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Non è alternanza, è sfruttamento

Milano. Protesta Studenti per la morte di Lorenzo Parelli scontri sotto la sede di assolombarda (Milano - 2022-01-28, Carlo Cozzoli) p.s. la foto e' utilizzabile nel rispetto del contesto in cui e' stata scattata, e senza intento diffamatorio del decoro delle persone rappresentate

La morte di Lorenzo Parelli avvenuta durante l’ultimo giorno di tirocinio curricolare non può continuare a lasciare questo Paese indifferente. Questa tragedia richiede con urgenza risposte concrete. In primo luogo sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Il rafforzamento della prevenzione, dei controlli, della formazione e delle sanzioni sono ancora obiettivi fondamentali per evitare la strage continua. Il diritto alla sicurezza sul lavoro comporta soprattutto l’assunzione di responsabilità collettiva e il rifiuto della logica del profitto che prevale sulla salute e sulle condizioni di lavoro.

È innegabile il legame tra precarietà e riduzione delle condizioni di sicurezza. In questo senso è necessario un salto di qualità e radicali interventi per far sì che la ripresa economica del nostro Paese non si traduca – come sta già avvenendo – in contratti di lavoro discontinui e precari e sostanzialmente una stagnazione dei livelli di occupazione soprattutto di giovani e donne. Tra gli interventi necessari mi riferisco anche a quella pletora di strumenti (tirocini, ex alternanza) di carattere essenzialmente formativo che purtroppo, troppo spesso, nascondono lavoro sfruttato.

Per questo è necessario rivedere completamente il rapporto tra istruzione e formazione e lavoro, ridefinendo i…

*L’autrice: Gianna Fracassi è vicesegretaria generale Cgil


L’articolo prosegue su Left del 4-10 febbraio 2022 

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Massimo D’orzi: La “mia” Bosnia e l’arte della resistenza

C’è un dolce fatto di mille sfoglie e frutta secca intriso di sciroppo di miele che si chiama baklava e che unisce diversi Paesi, dai Balcani fino in Medio Oriente, e poi c’è un film, Bosnia Express che racconta anche di questo dolce. Sembra quasi di sentirne il sapore. Eppure se il baklava unisce tutti i popoli, c’è stato un momento in cui nel cuore dei Balcani si sono fatti la guerra, una guerra fatta da chi ha vissuto insieme per secoli.

Bosnia Express è un viaggio tra passato e presente. Trieste, Sarajevo, Srebrenica Tuzla, Stolac, Mostar, Medjugorje. Un viaggio che fa un salto temporale dalla guerra del 1995 ai giorni nostri. Una guerra che nessuno potrà mai dimenticare. Questo però non è un film sulla guerra, è un film di denuncia, un film sulla rivincita. La rivincita delle donne che sono state le più attaccate, quelle che maggiormente hanno cercato di distruggere. In quest’ultima frase c’è qualcosa che stona, qualcosa che non suona bene, forse perché il verbo “distruggere” e la parola “donna” non dovrebbero mai stare uno vicino all’altra.
Bosnia Express del regista, scrittore e produttore Massimo D’orzi, ispirato al libro omonimo di Luca Leone, è la terza tappa di una trilogia iniziata dal regista nel 2003 con La rosa più bella del nostro giardino, proseguita nel 2004 con Adisa o la storia dei mille anni, film ambientato fra le comunità Rom della Bosnia Erzegovina, presentato in numerosi festival internazionali e distribuito in molti Paesi del mondo.

«Avevo un conto in sospeso con la Bosnia dopo esserci stato nel 1996 insieme ad un gruppo di servizi umanitari e poi nuovamente nel 2004. Nel 1996 arrivai in una Mostar distrutta, senza luce, sprofondata nel medioevo, dove si camminava con il rischio di calpestare una mina. Non avrei mai immaginato si potesse arrivare a tanto. Un viaggio che mi ha segnato profondamente. In quell’occasione incontrai molte persone testimoni di quella guerra. Incontrai anche diverse donne, molte di loro erano state vittime di stupro e ogni tipo di violenza. Mi ricordo in particolare Ana, aveva gli occhi di vetro, non sorrideva più. Forse Bosnia Express è la risposta a…


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Obtorto colle

Incontro con i Presidenti del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, e della Camera, Roberto Fico, che gli hanno comunicato l'esito della votazione per l'elezione del Presidente della Repubblica Palazzo del Quirinale 29/01/2022 Il Presidente Sergio Mattarella con il Presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati e il Presidente della Camera Roberto Fico, in occasione della comunicazione dell'esito della votazione per l'elezione del Presidente della Repubblica.

La rielezione del presidente Mattarella ci induce ad alcune prime riflessioni le quali pretendono, certo, più approfondite elaborazioni per gli eventi che scaturiranno. Parto, innanzitutto, dalla lettera dell’articolo 85 della Costituzione: «Il presidente della Repubblica è eletto per sette anni». La Costituzione, quindi, non prevede, anche se non esclude, il secondo settennato. Certo, in una democrazia parlamentare, quattordici anni sono tanti, sono un inedito costituzionale. Siamo di fronte ad una eccezione, quindi; anche se legittima. Occorre vigilanza democratica affinché, dopo il “caso” Napolitano, il secondo mandato non diventi una regola. Lo stesso Mattarella, del resto, nel recente passato, ha parlato di un ulteriore settennato come di una «sgrammaticatura costituzionale». Mai più deve accadere; altrimenti il presidente della Repubblica si trasforma in un oligarca democratico.

Ritengo, come seconda osservazione, che sia un fatto molto positivo un recupero, per quanto fievole e confuso, di dignità da parte del Parlamento. Molti parlamentari hanno voluto Mattarella anche in contrasto con le direttive dei segretari di partito.

Sono state sconfitte – ed è il terzo punto – le due iniziali autocandidature. Quella, grottesca ed improbabile, di Berlusconi; e quella, a mio modesto avviso, pericolosa, di Draghi. L’elezione di Draghi ci avrebbe fatto scivolare, anche in assenza di contrappesi, verso una sorta di quinta repubblica gollista. Draghi non aveva, forse, compreso che doveva essere lui a rispettare la Costituzione, non la Costituzione ad adattarsi alla sua ambizione. Ha immaginato di diventare presidente della Repubblica scegliendo un suo “uomo” come presidente del Consiglio: un iperpresidenzialismo di fatto.

Draghi, ponendo con forza la sua autocandidatura, non ha compreso il…


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L’applauso degli utili idioti

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 03-02-2022 Roma Camera dei Deputati - Giuramento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella Nella foto Sergio Mattarella, Roberto Fico, Maria Elisabetta Alberti Casellati Photo Roberto Monaldo / LaPresse 03-02-2022 Rome (Italy) Chamber of Deputies - Oath of the President of the Republic Sergio Mattarella In the pic Sergio Mattarella, Roberto Fico, Maria Elisabetta Alberti Casellati

È andata come doveva andare, con Mattarella nella sua versione bis che dopo il giuramento pronuncia il suo discorso al Parlamento e con uno stuolo di ipocriti che applaude festante, con la gioia di chi se l’è cavata grazie allo spessore del Presidente bis senza dover fare i conti con la mancanza di spessore proprio.

Che sarebbe finita con applausi e standing ovation avremmo potuto scriverlo giorni fa, appena i partiti hanno provato a rivenderci l’incapacità di trovare una sintesi (che è poi il senso stesso del fare politica) come una vittoria e poi addirittura si sono risentiti quando gli è stato fatto notare. «Avrebbe potuto esserci Berlusconi!» è la risposta che circola di più in certi ambienti del centrosinistra e non si rendono nemmeno conto che la modalità del “meno peggio” porta inevitabilmente al peggio, in un continuo lento scivolamento verso il basso.

55 applausi a un discorso che non hanno capito, che se l’hanno capito non hanno intenzione di attuare e che anche se avessero voglia di attuare non ne avrebbero le capacità. Forse hanno applaudito per poter dire di essere riusciti ad ascoltare perché altrimenti non si capirebbe come abbiano potuto applaudire Mattarella mentre diceva «delle urgenze – sanitaria, economica e sociale – che ci interpellano. Non possiamo permetterci ritardi, né incertezze».

Mattarella si augura «un Paese che cresca in unità. In cui le disuguaglianze – territoriali e sociali – che attraversano le nostre comunità vengano meno. Un’Italia che offra ai suoi giovani percorsi di vita nello studio e nel lavoro per garantire la coesione del nostro popolo» e quelli applaudono, mentre la disgregazione sociale (il solito trucco della guerra tra poveri) e le disuguaglianze incombono. «Le diseguaglianze non sono il prezzo da pagare alla crescita, sono piuttosto il freno di ogni prospettiva reale di crescita», dice Mattarella. E quelli applaudono.

Non devono nemmeno avere capito, i parlamentari festanti, il passaggio di Mattarella in cui si augura che «il Parlamento sia sempre posto in condizione di poterli esaminare e valutare con tempi adeguati. La forzata compressione dei tempi parlamentari rappresenta un rischio non certo minore di ingiustificate e dannose dilatazioni dei tempi». Non devono avere capito che quelle parole si riferiscono proprio ai continui decreti e alle decisioni che vengono sottoposte (come nel caso del Pnrr) al Parlamento senza nemmeno avere il tempo di approfondire. Ma quelli, intanto, applaudono.

Hanno applaudito Mattarella mentre intimava «mai più tragedie come quella del giovane Lorenzo Parelli, entrato in fabbrica per un progetto scuola-lavoro», hanno applaudito anche quelli che in tutti questi giorni hanno provato a convincerci che la morte di Lorenzo fosse un accadimento collaterale, quasi normale. Hanno applaudito Mattarella mentre definiva «doveroso ascoltare la voce degli studenti, che avvertono tutte le difficoltà del loro domani e cercano di esprimere esigenze, domande volte a superare squilibri e contraddizioni»: li hanno bastonati e applaudono.

«Dignità è non dover essere costrette a scegliere tra lavoro e maternità», dice Mattarella. E quelli applaudono. «Dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale dei detenuti». E quelli applaudono. Mattarella parla di mafie, di cui nessuno parla più, e quelli applaudono. Hanno applaudito Mattarella sulla riforma della giustizia, quella che non faranno mai perché non riusciranno mai a farla.

La sensazione è che Mattarella abbia in testa una Repubblica delle dignità che sarebbe bellissima ma il Parlamento abbia solo in testa di evitare di rischiare il posto o di dover prendere decisioni. Quell’applauso in fondo è il loro modo di esternare il proprio sollievo.

Buon venerdì.

 

Case popolari, così i giudici bocciano la politica leghista del “Prima gli italiani”

Foto Stefano Cavicchi/LaPresse 13/07/2019 Ferrara, Italia Politica Il vicepremier Matteo Salvini a Ferrara Nella foto: Matteo Salvini con Alan Fabbri sindaco di Ferrara Photo Stefano Cavicchi/LaPresse 13/07/2019 Ferrara, Italy Polics Matteo Salvini in Ferrara In the picture: Matteo Salvini, Alan Fabbri

Due anni di emergenza Covid sono costati in Italia il drammatico aumento della soglia di povertà e non solo a Ferrara, dove al Comune sono pervenute all’inizio del 2020 circa 730 domande per una casa popolare. Domande di cittadini in difficoltà ancora in attesa di una risposta. Per assegnare appena un’ottantina di alloggi disponibili, infatti, il sindaco Alan Fabbri ha ingaggiato una battaglia con il tribunale. Lo scopo della giunta a trazione leghista, come già argomentato in precedenza su queste pagine, era quello di stabilire chi fosse «il più bisognoso».

Un rapido memorandum: dopo che sia i sindacati, l’Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) sia le associazioni cattoliche avevano manifestato preoccupazione riguardo i requisiti stabiliti dall’amministrazione per l’assegnazione degli alloggi Erp, lo scorso maggio, il Tribunale di Ferrara si era espresso ritenendoli discriminatori e imponendo al Municipio di formulare «nuovi criteri e punteggi», e di «adottare procedure più idonee» per l’assegnazione delle suddette dimore. Nonostante l’ordinanza a sfavore, il sindaco mantenne la posizione e nel luglio 2021, nella persona del giudice Maria Marta Cristoni, il Tribunale ha rimarcato l’irregolarità, giudicando discriminatorio il regolamento del Comune sia rispetto all’impossidenza, «per la richiesta a soli cittadini extracomunitari di documentazione aggiuntiva e gravosa, sia rispetto al punteggio dedicato alla residenzialità storica, preponderante rispetto ai requisiti indicativi di uno stato di bisogno abitativo».

Non è finita: due cittadine che si trovavano in una condizione di urgente necessità, si sono viste scavalcare in graduatoria da altre in condizioni nettamente migliori, soltanto poiché residenti da più di sedici anni sul territorio comunale, valutando così di procedere con i ricorsi. Seguendo la minuziosa ricostruzione del quotidiano locale Estense.com e la perizia del suo direttore Marco Zavagli, il bando premiava in misura eccessiva e immotivata la residenzialità storica e obbligava gli stranieri senza cittadinanza italiana a dimostrare di non possedere beni nel Paese di provenienza. Si tratta di un requisito ostico da provare attraverso documenti ufficiali, specialmente non sapendo se i Paesi in questione siano in possesso di quei dati o banalmente disposti a collaborare. Documentazione preventiva che invece non è stata richiesta agli italiani, per i quali è sufficiente un’autocertificazione su cui sarebbero poi il Comune e gli enti preposti, a loro discrezione, a procedere con eventuali controlli di veridicità.

Secondo il Tribunale, «tale criterio contravviene ai principi fissati dalla sentenza della Corte costituzionale n. 9/2021 che ha evidenziato il carattere discriminatorio della legge regionale dell’Abruzzo, che aveva fissato principi del tutto analoghi a quelli contenuti nella delibera e nel bando di Ferrara». Pertanto tali previsioni sono state considerate «irragionevoli e discriminatorie» e il Comune è stato «condannato a cessare la condotta discriminatoria, annullando o modificando gli atti, oltre al pagamento delle spese legali».
Per tutta risposta, il sindaco Fabbri ha replicato attaccando direttamente il giudice e pubblicando i nomi delle ricorrenti su Facebook, rischiando così di metterle alla pubblica gogna, in sfregio alla privacy e al rispetto delle fragilità altrui. Inoltre, la richiesta presentata dal Comune di sospendere l’ordinanza del tribunale ferrarese che imponeva di modificare il regolamento strenuamente dibattuto, è stata rigettata giusto una settimana fa dalla Corte d’Appello di Bologna. La Corte ha rinviato al 26 marzo 2024 la prosecuzione della causa e dunque, fino ad allora, sarà pienamente esecutiva la decisione del giudice Cristoni.

Nel marasma che si è creato in Consiglio Comunale, non è da tralasciare che l’unica componente dell’opposizione a formulare un’interrogazione a sostegno delle due ricorrenti vessate sia stata l’ex leghista Anna Ferraresi. La consigliera del Gruppo misto si è poi focalizzata sul denaro pubblico stanziato dal Comune per le spese legali relative ai vari ricorsi legati all’opposizione del sindaco Fabbri: ad ora risulterebbe un totale di 35.228,93 euro, esclusi oneri e spese accessorie, che di fatto peseranno sulle tasche dei contribuenti.

Infine, c’è da registrare un’altra situazione, paradossale: ha suscitato infatti non poche polemiche il fatto che il vice sindaco Nicola “Naomo” Lodi, che percepisce un’indennità di oltre 6mila euro al mese, continui ad abitare in un alloggio dell’Acer (l’ente che gestisce le case popolari). Sono trascorsi quasi tre anni dalla sua nomina istituzionale e per quanto migliaia di cittadini si chiedano se non si tratti di conflitto di interessi, Lodi non molla l’appartamento ottenuto in passato, sostenendo che lo farà quando scadranno i termini stabiliti dal regolamento regionale. Inutile sottolineare che per quanto la classe politica sia riflesso ed emanazione del luogo di appartenenza, non dovrebbe sperperare le risorse degli elettori.

Nella foto: Alan Fabbri con Matteo Salvini

La scuola tradita

07 June 2021, Lower Saxony, Papenburg: A safety helmet worn by an employee of the Meyer shipyard lies on the ground during the works meeting in a parking lot outside the gates of the shipyard. The works council had called for the staff meeting in the dispute over job cuts at the cruise ship builder. Germany's largest shipbuilding company is in crisis because of the standstill in the cruise industry. Photo by: Mohssen Assanimoghaddam/picture-alliance/dpa/AP Images

Lo hanno trovato con il caschetto e i guanti, mentre forse si stava prendendo una pausa, sotto una barra di acciaio di 150 chili. È morto così il 21 gennaio scorso Lorenzo Parelli, a 18 anni, nell’azienda di costruzioni meccaniche Burimec a Lauzacco, una frazione di Pavia di Udine. Un incidente agghiacciante e inaccettabile, reso ancor più grave da un aspetto non secondario: Lorenzo in quel momento non stava lavorando, per lui era “scuola”. Il giovane era infatti impegnato nell’ultimo giorno di apprendistato previsto dal suo corso di studi a indirizzo meccanico presso il Centro di formazione professionale Bearzi di Udine, gestito dai salesiani. La procura del capoluogo friulano ha aperto un’inchiesta, che tra le altre cose punta a far luce sulla sostituzione del tutor aziendale dello studente, avvenuta poco prima dell’incidente causa malattia. Nei comunicati stampa del Bearzi si pone l’accento sull’importanza della preghiera (!?), si parla di «tragica circostanza», mentre non si cita mai l’esigenza di far luce fino in fondo a questa vicenda. Nel frattempo, la tragedia ha portato nelle piazze di varie città italiane migliaia di studenti, per protestare contro questo modello di formazione che comprende anche l’ex Alternanza scuola-lavoro, ora riformata e rinominata Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (Pcto), che obbliga i ragazzi a sperimentare un ingresso anticipato nel mondo del lavoro che troppo spesso è poco formativo, quando non addirittura pericoloso e senza tutele.
Negli ultimi anni infatti, oltre al caso di Lorenzo, sono stati diversi gli episodi di infortunio di studenti impegnati in percorsi di formazione professionale.
Il 16 giugno scorso, a Rovato in provincia di Brescia, uno studente di 16 anni è stato ricoverato in gravissime condizioni dopo essere precipitato da un’altezza di cinque metri. Stava lavorando a bordo di una piattaforma aerea sollevata dal braccio meccanico di un furgone, per montare uno striscione. Il ragazzo, che stava frequentando un percorso di formazione scuola-lavoro, è poi riuscito a sopravvivere.
Il 6 febbraio 2020, siamo a Genola in provincia di Cuneo, un 17enne è stato portato d’urgenza nel reparto di rianimazione dell’ospedale Molinette di Torino dopo essere rimasto schiacciato dall’improvvisa uscita dal binario di una pesante cancellata in ferro. Frequentava il corso di “Tecnico riparatore veicoli a motore” alla scuola di formazione professionale Afp di Verzuolo, e stava svolgendo le ore di stage scuola-lavoro. Anche lui fortunatamente si è salvato.
Il 13 giugno 2018, a Montemurlo in provincia di Prato, un ragazzo di…


L’inchiesta prosegue su Left del 4-10 febbraio 2022 

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Era solo questione di tempo, purtroppo

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 28 gennaio 2022 Roma, Italia Cronaca Pomeriggio di scontri nel centro di Roma alla manifestazione per la morte di Lorenzo Parelli, lo studente vittima di un incidente sul lavoro nell’ultimo giorno di stage a Udine. Nella foto : la manifestazione Photo Cecilia Fabiano/ LaPresse January , 28 2022 Rome, Italy News Afternoon of clashes in the center of Rome where hundreds of boys had gathered in a protest sit-in in memory of Lorenzo Parelli, the dead boy crushed by a beam in the Udine company chosen for school-work alternation. In The Pic: clashes between students and police

Nei giorni scorsi in tutta Italia studentesse e studenti si sono mobilitati in presidi e cortei per ricordare la morte di Lorenzo Parelli, un ragazzo di 18 anni, un ragazzo come qualsiasi altro, morto ad Udine in un incidente sul lavoro mentre svolgeva uno stage previsto dal suo percorso scolastico. La notizia, la prima nel suo genere in Italia, ha lasciato sgomenti gli studenti dal Nord al Sud del Paese. Morire “di scuola” è inaccettabile e accanto al dolore non si può fare a meno di provare tanta rabbia.

Quanto accaduto, seppur per certi versi imprevedibile, di certo, in un Paese che conta 1.404 morti sul lavoro l’anno, non era inimmaginabile. In un mondo del lavoro precario ed insicuro, in cui vengono tolte anno dopo anno sempre più tutele, probabilmente era solo questione di tempo prima che ci scontrassimo con la dura realtà. Seppur Lorenzo non stesse svolgendo propriamente i Pcto (l’ex Alternanza scuola-lavoro), bensì un percorso di formazione duale presso un’azienda specializzata, la riflessione non può non andare alla nota Buona scuola del 2015 che ha introdotto e disciplinato tutti i vari percorsi lavorativi nel corso delle superiori. Ampiamente contestata già allora, rimane una legge che ha consentito una progressiva aziendalizzazione della scuola pubblica, in cui il percorso formativo di ciascuno studente è sempre più finalizzato esclusivamente all’inserimento nel mondo lavorativo, permettendo di fare esperienze di lavoro già in classe.

Dinanzi ad un mondo del lavoro in difficoltà, in cui abbondano contratti precari, scarse tutele, zero investimenti in sicurezza, riconoscere e legalizzare da parte della scuola attraverso stage e Pcto questa tendenza non può non portare ad altro se non a una normalizzazione del fenomeno. La morale che dunque si impone nella narrazione comune e in classe è quella del lavoro ad ogni costo, qualsivoglia siano le condizioni e la paga. E la scuola, purtroppo, continua ad inseguire il mondo lavorativo senza riflettere realmente su quelli che dovrebbero essere i propri obiettivi e le proprie finalità, educando alla precarietà, facendo apparire come casuale che si possa morire a 18 anni lavorando gratis.

La scuola dovrebbe essere la comunità dove si forma la coscienza e la personalità del singolo, dove si forma il cittadino del domani, conscio dei propri diritti e dei propri doveri, dove si rende lo studente in grado di scegliere da sé il proprio futuro, non il luogo atto a produrre esclusivamente individui atomizzati e specializzati da inserire nel mondo lavorativo. Proprio per questo occorrerebbe, invece, introdurre percorsi obbligatori che abbiano come finalità quella di formare gli studenti sul funzionamento del mondo del lavoro, passando dallo Statuto dei lavoratori alle nuove norme sulla sicurezza, studiando il funzionamento dei contratti e cosa può essere previsto al loro interno e cosa no.

Dopo una settimana di mobilitazioni in tutto il Paese, dopo che gli studenti e le studentesse hanno mostrato vicinanza, sensibilità e anche paura nei confronti della morte di Lorenzo, dal governo e dal ministero dell’Istruzione è arrivato solo silenzio. Di contro invece a Roma, Torino, Napoli e Milano si sono verificate cariche violente sugli studenti in seguito alle agitazioni, l’ennesima dimostrazione della totale incapacità da parte dello Stato non solo di ascoltare le istanze studentesche, ma anche di gestire il dissenso nei confronti delle istituzioni e la normale democratica manifestazione delle proprie idee. Nel silenzio di un Paese che non riesce a discutere di giovani e di futuro, rimane indelebile la ferita lasciata dalla morte di Lorenzo, morto “di scuola”.


L’editoriale è tratto da Left del 4-10 febbraio 2022 

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Tamponi e bastoni

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 28 gennaio 2022 Roma, Italia Cronaca Pomeriggio di scontri nel centro di Roma alla manifestazione per la morte di Lorenzo Parelli, lo studente vittima di un incidente sul lavoro nell’ultimo giorno di stage a Udine. Nella foto : la manifestazione Photo Cecilia Fabiano/ LaPresse January , 28 2022 Rome, Italy News Afternoon of clashes in the center of Rome where hundreds of boys had gathered in a protest sit-in in memory of Lorenzo Parelli, the dead boy crushed by a beam in the Udine company chosen for school-work alternation. In The Pic: clashes between students and police

Se siete tra quelli che hanno trovato vergognoso il silenzio del governo dopo i pestaggi degli studenti da parte della Polizia durante le manifestazioni di Milano, di Napoli e di Torino dei giorni scorsi potete mettervi il cuore in pace: era meglio così. Ieri infatti sul punto è intervenuta la ministra dell’Interno Lamorgese (ovviamente perché stuzzicata dalle interrogazioni parlamentari depositate, altrimenti sarebbe stata bella comoda nell’ombra) che ha rilasciato un comunicato in cui dice «deve essere sempre garantito il diritto di manifestare e di esprimere il disagio sociale, compreso quello dei tanti giovani e degli studenti che legittimamente intendono far sentire la loro voce» (ci mancherebbe) e poi ci fa sapere che «purtroppo alcune manifestazioni sono state infiltrate da gruppi che hanno cercato gli incidenti – scrive Lamorgese – Dobbiamo quindi operare per evitare nuovi disordini, scongiurando che le legittime proteste nelle nostre piazze possano essere strumentalizzate da chi intende alimentare violenze e attacchi contro le forze di polizia».

Non una parola, nemmeno di striscio, sui ragazzi manganellati e sulle orribili immagini che per due settimane abbiamo visto con cariche della Polizia lanciate senza nessuna apparente provocazione. Nessuna parola sui feriti (solo a Torino sono venti, alcuni con fratture e punti alla testa) e nessuna parola sulla violenza degli agenti. Del resto il portavoce dell’Associazione nazionale funzionari di polizia Girolamo Lacquaniti ci ha detto che «esiste un limite per manifestare e quel limite è la violenza nei confronti dei poliziotti», riferendosi evidentemente al terribile spavento che possono procurare ai poliziotti degli studenti in piazza per manifestare contro l’alternanza scuola-lavoro e per chiedere giustizia sulla vicenda di Lorenzo Parelli, morto schiacciato nel suo ultimo giorno di stage prima di rientrare in classe.

È curioso e importante notare che Lamorgese è la stessa ministra che ha lasciato pascolare i fascisti durante la manifestazione di Roma (ricordate l’irruzione nella sede della Cgil?) ed è la stessa ministra che ha la linea di comando di tutte le piazze che, guarda caso, hanno visto un’azione coordinata delle Forze dell’ordine da Torino a Napoli, come se avessero avuto un chiaro ordine superiore.

È la stessa ministra che concima il patto con la Libia (ha compiuto 5 anni, tanti grandi complimenti a Minniti che da sinistra è riuscito a fare più schifo della peggiore destra) ed è la stessa ministra che qualcuno celebrava perché “non usa i social”. A questo punto c’è da sperare che si apra un account su Twitter, almeno per avere il polso della reale situazione del Paese. Anche perché questa bugia degli infiltrati l’abbiamo sentita per anni e davvero sarebbe troppo cascarci ancora. A proposito, cara ministra, dove sono le prove degli infiltrati? E soprattutto, se davvero ci fossero, perché avete pestato i ragazzi e non quelli?

Buon giovedì.


Per approfondire, vedi Left del 4-10 febbraio 2022 

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Bastano pochi click!

Pierpaolo Bombardieri: Patto di stabilità? No grazie

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 16 Dicembre 2021 Roma (Italia) Cronaca : Porta a Porta Nella Foto : Pierpaolo Bombardieri Photo Cecilia Fabiano/ LaPresse December 16 , 2021 Rome (Italy) News : Porta a Porta Talk show In The Pic : Pierpaolo Bombardieri

La morte di un ragazzo di 18 anni è una tragedia: ora dobbiamo solo stare in rispettoso silenzio al fianco dei suoi genitori. C’è, però, tanto dolore e tanta rabbia. Ci affidiamo al lavoro della magistratura per far luce sull’accaduto», dice il segretario generale della Uil Pierpaolo Bombardieri. È indubbiamente una immensa tragedia e inaccettabile che Lorenzo Parelli abbia perso la vita in un luogo di lavoro durante un tirocinio scolastico. I ragazzi a quell’età dovrebbero poter studiare e basta, non essere “impiegati”come mano d’opera per giunta in contesti che li mettono a rischio. «Penso che l’alternanza scuola lavoro debba essere ripensata, privilegiando per i giovani il momento dello studio, affinché non succeda mai più nulla del genere», approfondisce Bombardieri. «Per noi, il rispetto della vita e della sicurezza sul lavoro viene prima di ogni altra cosa e ciò vale a maggior ragione per chi comincia ad avvicinarsi a questa realtà».
Sappiamo anche che, purtroppo, in Italia sono i giovani a pagare il prezzo più alto della disoccupazione della precarietà. Anche chi ha in tasca una laurea si trova a doversi arrangiare lavorando senza alcuna tutela per le grandi piattaforme. Ora una nuova direttiva europea considera i lavoratori delle piattaforme come lavoratori dipendenti. Bombardieri, potremmo fare altrettanto in Italia?
Io dico proprio di sì. I lavoratori delle piattaforme devono essere riconosciuti come lavoratori dipendenti. La direttiva Ue che lo stabilisce sta per essere recepita dal Parlamento europeo. L’Italia potrebbe recepire in anticipo quei principi e valori che, per altro, sono gli stessi espressi da una sentenza che in Italia ha riconosciuto i riders come lavoratori dipendenti. Questa è la proposta che abbiamo fatto al ministro del Lavoro Andrea Orlando la settimana scorsa nel tavolo di confronto che si è aperto su questo e altri temi, dopo lo sciopero indetto da Cgil e Uil lo scorso 16 dicembre.
La mobilitazione ha dato voce e rappresentanza politica al malessere sociale sempre più diffuso in Italia dopo due anni di pandemia. Lo stesso ministro del Lavoro, Andrea Orlando, ha comunicato che in Italia un lavoratore su dieci è in povertà nonostante lavori. Come si affronta questa grave situazione?
Intanto mettendo il tema del lavoro al centro della ricostruzione di questo Paese. La pandemia ha acuito la crisi. Ma la tendenza è stata fin qui raccontare la storia che in questo Paese tutto sta andando bene. Si è molto sottolineato il più 6% del Pil senza specificare che è un rimbalzo, per cui la pallina tornerà indietro. Si sono sottostimati il costo dell’inflazione e l’aumento del costo delle materie prime.
Come si risponde a questa ottimistica e distorta narrazione?
In primis andando a vedere quale è la condizione del lavoro, quale è la realtà dei lavoratori e delle lavoratrici in questo Paese. Partiamo dai numeri: negli ultimi tre anni (e dunque non nell’ultimo anno della pandemia) sono stati avviati 4 milioni di contratti di lavoro a tempo indeterminato, a fronte di 20 milioni di rapporti attivati su forme di lavoro a tempo determinato, a chiamata, in somministrazione e quant’altro. Questo quadro dovrebbe far riflettere tutti. Il futuro dell’Italia sarà determinato dalle scelte sulle pensioni, da quelle sul welfare. Lo ripetiamo con forza: non è una cosa di cui sentirsi in colpa rivendicare, come noi facciamo, uno stato sociale adeguato per chi rimane indietro.
Per creare lavoro stabile bisogna superare i contratti precari e a tempo determinato come sta facendo il governo spagnolo?
Noi abbiamo proposto un patto che va proprio in quella direzione. Da mesi in Italia ci viene proposto un patto senza chiarirne i contenuti. In una famosa commedia di Eduardo, Natale in casa Cupiello, Lucariello chiedeva: “Ti piace o’ presepe?”, non occupandosi minimamente di ciò che stavano vivendo la moglie, il figlio, la sorella, non interessandosi delle condizioni in cui si trovava la famiglia. L’unico suo problema era capire se i pastorelli fossero al posto giusto e se a tutti piaceva il presepe. Per mesi abbiamo assistito a questa commedia napoletana: “Ti piace o’ presepe?”. E non si capisce su che cosa il patto si sarebbe dovuto fare. Noi ne abbiamo proposto uno concreto sul modello di quello che è stato sottoscritto in Spagna tra organizzazioni datoriali, organizzazioni sindacali e governo, nel quale si dice che sono eliminati i contratti a tempo determinato. Non ridotti, ma eliminati. I contratti a tempo determinato possono essere utilizzati solo nel caso di lavoratori che devono essere sostituiti per motivi personali o di salute, maternità ecc. o in casi particolari di picchi produttivi.
Aiuterebbe anche i più giovani?
Certamente. Se non diamo stabilità ai ragazzi che devono entrare nel mondo del lavoro, sarà complicato costruire un discorso sul futuro. Immagino sarà capitato anche a voi di Left, se si intervista un giovane chiedendogli come sarà la sua pensione, nel 99% dei casi risponde: “Non avrò una pensione”. Questo significa che si è creata una condizione per cui i ragazzi che vanno a lavorare pensano e sanno che non ci sarà una pensione. Anche grazie a questo pensiero e a questo clima accettano il lavoro a nero. Dobbiamo cambiare questa realtà.

Sul salario minimo l’Europa si sta muovendo. Quale è la vostra posizione?

Come per quel che riguarda il lavoro povero, anche per il salario minimo mi pare che la politica scappi dalle proprie responsabilità. Con umiltà mi permetto di dire che molti politici parlano di salario minimo senza aver letto la direttiva europea. Come sindacato europeo abbiamo contribuito a quella direttiva che ha l’obiettivo di aumentare i livelli di contrattazione nazionale. È costruita in quel modo perché nella Ue ci sono Paesi che hanno forti forme di contratto nazionale e ci sono Paesi dove c’è il salario minimo. In questi ultimi, come ad esempio la Polonia, un operaio specializzato metalmeccanico guadagna 600 euro al mese. È una delle ragioni per cui le aziende delocalizzano. Anche alla luce di questo contesto dovremmo parlare in Italia di salario minimo che coincida con il minimo contrattuale. Perché il contratto tutela di più i lavoratori, perché prevede le ferie, il mantenimento del posto di lavoro, la copertura previdenziale e una serie di diritti che il salario minimo non dà.

Bisogna contrastare anche i contratti pirata?

Quando stipuliamo un contratto c’è un soggetto, ci sono dei principi, dei diritti “medi” a cui fare riferimento, sotto ai quali si dice “questo non è un contratto”. Se c’è un contratto che non riconosce una certa retribuzione, un congruo numero di ferie ecc. si può dire che quel contratto non è un contratto? Su questo la politica non decide, non riesce ad esprimere con chiara esattezza quali sono i valori di riferimento.

Prima abbiamo accennato al tema delle delocalizzazioni selvagge. Anche su questo non si vede sufficientemente luce da parte del governo Draghi?

Su questo non solo non si vede la luce, ma direi è buio pesto. Per una evidente scelta politica: prevale la vecchia logica per cui non si deve dare fastidio al mercato e alle aziende. Anche sulle delocalizzazioni abbiamo avanzato una proposta molto chiara: alcuni principi e comportamenti sono stati fissati da un accordo Ocse firmato da tutti. Abbiamo chiesto che venga applicato in Italia.

Cosa c’è scritto?

C’è scritto che se vai via, devi avvisare per tempo il territorio, devi dare il tempo alle persone, devi investire, devi trovare la possibilità di reimpiegare i lavoratori, devi trovare delle soluzioni. Invece quando si tratta di cartelli potenti riscontriamo sempre qualche dubbio ad intervenire.

È giusto che delle aziende che prendono finanziamenti in Italia delocalizzino, pur essendo in attivo?

Non è accettabile che anche in Italia ci siano multinazionali che spostano le proprie produzioni in altri Paesi avendo un attivo di bilancio, solo perché altrove pagano meno tasse. Certo, è una questione che dovrebbe essere affrontata a livello europeo. Ma intanto anche da noi qualcosa si può fare. Si può dire che chi prende risorse in Italia le deve rimettere. Ciò che è previsto finora non basta, bisogna rafforzare questa norma, far sì che chi oggi in Italia produce, raggiunge utili, paghi le tasse qui e non in un paradiso fiscale. Io ricordo che grandi multinazionali come Amazon – tanto per citarne una che tutti conosciamo – ha prodotto nell’anno della pandemia 42 miliardi di utile in Italia e in Europa e non ha pagato un euro di tasse. Su questo mi pare ci sia troppa timidezza. Il ministro Orlando ci ha provato ma quel decreto è stato annacquato e nascosto nei corridoi, a proposito di mancanza di luce.

Anche durante la pandemia non c’è stato un adeguato sostegno al lavoro, mentre ingenti somme sono state date alle imprese. Manca una complessiva politica industriale?

Lo abbiamo dimostrato e denunciato in più occasioni. In questo Paese manca una seria politica industriale. Per esempio sull’automotive. Basta fare un raffronto con altri Paesi europei, guardiamo come la Francia è entrata in Stellantis. Guardiamo anche come altri Stati siedono in alcune aziende dell’energia. Noi non abbiamo ancora chiarito quali siano i nostri asset industriali strategici e tanto meno abbiamo scelto politiche industriali adeguate.

Dunque non le abbiamo messe in connessione con le scelte che abbiamo fatto sul Pnrr?

Io sfido chiunque a trovare una connessione fra le nostre sfide industriali e quello che è visto e previsto dentro le scelte strategiche del Pnrr, per esempio per le politiche di transizione.

Di questo sui giornali mainstream non si parla ma per mesi molto spazio è stato dato agli strali di Bonomi contro quello che il capo di Confindustria chiama “Sussidistan”.

Rispetto a tutto questo ho reagito furiosamente, ricordando che in Italia durante la pandemia sono stati erogati 170 milioni di euro, senza nessuna causale. Sono stati dati a chi ha licenziato, a chi se ne è andato, a chi ha licenziato senza neanche dare il tempo di svuotare gli armadietti. I soldi che invece sono stati dati ai lavoratori, sono stati erogati in modo condizionato. Quando parliamo di cassa integrazione dobbiamo dire che non è stata pagata dalle aziende, la paghiamo tutti noi. Perché sono soldi che abbiamo preso con il programma Sure e che dovremo restituire.

Con la pandemia l’Europa ha avuto per la prima volta il coraggio e la lungimiranza di sospendere il patto si stabilità. Ora cosa accade?

Proprio su questo la Uil ha lanciato una campagna di sensibilizzazione: “Patto di stabilità no grazie”. Con mio rammarico, essendo un europeista convinto, noto che quando si discute di una cosa importante che riguarda l’Europa in Italia non se ne parla. Noi abbiamo posto il problema alle forze politiche. Spero che gli altri colleghi dei sindacati lo facciano quanto prima.

Quali scenari si preparano?

Se non superiamo la logica del patto di stabilità, facendo una critica dell’austerity, cambiando l’impianto economico e finanziario europeo e italiano, fra un paio di anni ci ritroveremo con un governo – qualunque esso sia – che dirà che bisogna rientrare dal debito, e non si potranno fare gli investimenti verdi. Invece io penso che anche dal punto di vista degli investitori ci sia voglia di dare spazio agli investimenti sociali e ambientali. Ricordo che quando varammo il programma Sure, quando si misero a bando gli Eurobond, c’era scetticismo tra i tecnocrati di Bruxelles. Dicevano, i mercati non investiranno. Il risultato è stato invece che le richieste di investimenti su quei bond collegati a Sure e quindi a un programma sociale sono state sei volte maggiori rispetto alla disponibilità emersa.

Next generation Eu resterà un unicum?

Io penso che dovremmo provare a fare in modo che un evento straordinario come Next generation Eu diventi un fatto strutturale della politica europea. È necessario, se vogliamo effettivamente cambiare la politica dell’Europa, se vogliamo davvero cambiare la percezione che se ne ha.

Cambiare il patto di stabilità è un obiettivo fondamentale ma non facile da raggiungere?

Purtroppo neanche il cambio di governo in Germania lo garantisce, considerato che il ministro dell’Economia è un liberale (devo dire però che neanche i socialdemocratici hanno brillato per richieste di modifica). Mettiamola così, spero che questo cambio di passo rispetto alla gestione Merkel possa dare una spinta. In Italia dobbiamo parlare di questi temi, partecipare a questa consultazione spiegando perché quella scelta economica e politica del patto di stabilità e della politica dell’austerity debbano essere cambiate.

Anche la manovra del governo Draghi risente di quelle vecchie politiche?

A mio avviso dovremmo fare, in modo scientifico, una scelta di economia keynesiana. Si dice che quella attuata dal governo sia una manovra espansiva, che ci siano politiche keynesiane, io in realtà ne vedo molto poche, per non dire nessuna. Credo che nessuno di noi sia convinto che il debito pubblico sia una variabile indipendente e dunque si possa arrivare chissà dove. Nelle settimane scorse ho ascoltato grandi elogi del presidente europeo David Sassoli ma nessuno che lo abbia ricordato per il suo ragionamento su come si poteva affrontare il tema del debito.

Quando Sassoli ha osato parlare di cancellazione del debito è stato silenziato, anche dal suo partito.

Tutti quelli che lo hanno lapidato ora dicono quanto era bravo Sassoli. Su questo ci sarebbe molto da riflettere rileggendo il libro di Bobbio, Destra e sinistra. Andrebbe diffuso nelle scuole.


L’intervista prosegue su Left del 28 gennaio 2022 

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