’Adriatico e va a caccia di fonti fossili stipulando accordi con Stati che sono altrettanto dittatoriali della Russia. Tristemente, non ci si rende conto che serve una radicale inversione di marcia. Nei modi di produzione, nelle politiche, negli stili di vita, come scrivono gli attivisti di Extinction rebellion, su questo numero di Left. E non basta agire a livello nazionale, come spiegano il diplomatico Grammenos Mastrojeni e il fisico Antonello Pasini, autori del libro Effetto serra, effetto guerra (Chiarelettere) che hanno collaborato al nostro dossier. I cambiamenti climatici generano conflitti, esodi biblici.

Ma al tempo stesso la guerra, e quella che si sta consumando nel cuore dell’Europa in modo particolare, ha scatenato la guerra del gas, del petrolio, delle materie prime, oggetto oggi più che mai di grandissime speculazioni. Se l’aggressione all’Ucraina è stata feroce, pessima è stata la risposta da parte dei governi occidentali pronti a inviare armi, ma non altrettanto solleciti nell’applicare con coerenza sanzioni alla Russia e investire su rinnovabili e fonti alternative. La stessa Europa che nel bene e nel male ha cercato una risposta complessiva al covid (mettendo in comune il debito e investendo massicciamente sulla ricerca di vaccini) sulla questione energetica e della lotta al climate change non ha ancora preso provvedimenti sistematici e incisivi. Ogni Stato fa per sé, procedendo in ordine sparso, con la Francia che investe sul nucleare e la Germania che riapre le centrali a carbone. Non rendendosi conto che i fenomeni climatici estremi vanno aumentando e che serve un approccio globale come denunciano da tempo i ragazzi dei Fridays for future. Per farsene un’idea basta anche solo ripercorre le notizie dei mesi scorsi: a marzo i poli Nord e Sud hanno registrato temperature record. E un’ondata di calore ha colpito molte parti del mondo.

A Delhi, nel mese di maggio, facevano già 49 gradi. Quello che di solito era il picco dell’estate ora è la nuova normalità. Studi scientifici ci dicono che la megalopoli ha perso il 50-60% delle sue zone umide e dell’ecosistema naturale che aiutava a moderare le temperature. E nemmeno la tradizionale fuga dal caldo insopportabile della città verso la montagna offre più tregua. La feroce siccità che l’India sta vivendo porta con sé la distruzione dei raccolti (del grano in modo particolare), ma porte anche un aumento notevolissimo dei consumi energetici per il massiccio e impattante uso di condizionatori. Va detto che gli effetti di questa situazione non colpiscono tutti allo stesso modo. A soffrire di più di queste ondate di calore sono soprattutto i più poveri che vivono in case affollate e prive di climatizzatori, costretti a fare lavori di fatica avvolti in una bolla di calore che non lascia scampo. E non è un problema che riguarda solo il continente indiano.

Gli effetti del climate change si fanno sentire anche negli Usa, dalla Florida alla Louisiana, dal Mississippi al Kansas, dal Missouri al Minnesota e oltre. Le morti a causa del calore sono in aumento anche da questa parte del mondo. Tante altre volte abbiamo parlato – e torneremo a farlo – degli effetti devastanti del climate change sul grande continente africano, che sta già provocando desertificazioni e esodi di massa, soprattutto interni al continente, creando conflitti. Il recente rapporto dell’Ipcc (il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite) torna a ribadire che queste temperature da record non sono un evento naturale. Sono largamente determinate dall’influenza umana sul clima. Dobbiamo fermarci prima che sia troppo tardi.

L’editoriale è tratto da Left dell’8-14 luglio 2022 

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Il mondo ha fame, sempre più fame

An Afghan boy sits on the hill overlooking the IDP camp near Qala-e-Naw, Afghanistan, Tuesday, Dec. 14, 2021. Severe drought has dramatically worsened the already desperate situation in Afghanistan forcing thousands of people to flee their homes and live in extreme poverty. Experts predict climate change is making such events even more severe and frequent. (AP Photo/Mstyslav Chernov)

Nel mondo, il numero delle persone che soffrono la fame è salito a 828 milioni nel 2021. Si tratta di un aumento di circa 46 milioni di persone dal 2020 e 150 milioni di persone dallo scoppio della pandemia di Covid-19. Sono i dati di un Rapporto delle Nazioni Unite che fornisce nuove prove di come il mondo si stia allontanando ulteriormente dal suo obiettivo di porre fine alla fame, all’insicurezza alimentare e alla malnutrizione in tutte le sue forme entro il 2030.

L’edizione 2022 del rapporto The State of Food Security and Nutrition in the World (Sofi) presenta aggiornamenti sulla situazione della sicurezza alimentare e della nutrizione in tutto il mondo, comprese le ultime stime sul costo e sulll’accessibilità di una dieta sana. Il rapporto esamina anche i modi in cui i governi possono ripensare il loro attuale sostegno all’agricoltura per ridurre il costo di diete sane, tenendo conto delle limitate risorse pubbliche disponibili in molte parti del mondo.

Il rapporto è stato pubblicato ieri congiuntamente dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (Fao), dal Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (Ifad), dal Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (Unicef), dal World Food Programme (Wfp) e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms).

I numeri dipingono un quadro cupo:

  • Ben 828 milioni di persone hanno sofferto la fame nel 2021: 46 milioni di persone in più rispetto all’anno precedente e 150 milioni in più dal 2019.
  • Dopo essere rimasta relativamente invariata dal 2015, la percentuale di persone affamate è aumentata nel 2020 e ha continuato a crescere nel 2021, raggiungendo il 9,8 per cento della popolazione mondiale, rispetto all’8 per cento nel 2019 e al 9,3 per cento nel 2020.

  • Circa 2,3 miliardi di persone nel mondo (29,3 per cento) hanno vissuto in condizioni di insicurezza alimentare moderata o grave nel 2021, 350 milioni in più rispetto a prima dello scoppio della pandemia di COVID 19. Quasi 924 milioni di persone (l’11,7 per cento della popolazione mondiale) hanno affrontato gravi livelli di insicurezza alimentare, un aumento di 207 milioni in due anni.

  • Il divario di genere nell’insicurezza alimentare ha continuato a crescere nel 2021: il 31,9 per cento delle donne nel mondo ha sofferto di insicurezza alimentare moderata o grave, rispetto al 27,6 per cento degli uomini, un divario di oltre 4 punti percentuali, rispetto ai 3 punti percentuali nel 2020 .

  • Quasi 3,1 miliardi di persone non hanno potuto permettersi una dieta sana nel 2020, 112 milioni in più rispetto al 2019, un riflesso degli effetti dell’inflazione sui prezzi dei generi alimentari al consumo derivante dagli impatti economici della pandemia di COVID-19 e dalle misure messe in atto per contenerla.

  • Si stima che circa 45 milioni di bambini al di sotto dei cinque anni abbiano sofferto di deperimento, la forma più mortale di malnutrizione, che aumenta il rischio di morte dei bambini fino a 12 volte. Inoltre, 149 milioni di bambini al di sotto dei cinque anni hanno avuto deficit di sviluppo a causa di una mancanza cronica di nutrienti essenziali nella loro dieta, mentre 39 milioni erano in sovrappeso.

  • Si stanno compiendo progressi nell’allattamento al seno, con quasi il 44 per cento dei bambini di età inferiore ai sei mesi che, in tutto il mondo, sono stati allattati esclusivamente al seno nel 2020, anche se si è al di sotto dell’obiettivo del 50 per cento entro il 2030. Desta grande preoccupazione il fatto che due bambini su tre non abbiano un regime alimentare diversificato, necessario per crescere e sviluppare il proprio pieno potenziale.

  • Guardando al futuro, le proiezioni indicano che, nel 2030, quasi 670 milioni di persone (l’8 per cento della popolazione mondiale) dovranno ancora affrontare la fame, anche prendendo in considerazione una ripresa economica globale. Si tratta di un numero simile al 2015, quando l’obiettivo di porre fine alla fame, all’insicurezza alimentare e alla malnutrizione entro la fine di questo decennio fu lanciato nell’ambito dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile.

Nel periodo di pubblicazione di questo rapporto, la guerra in corso in Ucraina, che coinvolge due dei maggiori produttori mondiali di cereali, di olio di semi e di fertilizzanti, sta sconvolgendo le catene di approvvigionamento internazionali e facendo aumentare i prezzi di grano, fertilizzanti, energia, nonché degli alimenti terapeutici pronti all’uso per bambini che soffrono di malnutrizione grave. Ciò accade mentre le catene di approvvigionamento sono già colpite negativamente da eventi climatici estremi sempre più frequenti, specialmente nei paesi a basso reddito, e ha implicazioni potenzialmente preoccupanti per la sicurezza alimentare e la nutrizione globali.

«Questo rapporto evidenzia ripetutamente l’intensificarsi di questi principali fattori di insicurezza alimentare e malnutrizione: conflitti, shock climatici estremi e economici, combinati con crescenti disuguaglianze», hanno scritto nella Prefazione di quest’anno i capi delle cinque agenzie delle Nazioni Unite. «La questione in gioco non è se le avversità continueranno a verificarsi o meno, ma come intraprendere azioni più audaci per costruire la resilienza contro gli shock futuri».

Riqualificazione delle politiche agricole

Il rapporto rileva come debba far riflettere il fatto che il sostegno mondiale al settore alimentare e agricolo sia stato in media di quasi 630 miliardi di dollari l’anno, tra il 2013 e il 2018, di cui gran parte devoluta ai singoli agricoltori, attraverso politiche commerciali e di mercato e sussidi fiscali. Tuttavia, gran parte di questo sostegno non solo distorce i mercati, ma non raggiunge molti agricoltori, danneggia l’ambiente e non promuove la produzione di cibi nutrienti che sono al centro di una dieta sana. Ciò è in parte dovuto al fatto che i sussidi spesso sono usati per la produzione di alimenti di base, latticini e altri alimenti di origine animale, soprattutto nei paesi a reddito alto e medio-alto. Riso, zucchero e carni di vario tipo sono i prodotti alimentari più incentivati ​​in tutto il mondo, mentre frutta e verdura sono relativamente meno supportate, in particolare in alcuni paesi a basso reddito.

Con le minacce di una recessione globale incombente e le sue implicazioni sulle entrate e sulle spese pubbliche, un modo per sostenere la ripresa economica consiste nel ripensare il sostegno alimentare e agricolo indirizzandolo verso quegli alimenti nutrienti in cui il consumo pro capite non corrisponde ancora ai livelli raccomandati per diete sane.

L’evidenza suggerisce che, se le risorse che i governi stanno attualmente usando venissero convertite per incentivare la produzione, la fornitura e il consumo di cibi nutrienti, ciò contribuirebbe a rendere le diete sane meno costose, più convenienti ed eque per tutti.

Infine, il rapporto sottolinea anche che i governi potrebbero fare di più per ridurre le barriere commerciali per gli alimenti nutrienti, come frutta, verdura e legumi.

Buon giovedì.

Nella foto un ragazzo afgano presso il campo sfollati interni a Qala-e-Naw, Afghanistan, 14 dicembre 2021. L’Afghanistan è uno dei Paesi più colpiti dalla crisi alimentare

Per approfondire leggi Left del 10 giugno 2022

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A scuola di partecipazione

Universita Statale, Assemblea degli studenti di Filosofia davanti al passagglio per il rettorato, contro il numero chiuso (Milano - 2017-05-30, Maurizio Maule) p.s. la foto e' utilizzabile nel rispetto del contesto in cui e' stata scattata, e senza intento diffamatorio del decoro delle persone rappresentate

La partecipazione studentesca costituisce uno tra i più importanti esercizi di democrazia e cittadinanza attiva che i giovani possono sperimentare, ma la sua importanza va oltre questo aspetto. Un’ampia letteratura, infatti, dimostra, come la partecipazione a scuola sia una leva che contribuisce a ridurre l’abbandono scolastico, un fatto che dovrebbe essere tenuto in considerazione soprattutto nel nostro Paese: secondo gli ultimi dati Eurostat (relativi al 2021), il 12,7% degli studenti abbandona precocemente gli studi e quasi un giovane su quattro è un Neet (23,1%), ovvero non studia, non lavora e non segue percorsi di formazione.
A partire dai risultati della ricerca realizzata da Percorsi di secondo welfare su incarico di ActionAid Italia Contrastare le disuguaglianze educative: partecipazione studentesca e orientamento scolastico questo articolo mostra i limiti della partecipazione studentesca e delinea alcune strategie utili al suo rafforzamento.

Cos’è la partecipazione studentesca?
La partecipazione studentesca riguarda tutte quelle attività che consentono ai ragazzi di essere coinvolti proattivamente nella vita della classe e della scuola. Ad esempio, si può parlare di partecipazione studentesca quando gli studenti intervengono nella realizzazione di attività didattiche curricolari ed extracurricolari (come la predisposizione di una lezione insieme all’insegnante), oppure quando votano i propri rappresentanti negli organi di governo dell’istituto e organizzano cogestioni.
Una vasta letteratura mostra che le pratiche partecipative generano negli studenti una serie di sentimenti positivi verso la scuola, portandoli a migliorare il proprio rendimento e a partecipare ancora di più alla vita scolastica. La partecipazione studentesca è quindi uno dei fattori che contrasta l’abbandono scolastico, dal momento che rende la scuola un luogo accogliente e di cui lo studente si può sentire parte.

I luoghi della partecipazione
In Italia, la normativa (D. Lgs. 297/1994, D.P.R. 567/1996 e sue successive modifiche e D.P.R. 249/1998 e sue successive modifiche) individua diversi strumenti di partecipazione studentesca: internamente alla scuola le assemblee di classe e d’istituto con i rispettivi rappresentanti, oltre al comitato studentesco; esternamente alla scuola la Consulta provinciale, il Consiglio nazionale dei presidenti delle consulte provinciali e il Forum nazionale delle associazioni studentesche. La normativa riconosce poi agli studenti ampia possibilità di auto-organizzazione attraverso i collettivi, le liste aperte e le commissioni paritetiche.

I limiti della partecipazione
Nonostante la numerosità degli strumenti in campo, la partecipazione studentesca è di fatto debole. Secondo la recente indagine Gli studenti e la partecipazione realizzata per ActionAid Italia da Ipsos (che ha coinvolto 803 studenti nell’agosto del 2021), già prima della pandemia quasi uno studente su due svolgeva assemblee di classe e d’istituto poche volte l’anno o…

L’articolo prosegue su Left dell’1 luglio 2022 

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Gli sgambetti della politica alle carriere dei ricercatori

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 15-12-2021 Roma, Italia Politica Senato - comunicazioni del Presidente del Consiglio in vista Consiglio europeo 16-17 dicembre Nella foto: il Presidente del Consiglio Mario Draghi con la Ministro dell’Università Cristina Messa durante le comunicazioni al Senato Photo Mauro Scrobogna / LaPresse 15-12-2021 Politics Senate - communications from the President of the Council ahead of the European Council 16-17 December In the photo: Prime Minister Mario Draghi with the Minister of the University Cristina Messa during his communications to the Senate

La debolezza strutturale del sistema della ricerca italiana è nota da tempo all’opinione pubblica. Oltre alla questione del finanziamento della ricerca scientifica ridicolmente più basso rispetto ad altri Paesi avanzati – anche tra quelli dell’Unione europea – però, c’è un altro vulnus meno noto. Ossia l’ingiusta (e autolesionistica) esclusione dei ricercatori italiani dal riconoscimento della qualità del loro lavoro e dei risultati conseguiti, anche attraverso un adeguato percorso di carriera e di valorizzazione professionale.
Malgrado la condizione di forte svantaggio in cui il ritardo nella progressione professionale li pone rispetto ai colleghi stranieri, i ricercatori italiani riescono comunque ad acquisire ingenti finanziamenti internazionali in bandi competitivi, consentendo all’Italia di collocarsi al terzo posto in una classifica recente dei Paesi che attraggono finanziamenti europei per ricerca scientifica.

Il problema della mancata valorizzazione professionale, in realtà, affligge soprattutto gli enti pubblici di ricerca (Epr) e in primis il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) che è il principale e più importante di essi. I suoi ricercatori, dopo aver attraversato un periodo spesso molto lungo di precariato, devono superare un secondo collo di bottiglia, rappresentato dal congelamento al livello iniziale di carriera, che si protrae a volte per decenni e persino per tutto il corso della vita lavorativa, pur avendo conseguito abilitazioni scientifiche universitarie di professore associato o di ordinario o idoneità per livelli più alti nelle procedure di valutazione interna, che non si convertono in effettivi avanzamenti solo per mancanza di risorse economiche.

Tale sperequazione è stata chiaramente descritta su queste pagine da Federico Tulli (v. Left del 17 settembre 2021): più del 70% dei ricercatori del Cnr è fermo al terzo livello (quello di partenza); meno del 10% ha raggiunto il livello di vertice, mentre negli atenei italiani i professori ordinari e associati sono rispettivamente il 30% e il 48% dell’intero corpo docente. Una situazione particolarmente punitiva se si pensa che, ad esempio, al Cnr i ricercatori contribuiscono al bilancio dell’Ente per circa un terzo, attraverso i finanziamenti derivanti dai bandi competitivi vinti.

Qualcosa, in effetti, sembrava stesse cambiando. Da alcuni mesi è in discussione al Parlamento un disegno di legge (il ddl n.2285) che ridefinisce il percorso professionale nelle università e negli enti di ricerca con l’obiettivo di abbreviare significativamente la permanenza nei livelli iniziali per chi opera negli Epr. L’approvazione di questa legge renderebbe disponibili i fondi stanziati nell’ultima legge di bilancio, tramite un investimento pari a 40 milioni di euro, destinati per tre quarti a nuovi concorsi di progressione e per…

L’articolo prosegue su Left dell’1 luglio 2022 

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Il Sud partigiano della Costituzione

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 07-05-2021 Roma , Italia Cronaca Street art - la Costituzione più bella del mondo Nella foto: L’opera dell’artista Greg Jager a celebrare la Costituzione italiana inaugurata su un palazzo nel quartiere di Garbatella Photo Mauro Scrobogna /LaPresse May 07, 2021  Rome, Italy News Street art - the most beautiful constitution in the world In the photo: The work of the artist Greg Jager to celebrate the Italian Constitution inaugurated on a building in the Garbatella district

In questa drammatica fase storica, fra guerra, pandemia e carestia, c’è l’urgente necessità in Italia di capovolgere la prospettiva geografica e in ottica euromediterranea iniziare ad operare politicamente per imprimere una grande spinta da Sud per controbilanciare la logica che da più di 160 anni prevale e mantiene ogni centro di potere finanziario, politico, culturale al Nord e che vede il Mezzogiorno solo come una colonia interna estrattiva. È ovvio che questo può avvenire solo in un’ottica marxista e deve necessariamente fare leva con chi non è compromesso da decenni di connivenza politica e finanziaria con l’“asse del Nord” e con la conseguente teoria della “locomotiva”, al fine di dare una degna e resistente rappresentanza ai territori del Sud, creando una sinergia positiva con quelle forze progressiste presenti in tutta la penisola che troppo spesso non hanno voce sui media, ma soprattutto per dare risposte concrete a tutti i cittadini, del Sud così come del Nord. Il tutto non in ottica revanscista, ma solo in rispetto dei principi costituzionali.

Quello che sta succedendo con l’accelerazione impressa dalla ministra Mariastella Gelmini sull’autonomia differenziata è infatti emblematico. La ministra degli Affari regionali ha prima ventilato di voler mettere in “soffitta” i Lep (Livelli essenziali delle prestazioni), per poi procedere la scorsa settimana, con un vertice romano fra i soli presidenti delle Regioni del Nord, cioè Veneto, Lombardia, Liguria, Emilia-Romagna, Piemonte, Friuli-Venezia Giulia e Toscana, per la condivisione definitiva della bozza di legge quadro sull’autonomia differenziata, il cui obiettivo strategico è mettere in cassaforte il frutto dei reiterati scippi perpetrati, a Costituzione rovesciata, ai danni del Sud, grazie alla legittimazione definitiva del “grimaldello” della spesa storica.  Questo senza nessuna condivisione preventiva del testo e discussione in Parlamento, ma tutto nelle segrete stanze. Scriveva Gramsci: «Poche mani, non sorvegliate da controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora perché non se ne preoccupa», o come in questo caso, perché i media non hanno mai approfondito il tema, spesso preoccupandosi più di blandire i governanti che non denunciare lo stato delle cose. Se la cantano e se la suonano da soli, esautorando il Parlamento, le Regioni meridionali, i cittadini.

Chi si richiama agli… 

* L’autore: Natale Cuccurese è presidente del Partito del Sud

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Un dittatore per amico

Italy's Prime Minister Mario Draghi, left, shakes hands with Turkey's President Recep Tayyip Erdogan after a joint news conference following their meeting at the Turkish Presidential palace in Ankara, Turkey, Tuesday, July 5, 2022. Draghi is on an official visit to Turkey. (AP Photo)

Giusto qualche giorno fa i draghiani più draghiani dello stesso Draghi (non c’è nemmeno bisogno di specificare di quali micropartiti, è fin troppo facile) difendevano il padrone del governo dei migliori che non rispondeva e poi tornava piccato da una giornalista del Corriere della sera che si era permessa di chiedere al presidente del Consiglio cosa pensasse dei curdi regalati a Erdogan in cambio dell’ingresso nella Nato di Svezia e Finlandia.

“Non è affar suo”, ci spiegavano gli azionisti e soprattutto gli italiani vivi, convinti che la politica per Draghi sia una perdita di tempo che debba giustamente trattare con sufficienza. La risposta è comunque arrivata ieri dal vertice di Ankara dove Draghi (che un anno fa definiva il presidente turco Recep Tayyip Erdogan «un dittatore», di cui si ha comunque «bisogno» e con il quale occorre dunque «cooperare» per assicurare gli interessi del nostro Paese) si è fatto fotografare sorridente con il dittatore affermando che «Italia e Turchia sono partner, amici, alleati».

Il motivo di questo cambio repentino è facile da indovinare: «La Turchia è oggi il primo partner commerciale per l’Italia nella regione del Medio Oriente e del Nord Africa – spiega Draghi -. Nel 2021 l’interscambio è stato di quasi 20 miliardi di euro, in crescita del 23,6% rispetto all’anno precedente». Così è tutto un firmare di ministri, fottendosene allegramente di un dittatore ora diventato amichetto del cuore.

Risuonano le parole di Salih Muslim, presidente del partito curdo-siriano, il Pyd: «I Paesi occidentali non stanno tenendo conto delle conseguenze del proprio sostegno al regime turco. Sanno che la Turchia ha incarcerato centinaia di giornalisti, politici e magistrati. E che ha commesso crimini di guerra in Rojava contro i curdi. Tuttavia, Usa ed Europa chiudono un occhio su tutto ciò per tutelare i propri interessi. Noi, al contrario, rappresentiamo i valori di democrazia, umanità e libertà. Se sono onesti, devono stare con noi. Questo, alla lunga, servirà per portare stabilità e progresso nel Medio Oriente».

Buon mercoledì.

Le gaffe di Sasso

Oltre a essere un politico è anche insegnante ed è perfino sottosegretario all’Istruzione. Il leghista Rossano Sasso è ospite della trasmissione Omnibus per sparare contro lo ius scholae e si trova di fronte l’avvocato Hilarry Sedu, uno degli autori del disegno di legge, per di più nero.

La scena è una fotografia del Paese. Sasso parte in quarta spiegando che in Italia esiste già lo ius soli spiegandoci che è previsto «dall’art. 9, comma 1, lettera F, della legge 92 del 1991». Ovviamente lo ius soli non esiste ma, particolare non da poco, la legge a cui avrebbe voluto fare riferimento Sasso è la legge 91 del 1992. Qualcuno può pensare che si tratti di un errore veniale, una distrazione.

Continuiamo. Sasso spiega che lo ius scholae sarebbe uno “scudo” per impedire l’espulsione in caso di un reato. La spiegazione è la solita propaganda leghista: «Se un bambino di 8 anni ha un papà che delinque, e i dati dimostrano che sono tantissimi i reati compiuti dagli immigrati, quel papà non viene espulso. Ecco che allora si realizza il disegno della sinistra di estendere con questo ius soli mascherato la cittadinanza a tutti». Dall’altra parte il pacato avvocato Sede gli fa notare che «se il genitore del minore delinque e costituisce una minaccia per lo Stato e per l’ordine pubblico, viene comunque espulso», e siamo alla seconda figuraccia nel giro di pochi minuti.

Hilarry Sedu fa notare anche che etnicizzare un reato ha un nome preciso: razzismo. Il sottosegretario, come accade a tutti i leghisti, si indigna. Il finale è da brividi. «Macché razzista, come si permette?», urla Sasso. Sedu risponde: «Glielo dico perché sta facendo una serie di confusioni arrivando a dire addirittura agli italiani che in questo momento esiste lo ius soli. Per favore, quando si va in televisione, bisogna essere preparati, altrimenti si fa altro». Sasso non ci sta: «Avvocato, si ripassi l’art. 9 della legge», dice. Sedu sorride sconsolato: «Veramente sarebbe l’art. 4 e anche in questo lei è impreparato».

Sipario. Parliamo di un sottosegretario. Un sottosegretario del governo dei migliori.

Buon martedì.

Nella foto: Rossano Sasso, frame della trasmissione Omnibus, 3 luglio 2022

Chi pensa alla salute mentale dei giovani?

The young man with medical face mask stands on the crowded street

«Di recente ho avuto il Covid, proprio quando pensavo che ormai fosse tutto finito. Ho vissuto lo stigma sociale dell’appestata. Questa cosa ha avuto il suo peso su come ho percepito la mia personale solitudine, sentendomi reclusa non solo a livello pratico ma anche psichicamente». Sono le parole di Camilla, una studentessa di 23 anni che si è ritrovata a fare i conti con l’isolamento, causa contagio, in una casa di studenti universitari, accusando sulla propria salute mentale tutto il peso di una condizione non naturale per una ragazza della sua età. E non è l’unica.

Una sorta di pandemia dentro la pandemia sta infatti colpendo le fasce più giovani della nostra società, in una fase fondamentale dello sviluppo sia dell’identità personale che di quella sociale. Un quadro preoccupante che però secondo i diretti interessati trova scarsa attenzione da parte delle istituzioni. Per cambiare lo stato delle cose le associazioni sindacali studentesche Rete degli studenti medi (Rsm) e Unione degli universitari (Udu), in collaborazione con il sindacato dei pensionati Spi-Cgil, hanno promosso “Chiedimi come sto” una delle più grandi campagne di raccolta dati sul tema della salute mentale tra i ragazzi. Una ricerca che ha interrogato, sotto la supervisione dell’istituto Ires dell’Emilia Romagna, quasi 30mila studenti che frequentano gli istituti superiori e gli atenei universitari. Due dati per rendere subito l’idea: dal questionario è emerso che, dopo due anni di Covid-19, nove giovani su dieci affermano di manifestare sintomi di stress e forte disagio psicologico ed altri dichiarano di essere notevolmente spaventati per quanto riguarda la loro salute mentale.

«Durante il periodo pandemico – spiega Camilla Piredda, dell’esecutivo nazionale Udu – le esigenze dei giovani e degli adolescenti sono state totalmente ignorate; ci si ricordava di loro solo per additarli come responsabili della diffusione del Covid. Nella realtà palesavano la necessità di bisogno di aiuto a cui finora non è stata data risposta». I dati, estrapolati dalle domande dei questionari poste agli studenti, in questo senso non lascerebbero dubbi.
Uno dei fattori maggiormente critici è la manifestazione e la proliferazione di disturbi alimentari di vario genere, che nei più giovani sono uno dei primi campanelli di allarme per quanto riguarda la presenza di un disagio psichico. Il 30% degli studenti delle superiori e oltre il 23% degli universitari intervistati ha dichiarato in qualche modo di soffrirne. Altro comportamento preso in esame sono gli atti di autolesionismo, segnalati da quasi il 20% degli studenti sotto i diciotto anni e dal 7,5% di…

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Come un Minniti qualsiasi

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 04-05-2022 Roma, Italia Cronaca 161 anniversario di fondazione dell’Esercito Italiano Nella foto: Il Ministro della Difesa Lorenzo Guerini, L'Ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone Capo di Stato Maggiore della Difesa, il Generale Pietro Serino capo di stato Maggiore dell’ Esercito Photo Mauro Scrobogna / LaPresse May 04, 2022 Roma, Italy News 161 anniversary of the foundation of the Italian Army In the photo: Defense Minister Lorenzo Guerini, Admiral Giuseppe Cavo Dragone Chief of Defense Staff, General Pietro Serino Army Chief of Staff

Un gruppo di 20 persone è morto dopo essersi perso nel deserto libico nella zona di confine con il Ciad. Da due settimane non si aveva nessuna notizia. I dispersi sono stati ritrovati mercoledì 29 giugno dal servizio di emergenza libico che, con un comunicato, ha riferito che tutti e venti sono stati rinvenuti morti di sete nel deserto.

Come racconta Melting Pot nel suo report di giugno sono «almeno 770 le persone decedute ad oggi nel Mediterraneo centrale a cui si aggiungono le vittime dell’ultimo naufragio, avvenuto alla fine del mese, il 30 giugno, in Tunisia al largo di Djerba. In 17, tutti di nazionalità tunisina, viaggiavano a bordo di piccola imbarcazione: verranno rinvenuti 3 corpi mentre, altre 3 persone risultano disperse. Molte altre vite, scomparse in ignoti naufragi, resteranno senza un nome e, su di loro, non vi sarà neanche un lenzuolo a coprire tutte le speranze negate da una solidarietà e da una volontà politica europea arbitraria e discriminante. Nel mese di giugno 2022, 7.843 persone hanno raggiunto l’Europa attraversando il Mediterraneo centrale, approdando con imbarcazioni sempre più fatiscenti sulle coste siciliane e calabresi o, salvati miracolosamente in mare dagli operatori delle navi umanitarie presenti in area di ricerca e soccorso. Nel mese di giugno 2021 ne arrivarono 5.840».

Salvini e Meloni, con le elezioni che si avvicinano (e con lo ius scholae in discussione) stanno ripartendo con la propaganda dell’invasione. La Libia intanto è la solita polveriera, senza nessuna possibilità per ora di tornare una sua stabilità politica (anche questo tutto merito dell’Occidente che ha “esportato la sua democrazia”). A questo si aggiunge la povertà che sta attanagliando l’Africa, per la crisi climatica e per l’aumento di prezzi dei beni essenziali a causa della guerra.

In tutto questo il ministro della Guerra Lorenzo Guerini riesce a rilasciare un’intervista a Repubblica che ci ricorda, per l’ennesima volta, perché lo sentiamo e lo vediamo così poco in giro. Mentre discetta di guerre in giro per il mondo non riesce a trattenersi e ci fa sapere che sul Sahel «senza sviluppo non può esserci sicurezza. C’è il rischio di fenomeni migratori mai visti prima». Un ministro che parla di guerre e che riesce a ipotizzare la possibilità che portino “sviluppo” e che infine sventola le migrazioni come tema di “sicurezza”. Una roba indecente, così. Come un Minniti qualsiasi, semplicemente con più capelli e più profumo di incenso.

Buon lunedì.

Guerra e diplomazia, eppur Pechino si muove

Da quello sciagurato mese di febbraio quando Mosca ha deciso di attaccare militarmente il territorio della Repubblica di Ucraina la stampa nostrana si è a tratti interrogata su che cosa facesse Pechino. Mentre molti sembravano dare spazio ad un libro di un giornalista americano, in tutti i sensi, dal titolo di non difficile interpretazione Fermare Pechino, ecco affacciarsi – a tratti timidamente – chi tenta invece di spiegare che la questione è ben più complessa perché La Cina è già qui. Perché è urgente capire come pensa il Dragone, come recita il titolo di un ottimo libro della sinologa e giornalista Giada Messetti (Mondadori, 2022). In parole povere, fermare Pechino è una frase d’effetto, che tende a trasformare la geopolitica in un derby calcistico, ben più complesso è invece suggerire che dobbiamo “capire” e per fare questo non basta odiare e demonizzare come ci suggerisce l’autore americano, ma studiare e comprendere le ragioni, le condizioni, le storie, le tradizioni degli altri, come ci racconta Messetti.

Esattamente tutto quello che non sta accadendo per la guerra in Ucraina. È difficile capire le ragioni della nostra politica e dei nostri governanti europei, che spalancano la porta ad Ucraina, Moldavia e perfino Georgia, mentre inspiegabilmente continuano a lasciare sull’uscio i paesi dei Balcani che, come l’Albania, sono già nella sfera europea da decenni e sono reduci da una sanguinosa guerra etnica, che potrebbe con il loro ingresso in Europa trovare finalmente una composizione. Non riusciamo a capire come sia possibile che nessuno dalle nostre parti provi a capire cosa sta accadendo e si impegni per fermare questa guerra. Quando il conflitto cesserà, riporterà le lancette della storia al giorno precedente al suo inizio, quando Putin riconobbe le repubbliche filorusse del Donbass, la differenza saranno solo le migliaia di persone di ogni etnia e provenienza che hanno perso la vita. E non riusciamo a capire perché nessuno compia uno sforzo per avviare veramente una trattativa che possa portare ad un cessate il fuoco.

Molti hanno sperato che la Cina svolgesse un…

 

* L’autore: Federico Masini è ordinario di Lingua e Letteratura Cinese all’Università La Sapienza di Roma.

L’articolo prosegue su Left dell’1 luglio 2022 

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