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Spagna, adiós al Jobs act di Mariano Rajoy

In Spagna l’attesa riforma del lavoro si muove da settimane all’interno di un acceso confronto, tanto che sembra aver messo i due partiti che compongono il governo di coalizione, Psoe e Unidas podemos, l’uno contro l’altro. L’urgenza è quella di modificare la riforma del lavoro introdotta dal governo delle destre di Rajoy, per sostituirla finalmente con un diritto del lavoro più equilibrato e giusto, che dovrebbe essere anche una parte centrale di quel contratto sociale di cui la Spagna ha bisogno.

I giornali l’hanno chiamata “la riforma della riforma”. Quella voluta da Rajoy, dal 2012 ad oggi, ha provocato una crescente precarietà e una viscerale svalutazione salariale, soprattutto dei salari più bassi, mentre ha garantito l’aumento dei profitti alle imprese e dei dividendi agli azionisti delle società. La riforma del lavoro del Partito popolare è stata la causa principale dell’aumento della disuguaglianza, del fenomeno dei “lavoratori poveri” che ha colpito la Spagna in questi anni.

Psoe e Unidas podemos hanno vinto le elezioni chiedendone l’abrogazione, senza sfumature e senza sconti. L’accordo di coalizione per il governo progressista includeva la dichiarazione: «Abrogheremo la riforma del lavoro. Recupereremo i diritti del lavoro tolti dalla riforma del 2012». Poi il testo concordato ha subito una battuta d’arresto quando è entrato in dettaglio su alcuni elementi che sono stati considerati come “più urgenti” da derogare. Come la prevalenza dell’accordo settoriale su quello aziendale, la capacità di modifica unilaterale delle condizioni contrattuali da parte dell’azienda, la cosiddetta “ultra-attività” dei contratti collettivi, ossia la loro estensione una volta che la loro validità è scaduta senza averne concordato un rinnovo, il licenziamento per un congedo medico, la riduzione del lavoro temporaneo, la revisione del sub-appalto che ha finora dato la possibilità alle imprese di esternalizzare aggravando sempre di più la precarietà. Si è così passati dall’idea di abrogazione alla definizione di uno smantellamento dei diversi elementi considerati più “dannosi”.
Quando è arrivata la pandemia, la crisi sanitaria ha interrotto i piani legislativi del governo, che, per tamponare la crisi economica e sociale, si è concentrato per mesi sulla cassa integrazione e su altri strumenti di protezione possibili. Oggi, per la prima volta dalla crisi economica del 2008, sono più di 20 milioni le persone occupate. Secondo l’indagine sulla popolazione attiva la disoccupazione è scesa al 14,57% e per il terzo trimestre dell’anno si è registrata la…


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Grecia, quei lager per innocenti nella culla della civiltà

Migrants sit behind a fence at the new closed monitored facility in Zervou village, on the eastern Aegean island of Samos, Greece, Monday, Sept. 20, 2021. Greek authorities have begun moving asylum seekers living in a squalid camp on the island of Samos into a new facility on the island, where access will be more strictly controlled. (AP Photo/Michael Svarnias)

Un perimetro fortificato da alte recinzioni militari con filo spinato, droni e videocamere di sorveglianza, sistemi di allarme, macchine a raggi X e metal detector. Sono solo alcune tra le misure di sicurezza applicate nel nuovo campo per richiedenti asilo di Zervou, sull’isola egea di Samos, costruito col contributo del Fondo europeo per la sicurezza interna, che ha coperto il 75% dei costi totali. Lo scorso 18 settembre i migranti ospiti nel vecchio campo di Vathy sono stati trasferiti qui, in una zona piuttosto remota, a otto chilometri dal primo centro abitato.

Grecia e Unione Europea hanno segnato così l’inizio di una nuova era di strutture sempre più simili a prigioni che a campi di accoglienza. A un anno dall’incendio di Moria – il sovrappopolato campo realizzato nell’isola di Lesbo, il più grande d’Europa, baraccopoli simbolo dell’inasprirsi delle politiche europee sull’immigrazione a partire dal 2015 – la strategia di Atene e Bruxelles è cambiata: dai “campi giungla”, senza accesso ai servizi di base, si è passati a “closed camps” dove rifugiati e richiedenti asilo saranno completamente isolati.

«Per quanto tempo ancora sarò chiamato “rifugiato”? Quando diventerò umano, una persona? Una persona che lavora, esce, viaggia, insomma fa ciò che ogni altro al mondo può fare?», è Ahmed che parla (nome di fantasia scelto dall’intervistato), interpellato da Europe must act, movimento che riunisce volontari e Ong impegnati nell’accoglienza dei rifugiati. È giunto a Zervou dall’Iraq ed è stato trasferito dopo tre anni in tenda. «Mi sento come se fossi in prigione. Mi sento solo, pigro e come se fossi in un altro mondo. Il nuovo campo è sicuramente meglio della tenda, c’è un bagno, una cucina, acqua, elettricità, frigorifero e condizionatori. Ma ora?».

Gli fa eco Djénébou (anche questo, come gli altri, un nome di fantasia) dal Mali: «Il nuovo campo e il vecchio campo, sono la stessa cosa. Qui dormiamo bene e siamo puliti, ma il cibo è cattivo. Da quando sono arrivato a Samos (tre mesi fa, nda), non ho ricevuto soldi, non ho avuto cibo buono. Ho problemi di stomaco. Sono andato all’ospedale ma il dottore mi ha dato solo del paracetamolo. Se avessi soldi potrei comprare del cibo e cucinare come voglio». Per raggiungere la città principale dell’isola, Vathy, bisogna prendere un autobus e pagare il biglietto (1,60€ a tratta), poiché il sistema di trasporto è gestito da una società privata. Ai residenti non è permesso entrare e uscire all’ora che preferiscono, tra le 20 e le 8 del mattino sono infatti vietati gli spostamenti; quote fisse limitano il numero di persone che possono lasciare il centro in un dato momento. La sensazione di…


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Stefano Obino: Quanto è grande il mondo dei curdi

Un viaggio nel Kurdistan iracheno, che, con i suoi tempi interni cinematografici e la sua attenta ricerca espressiva non manca di emozionare e avvolgere lo spettatore. Parliamo di War is over, il documentario di Stefano Obino, attore, regista, scrittore, presentato nella sezione Panorama Italia di Alice nella città alla Festa del cinema di Roma.

Obino, come nasce l’idea del film?
Nel 2017 ci trovavamo nella zona che ha maggiormente subito l’impatto della guerra contro l’Isis: la provincia di Duhok, 80 km a nord di Mosul. Erano i giorni in cui il califfato islamico sembrava fosse stato sconfitto (cosa non vera nemmeno oggi). Oltre 26 campi profughi solo in quell’area, 1,5 milioni di persone arrivate da Siria e centro Iraq in forte stato di necessità, il 50 per cento delle quali sotto i 18 anni. I campi profughi sembravano dei supermercati del dolore: troupe televisive di tutto il mondo compravano per pochi dollari i racconti terribili di chi era sopravvissuto alla furia del Daesh: giovani donne yazide violentate, padri che avevano perso l’intera famiglia nelle notti dei bombardamenti siriani. La situazione era drammatica, tuttavia noi siamo rimasti colpiti dall’energia che pervadeva quei luoghi, quasi un’euforia, la spropositata voglia di una vita nuova, normale, fatta anche di piccole cose. Tutti in quei luoghi, nonostante le tragedie che si portavano dentro, erano alla ricerca di un futuro migliore e felice. Siamo stati travolti da quell’energia, che non passa nei racconti dei media occidentali, ed abbiamo deciso di focalizzare il nostro racconto sull’ostinata resilienza di queste persone.

Come si è avvicinato a quel territorio ed alla sua gente?
Siamo arrivati in quei territori grazie alla collaborazione con Aispo, una ong italiana che opera nelle zone di guerra, costruendo strutture sanitarie e occupandosi della formazione del personale sanitario locale, motivati dalla volontà di lasciare sul campo strutture e conoscenze che possano essere utili anche quando l’emergenza sarà finita. Questa collaborazione ci ha consentito di accedere a luoghi altrimenti difficili da raggiungere e di viverli alla ricerca delle sfumature di questa energia, che tanto ci aveva colpito. Si sono creati rapporti molto belli, intensi. In sostanza noi non andavamo a chiedere alle persone quale tragedia li avesse colpiti, bensì cosa avessero intenzione di fare quel giorno, o il giorno dopo. Per noi non erano solo testimoni di dolore, ma persone che si costruivano una nuova vita. E credo che questo nostro approccio li rendesse disponibili ad…


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Un patto tra generazioni per lavoro e pensioni

«Chiediamo un tavolo sulle pensioni da quando il governo Draghi si è insediato. Anche alla luce dei cambiamenti demografici e delle nuove condizioni del mondo del lavoro rispetto a dieci anni fa, cioè all’epoca dell’introduzione della legge Fornero. Invece, hanno totalmente ignorato il tema, compreso il ministro Orlando, dimostrando un’indisponibilità al confronto e sottovalutando, a nostro giudizio, gravemente il problema». Non usa giri di parole Roberto Ghiselli, segretario confederale della Cgil con delega alle politiche previdenziali, nel descrivere lo stato delle cose  riguardo alla previdenza dopo l’incontro del 26 ottobre fra Mario Draghi e i sindacati, convocati per discutere la manovra di bilancio. «Il governo non vuole realmente confrontarsi con i sindacati» osserva Ghiselli. Da quel giorno il clima fra parti sociali e governo è diventato particolarmente teso. Come si ricorderà Draghi a un certo punto ha abbandonato improvvisamente e anzitempo il tavolo. Ma non è certamente questo che ha costretto le principali sigle sindacali ad avviare un percorso di mobilitazione, quanto piuttosto quel che si sta delineando in tema di pensioni. L’ex governatore della Banca d’Italia ha promesso il ritorno alla “normalità” con l’effettiva reintroduzione della riforma Fornero, dopo la breve parentesi di Quota 100, misura identitaria del partito di Salvini. E a seguito dello strappo, ha provato a inviare segnali distensivi, comunicando la disponibilità al confronto nelle prossime settimane e inserendo un sistema definito a scalini, con la quota 102 per il 2022 che permetterà di andare in pensione con 38 anni di contributi e 64 anni di età e la quota 104 per l’anno successivo che alzerebbe l’età pensionabile a 65 anni. Misure comunque inaccettabili per i sindacati confederali.

«Abbiamo stimato – precisa Ghiselli – che quota 102 impatterà, nel suo anno di attivazione, su meno di…


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A bassa quota

Nella manovra di bilancio per il 2022 appena approvata dal Consiglio dei ministri, un tema rilevante è rappresentato dall’ennesima riforma delle pensioni. Chi si aspettava una riforma generale, dopo la sperimentazione di Quota 100 (la riduzione dei requisiti per il pensionamento per chi aveva almeno 62 anni di età e 38 di contributi voluta dal primo governo Conte nel 2019) è rimasto deluso. Le opzioni sul tavolo per una riforma complessiva – che affrontasse una volta per tutte alcune criticità legate alla riforma Fornero del 2011 – sono state scartate a favore di un approccio minimalista, centrato sull’introduzione di Quota 102. Quest’ultima, che dovrebbe peraltro valere per il solo 2022, implica il mero innalzamento dei requisiti di pensionamento, con l’introduzione del requisito dei 64 anni di età e 38 anni di contributi per l’uscita anticipata rispetto ai 67 anni fissati dall’applicazione della riforma Fornero.

Da un punto di vista politico, la decisione del governo Draghi appare indicativa di un approccio pragmatico centrato su valutazioni di breve termine: con Quota 102 si rivede al rialzo la precedente Quota 100 e si genera un aggravio di spesa molto limitato per il bilancio pubblico, dato il numero molto ridotto dei potenziali beneficiari della misura. Al contempo, non si smantella la strategia delle quote come misura per allentare le rigidità dell’età pensionabile ereditate dalla riforma del 2011. In questo modo, si accontentano quelle forze politiche che più si erano spinte nel caldeggiare la riduzione dell’età effettiva di pensionamento a vantaggio di alcune categorie limitate senza, al contempo, affrontare in via strutturale la problematica dell’altezza dell’età pensionabile.

Dunque, non sembra che…

* Gli autori: David Natali è professore di Politica europea e comparata alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Michele Raitano insegna Politica economica al Dipartimento di Economia e diritto della Sapienza, Università di Roma


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La strategia della pensione

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 26-06-2012 Roma Politica Camera - mozioni di sostegno al Governo in Europa Nella foto: Elsa Fornero welfare Photo Mauro Scrobogna /LaPresse 26-06-2012 Rome Politics Chamber of Deputies - motions of support for the Government in Europe In the picture: Elsa Fornero welfare

Ormai hanno fatto in tempo ad invecchiare, probabilmente facendo una vita peggiore dei loro genitori ma vedendo peggiorare anche quella. Sto parlando dei giovani degli anni Ottanta, i tempi in cui si cominciò a teorizzare che i “troppi” diritti raggiunti, ribattezzati privilegi, danneggiavano il futuro dei giovani. Colpisce dunque che Draghi torni ad usare l’argomento del contrasto generazionale per muovere l’attacco a quota 100 sull’andata in pensione. Direbbe Popper che si tratta di una tesi falsificata.

Basta guardare al dato impressionante appena uscito che colloca i salari italiani come gli unici al di sotto del livello del 1990 per avere la conferma, drammatica, che, ad esempio, togliere la scala mobile (uno dei “privilegi”) per proteggere i salari stessi dall’inflazione non ha funzionato. Né tantomeno è servito a liberare risorse per creare nuova occupazione, così come nuovo lavoro non è venuto fuori dal flessibilizzare i contratti, cioè togliere diritti. Infatti il tasso occupazionale italiano ristagna ai piani bassi delle medie europee, con un monte orario falcidiato dalle crisi e dalla perdita di lavoro pubblico e di comparti produttivi. E la sua composizione è sempre più squilibrata verso forme precarie meno o non protette.

Altra tesi falsificata è quella che…


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Abolite i semafori rossi

Foto Claudio Furlan /Lapresse 06-03-2019 Milano Primo giorno per la richiesta del reddito di cittadinanza Nella foto: cittadini in attesa al Caf della Camera del lavoro di corso di porta vittoria

Era prevedibile, era previsto, è successo. La lotta contro il reddito di cittadinanza continua imperterrita avvalendosi dei soliti cliché e le notizie di Ferrari, yacht e altro hanno dato una bella spinta per rinvigorire l’opera di scassamento del sussidio a favore dei poveri.

Sia chiaro, il tema non è nemmeno il reddito di cittadinanza, questi semplicemente odiano i poveri al posto di odiare la povertà e non riescono a sopportare che una quota di denaro pubblico possa finire in mano agli indigenti sottraendola alle imprese. Il gioco è tutto qui: credono nella teoria del gocciolamento (diamo i soldi alle imprese poi qualche briciola resterà a terra per tutti) ma non hanno il coraggio di dichiararlo apertamente e quindi deviano su indignazioni cicliche contro il reddito di cittadinanza.

Eppure questa storia del tizio in Ferrari che percepisce il reddito di cittadinanza è talmente fragile che si smonterebbe in un secondo: possibile che non sia evidente che non si comprano Ferrari con l’assegno dello Stato? Possibile che non ci si renda conto che il tizio con la Ferrari che rientra nei parametri della povertà è molto più gravemente un evasore? Possibile che non sia chiarissimo che il furto allo Stato, quel fatidico percettore di reddito di cittadinanza seduto su una Ferrari, sta tutto nei soldi non versati al fisco? No, niente.

Stessa cosa per i mafiosi: ma davvero siamo talmente in geni da accettare di scandalizzarci per il reddito di cittadinanza e non per un’appartenenza criminale? Che pensano i nostri geni liberisti di destra e di simulata sinistra? Che i mafiosi redigano regolare denuncia dei redditi? Dai, davvero, è una roba da non credere.

Che il dibattito sul reddito di cittadinanza sorvoli temi di inaudita gravità è qualcosa che fa esplodere il cervello. I furbetti della legge 104 (che prevede permessi e congedi straordinari retribuiti ai lavoratori con disabilità grave ed ai familiari che prestano assistenza) vengono stanati quasi quotidianamente. Avete mai sentito qualche cretino che proponga di abolirla? Ma lo capite il giochetto?

Questi odiano il reddito di cittadinanza come odierebbero qualsiasi altra misura di contrasto alla povertà perché sono classisti. Tutto qui. Provate a pensarci: come rispondereste a un politico che propone l’abolizione del semaforo rosso perché ci sono troppi furbetti che non aspettano il verde? E soprattutto, avete mai sentito qualcuno proporre un’altra misura di un altro tipo?

Forse sarebbe il caso di uscire da questa narrazione benpensante. Dal 2019 sono stati controllati 161.868 percettori e sono state scovate 11mila irregolarità per un danno stimato di 97 milioni di euro. Solo nell’anno 2019 sono state ispezionate 142mila aziende e ne sono state trovate 99mila irregolari per un danno stimato di 1 miliardo e 270 milioni di euro. Le vedete le proporzioni?

Come sottolinea giustamente Simone Fana con questo governo siamo al ritorno alla Fornero, alla liberalizzazione del contratto a termine, alla coercizione al lavoro per i percettori del RdC, ai contributi a pioggia alle imprese, indipendentemente dalla qualità del lavoro: davvero non abbiamo altro di cui occuparci?

Buon venerdì.

Povertà educativa. L’Italia non è un Paese per bambini

Lagadikia, Greece - August 25, 2016: Children sit on stairs in the refugee camp of Lagadikia, some 40km North of Thessaloniki, during the visit of UN high commissioner for refugees Filippo Grandi

Nell’anno della pandemia, il 13,5% del totale dei bambini e ragazzi presenti in Italia è in povertà assoluta. Una popolazione di 1 milione e 337 mila minori che non accede a un paniere di beni e servizi considerato essenziale per garantire uno standard di vita minimamente accettabile. Più di un bambino su dieci si trova in questa condizione e vive quindi in famiglie che faticano a mettere insieme il pranzo con la cena.

La pandemia ha contribuito a peggiorare ulteriormente la condizione infantile e questo non solo dal punto di vista materiale: nell’ultimo anno e mezzo bambini e ragazzi hanno sperimentato una condizione di deprivazione educativa e culturale senza precedenti. La sospensione dei servizi educativi e per l’infanzia, la chiusura delle scuole (totale nella prima fase e a macchia di leopardo nella seconda), quella di molte attività ricreative (es. cinema, teatri, biblioteche) ha prodotto una condizione di povertà educativa che è destinata ad avere effetti di lungo periodo sull’apprendimento, sulla dispersione scolastica e sulla crescita delle disuguaglianze.

l circolo vizioso della povertà educativa

Con il termine povertà educativa Save the children fa riferimento al processo che limita il diritto dei bambini a un’educazione e li priva dell’opportunità di imparare e sviluppare competenze di cui avranno bisogno da adulti. Povertà educativa e povertà materiale sono legate da un circolo vizioso: i bambini che provengono da famiglie svantaggiate hanno più probabilità di conseguire peggiori risultati a scuola, hanno meno possibilità di partecipare ad attività sociali, culturali e ricreative, di svilupparsi emotivamente e di realizzare il proprio potenziale. Una volta diventati adulti, questi bambini incontrano poi maggiori difficoltà ad attivarsi nella società e a trovare lavori di qualità. La povertà materiale di una generazione si traduce spesso nella privazione di possibilità educative per quella successiva, determinando nuova povertà materiale e di rimando altra povertà educativa, e così via.

Povertà materiale e povertà educativa sono quindi saldamente legate e, prima di ragionare sulle strategie che possono contribuire a spezzare questa dinamica, è necessario guardare all’evoluzione della povertà (materiale) dei bambini per avere contezza del già drammatico quadro in cui la pandemia ha impattato.

Lo spartiacque della crisi del 2008

La povertà infantile ha iniziato a crescere in maniera significativa in conseguenza della crisi economico-finanziaria del 2008. Prima di tale crisi, la quota di minori in povertà assoluta era pari a quella della popolazione complessiva (3,1%). Negli anni successivi la povertà minorile è cresciuta più rapidamente rispetto a quella della popolazione generale e, nel 2020, lo scarto fra la povertà dei minori (13,5%) e quella della popolazione complessiva (9,4%) ha superato i 4 punti percentuali.

Questo trend è ancora più evidente se confrontiamo i tassi di povertà relativa (calcolata sulla base del reddito medio) di bambini e anziani. Alla fine degli anni novanta, questa forma di povertà interessava circa il 12% dei minori; negli anni successivi tale valore è cresciuto continuamente, arrivando a superare il 20% nel 2020. Nel caso degli anziani, invece, il trend è inverso. Alla fine degli anni novanta l’incidenza della povertà fra gli over 65 si attestava attorno al 16%, successivamente si è progressivamente ridotta fino a dimezzarsi nel 2020 (8,1%). Nel 2008, dunque, il livello di povertà relativa nei due sottogruppi era sostanzialmente simile e solo successivamente è andato a divergere così fortemente. A dimostrazione del fatto che la crisi economica-finanziaria ha ridefinito il profilo della povertà. Se alla fine degli anni novanta gli anziani costituivano tradizionalmente una categoria particolarmente fragile, più esposta ai rischi della povertà, oggi tale fragilità è tipicamente dei minori.

Ma perché la povertà infantile è cresciuta così prepotentemente? I minori in povertà hanno spesso genitori che partecipano in maniera debole al mercato del lavoro; ad esempio perché hanno contratti temporanei, percepiscono un salario inferiore alla media, sono sottoccupati o lavorano (involontariamente) part time. Tutte tendenze che si concentrano sulle nuove generazioni piuttosto che sulla forza lavoro più anziana e che hanno portato a scaricare i costi della crisi economico-finanziaria del 2008 sui giovani adulti (e sui loro figli). I loro redditi infatti, al contrario di quelli da pensione, non hanno retto l’impatto della crisi.

Pandemia e conciliazione

In questo impietoso scenario, è poi è arrivata la pandemia. Così negli ultimi due anni bambini e ragazzi hanno sperimentato (anche) una condizione di deprivazione educativa senza precedenti. Che ha colpito soprattutto quelli già in condizioni di fragilità. Quali strategie si possono mettere in campo per sostenerli?

Bisognerebbe sostenere l’occupazione femminile attraverso l’erogazione di servizi educativi, ricreativi e culturali rivolti a bambini e ragazzi. In sostanza, un serio investimento sulle cosiddette “politiche di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro” permetterebbe di aumentare il reddito di molte famiglie e sarebbe strategico per ridurre la povertà materiale ed educativa di bambini e ragazzi.

Sul fronte della povertà materiale è infatti noto che le politiche di conciliazione promuovono la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e questo chiaramente contribuisce a ridurre la povertà materiale dei minori dato che le famiglie monoreddito hanno un rischio di povertà notevolmente superiore rispetto a quelle in cui i redditi sono due.

Si tratta di un aspetto particolarmente importante in questo momento storico. Infatti, mentre le recessioni “tradizionali” hanno colpito settori caratterizzati da una più alta incidenza dell’occupazione maschile le misure di distanziamento legate alla pandemia da Covid-19 hanno impattato soprattutto sul terziario, che vede occupate in misura maggiore le donne rispetto agli uomini. Inoltre, l’iniqua distribuzione del lavoro di cura all’interno delle famiglie è stata esasperata dalla sospensione delle attività educative/scolastiche e dal ricorso alla didattica a distanza.

Secondo una ricerca realizzata dall’Inapp, con la fine del primo lockdown (marzo-maggio 2020), quando nelle coppie con figli è stato possibile scaglionare i rientri al lavoro, sono state perlopiù le donne a rimanere a casa. Uno stop che in alcuni casi è stato temporaneo, mentre in altri ha preceduto la decisione di dimettersi definitivamente per esigenze familiari.

Benefici bidirezionali

Puntare sulla conciliazione avrebbe un effetto significativo anche sulla povertà educativa. Infatti, se la conciliazione si sostanzia in servizi educativi, ricreativi e culturali il beneficio per bambini e ragazzi è evidente. Un esempio lampante in questo senso è quello dei nidi di infanzia. L’accesso a servizi educativi di qualità nei primi anni di vita può promuovere la rottura del legame negativo fra povertà educativa e materiale. Nella primissima infanzia, infatti, lo sviluppo delle reti neurali che costituiscono l’architettura cerebrale e le basi delle competenze avviene a una velocità elevatissima, che non si riprodurrà mai più nel corso della vita. Tale processo andrebbe quindi sostenuto da opportunità educative precoci rivolte soprattutto ai bambini più vulnerabili.

Purtroppo però, allo stato attuale le cose funzionano esattamente al contrario e i nidi sono di fatto un “servizio d’elite”. I dati Istat mostrano infatti che nelle famiglie i cui bambini frequentano un nido sono sovrarappresentate le coppie in cui entrambi i genitori lavorano, i redditi superiori alla media e i titoli di studio più elevati.

In conclusione, è ampiamente riconosciuto che le politiche di conciliazione giocano un ruolo di primo piano nel promuovere l’occupazione femminile e, di conseguenza, lo sviluppo economico. Ma, nella fase attuale, è utile focalizzare l’attenzione anche sul ruolo che queste politiche possono giocare nel promuovere un miglioramento della condizione infantile.


* L’autrice: Chiara Agostini, ricercatrice in Analisi delle politiche pubbliche, fa parte di Percorsi di secondo welfare, un
 laboratorio di ricerca legato all’Università degli Studi di Milano che si propone di ampliare e diffondere il dibattito sui cambiamenti in atto nel welfare italiano


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Giù le mani dal tema di italiano

La scrittura aiuta a indagare il mondo e se stessi. È uno strumento potente che tutti dovrebbero avere la possibilità di sperimentare nella vita. Così, la richiesta di eliminazione delle prove scritte all’esame di Stato 2022, l’oggetto della petizione lanciata da un gruppo di studenti su Change.org, ha avuto il merito di riportare l’attenzione sulla capacità delle persone di potersi esprimere liberamente e consapevolmente attraverso lo scrivere. Ma non solo. Quella petizione è stata l’occasione per riflettere sui problemi dell’apprendimento, sulle diseguaglianze sociali, sul ruolo della scuola, da anni sotto attacco, in un mondo interconnesso e complesso, sul significato dell’esame di Stato, sul peso della pandemia. In attesa di conoscere le decisioni del ministro Bianchi sulle modalità delle prove finali, ecco i commenti, le impressioni, i racconti di docenti universitari, maestri e scrittori.

Giulio Ferroni
«Cancellando le prove scritte credo che ci sia uno svuotamento di senso di quello che ufficialmente si chiama esame di Stato ma che tutti siamo abituati a…

* L’illustrazione è di Chiara Melchionna


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Bolsonaro e i burattini della morte

BRASILIA, BRAZIL - OCTOBER 20: Protesters wearing masks depicting President Jair Bolsonaro perform during a protest against the government's measures to combat COVID-19 and the administrative reform bill that is being processed in the National Congress on October 20, 2021 in Brasilia, Brazil. 11-member Brazilian Senate Pandemic Parliamentary Inquiry releases a report after months of investigation to determine responsibilities on mismanagement of the COVID-19 pandemic in Brazil. (Photo by Andressa Anholete/Getty Images)

Crimini contro l’umanità, diffusione di epidemia, violazione di misure sanitarie preventive, ciarlataneria (abuso della credulità popolare), istigazione al crimine, falsificazione di documenti, uso irregolare di fondi pubblici, prevaricazione e reati di responsabilità, tra cui l’aver violato i diritti sociali del suo popolo. Sebbene avesse queste accuse sul groppone, quando il presidente del Brasile Jair Bolsonaro è atterrato a Roma a fine ottobre per partecipare al G20, lo ha fatto con la leggerezza di una piuma. La stessa “leggerezza” che ha spinto la giunta leghista di Anguillara veneta a conferirgli l’1 novembre la cittadinanza onoraria, nonostante fossero pubbliche le conclusioni della Commissione parlamentare d’inchiesta sul Covid-19 istituita in Brasile, che dopo sei mesi d’indagine – con i capi d’imputazione appena elencati – ha raccomandato di procedere contro Bolsonaro e i suoi figli, Flavio ed Eduardo, e altre 66 persone, tra ministri ed ex ministri, deputati, imprenditori, medici e dipendenti pubblici.

Che cosa è accaduto per arrivare a una richiesta tanto grave e importante?
Il rapporto finale della Commissione è stato approvato il 27 ottobre da 7 senatori su 11, scelti tra maggioranza ed opposizione. Sulla base delle indagini esperite, i 7 “colpevolisti” si sono formati la convinzione che i soggetti coinvolti facessero parte di una «intricata organizzazione» che agiva «al di fuori del controllo ufficiale del potere pubblico» con «ingenti risorse finanziarie e sofisticate tecnologie» allo scopo di «influenzare l’opinione pubblica» ed «istigarla a delinquere», cioè, a non rispettare le norme rivelatesi più efficaci nel contrastare la diffusione dell’epidemia.
L’«intricata organizzazione», stando all’inchiesta, risulta capitanata dal presidente della Repubblica che, in sinergia con le forze arruolate sin da marzo 2020, già al presentarsi dei primi casi di Covid-19 in Brasile, si è impegnato «deliberatamente» ad indurre la popolazione brasiliana ad esporsi ad una «contaminazione di massa».
La struttura criminale gerarchica è stata ricostruita nel rapporto finale della Commissione, individuando diversi livelli di potere. Il nucleo di comando, composto dal presidente e dai suoi figli; il nucleo programmatore, conosciuto come “gabinete do ódio” e costituito dal personale adibito a raccogliere dossier sulle personalità da colpire; il nucleo politico, formato da parlamentari, politici, autorità e leadership religiose in grado di persuadere la popolazione a disubbidire alle norme sanitarie; il nucleo di produzione e disseminazione, costituito da influencer, blogger, media organizzati e «fabbriche di troll e bot», cioè, generatori di profili falsi e virtuali creati per gonfiare il numero di “like”, di condivisioni e visualizzazioni delle fake news rilanciate da…


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