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Stalking, il cortocircuito giudiziario della riforma Cartabia

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 19-01-2022 Roma Camera dei Deputati - Comunicazioni della Ministra Marta Cartabia sull'amministrazione della Giustizia Nella foto Marta Cartabia Photo Roberto Monaldo / LaPresse 19-01-2022 Rome (Italy) Chamber of Deputies - Communications from Minister Marta Cartabia on the Justice administration In the pic Marta Cartabia

Dopo un accesissimo dibattito politico, la cosiddetta riforma Cartabia, ovvero la legge 134/2021 è entrata in vigore il 19 ottobre scorso. Nell’ottica della riduzione del 25% dei tempi dei giudizi penali, così come chiede il Piano nazionale di ripresa e resilienza, contiene modifiche al Codice penale ed a quello di procedura penale. Anche sul piano giuridico, incredibilmente la riforma Cartabia, non smette di sorprenderci. L’occasione ci è data da una notizia appresa qualche giorno fa a proposito di una vicenda giudiziaria accaduta a Parma e definita dal procuratore della Repubblica Alfonso D’Avino «paradossale». Un uomo accusato del reato di stalking, arrestato per aver violato il divieto di avvicinamento all’ex compagna, viene liberato subito dopo l’udienza di convalida dell’arresto. La notizia è di quelle che lasciano allibiti. Cerchiamo di capire cosa è accaduto, dov’è il cortocircuito giudiziario. Il Codice Rosso (legge 69/2019) ha introdotto nel Codice penale una nuova ipotesi di reato: la violazione del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. La riforma Cartabia, al fine di rendere efficace la tutela prevista dal Codice penale ha stabilito (art. 2, comma 15) che, nel caso il soggetto sia colto in flagranza di reato, debba essere arrestato dalla polizia giudiziaria (art. 380).

A questo punto c’è un buco nero, poiché manca il coordinamento tra la norma del Codice penale e quelle del Codice di procedura penale. In particolare, da una parte, il reato di violazione del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art.387 bis c.p.) è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni, dall’altra, l’art 380, secondo comma (L-ter) del Codice di procedura penale, ha stabilito l’arresto in flagranza per questo reato, mentre l’art. 280 primo comma c.p.p. prevede l’applicazione delle misure coercitive solo per i delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o la reclusione superiore nel massimo a tre anni. Quindi il giudice della convalida deve procedere alla liberazione dell’arrestato. Ed ecco il vulnus che ha prodotto quella che D’Avino ha definito «un paradosso». Insomma, l’aggressore prima viene fermato e arrestato e poi liberato. Tutta questa faccenda ha dell’incredibile anche per il fatto che già a novembre del 2021, quindi ad un mese dall’entrata in vigore della legge, a proposito di questa abnorme contraddizione, in una circolare interna della procura della Repubblica di Torino, si leggeva tra l’altro, che la legge cosi come ora è congegnata, «limita le finalità di tutela che il legislatore si proponeva di realizzare».

Finalità di tutela più volte ribadite, non senza orgoglio, anche di recente dalla ministra della Giustizia che in varie occasioni pubbliche ha sfoggiato come un fiore all’occhiello tutte le misure di prevenzione e tutela che si stanno approntando per le donne vittime di violenza definendo quest’ultima «una vera barbarie». Nonostante le norme introdotte abbiano cercato di adeguare l’ordinamento interno alla Convenzione di Istanbul, quello che per ora leggiamo è un’inaccettabile svista che proprio quegli obiettivi mette in grave pericolo. Le cronache quasi quotidiane raccontano come questo fenomeno finisca spesso in un femminicidio. È possibile che di fronte a tutto ciò ci si possa permettere una simile distrazione? È come dare un’ulteriore arma in mano a chi già si nutre di progetti criminosi. Cosa può passare nella testa di chi accusato di violenze, si vede arrestato perché denunciato dalla propria vittima, e poi inusitatamente rilasciato?
È probabile che il pensiero che faccia è “gliela faccio pagare”.

Ci chiediamo come sia possibile che non si sia verificato che tutto fosse congruo e soprattutto idoneo alla finalità che le norme si prefiggono. Oppure è prevalsa la finalità di ridurre i tempi della giustizia e blandire cosi l’opinione pubblica? Non vogliamo cadere nel tranello di pensare che tutti gli apprezzabili sforzi di tutela siano in realtà come la tela di Penelope che di giorno lavorava per tesserla e di notte la scioglieva. Si vuole oppure no una normativa efficace ed efficiente, realmente tutelante? Non vogliamo essere malpensanti, tuttavia anche sul piano della politica giudiziaria si possono fare delle riflessioni. Attribuire il potere di privazione della libertà personale alla polizia giudiziaria e non prevedere la stessa possibilità per il giudice è sinceramente allarmante. In questo caso il giudice deve convalidare un provvedimento della polizia e non può emettere la stessa misura in quanto le norme in vigore non glielo permettono. Non vorremo che rientrasse in un piano di delegittimazione della magistratura che, con tutti i suoi difetti e le sue ombre, sicuramente da correggere, proprio per la sua intrinseca funzione attribuitale dalla Costituzione funge da baluardo di tutela anche per chi è dalla parte del torto. Nonostante sia stata prodotta del governo dei migliori, è una legge di riforma della giustizia da rivedere.

*-* L’autrice: Concetta Guarino è insegnante di Diritto

I Montesano e le figuracce familiari

Ieri Tommaso Montesano, giornalista di Libero, ha pensato bene di scrivere un tweet che recita testualmente: «Le bare di Bergamo stanno al Covid19 come il lago della Duchessa sta al sequestro Moro», costruendo un parallelismo tra il negazionismo del falso comunicato delle Brigate Rosse e le false (secondo lui) morti nella città bergamasca. Ovviamente un’affermazione così grave è salita subito alla ribalta: che i camion di Bergamo siano una costruzione scenica ormai è credenza solo dei più penosi cretini negazionisti. Gente che non ha nulla a che vedere con gli eventuali critici sul Green pass.

Tommaso Montesano però è riuscito a compiere un miracolo visto che ha spinto perfino Libero a vergognarsi, cosa che pareva incredibile. Il direttore Alessandro Sallusti ha spiegato all’Ansa «di aver chiesto all’azienda di valutare con gli uffici legali se ci sono gli estremi per un licenziamento». «Trovo quanto scritto di una gravità inaccettabile – ha aggiunto il direttore -. Non solo è un falso ma è un falso che offende la nostra testata e la redazione: i più arrabbiati sono proprio i colleghi».

Nelle ore successive esce un altro comunicato: «Il Comitato di redazione del quotidiano Libero si dissocia dagli interventi con i quali un collega nella sostanza nega una correlazione tra la foto simbolo delle bare di Bergamo e il Covid. E si scusa con le famiglie delle decine di migliaia di persone che hanno perso la vita a causa della pandemia. Si possono avere le idee più diverse su vaccini e Green pass, ma le teorie negazioniste sono quanto di più lontano dai valori dei giornalisti di Libero».

Montesano figlio, colto in fallo, ovviamente ci dice di essere stato frainteso e nel suo profilo Facebook scrive: «Il mio tweet, su cui in molti in queste ore si stanno scagliando, è stato gravemente equivocato. Il mio pensiero era un semplice parallelismo – espresso in modo icastico ma evidentemente infelice – tra la forza simbolica dei camion militari di Bergamo, che hanno avuto il merito di far aprire gli occhi anche ai più scettici che negavano la gravità della pandemia, e le immagini della ricerca del corpo dell’onorevole Moro nel lago della Duchessa che, secondo le ricostruzioni storiche, convinsero l’opinione pubblica ad accettare l’ineluttabilità del destino di Moro!». Poi ovviamente chiude tutti i suoi profili social, atteggiamento tipico di chi è convinto di essere nel giusto.

L’infelice uscita fa il paio con l’atteggiamento del padre Enrico, ormai idolo dei complottisti: le figuracce a volte sono familiari. Ci sono stelle in discesa che cercano conforto tra i complottisti ma pure stelle in ascesa. Complimenti ad entrambi.

Buon giovedì.

La triste maretta contro Conte

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 26 Gennaio 2022 Roma (Italia) Politica : Elezioni del Presidente della Repubblica entrate alla Camera dei Deputati Nella Foto : Giuseppe Conte Photo Cecilia Fabiano/ LaPresse January , 26 2022 Rome (Italy) News : Elections of the President of the Republic politicians entering in the Chamber of Deputies In The Pic : Giuseppe Conte

Tocca tornare sul Movimento 5 stelle e sulla decisione del tribunale di Napoli di azzerare i vertici non tanto per loro, che come tutti i partiti vivono un momento convulso, ma per sottolineare la stolida reazione di quelli che da anni vorrebbero la distruzione del M5s come unico obiettivo politico e che da anni si rivendono come “diversi”, “seri”, e “non populisti”.

Matteo Renzi si spreme in un tweet che cola renzismo e scrive: «Il professor Conte ha scritto lo Statuto dei Cinque stelle con la stessa chiarezza con cui scriveva i Dpcm: il risultato è l’esplosione del Movimento. E questa volta non c’è stato nemmeno bisogno di combatterli: hanno fatto tutto da soli #StelleCadenti». Matteo Renzi dimostra di non saper leggere poiché l’ordinanza del Tribunale dice tutt’altro: lo Statuto era chiaro, ma i 5S non l’hanno applicato. Evidentemente distorcere la realtà non è un problema se torna utile per fare una battuta. Ma ancora più importante è che Renzi è lo stesso che ha sbagliato nel 2016 a scrivere il Codice degli appalti (corretto con 181 correzioni e 220 articoli), si è fatto sospendere dal Consiglio di Stato le norme attuative sulle banche popolari, si è fatto bocciare dalla Consulta la legge sulla Buona scuola, poi la legge Madia e poi quella che doveva essere “la legge elettorale più bella del mondo”, l’Italicum. Non male per uno che si atteggia da maestrino. Ma del resto la questione dei grillini torna utilissima per non parlare del suo milione di euro intascato dal regime dittatoriale saudita per fare il ragazzo immagine.

Carlo Calenda, quello che tutti i giorni ci insegna che bisogna essere seri, ieri twittava #cancelliamoli come un bambino in curva allo stadio. I liberali che auspicano la cancellazione degli altri sono una deforme variante tutta italiana. Una sua elettrice educatamente gli risponde: «Mi sento di dire, con grande tranquillità, che alla maggioranza degli iscritti ad Azione (me compresa) non piace questo linguaggio di pancia, che poco ha a che fare con una politica lontana dal populismo. Eppure saremo “qui” per questo». Calenda serafico le risponde: «Dici. Eppure lo usiamo dall’evento fondativo di Azione. I 5S hanno inquinato il dibattito politico italiano, preso in giro milioni di cittadini, distrutto politiche importanti da impresa 4.0 a Ilva, preso in giro gli operai etc etc. devono sparire politicamente». Da notare che un mese fa proprio Calenda riferendosi ai 5S si augurava «meno veti» e diceva che «non sono più un problema». Poi non è riuscito a trattenersi. A proposito di serietà e misura e soprattutto a proposito di politica fatta di contenuti che Calenda condensa in un hashtag.

Notevoli anche i garantisti, quelli che ogni volta lamentano l’intervento della magistratura sulla politica anche quando si tratta di un politico amico di una folta schiera di mafiosi e che invece oggi esultano per una magistratura che sospende i vertici di un partito. Garantisti con gli amici e manettari con i nemici.

A proposito di leggi: ieri Beppe Grillo ha dovuto ribadire che le sentenze si rispettano al partito che è nato proprio sull’onda delle sentenze. Almeno questo. E io aspetterei per esultare sulla scomparsa politica di Conte: la nuova votazione rischia di confermare il leader in modo ancora più largo e Conte potrebbe avere l’occasione per fortificarsi e liberarsi di Di Maio (la cui visione politica a quanto pare si ridurrebbe sull’abolizione dei due mandati per poter fare il terzo per un paio di volte) in un colpo solo.

Ieri scrivevamo che centrodestra e centrosinistra non stavano proprio benissimo ma ci eravamo dimenticati delle qualità del centro. Eccole qua.

Buon mercoledì.

Il mandato zero del M5s

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 23 Gennaio 2022 Roma (Italia) Politica : Elezioni del Presidente della Repubblica vertice del centro sinistra alla camera Nella Foto : Giuseppe Conte lascia la Camera Photo Cecilia Fabiano/ LaPresse January , 23 2022 Rome (Italy) News : Elections of the President of the Italian Republic meeting of the progressives coalition In The Pic : Giuseppe Conte leaves deputies chamber

Tutto da rifare. Il Tribunale di Napoli ha sospeso le due delibere con cui, nell’agosto del 2021, il Movimento 5 stelle ha modificato il proprio statuto e poi incoronato Giuseppe Conte come leader. Secondo il Tribunale ci sarebbero «gravi vizi nel processo decisionale» anche a causa dell’esclusione dalla votazione di circa un terzo degli iscritti. Il mancato raggiungimento del quorum necessario per validare l’elezione: il Tribunale di Napoli scrive di un’«illegittima esclusione dalla platea dei partecipanti all’assemblea del 3 agosto 2021 degli iscritti all’Associazione Movimento 5 Stelle da meno di sei  mesi». Quella scelta avrebbe «determinato» – per  la settima sezione civile del tribunale di Napoli – «l’alterazione del quorum assembleare nella deliberazione di modifica del proprio statuto». «Tale delibera infatti risulta adottata sulla base di un’assemblea formata da soli 113.894 iscritti – si legge nell’ordinanza – (quelli da più di sei mesi) in luogo dei 195.387 associati iscritti a quella data; con l’illegittima esclusione di 81.839 iscritti all’ente dal quorum costitutivo e deliberativo, maggiore dei soli 60.940 associati che hanno partecipato all’assemblea, la cui delibera è stata poi approvata dall’87% di questi». Per questo i giudici ritengono che «l’assemblea dell’Associazione Movimento 5 stelle che ha deliberato il 3 agosto del 2021 non era correttamente costituita perché risulta che vi hanno partecipato un numero di iscritti inferiore a quello richiesto in prima convocazione. I 60.940 iscritti che vi hanno partecipato erano di numero inferiore alla metà più uno del quorum».

Giuseppe Conte non guida più il M5s. Per ora torna come reggente Vito Crimi, bisogna rifare tutto dall’inizio. Le reazioni sono facilmente immaginabili: chi da sempre ha puntato il dito contro il dilettantismo politico del Movimento 5 Stelle ha un’ulteriore prova a sostegno della propria tesi; chi confida nello spostamento del collocamento politico (magari con un ritorno a destra) può sperare in una nuova e diversa classe dirigente; chi da tempo sogna il ritorno di Di Battista e un presunto “ritorno alle origini” confida nella nuova partita.

Di sicuro c’è che la notizia arriva proprio nel bel mezzo di uno scontro interno ormai conclamato tra Conte (e i suoi) e Di Maio (e i suoi). La guerra intestina tra l’altro aveva già provocato pittoresche inversioni nel panorama politico: gli stessi che additavano Di Maio come “bibitaro” ora lo celebrano come grande statista perché “i nemici dei miei nemici sono miei amici”, come accade nelle scorribande del tifo. La crisi del M5s, piaccia o no, determina comunque un importante smottamento nel cosiddetto centrosinistra italiano. Abbiamo passato settimane a leggere giustamente che il centrodestra fosse messo male, anche dall’altra parte non stanno messi benissimo.

Buon martedì.

Se la discriminazione è assicurata

Driving car on a forest asphalt road among trees

Due coetanei residenti a Milano, con un simile passato da guidatori, ossia con il medesimo stesso storico assicurativo, possessori dello stesso modello di automobile, potrebbero trovarsi a pagare un prezzo assai diverso per una polizza. Come mai? Come chiarisce una ricerca congiunta delle Università di Padova, Udine e Carnegie Mellon, la ragione è legata al loro diverso luogo di nascitao alla nazionalità.

Di questi tempi, infatti, le aziende assicurative stanno sviluppando algoritmi sempre più complessi basati sull’intelligenza artificiale per stabilire i prezzi delle assicurazioni auto, e in alcuni casi secondo lo studio intitolato Algorithmic audit of italian car insurance: Evidence of unfairness in access and pricing i calcoli compiuti da questi cervelli artificiali per elaborare le tariffe si basano anche sulla nazione o sulla città di origine del potenziale cliente, finendo per determinare una discriminazione che ricade sul costo del servizio venduto. Lo studio mostra per esempio che una persona nata in Ghana e residente a Milano può pagare oltre mille euro in più rispetto a un coetaneo nato e residente a Milano possessore di un’auto identica e con la stessa classe di rischio assicurativo.
Per capire in che modo e da quando succede tutto ciò, occorre fare un lungo passo indietro nel tempo.

Ad accorgersi per primo di questa “abitudine” è stato Udo Enwereuzor, senior policy advisor di Cospe onlus: già nel 2002 aveva notato come la cittadinanza fosse usata come elemento di differenziazione nell’ambito della stipula delle Rc auto. Gli algoritmi, all’epoca, ancora non c’erano. «Prima dell’avvento di internet, si poteva acquistare una polizza Rca per telefono», ricorda Enwereuzor. «Provai a contattare la stessa compagnia due volte, prima presentandomi come un cittadino italiano e poi come un cittadino nigeriano. Ho potuto farlo, avendo una doppia cittadinanza. E ho subito notato che il prezzo dei due preventivi era diverso». Insomma, le disparità tra possibili clienti alla ricerca di una polizza sono un fenomeno antico. Oggi, a quanto pare la situazione non è cambiata ma è molto più difficile scoprirlo sebbene sia molto più semplice e immediato ottenere un’ipotesi di prezzo.
Il preventivo che un tempo si richiedeva per telefono oggi si ottiene infatti in pochi minuti su un qualsiasi sito web di una compagnia assicurativa inserendo la targa nell’aggregatore. Oppure nei vari siti che mettono a confronto in tempo reale i preventivi di compagnie diverse. Molti di questi siti, una volta inserita la targa, essendo collegati con il Pubblico registro automobilistico, risalgono in automatico ai dati anagrafici di…


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Lo Stato del lavoro

Foto Marco Alpozzi / LaPresse 22 Dicembre 2021 Torino (Italia) Cronaca Crollo della gru in via Genova a Torino - i periti al lavoro nella zona del crollo Photo Marco Alpozzi /LaPresse December 22, 2021 News the experts at work in the area of the collapse in via Genova Foto Marco Alpozzi / LaPresse 22 Dicembre 2021 Torino (Italia) Cronaca Crollo della gru in via Genova a Torino - i periti al lavoro nella zona del crollo Nella Foto: Photo Marco Alpozzi /LaPresse December 22, 2021 News the experts at work in the area of the collapse In the pic:

Piccola e breve carrellata di notizie alla scoperta di un Paese in cui non si parla di un argomento, il lavoro, che a breve irromperà nella scena politica e nel dibattito pubblico e sarebbe bene non dimenticare chi ha fatto di tutto per normalizzare l’intollerabile.

Nel Lazio i Nas di Latina hanno scoperto che almeno 200 braccianti di nazionalità indiana impiegati nei campi e nelle serre subivano dai loro padroni massicce dosi di ossicodone (un farmaco simile alla morfina, di solito usato come antidolorifico) per poter essere più performanti nel lavoro senza sentire troppa fatica. Un medico di base, un avvocato e un farmacista brigavano per migliaia di ricetta in esenzione per un valore di 146mila euro. Risolvere farmacologicamente il flagello della mancanza di diritti, evidentemente, è stata considerata una geniale soluzione.

Laila El Harim, rimasta incastrata e schiacciata in una fustellatrice presso la ditta Bombonette di Camposanto (Modena), grossa azienda attiva nel settore packaging. Due sono gli indagati per la Procura di Modena, Fiano Setti, 86 anni, di Camposanto, fondatore e legale rappresentante della ditta Bombonette, e Jacopo Setti, 31 anni, di Finale Emilia, delegato alla Sicurezza. Dovranno rispondere del reato di omicidio colposo in concorso, con l’aggravante di essere stato commesso in violazione delle norme antinfortunistiche. Indagata anche la ditta Bombonette srl come soggetto giuridico. Secondo la pm Maria Angela Sighicelli la fustellatrice utilizzata nell’azienda Bombonette di Camposanto, in cui è rimasta incastrata e uccisa lo scorso agosto l’operaia 40enne, sarebbe stata modificata rispetto al manuale d’uso, la pm al riguardo sottolinea la presenza di pareggiatori in gomma da regolare manualmente non previsti e l’assenza di una protezione, prevista. Il macchinario manomesso accelerava il lavoro.

Non ce l’ha fatta Luca Blondi, il giardiniere di 50 anni schiacciato tre giorni fa da una piattaforma elevatrice, che stava utilizzando durante un intervento di potatura nel giardino di un condominio in via Torricelli a Lissone, in provincia di Monza e Brianza. L’uomo era stato trasportato all’ospedale San Gerardo di Monza già in arresto cardiaco ed è morto dopo poco il suo arrivo.

Cinque persone sotto indagine per la morte sul lavoro di Francesco Gallo, 48 anni, 4 giorni fa. Faceva il saldatore: è caduto da un ballatoio durante un intervento di manutenzione a Fusina, presso Marghera. Siciliano di Gela, abitava nel Bergamasco.  Gli indagati  per concorso in omicidio colposo sono tre dirigenti di Ecoprogetto, società del gruppo Veritas di Venezia per i servizi ambientali, il titolare e il responsabile della sicurezza della Omd, ditta trevigiana di carpenteria.

Nel 2021 più di 3 persone sono morte ogni giorno nell’esercizio della propria attività lavorativa. Ben 1.221 gli incidenti con esito mortale presentate all’Inail nell’intero arco del 2021. Complessivamente, le denunce di infortunio sul lavoro nell’anno appena trascorso sono state 555.236 (+0,2% rispetto al 2020). In aumento le patologie di origine professionale denunciate, che sono state 55.288 (+22,8% rispetto al 2020). Questi i principali dati del Bollettino trimestrale Inail, comprensivi delle denunce relative alle infezioni da Covid-19 avvenute nell’ambiente di lavoro, o a causa dello svolgimento dell’attività lavorativa e in itinere.

A proposito: nei mesi di applicazione della nuova normativa del Superbonus, su 5mila imprese edili controllate ben l’87% è risultato irregolare in materia di sicurezza.

Sul tema del lavoro si deciderà molta della credibilità della politica. Chissà se dopo tutti questi anni ricorderanno ancora le parole per parlarne e farne parlare.

Buon lunedì.

Nella foto: la gru crollata a Torino che ha provocato la morte di tre operai, 22 dicembre 2021

Ex Gkn, prove tecniche di riconversione

Il 98,8% dei lavoratori ex Gkn, oggi Qf, ha approvato l’accordo raggiunto il 19 gennaio al ministero dello Sviluppo economico dalla nuova società con governo, Invitalia, sindacati, Rsu e istituzioni locali. Cinque pagine di impegni assunti per la reindustrializzazione dello stabilimento di Campi Bisenzio e la continuità occupazionale dei lavoratori.
Il crono programma prevede che l’imprenditore Francesco Borgomeo, dopo aver rilevato il 31 dicembre scorso le quote di Gkn Driveline Firenze, raccolga le manifestazioni di interesse di altri investitori, ne valuti i piani industriali e, dopo una negoziazione con sindacati e istituzioni, entro il 31 agosto, ceda l’attività a una nuova dirigenza.
Il piano sarà periodicamente verificato al ministero e a livello aziendale, grazie anche all’istituzione di una commissione di sorveglianza, proposta e controllo degli investimenti pubblici, composta da Rsu, sindacati ed istituzioni.

Un ottimo risultato che ci assicura il mantenimento del posto di lavoro a 370 addetti, pari al numero di occupati al momento del passaggio tra Gkn e Borgomeo e rispetto alle attività esterne garantisce che Qf utilizzerà il bacino di lavoratori che operavano in appalto.
Saranno attivati percorsi di formazione e verranno utilizzati gli ammortizzatori sociali utili a governare al meglio le difficoltà: da gennaio cassa integrazione ordinaria e poi di “transizione”. E se al 31 agosto non dovesse concretizzarsi il progetto di riconversione industriale, sarà Qf stessa ad assumersi l’onere.

Se siamo arrivati fin qua lo dobbiamo alla lotta dei lavoratori, all’“affetto” con cui hanno custodito la fabbrica e all’azione sindacale della Fiom Cgil. Per questo è importante ricordare i fatti.
La multinazionale leader nella produzione di semiassi, di proprietà del fondo finanziario britannico Melrose e partner di Stellantis, aveva previsto per il 9 luglio 2021 una giornata di permesso collettivo. Nessuno immaginava che in quella data avrebbe comunicato la volontà di chiudere lo storico stabilimento ex Fiat e licenziare i 422 dipendenti. Una strategia subdola che considera i lavoratori solo dei numeri. L’ennesimo dramma sociale, economico e produttivo per tutto il territorio, in nome del…


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La geopolitica del passaporto

World map created with passport stamps, travel concept

I cittadini del Giappone e di Singapore possono entrare in 192 Paesi del mondo senza richiedere un visto. Gli afgani hanno libero accesso solo a 26. La nuova classifica del “potere dei passaporti”, stilata pochi giorni fa in base all’Henley passport index, ci ricorda quanto i confini politici nei 5 continenti siano ben delineati. Anche dove non ci sono muri, non tutti i passaporti sono sufficienti ad attraversare tali confini, incrementando così la distanza tra Paesi ricchi e Paesi poveri. In due anni di pandemia abbiamo tutti fatto i conti con la limitazione dei nostri movimenti – per motivi sanitari – prima da un Paese all’altro, poi tra regioni, infine all’interno della stesso comune di residenza. Le zone bianche, gialle e rosse adottate dall’Italia, nel mondo – con “colori” diversi – sono una costante. Spesso però si tende a non avere consapevolezza dell’enorme privilegio di poter entrare in 189 Paesi senza la necessità di richiedere un visto. Solo grazie al Passaporto rosso. Un documento che l’Italia condivide con gli altri Paesi dell’Unione europea presenti nelle prime posizioni dell’indice calcolato sin dal 2006 dalla Henley&Partners.

Tra il primo posto, occupato da Giappone e Singapore, e l’ultimo, in cui si posiziona l’Afghanistan nella classifica realizzata a gennaio 2022, ci sono ben 166 destinazioni possibili di differenza. L’Henley passport index si basa su dati forniti dall’International air transport association (Iata) e ordina i passaporti in base al loro “potere”, determinato dal numero di destinazioni a cui i titolari hanno accesso senza bisogno di un visto preventivo. Nell’ultima classifica non rientrano ancora le restrizioni dovute alla pandemia ma già da un report “intermedio” di ottobre è stato evidente l’aumento di barriere legate alla diffusione del virus in determinati Paesi contribuendo al più ampio divario di mobilità globale dal 2006 (anno in cui è stato stilato il primo indice di Henley&Partners). Sono le nazioni “più potenti” ad aver imposto maggiori restrizioni legate alla pandemia, mentre quelle con passaporto più debole hanno aperto ancor di più i loro confini senza ricevere in cambio reciprocità.
Prendiamo il caso del Giappone. Da un lato i suoi cittadini possono andare praticamente ovunque senza visto, dall’altro Tokyo è ultima nella Welcoming countries rank di Arton capital, vietando l’ingresso da qualsiasi Paese sia con eventuale visto (salvo casi rarissimi) che con il solo passaporto, in risposta alla diffusione della variante Omicron. L’Italia, al terzo posto dell’indice con ingresso garantito in 189 Paesi, nel 2019 permetteva l’accesso senza visto ai cittadini di 93 Paesi che in queste prime settimane del 2022 risultano ridotti a 50.
Il Covid è diventato quindi un nuovo strumento per…


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Quel sorriso di Carlo Levi

FEBBRAIO 1956 ROMA - PREMIO MARZOTTO - L' INTELLETTUALE ED ARTISTA CARLO LEVI NEL SUO STUDIO, SEDUTO, POLTRONA, FUMARE, SIGARO, ANNI 50, ITALIA, B/N, 744145/4, 03-00004981

C’è qualcosa di meravigliosamente inafferrabile nella figura di Carlo Levi, che non sta soltanto nel suo eclettismo instancabile, nel suo disinvolto spaziare dalla pittura alla poesia, dal diario di viaggio al saggio politico. Perché c’è in lui, prima ancora del talento e dell’entusiasmo, una straordinaria curiosità della vita che mai si spegnerà, neanche nei momenti più difficili e oscuri. È quella curiosità che gli fa attraversare l’esperienza del confino in Lucania come una scoperta che si snoda giorno per giorno lungo i mesi d’esilio fra i calanchi, e che la fa diventare un momento fondativo del suo impegno artistico, intellettuale e politico. Per altri che condivisero la stessa condanna da parte del regime fascista non fu affatto così: Cesare Pavese la considerava un capitolo da dimenticare, insopportabile. Per Natalia Ginzburg era stato l’approdo in un mondo ignoto e incomunicabile.

Perché il frutto di quell’esperienza per Carlo Levi non fu tanto e soltanto il suo romanzo di gran lunga più celebrato, Cristo si è fermato a Eboli, pubblicato da Einaudi nel 1945, quanto una sua visione del mondo che risente profondamente del dialogo che Levi apre sin da subito con quel territorio ai margini di ogni storia, con quella società umana che solo in apparenza non ha nulla in comune né con lui né con il resto del mondo. Il meridionalismo di Levi, infatti, che nei lunghi anni del dopoguerra fu anche militante e costruttivo, mira a rifondare non tanto il Sud d’Italia e ogni altro Sud del mondo, quanto la coscienza collettiva e la politica nazionale di tutti per ripensare equilibri, convinzioni, prospettive. Perché se c’è una cosa che arriva a comprendere, sperduto com’è nel paesello di Aliano, è che il Sud è in lui, in tutti noi. Il Sud è la condanna ma anche la vocazione a migrare, a darsi radici aeree e portar con sé il senso della terra, della casa, della nostalgia, del dolore e della forza di vincerlo.

Ma Carlo Levi non è soltanto il “Cristo” e l’esperienza del confino. A 120 anni dalla nascita, compleanno che nella tradizione ebraica è l’impossibile augurio e ricorrente nella speranza di raggiungere quella che fu l’età del “nostro maestro” Mosè, ripercorrere la figura di Carlo Levi significa innanzitutto rimediare a una sorta di incolpevole oblio collettivo ma prima ancora ritrovare un intellettuale di calibro straordinario, un uomo capace sempre di sfuggire a qualunque tentativo di…


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Adriano Prosperi: La scuola deve promuovere la libera formazione

Adriano Prosperi Storico Università di Pisa (PISA - 2013-01-20, VITO PANICO) p.s. la foto e' utilizzabile nel rispetto del contesto in cui e' stata scattata, e senza intento diffamatorio del decoro delle persone rappresentate

Lorenzo Parelli è morto sul luogo di lavoro quando, come tutti i ragazzi della sua età, avrebbe avuto tutto il diritto di starsene in classe a studiare. Tanti studenti sono scesi in piazza a Roma, Milano, Torino, Napoli, per manifestare, per denunciare che la sua morte, inaccettabile, non è stata una fatalità e che l’alternanza scuola lavoro deve essere abolita. Ma sono stati pesantemente caricati dalla polizia. Cosa sta succedendo in questo Paese che non dà futuro e sicurezza ai giovani ma li prende a manganellate? Come è potuto accadere? È la non facile domanda che abbiamo rivolto allo storico Adriano Prosperi, professore emerito della Normale di Pisa che per la scuola come luogo di libera formazione si è sempre impegnato molto. A questo tema ha dedicato anche ampia parte dell’appassionato libro Un tempo senza storia (Einaudi) che ha suscitato molto interesse, non solo fra gli specialisti. «Purtroppo con i libri non si cambia il mondo, lo si cambia con la lotta», accenna il professore. «E rispondere alla morte di Lorenzo, che è un fatto lacerante, significa prendere atto che siamo arrivati al punto che i ragazzi, messi nelle mani della scuola, vengono sfruttati in fabbriche che approfittano di forme di alternanza scuola lavoro e di tirocini gratuiti per far risparmiare ai padroni qualche soldo. Quello che vedo – approfondisce Prosperi – è che si cerca di fare di questi ragazzi dei robot. È la ferocia del neoliberismo che tipicamente si esprime in modo impersonale. Quanto meno il vecchio padrone delle ferriere era un essere umano che vedeva qualche altro essere umano. Ora guardano solo i loro rendiconti annuali. Lorenzo è morto perché non c’era con lui la persona che doveva sostenerlo, sorvegliarlo, proteggerlo. Ed è una morte che deve scuotere le coscienze».

«Non è scuola e non è lavoro» dicono dell’alternanza scuola lavoro gli studenti. Che ne pensa?
Le ragazze e i ragazzi affidati alla scuola perché siano formati e maturino intellettualmente vengono deviati su un binario sbagliato, quello dell’avviamento al lavoro subordinato su cui grava l’antica maledizione della dipendenza servile. E così accade allo studente di morire di lavoro, una maledizione sociale che condivide coi lavoratori italiani. Le deficienze della scuola superiore sono state mascherate con meccanismi della vecchia scuola di avviamento al lavoro. Questo fa sì che i giovani lavorino gratis nelle fabbriche. Non è assolutamente accettabile. La scuola deve promuovere la libera formazione, la libera crescita della personalità.

Una sua contro proposta?
Dobbiamo sciogliere questo vincolo e sostituirlo con qualcosa di più produttivo: dopo le ore che ha passato a scuola, il giovane potrebbe trascorrerne altre in luoghi di alta cultura, in centri di ricerca per apprendere come la scienza va avanti. Tra i 14 e i 18 anni i ragazzi hanno una potenzialità intellettuale straordinaria, possono imparare molto, tanto più oggi. La loro formazione universitaria potrebbe iniziare prima.

Cosa lo impedisce?
Tutti i problemi di un Paese che ha cessato di investire sulla scuola, che anzi ha tagliato alla cieca, che manda i giovani in aule non adeguate, dove i tetti crollano, dove non ci sono biblioteche, dove gli insegnanti sono sotto pagati. Assistiamo a cambiamenti profondi e a fenomeni innescati anche dal mondo della rete che abitua a raccogliere informazioni non validate. A fronte di tutto questo la scuola è stata depauperata, ha subito colpi molto gravi. Penso per esempio alla crisi del 2008 quando hanno tagliato i fondi massicciamente. Penso al precariato su cui si regge la scuola, al blocco dei concorsi. Alla formazione continua che dovrebbero fare gli insegnanti e a cui non si pensa più.

Ma c’è il bonus cultura…
È una presa in giro, il problema vero è quello della formazione. Un insegnante dopo 30 anni di insegnamento è logorato, se non trova il respiro per dedicarsi all’aggiornamento – cosa che accedeva nell’Italia del secolo scorso. Dovrebbero potersi recare in luoghi di cultura, dove poter fare ricerca, rinfrescarsi.

In questo immobilismo è impantanato il ministro Patrizio Bianchi?
Il ministro finge che le cose siano andate bene nell’universo scolastico tanto da indire un esame di maturità con ben due scritti. Non sono andate bene invece le cose della scuola negli anni della pandemia e noi rischiamo di penalizzare i più fragili. In vista di questo nostro incontro ho riletto Nello specchio della scuola (Il Mulino), il libro che Bianchi ha pubblicato nel 2020: è pieno di considerazioni, se vogliamo, anche condivisibili. Ripercorre la storia, ci pone davanti alle statistiche, per ribadire che il problema della scuola è primario. Ma se questa è l’opinione del ministro, non si direbbe che questa sia la visione del governo Draghi e dei precedenti governi che si sono sempre espressi sull’importanza della scuola, ma non hanno mai fatto niente di concreto.

C’è anche chi propone la riduzione del corso di studi delle superiori a quattro anni.
Lo fa lo stesso ministro Bianchi nel libro che citavo. Si taglia la scuola di libera formazione per che cosa? Come accennavo si rischia di incoraggiare il mondo dell’industria e del capitale a sfruttare i giovani inserendoli nel sistema produttivo con funzioni servili.

Il ministro Bianchi sostiene anche che nella didattica a distanza ci siano aspetti positivi che andrebbero sviluppati.
Riconoscimenti alla Dad non sono tollerabili perché rivelano l’intenzione di ricorrervi anche oltre il Covid per mascherare e rendere incancrenite le piaghe di questi anni. La Dad può essere utile nel rapporto burocratico di ministeri e sedi di articolazioni amministrative o di gestioni di aziende. Niente può sostituire la parola viva del dialogo di insegnamento dove il docente deve far parlare le ricchezze della cultura e del sapere in modo da appassionare i giovani in un incontro ricco e stimolante, suggerendo i campi dove cercare risposta alle domande fondamentali dell’età in cui ci si apre al mondo. Dando loro strumenti critici contro le fake news diffuse dalla scuola impersonale, stupida e incontrollabile della rete.

Gli studenti sono scesi in piazza con cartelli con cui rivendicano il proprio diritto alla conoscenza e non solo alla competenze. È un messaggio importante?
Importantissimo. Questa tendenza a arricchirli di competenze, di capacità funzionali in realtà è una specie di cavallo di Troia attraverso il quale si sostituisce la formazione di una cultura aperta dello studente con l’addestramento a rispondere perfettamente a quello che gli viene richiesto. Vengono valutati con test fatti a domande a crocette. Ci sono tre risposte e devi sceglierne una. Una mia nipotina al posto delle tre domande ne ha aggiunta una propria e ha preso un brutto voto. Questo per dire che trovare esattamente la spina dove devi inserire il tuo filo è cosa diversa dall’immaginare un mondo differente; è cosa diversa dall’essere aperto alle molte possibilità della realtà. In genere gli studenti sono molto più ricchi di risposte dei loro docenti e soprattutto non devono essere addestrati all’obbedienza, questo è un modo per creare la Metropolis del futuro, in cui ci sono i robot. Ma qui i robot sono stati sostituiti dagli esseri umani.

La scuola in Italia è stata, oltreché uno strumento di alfabetizzazione, anche di coesione sociale, ha ancora questa funzione?
Nella scuola si è formata una coscienza collettiva. L’Italia aveva lingue e culture diversissime. È arrivata all’Unità senza coinvolgere nella rivoluzione nazionale le classi subalterne e contadine. La legge Casati, l’avvio della scuola per tutti furono l’inizio di un cambiamento, pur zoppicando, perché non era facile contrastare una realtà sociale che non permetteva alle classi lavoratrici di mandare i figli a scuola, dal momento che era possibile impiegarli nel mondo del lavoro subito. Importante fu la lotta contro il lavoro minorile. Oggi negare l’accesso al sistema scolastico a chi non ha la cittadinanza significa tagliarsi le gambe per la formazione del Paese di domani.

Di questi temi lei si è occupato nel libro a più mani La scuola interrotta (Ets) promosso da insegnanti.
Tutto è cominciato per iniziativa di un gruppo di docenti di Casalecchio di Reno che hanno raccolto documenti e riflessioni. Ne è nato un volume a cura del Presidio primaverile per una scuola a scuola. Ho collaborato anche io ricordando il ruolo che ha avuto la scuola nella costruzione di un orizzonte collettivo in un Paese come l’Italia che è arrivato tardi all’unità nazionale e alla rivoluzione industriale, che ha pagato questo ritardo con l’interruzione della legalità, con la dittatura, con le leggi razziali, con pesanti macchie della fedina collettiva. Impoverire la scuola vuol dire ricreare le condizioni di questo arretramento.

Episodi violenti come quello del bambino ebreo insultato e aggredito a Venturina da adolescenti razziste ne sono una spia?
È un fatto inaccettabile e da non sottovalutare. Il punto è come nascono queste cose. Come diventano normali? Pensavamo di vivere ormai in una cultura aperta, antifascista, che Livorno e il suo territorio ne fossero espressione. E invece non c’è un posto sicuro. Tutto questo si combatte sul terreno della scuola. Agli inizi del mio percorso ho insegnato in un liceo, parlo di sessant’anni fa: i problemi che emergevano nelle riunioni dei docenti erano quelli drammatici delle famiglie operaie, dei figli che crescevano sulla strada, del rischio della droga, e la scuola se ne faceva carico; i docenti si facevano avanti con il personale sanitario per affrontare le questioni. Ora né le scuole né le Asl hanno il personale per farlo. Eppure in questi due anni di pandemia la società ha aggravato i suoi problemi, sono aumentate le disuguaglianze, si sono allentati i legami sociali, le famiglie impoverite sono rimaste chiuse in casa, senza neanche la libertà per i ragazzi di andare a scuola.

C’è un problema di ignoranza ma anche di negazione della storia? In Un tempo senza storia lei denuncia gli insulti alla senatrice Segre, il rigurgito di prodotti culturali apologetici di Mussolini, mentre le destre strizzano l’occhio a gruppi che si definiscono fascisti del XXI secolo…
Il problema è gravissimo, la scuola era rimasta l’unico agente collettivo in Italia dopo la scomparsa dei partiti di massa che veicolavano una certa cultura, una certa memoria, una certa tradizione, come ha scritto benissimo Eric Hobsbawm. È scomparsa la prospettiva del cambiamento radicale della società che quei partiti proponevano combattendo le profonde radici che il fascismo, il razzismo avevano nel corpo collettivo della nazione. Scomparso tutto questo, si è perduta la memoria collettiva. Non è stata sostituita dalla scuola che è stata monopolizzata da pedagogisti che hanno diffuso precetti, regole, comportamenti svuotando però la materia formativa e marginalizzando la storia.

Fino a proporre di abolire, in tempi recenti, la traccia di storia alla maturità?Facciamo un passo indietro: noi abbiamo ereditato dal primo Novecento e dalle lotte sociali l’idea di una struttura dell’insegnamento in cui il tronco era la storia. Tutte le altre discipline erano articolate in senso storico: c’era una storia del pensiero filosofico, c’era una storia della letteratura, c’era una storia dell’arte. Tutte facevano riferimento a questo asse portante della storia che veniva insegnata come storia politico-sociale, come storia della civiltà, sulla quale si innestavano le altre forme di sapere e di cultura. Questo albero è stato segato alla radice e ci si è limitati a dire che i programmi dovevano coprire il Novecento. Ma quasi nessun docente ci arrivava di fatto, salvo saltare altre parti del programma. Poi, più di recente, si è arrivati a proporre di abolire la traccia di storia. Imparare a scrivere, ad esprimere un proprio pensiero, a misurarsi con le domande che riguardano la storia contemporanea è fondamentale. C’è stato un vero abbandono, una corsa all’indietro che non poteva non fare danno, anche perché quello spazio è stato sostituito e riempito dalla formazione che si fa attraverso la rete e sappiamo benissimo che non è uno strumento neutro, è percorsa da bande organizzate, finanziate, che fanno sì che due adolescenti possano pensare che esista l’ebreo in quanto essere diverso e che lo si possa torturare. Ripeto, è un fenomeno da non sottovalutare. Il razzismo fascista non fu colpa di pochi come invece alcuni storici hanno cercato di sostenere.

Perdita della memoria collettiva, ignoranza della nostra storia e oblio formano un mix particolarmente pericoloso anche oggi?
Il mio libretto, Un tempo senza storia, ha riscosso reazioni negative da parte di alcuni storici tedeschi che sostengono l’importanza di dimenticare. Ma dimenticando si arriva a documenti come quella risoluzione votata dal Parlamento europeo nel 2019 che è piena di balle: vi è scritto che furono i combattenti occidentali democratici a liberare i campi di concentramento, quando tutti doverebbero sapere che a Auschwitz i primi ad arrivare furono i russi. È terribile che il Parlamento abbia approvato un documento di questo genere e nessuno lo ha veramente contestato. In questo modo costruiscono l’ideologia che, a loro avviso, deve sostenere questa Europa così debole, così fragile, così assente, legata solo alla ricchezza dei traffici commerciali. Il problema dell’assenza della storia, come si vede, non è un fatto minore e non basta neanche reintegrare la traccia di storia per risolverlo, bisogna ripensare profondamente i danni di una pedagogia dalle buone intenzioni e dalle nefande conseguenze, che si impose con l’iter della riforma Berlinguer.

Abbiamo da poco celebrato il giorno della memoria, è importante, ma certo non basta?
È un giorno di ricordo per 365 giorni di dimenticanza. Non serve a niente. Non è con questi pannicelli caldi che si risolve il problema di una presa di coscienza della realtà che abbiamo alle spalle. La nostra civiltà è stata interrotta da qualcosa che non era l’arrivo di quattro briganti al potere, come storici malintenzionati hanno cercato di sostenere. Pensiamo a quando De Felice scrisse su commissione un libro su ebrei e fascismo negando che esistesse un nazismo fascista. Lui ed altri hanno modificato la realtà a loro piacere in funzione propagandistica. In realtà con le leggi razziali il fascismo riuscì addirittura a battere in velocità i nazisti e a offrire loro un modello. E sappiamo quante vittime tutto questo abbia causato. Ci vuole ben altro che un giorno di memoria. Tuttavia, al tempo stesso, cancellare la giornata della memoria sarebbe percepito come un segno di ulteriore abbandono. Ciò che servirebbe davvero sono forme di educazione permanente per insegnanti, per studenti, per cittadini basate sullo studio della storia come costruzione severa e autentica non su fake news. Certo, è molto difficile scoprire la verità in un contesto in cui la capacità di inganno è così potente e grande. Ma è una sfida essenziale.


L’articolo prosegue su Left del 4-10 febbraio 2022 

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