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Il diritto di saper scrivere

Gli esami di maturità dovrebbero iniziare il prossimo 22 giugno, secondo il calendario classico con il tema di italiano. Dovrebbero, ma una petizione di studenti chiede al ministro della Pubblica istruzione Patrizio Bianchi la soppressione delle prove scritte, per continuare con la prassi sperimentata nei due anni di emergenza pandemica: un solo maxi colloquio orale a partire da una tesina elaborata dallo studente a casa, durante il quale i ragazzi sono interrogati da una commissione composta da docenti interni e da un presidente esterno.
La petizione online, mentre andiamo in stampa, ha superato le 25mila firme sulla piattaforma Change.org. «Noi studenti maturandi – inizia il documento – chiediamo l’eliminazione delle prove scritte all’esame di maturità 2022, poiché troviamo ingiusto e infruttuoso andare a sostenere un esame scritto in quanto pleonastico, i professori curricolari nei cinque anni trascorsi, hanno avuto modo di toccare con mano e saggiare le nostre capacità. Inoltre abbiamo passato terzo e quarto anno in Dad, penalizzandoci, distruggendo parte delle nostre basi che ci sarebbero dovute servire per l’esame. L’ulteriore stress di un’esame scritto remerebbe contro un fruttuoso orale indispensabile come primo passo verso l’età adulta. Sicuri di un positivo riscontro le porgiamo i più cordiali saluti».

Lo spettro della fatidica prima prova preoccupa gli studenti più del solito a causa della formazione difettosa, che il testo impietosamente rivela, rendendo comprensibile la richiesta. E tuttavia persiste, rappresentata dalla petizione minoritaria di un’insegnante (Ilaria Rizzini, insegnante di italiano, latino e greco ad un classico di Pavia, la sua istanza ha raccolto meno di duemila firme, ndr), l’esigenza di una risposta da parte di istituzioni ed educatori che stabilisca il ripristino delle prove scritte.
Ma con sorpresa apprendiamo dalla testata online La tecnica della scuola che una dirigente scolastica veneta divulga e sostiene l’appello studentesco. La lunga lettera invita a sorvolare sulla forma della petizione e, paradossalmente, allo stesso tempo avanza numerose critiche alla prova scritta di italiano, ricordando che la vetusta struttura dell’esame di Stato risale al 1923, e che a poco o nulla è servito il “bailamme” (sic) dei tentativi migliorativi: la filosofia di fondo è rimasta la stessa, mentre nel frattempo il mondo…


L’articolo prosegue su Left del 5-11 novembre 2021

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SOMMARIO

L’atto creativo della scrittura

Venire a conoscenza di una petizione per abolire le prove scritte dell’esame di maturità, soprattutto nel constatare l’enorme seguito che ha suscitato (oltre 25mila adesioni), ha destato in me, logopedista, alcune domande.
Le motivazioni che hanno dichiarato i maturandi, tengono conto delle difficoltà ulteriori cui è andata incontro la scuola a causa della pandemia (chiusure imposte, Dad ecc), che hanno certamente aggravato una situazione già critica.

Questi ragazzi si sentono penalizzati dal confronto con gli alunni degli anni precedenti, per i quali considerano un’agevolazione l’aver affrontato l’esame di maturità in piena pandemia. Ma perché l’idea di affrontare gli esami in forma scritta ha mosso alcuni studenti ad organizzare una petizione?
In un’epoca in cui si viene valutati in base alle competenze e le performances sono associate all’esposizione e all’utilizzo della tecnologia digitale fin dalla prima infanzia, è possibile che gli alunni, non riescano ad acquisire e a consolidare nel tempo la capacità di scrittura?
Che cosa significa scrivere, produrre un elaborato?
Scrivere è un atto creativo, per realizzare il quale, bisogna coniugare competenze visuo-grafo-motorie con contenuti del pensiero. Produrre la linea sul foglio ed esprimere le proprie idee, necessita di fantasia, assolutamente personale, che conduce l’individuo, nel tempo, a rendere la scrittura un atto originale.

La scrittura si differenzia dal linguaggio articolato perché viene appresa, non viene acquisita naturalmente dal bambino.
L’apprendimento della scrittura, necessita, quindi, di grande esercitazione e di tempi lunghi, per poter diventare una espressione personale.
A conclusione dell’ultimo ciclo scolastico, si suppone che l’apprendimento della scrittura, almeno negli aspetti esecutivi, sia giunto a completamento. Con la progressiva maturazione dell’esperienza di ciascuno, la scrittura personale si arricchisce di maggiori contenuti.
Prima di arrivare all’esame di maturità, questi ragazzi hanno attraversato gli ordini di scuola precedenti.

Possiamo ipotizzare che la richiesta di abolizione di prove scritte sia il frutto, non soltanto degli ultimi due anni di pandemia, che, certo, ha ulteriormente impoverito il sistema scolastico, ma di un percorso di apprendimento della scrittura pervaso di difficoltà di varia natura. Imparare a scrivere è un percorso lungo e complesso che richiede molto allenamento, è quindi necessario dedicarsi precocemente, già a partire dall’asilo nido e dalla scuola dell’infanzia, a far sperimentare ai bambini, con tutto il corpo, gesti, manipolazioni, movimenti che saranno fondamentali per coordinare, più avanti, l’occhio e la mano con il pensiero.

Dove queste esperienze risultano mancanti, in particolare nella scuola primaria, le difficoltà che ne seguono possono sfociare nei Disturbi specifici dell’apprendimento (Dsa). Questi disturbi interessano selettivamente la lettura (dislessia), la capacità di manipolare la lingua scritta (disortografia), le capacità di calcolo e problem solving (discalculia), corredati o meno, in modo trasversale, dalla disgrafia, difficoltà di eseguire fisicamente la scrittura (esito di un pregresso disturbo della coordinazione motoria).

Attualmente i dati a disposizione, pre-pandemici, rilevano la presenza di una diagnosi di Dsa nel 3,2% della popolazione scolastica (scuola pubblica), con una maggiore incidenza nel Centro-Nord e con una percentuale inferiore nel Sud, territorio, com’è noto ad alta dispersione scolastica, (il che fa supporre anche una minore probabilità che gli alunni vengano segnalati ai Servizi sanitari).
Restiamo in attesa di pubblicazioni più attuali, consapevoli che la pandemia ha aumentato il gap tra i diversi strati sociali in tutto il territorio italiano, per cui la previsione è di un aumento sia della dispersione scolastica sia delle segnalazioni (e certificazioni) per Dsa.

Ma ci sono davvero così tanti alunni con disturbi di apprendimento fin dalla scuola primaria? O non stiamo piuttosto assistendo ad un processo di medicalizzazione dei bambini che “restano indietro” negli apprendimenti, perché si intravede, nel perseguire la strada dell’assistenza sanitaria, un accessibile supporto alla pluri-depauperata istituzione scolastica?

Certo è che la dedizione e l’impegno dei professionisti che gravitano intorno a questi bambini e alle loro famiglie, può fare la differenza. Di fronte alle prime difficoltà di acquisizione della scrittura, sarebbe opportuno non arrendersi, cedendo alla facile soluzione di sostituire il gesto visuo-grafo-motorio con un dispositivo digitale, ma insistere, affinché questi alunni non perdano la possibilità di tracciare linee sul foglio, esprimendo autonomamente il loro pensiero, portatori di una calligrafia originale.

Come auspicato il 7 ottobre scorso dagli esperti durante il Convegno nazionale 2021 dell’Associazione italiana disgrafie (“Scrivere ancora a mano nel Terzo millennio”), prima di inserire questi bambini e ragazzi in un circuito sanitario abilitativo, con approfondimenti diagnostici ed eventuale diagnosi, bisognerebbe consentire loro di affrontare un periodo di potenziamento didattico-pedagogico, allo scopo di favorire l’inclusione scolastica e ridurre i falsi positivi con il progredire dell’età.
Come documentato più volte nelle pagine di Left, gli insegnanti italiani si trovano ormai da decenni, ad affrontare difficoltà su vari livelli, dovute alla dequalificazione della scuola pubblica.

In ambito didattico-pedagogico è ormai assodata l’importanza della relazione nel processo di insegnamento-apprendimento, non soltanto della scrittura, in cui la partecipazione attiva docente-discente alimenta la motivazione di entrambi ad acquisire (e far acquisire) nuove conoscenze.
Considerato il lungo periodo che la scuola occupa nel corso della vita degli individui, è sempre più indispensabile rimodulare il sistema scolastico nel senso di rispettare i tempi di apprendimento di ciascuno e adeguare le modalità di istruzione, per rendere concreta un’idea di bambino come essere pensante e sociale fin dalla nascita, per attuare davvero una prevenzione verso i disturbi del neurosviluppo.

Avere una fisiologica paura ad affrontare l’esame di maturità è più che legittimo, non unicamente per la natura delle verifiche da sostenere, ma soprattutto in quanto esso rappresenta l’ineluttabile passaggio all’età adulta: è compito di noi adulti di riferimento mettere in condizione bambini e ragazzi di poter affrontare le prove della vita nel modo più adeguato possibile, fin dalla tenera età.

Foto di free stock photos from www.picjumbo.com da Pixabay


L’editoriale è tratto da Left del 5-11 novembre 2021

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Giornalisti giornalisti, giornalisti impiegati

FILE - In this May 1, 2019 file photo buildings are reflected in the window as WikiLeaks founder Julian Assange is taken from court, where he appeared on charges of jumping British bail seven years ago, in London. The U.S. government is scheduled to ask Britain's High Court to overturn a judge's decision that WikiLeaks founder Julian Assange should not be sent to the United States to face espionage charges. A lower court judge refused extradition in January on health grounds, saying Assange was likely to kill himself if held under harsh U.S. prison conditions. (AP Photo/Matt Dunham, File)

«Dai retta a me, questo non è un Paese da giornalisti giornalisti, è un Paese da giornalisti impiegati», diceva nel film dedicato a Giancarlo Siani il suo direttore Sasà, nel celebre film Fortàpasc. E questa divisione tra i “giornalisti con la schiena dritta” e quelli che invece semplicemente svolgerebbero diligentemente il proprio compitino è una costante anche nell’opinione pubblica, ancora di più in questi ultimi anni in cui i media sono accusati di tutte le sconcezze del mondo.

Eppure i giornalisti giornalisti dovrebbero essere coloro che informano riportando notizie che i potenti non vorrebbero fare sapere. 11 anni fa tutto il mondo impazziva di gioia per Wikileaks e i documenti rilasciati che dimostravano come il governo Usa fosse colpevole di atti orribili in tutto il mondo. Erano quelle stesse azioni che i più arguti potevano solo sospettare e che invece stavano scritte nero su bianco, con nomi e cognomi. Intorno a quell’onda si accodarono tutti i più importati giornali del mondo e Julian Assange divenne un’icona, da stampare sulle magliette: se c’era un “giornalista giornalista” era indiscutibilmente lui. Mica per niente fioccarono i premi (l’Economist, Le Monde, Yoko Ono….) e quell’enorme mole di documenti (qualcosa come dieci milioni dal 2006 a oggi) venne ritenuta la chiave per leggere il presente.

Poi tutto si è spento. Anzi, peggio, molti si sono pentiti. Il giornalista giornalista Assange ha fatto la fine del topo scappando di Paese in Paese per sfuggire agli Usa. Eppure anche qui non dovrebbe sorprendere: incriminare come attentatore della sicurezza nazionale colui che ha avuto la forza di svelare gli orrori americani in Iraq e Afghanistan sembrava una mossa troppo banale per funzionare. Invece funziona, eccome. Così mentre si attende il verdetto della giustizia britannica sulla richiesta di estradizione Usa (Assange, accusato di pirateria informatica e addirittura di spionaggio, rischia una condanna monstre a 175 anni di galera) il mito è decaduto e interessa a pochissimi. L’icona è diventata un disturbo da trattare con indifferenza. La deferenza si è involuta in fastidio.

Perfino un premio Nobel per la pace come Adolfo Pérez Esquivel è intervenuto con un appello: «Ai popoli del mondo, chiese, organizzazioni sociali, sindacati, università, giornalisti, mezzi di informazione e governi democratici, alle donne e agli uomini di buona volontà difensori della libertà e dei diritti dei popoli – scrive Esquivel – La vita di Julian Assange è in pericolo. Il governo degli Stati uniti da anni perseguita Julian Assange, colpevole di aver svelato le atrocità che questo governo ha commesso e commette nel mondo: violenze, invasioni, colpi di stato, omicidi, torture, persecuzioni di Paesi di orientamento ideologico diverso, embarghi, crimini che si tenta di nascondere e che restano totalmente impuniti sia dal punto di vista legale che da quello sociale, nel disprezzo dello Stato di Diritto e in violazione dei diritti umani e dei diritti dei popoli». Per questo il nobel chiede perché l’estradizione «sarebbe la condanna a morte di un difensore della libertà di informazione e una grave minaccia alla libertà di stampa».

Sorge un dubbio: forse insieme ai giornalisti giornalisti e ai giornalisti impiegati ci sono anche i cittadini cittadini e i cittadini impiegati. Sasà non ci aveva pensato. È molto peggio di come temeva.

Buon giovedì.

 

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Perché sul climate change il G20 è stato un fiasco

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 31-10-2021 Roma G20 - I leader in visita alla Fontana di Trevi Nella foto I leader del G20 davanti alla Fontana di Trevi Photo Roberto Monaldo / LaPresse 31-10-2021 Rome (Italy) G20 - Leaders visiting the Trevi Fountain In the pic G20 Leaders in front of Trevi Fountain

A leggere i giornali italiani, il G20 di Roma è stato «un successo» (Repubblica) e si è «evitato un fiasco finale» (Corriere della sera). Basta però aprire altri giornali dell’area liberal anglosassone per avere una prospettiva del tutto diversa: «I Paesi poveri preoccupati dagli scarsi progressi del G20 sul clima», titola il britannico Guardian; più dura ancora la statunitense Cnn, che afferma che «il comunicato finale del G20 manca di impegni decisi e fallisce nell’obiettivo di porre una data limite per la fine del corrente uso del carbone». Insomma, il G20 romano sarebbe stato un fiasco. E anche un po’ trash, se pensiamo alla scena delle monetine alla fontana di Trevi che se fosse stata pensata da un Casalino qualsiasi sarebbe già passata alle cronache come il solito folklore di un’Italia provincialissima. Ma si sa, ora c’è Draghi. In effetti non si capisce i media italiani cosa abbiano da esultare. Soprattutto se parliamo del tema principe del vertice, l’ambiente.

Le emissioni di anidride carbonica subiranno un’impennata di 1,5 miliardi di tonnellate nel 2021 rispetto al 2020, anno in cui c’era stato un calo dovuto al blocco di numerose attività causa pandemia. Nel 2030 le emissioni globali saranno del 16% più alte che nel 2010. Altro che diminuzione. L’obiettivo di contenere il surriscaldamento climatico a 1.5°C difficilmente potrà essere ottenuto e a oggi viaggiamo dritti dritti verso un +2.7°C (se tutto il mondo fosse la Ue l’aumento arriverebbe a 3°C; se fosse gli Usa addirittura a 4°C). Se volessimo raggiungere l’obiettivo dovremmo produrre una riduzione delle emissioni di CO2 del 45% entro il 2030; e se volessimo puntare a un meno ambizioso obiettivo di un aumento di 2°C servirebbe comunque un -25% entro il 2030. Ma ben 113 governi hanno già annunciato che entro il 2030 limiteranno l’emissione di gas serra solo del 12% rispetto al 2010. Non esattamente ciò che servirebbe.

E no, un aumento delle temperature non significa che potremo andare più spesso a mare e soffriremo meno il freddo. Ciò che comporta, al contrario, lo vediamo con gli “eventi eccezionali” che già oggi costituiscono una nuova normalità. Dalle alluvioni nell’Europa centro-settentrionale dell’estate 2021, passando per il ciclone che ha provocato morte e distruzione a Catania. O, uscendo un po’ dall’Europa, i 2.300 morti in India nel 2015 per l’ondata di caldo; sempre nel 2015, i 36 milioni di cittadini che tra Africa meridionale e Africa Orientale hanno sofferto la fame perché il caldo e le scarse piogge avevano distrutto i raccolti. O, ancora, gli incendi che sempre nel 2016 bruciarono 600mila ettari in Canada, distruggendo o danneggiando 2.400 edifici e provocando danni economici per circa 9 miliardi di dollari canadesi, oltre che l’evacuazione di tantissimi cittadini.

Pensate forse che, per contrastare tutto ciò, produzione di energie fossili, carbone, petrolio e gas diminuiranno – fosse anche in maniera insufficiente – nei prossimi anni? Siete fuori strada: i piani attuali prevedono un +240% di carbone, +57% di petrolio e +71% di gas rispetto a ciò che servirebbe per raggiungere il target del riscaldamento globale a un +1.5°C. Per produrre più carbone, più petrolio, più gas ci mettiamo anche un bel po’ di soldi: dall’inizio della pandemia i governi hanno già foraggiato queste industrie con circa 300 miliardi di dollari. Più di quanto investito in energia pulita.

Tra gli obiettivi del G20 e della COP26 c’è anche il rafforzamento della finanza green. Ciò cui ha portato fino a oggi, però, è tutt’altro che incoraggiante. Di fatto il capitale ha prodotto una mercificazione anche del clima: ogni Paese è autorizzato a inquinare per una certa quota e può comprare altre quote sul mercato internazionale, così che – di fatto – si produce semplicemente una monetizzazione dell’inquinamento. Come dimostra l’aumento delle emissioni di CO2 i prezzi devono essere stati fin troppo bassi. La soluzione verrà dunque da un aumento del prezzo delle quote? In realtà no, anche perché in molti hanno accumulato quote, comprandole quando erano molto molto economiche e si sono guadagnate così il “diritto” a inquinare.

Ciò che occorre è il coraggio della politica. Delle scelte audaci, che sappiano sfidare il potere delle industrie che più stanno distruggendo la nostra casa comune. Anziché pavoneggiarsi per successi inesistenti o incolpare la Cina, si potrebbe intraprendere per davvero una lotta al cambiamento climatico. Prendiamo il settore energetico. Vogliamo per davvero lasciarci l’energia fossile alle spalle? La buona notizia è che si può; la cattiva è che chi detiene le leve del potere non vuole.

Si può perché il passaggio dal fossile alle energie rinnovabili è fattibile tanto sotto il profilo tecnologico quanto finanziario. C’è bisogno di uno sforzo economico annuale per migliorare l’efficienza energetica di edifici, veicoli, trasporti, produzione industriale e per avere un’impennata nella produzione di fonti di energia pulita a emissioni zero entro il 2050. Ma chi conta su questo pianeta non vuole. Perché mai le multinazionali che dal fossile continuano a guadagnare miliardi su miliardi dovrebbero convincersi a farla finita e a passare ad energie pulite? Semplicemente non ne hanno interesse. E sono pronte a mobilitare gli stessi lavoratori contro una vera transizione ecologica, minacciando disoccupazione e miseria di massa, oltre che perdita di competitività nei confronti della cattiva Cina.

Ciò che serve è una pianificazione internazionale di questa benedetta transizione ecologica. Investimenti – una barca di soldi – in energia rinnovabile, agricoltura biologica (ma per davvero, non solo per apporre un’etichetta e alzare i prezzi), trasporti pubblici che sostituiscano le auto private. Così come serve un forte ruolo dello Stato per formare quei lavoratori oggi dipendenti – in senso formale e materiale – dall’industria del fossile e “riconvertirli” per impiegarli nella produzione di ciò di cui il nostro pianeta e la nostra gente necessita per davvero.

Ma tutto questo non accadrà fino a quando le multinazionali dell’energia continueranno a fare il bello e il cattivo tempo. Non basta lo Stato regolatore, serve uno Stato pianificatore: capace di prendere nelle proprie mani la direzione della transizione ecologica, smettendo di foraggiare produzioni inutili e dannose e facendo ogni possibile sforzo per orientare le nostre società verso quelle necessarie e pulite.

I veri “grandi della Terra” sono loro, i giovani attivisti per il clima

Swedish climate activist Greta Thunberg, centre sharing holding 'Enough is Enough' banner, listens as she attends a 'Fridays For Future' climate protest rally on the fringes of the COP26 U.N. Climate Summit, in Glasgow, Scotland, Monday, Nov. 1, 2021. The U.N. climate summit in Glasgow gathers leaders from around the world, in Scotland's biggest city, to lay out their vision for addressing the common challenge of global warming.(AP Photo/Scott Heppell)

Dopo la deludente conclusione del G20 di Roma da inizio novembre è in corso la Cop-26 a Glasgow che già si preannuncia a sua volta deludente (l’India ha già spostato i suoi obiettivi di emissioni zero al 2070, l’accordo sulla deforestazione parte dal 2030…). I “grandi della terra” discutono su come affrontare la crisi climatica. Intanto i giovani che hanno capito di essere senza futuro protestano urlando “i veri leader siamo noi” e che i grandi sono “parte del problema”.

Cerchiamo di capire le ragioni.
Partiamo da un presupposto: l’istinto di conservazione permette all’uomo di reagire prontamente ai pericoli immediati come ad un attacco improvviso. Viceversa la percezione di un pericolo di medio-lungo periodo è molto più bassa, si tende a rinviare il problema e a pensare che sarà compito di qualcun altro affrontarlo. Ebbene la crisi climatica è un problema che viene visto “lontano”, e che quindi può essere demandato a qualcun altro. La politica a sua volta, che dovrebbe affrontare problemi di ampio respiro e pianificare soluzioni, invece si limita a fronteggiare le scadenze elettorali e per tale motivo non si occupa di problemi complessi e di lunga durata ma vuole solo presentare ai cittadini risultati immediati. Ha tutto l’interesse di minimizzare i problemi ed enfatizzare successi (anche successi molto parziali se non inesistenti). Il mondo economico deve proteggere i suoi “investimenti” e i suoi profitti e una percezione di crescita, di positività è essenziale per evitare crisi sistemiche che ne mettano in dubbio i patrimoni.

Certo poi la crisi climatica i conti comincia a presentarli: temperature record (4,8 gradi in Sicilia, 50 gradi in Canada), morti per alluvioni, tifoni, acqua alta a Venezia nonostante il Mose… ma tutto viene affrontato come calamità puntuale, tutto rientra nel “pericolo immediato”. Si scordano subito i motivi profondi.
Cerchiamo quindi di ricordare qualche dato.
Dalla rivoluzione industriale, l’umanità ha emesso circa 2500 miliardi di tonnellate di CO2. Sulla base degli attuali tassi di emissione, il restante budget di carbonio per limitare il riscaldamento globale a 2C° rispetto ai livelli preindustriali (ovvero 900 miliardi di tonnellate di Co2) sarà completamente esaurito in 18 anni. Per limitare il riscaldamento globale a 1,5C°, il budget rimanente (300 miliardi di tCo2) si esaurirà in 6 anni.
Nel 2019 le emissioni globali di gas serra hanno raggiunto i 50 miliardi di tonnellate di anidride carbonica equivalente (Co2) annue, ovvero circa 6,6 tonnellate di Co2 pro capite. Nel 2021, le emissioni globali hanno di fatto recuperato il picco pre-pandemico.
A livello globale, il 10% più ricco della popolazione (771 milioni di individui) emette in media 31 tonnellate di CO2 per persona all’anno ed è responsabile di circa il 49% delle emissioni globali di CO2. Il 50% più povero (3,8 miliardi di individui) emette in media 1,6 tonnellate ed è responsabile di circa il 12% di tutte le emissioni. L’1% più ricco del mondo emette in media 110 tonnellate di Co2 pro capite e contribuisce al 17% di tutte le emissioni in un anno.

La disuguaglianza globale nelle emissioni pro capite è dovuta a grandi disuguaglianze nelle emissioni medie tra i Paesi e a disuguaglianze ancora più grandi nelle emissioni all’interno di ciascun Paese. Attualmente, le emissioni medie in Europa sono vicine a 10 tonnellate di Co2 per persona e per anno. In Nord America, l’individuo medio emette circa 21 tonnellate (ma il 10% dei nordamericani più ricchi emette in media 75 tonnellate pro capite e il 50% più “povero” solo 10 tonnellate). Questo valore è di 8 tonnellate in Cina (ma il 10% dei cinesi più ricchi emette in media 36 tonnellate e il 50% più “povero” solo 3 tonnellate), di 20 tonnellate in Australia (ma il 10% dei più ricchi emette in media 62 tonnellate e il 50% più “povero” solo 10 tonnellate) di 2,2 tonnellate in India (ma il 10% dei più ricchi emette in media 9 tonnellate e il 50% più “povero” solo 1 tonnellata). Valori ancora più bassi in Africa dove in Congo il 50% più povero emette solo 0,3 tonnellate di Co2 in media ogni anno.

Ovviamente ancora più macroscopiche le differenze se prendiamo a riferimento l’1% della popolazione più ricca: le 110 tonnellate di Co2 emesse mediamente da ciascuno degli appartenenti a questa “fortunata” fascia di popolazione vanno dalle quasi 280 tonnellate pro capite degli statunitensi alle 5,7 del Congo passando per circa 137 tonnellate pro capite dei cinesi e le 201 degli australiani. In Italia 65 tonnellate per ciascuno degli appartenenti all’1% più ricco.
Questi dati attuali vanno anche confrontati con la disuguaglianza storica delle emissioni tra le regioni che è molto ampia: il Nord America e l’Europa sono responsabili di circa la metà di tutte le emissioni dalla Rivoluzione industriale. La Cina rappresenta circa l’11% del totale storico e l’Africa subsahariana appena il 4%.

Cerchiamo anche di capire la correlazione tra emissioni di Co2 e ricchezza. Negli stati Uniti il 10% della popolazione detiene oltre il 45% dei redditi (era il 34% nel 1980). In Europa il 10% più ricco ne detiene il 35%. In Russia il 10% più ricco ha il 46% (era il 23% nel 1988) del reddito nazionale, più del doppio della quota del 50% più povero.
Anche in Asia, la disuguaglianza è aumentata in modo significativo dagli anni 90. In India, la quota di reddito del 10% della popolazione più ricca è cresciuta dal 34% del 1990 a circa il 57% di oggi. In Cina è cresciuta dal 30% al 42%.
Il 10% più ricco della popolazione mondiale è responsabile di quasi il 50% delle emissioni globali di Co2. Il 50% più povero della popolazione mondiale è responsabile di circa il 10% delle emissioni. Oltre ad avere i redditi annuali più alti il 10% più ricco detiene il 92% della ricchezza globale.

È impressionante la correlazione che esiste tra livello dei redditi ed emissioni di gas climalteranti. E non è un caso. Maggiore reddito equivale anche a maggiori consumi. E il paradigma dell’attuale modello economico capitalista si basa sul consumismo: estrazione (di risorse naturali), produzione, consumo, creazione di rifiuti. Cioè sfruttamento delle risorse naturali, sfruttamento del lavoro, sfruttamento dell’ambiente. Sempre a scopo di profitto per quel famoso 10% responsabile, non a caso, della metà delle emissioni globali. Cioè la crisi ambientale è dovuta al profitto. Per dirla con Naomi Klein: “il capitalismo non è sostenibile”. Per rimanere in Italia i casi dell’Ilva e di Porto Marghera sono esempi chiarissimi: sfruttamento del lavoro e sfruttamento dell’ambiente, danni lasciati in carico alla collettività e profitti intascati da pochi. E sfatiamo anche le favole sulla “decrescita felice”. Non dobbiamo ridurre il benessere per tutti ma solo ridistribuire una ricchezza che è incredibilmente sproporzionata e che per questo ha creato il riscaldamento climatico. La crescita infinita su cui si basa il modello capitalistico è impossibile in un pianeta che ha risorse finite.

Da anni la scienza ci dimostra che il riscaldamento climatico esiste e che produce enormi danni. Ciononostante invece di iniziare a ridurre le ricchezze dei più ricchi (e le loro emissioni) quello che è successo è che dal 1990, le emissioni dell’1% più ricco sono aumentate più velocemente di qualsiasi altro gruppo a causa dell’aumento delle disuguaglianze economiche all’interno dei Paesi e a causa del contenuto di carbonio dei loro investimenti.
In molti Paesi ricchi, le emissioni pro capite della metà più povera della popolazione sono diminuite dal 1990, contrariamente a quelle dei gruppi più ricchi. Gli attuali livelli di emissioni della metà più povera della popolazione sono vicini agli obiettivi climatici pro capite per il 2030 negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Germania o in Francia.
Gli sforzi politici dovrebbero quindi essere in gran parte concentrati sulla riduzione dei livelli delle emissioni dovute al 10% più ricco della popolazione e in particolare dell’1% di “ricchissimi”. In particolare nei Paesi occidentali (Stati Uniti ed Europa in testa) che finora sono stati responsabili della grande parte delle emissioni. Ma anche nei Paesi a basso reddito ed emergenti è necessaria un’azione urgente per ridurre le emissioni dei ricchi per permettere ad alcuni gruppi finora svantaggiati di aumentare i loro livelli di emissioni nei prossimi decenni.

La crisi climatica va sostanzialmente pagata da quel 1% di popolazione più ricca. Se non si adottano ora politiche di ridistribuzione della ricchezza la crisi climatica non si potrà risolvere. Questo il messaggio per i “grandi” che urlano gli attivisti climatici. Per questo è vero che i “leader” sono loro. Perché hanno capito che per avere un futuro si deve agire radicalmente e globalmente subito e continuare nel medio-lungo periodo. Perché sanno che altrimenti non ci sarà più un futuro per nessuno.


Per approfondire, leggi Left del 29 ottobre 2021

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Le pensioni che gli interessano davvero

Italy's Prime Minister Mario Draghi listens to Minister for Economic Development Giancarlo Giorgetti, left, at the Senate in Rome Wednesday, Feb. 17, 2021, before submitting his government to a vote of confidence. (Yara Nardi/Pool via AP)

L’Osservatorio sui Conti pubblici italiani, diretto da Carlo Cottarelli, in una sua analisi racconta che 661 parlamentari su 945 – quasi il 70% degli eletti – perderebbero la pensione se si dovesse andare a votare prima del 24 settembre del 2022.

Come spiega Cpr nel 2012 il vitalizio spettante ai parlamentari al termine del loro mandato è stato sostituito con un trattamento pensionistico simile a quello applicato per gli altri lavoratori, anche se con qualche importante differenza.

Per i parlamentari eletti per la prima volta a partire dal 1 gennaio 2012, il sistema di calcolo della pensione parlamentare è di tipo puramente contributivo. La pensione viene erogata al compimento dell’età di pensionamento pari a 65 anni, anche se per ogni anno di ulteriore mandato oltre la prima legislatura, il parlamentare può anticipare il pensionamento di un anno, sino a un’età minima di 60 anni. La riforma ha però previsto che i parlamentari possano richiedere il trattamento pensionistico solo nel caso in cui abbiano completato almeno un mandato parlamentare della durata di 5 anni. In realtà, a causa del sistema di calcolo semestrale utilizzato, per maturare il diritto alla pensione è sufficiente essere stati in carica per 4 anni, 6 mesi e un giorno nel corso della stessa legislatura. Nel caso questo periodo minimo non sia stato raggiunto, i contributi sociali pagati dai parlamentari sono persi completamente, non potendo essere riagganciati a quelli relativi ad altre attività lavorative. Questo sistema è punitivo rispetto a quello spettante agli altri cittadini, i cui contributi di norma non vengono persi in presenza di un cambiamento di attività.

La perdita per chi non raggiunge il sopra indicato periodo minimo è elevata. Per un deputato che arrivasse a quattro anni e sei mesi di mandato, i contributi versati sarebbero di circa 50 mila euro.

La notizia non è di poco conto perché si incastra con l’elezione del prossimo presidente della Repubblica, là dove in molti vorrebbero mettere Mario Draghi (al di là della spaventosa ipotesi di Silvio Berlusconi). Solo che per mettere Draghi presidente della Repubblica significa sostanzialmente inventarsi un altro governo che sia la fotocopia di questo, senza passare dalle urne che tutti fingono sempre di invocare poi non vogliono mai alla prova dei fatti. Forse è per questo che qualcuno come Giorgetti si spinge addirittura a un invocare un “semi-presidenzialismo” con Draghi che dirige dal Quirinale (e magari Daniele Franco a fargli da controfigura come presidente del Consiglio). Ora, al di là del fatto che a Giorgetti sfugge che il suo sogno abbia bisogno di una modifica della Costituzione, si capisce che, come al solito, c’è una maggioranza intergruppo che attraversa il Parlamento e che farà di tutto per evitare le elezioni.

Non è dietrologia: vale la pena ricordarselo quando seguiremo il turbinio per la presidenza della Repubblica. I discorsi spesso sono alti, gli interessi infinitamente meno.

Buon mercoledì

Il populismo dei migliori

Prospettiva Socialista, collettivo di controdeduzione critica sulla società contemporanea, su twitter lo spiega lucidamente: Quando il Governo di Mario Draghi ha giurato, nell’opinione pubblica si respirava un’aria di conciliazione nazionale dopo i battibecchi del 2020. Questo governo serviva a tutti. Questa narrazione, forse nella sua ingenuità, è l’antitesi della democrazia come l’abbiamo conosciuta. Nel campo della ragionevolezza e della tolleranza, la democrazia è questo: conflitto perpetuo tra idee e quindi interessi contrastanti nella società. Dall’altro capo, sfruttando spesso la narrazione secondo cui non esisterebbero più le ideologia, si sostiene l’idea di un personaggio messianico in grado di appacificare questi interessi contrastanti. Non è una storia nuova: si pensi che Fritz Lang venne accusato di nazismo proprio in virtù dell’ultima scena di Metropolis che, secondo alcuni, avrebbe abbracciato la narrazione interclassista propria del nazismo. E di certo non è tipica solo del marxismo, come narrazione: perfino due autori moderati come Acemoglu e Robinson hanno individuato nel conflitto per l’allocazione delle risorse il fondamento, de facto, del potere politico. Quella del Personaggio voluto dal Fato, un novello figlio di Asinio Pollione, potrebbe essere ingenuità. Ma a voi la scelta: l’alternativa è che chi la predica ha ben compreso la natura conflittuale, ma ha scelto di stare dalla parte del più forte.

Sarebbe il caso di rendersene conto in fretta, escludendo gli interessati commentatori bari che non vedono l’ora di far passare una certa ideologia padronale come salvezza collettiva, perché un governo del popolo non può esistere semplicemente perché non esiste un solo popolo. Esistono condizioni e situazioni diverse che richiedono diversi interventi. Questo è esattamente il populismo che dicono di voler combattere. Non siamo tutti sulla stessa barca, nonostante facciano di tutto per convincercene. Il figlio di chi ha un genitore che può garantirgli una casa, un lavoro quasi finto e un patrimonio per non avere preoccupazioni per un paio di generazioni è molto diverso da chi fatica a pagare un mutuo che è riuscito a strappare ipotecando l’unica casa dei suoi genitori e deve accettare qualsiasi lavoro per avere uno stipendio qualsiasi poiché inizia ogni mese con un debito da onorare.

Quando riusciremo una volta per tutte a essere leali su questo punto allora possiamo tornare a parlare di politica, uscendo da questo brodino che ci propongono tutte le sere chiamandoci uguali perché tutti italiani. Solo riconoscendo le diversità si riesce a dare un nome ai propri bisogni e a quel punto si riesce ad ascoltare le soluzioni che no, non valgono “per l’Italia” ma valgono per i diversi contesti. E così magari i nostri leader di partito smettono di fare a gara tra chi lecca meglio l’amministratore delegato Draghi e cominciano a fare politica, sul serio.

Buon martedì.

 

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Cop26 e global warming. Non c’è più tempo per i bla, bla, bla

Tic toc, tic toc. Bla, bla, bla. Sono i due suoni che ho in testa mentre cerco di prendere sonno a 10mila metri sull’oceano Atlantico. Tic toc è il suono del tempo che passa. Più precisamente il tempo che ci resta a disposizione per invertire rotta ed evitare la catastrofe climatica. La scienza ci dice che ci restano 9 anni per dimezzare le emissioni rispetto ai livelli del 2010, e che dal 2030 al 2050 dobbiamo raggiungere emissioni nette zero.

Blah, blah, blah è lo slogan con cui il movimento dei giovani attivisti di Fridays for future accusa i governanti di parlare molto e agire poco sul clima. Ed in effetti non hanno torto. L’ultimo rapporto della segreteria della Convezione Onu sul clima che analizza l’insieme di tutti i piani nazionali di mitigazione delle emissioni dice che, pur assumendo che tutte le misure siano messe in atto – e non è affatto detto che lo siano – le emissioni globali al 2030 saranno aumentate del 16%, invece di diminuire del 50%. Il gap tra scienza e politiche resta enorme. Tic toc e bla, bla, bla mentre provo a prendere sonno.

Sono in viaggio da Washinton DC, dove lavoro al Fondo mondiale per l’ambiente presso la Banca mondiale, verso Glasgow, in Scozia, dove capi di Stato e primi ministri di più di 130 Paesi si riuniscono dal 31 ottobre per la Conferenza del clima delle Nazioni Unite, la Cop26. Di Cop ce ne sono state molte. 26 per la precisione. Ma non tutte le Cop sono uguali. Ogni cinque o sei anni ce n’è una speciale, più importante. Nel 2009, a Copenaghen, fu un disastro. I Paesi chiamati a discutere che fare dopo il fatidico 2012, l’anno in cui il Protocollo di Kyoto in pratica avrebbe, se non rinnovato, perso la sua forza come strumento di attuazione della Convenzione, non riuscirono ad accordarsi, generando il caos nel panorama climatico internazionale. Ci vollero 6 anni per mettere un po’ d’ordine.

A Parigi, nel 2015, si raggiunse un accordo storico, anche se non senza difficoltà e critiche. L’accordo diceva che i firmatari – ad oggi più di 190 Paesi – si accordavano a mettere in atto misure nazionali autodeterminate per limitare l’aumento della temperatura al di sotto dei due gradi, e meglio ancora di un grado e mezzo. Come condizione fondamentale affinché i Paesi in via di sviluppo – inclusi Cina, India e Brasile in testa al gruppo – chiesero ed ottennero un impegno da parte delle economie più avanzate di mettere sul tavolo 100 miliardi di dollari all’anno, a partire dal 2020. Le ultime stime indicano che questa cifra non è stata raggiunta, e che tra 2020 e 2021 sono stati racimolati solo 80 dei 200 miliardi che sarebbero dovuti essere messi a disposizione. Certamente non un buon punto di partenza per il negoziato a Glasgow.

La questione delle risorse messe sul tavolo resta la più importante per il successo di questa Cop26. E’ una questione di fiducia tra le parti: senza i 100 miliardi all’anno sembra difficile che i paesi in via di sviluppo possano essere convinti an adottare obiettivi climatici in linea con l’Accordo di Parigi ed a intraprendere le trasformazioni economiche necessarie per raggiungere emissioni nette zero prima del 2050. E ricordiamoci che la quasi totalità dell’aumento delle emissioni si aspetta proprio nei Paesi in via di sviluppo, che dovranno nei prossimi tre decenni fornire energia, cibo, abitazioni moderne e con aria condizionata e mezzi di trasporto a centinaia di milioni di persone che ad oggi non le hanno.

La seconda priorità, strettamente collegata con la prima, riguarda gli sforzi per mantenere viva la speranza di poter limitare il riscaldamento globale sotto i 1.5 gradi al 2100. Ad oggi, siamo già a 1.1 gradi, non manca molto. Come dicevo prima, il gap resta enorme e piani nazionali molto più ambiziosi sono disperatamente necessarie. Secondo l’analisi del Climate Action Tracker, una organizzazione misura il livello di adeguatezza dei piani nazionali, solo la Gambia sembra aver annunciato misure che sono in linea con l’ambizione di Parigi. Tutti gli altri vanno da completamente inadeguato a non sufficiente. Molti osservatori avevano sperato in un segnale forte da parte degli Stati Uniti, che con la presidenza Biden avevano segnalato una volontà forte di rimettersi alla guida del negoziato sul clima e di fare la loro parte sia in termini di risorse che di politiche nazionali.

Biden ha recentemente annunciato il suo obiettivo di raggiungere la neutralità climatica, ovvero zero emissioni nette, al 2050, ristabilendo in qualche modo la credibilità degli Stati Uniti nell’ambito del negoziato. Ma oggi è chiaro che la strada intrapresa da Biden resta in salita. E non di poco. La legislazione cardine del suo piano per il clima, inserito nella legge con cui si dovrebbe approvare lo stimolo sulla ripresa economica, il più grande dai tempi del New Deal di Roosevelt, resta in ostaggio di due senatori, Joe Manchin (Dem-West Virginia) e Kirsten Sinema (Dem-Arizona), in un senato in cui i Democratici hanno una maggioranza risicatissima si un seggio. Dei due senatori, sulla carta Democratici, uno viene dallo Stato con la più alta produzione di carbone in America, la West Virginia. Resta da vedere se il senato riuscirà ad approvare la legislazione in tempo per legittimare l’agenda di Biden al G20 e alla Cop26.

Altri elementi all’ordine del giorno che rendono questa Cop cosi delicata includono la richiesta dei Paesi più vulnerabili di fondi per la riparazione del danno da danni già ad oggi causati dal global warming e la negoziazione di meccanismi di trasferimento di porzioni di riduzione delle emissioni da uno Stato all’altro. Entrambe queste questioni sono in agenda già da varie Cop, e non scommetterei un soldo sul fatto che si possa raggiungere una soluzione nelle prossime due settimane, anche se la speranza resta.
La pressione che la scienza e il movimento dei giovani stanno creando continua ad aumentare. Urgenza di allineare le politiche climatiche con l’ambizione di Parigi e l’equità intergenerazionale restano al centro dell’attenzione mediatica, ma non sono ancora riuscite a cambiare le sorti delle negoziazioni. Tic toc, tic toc. Bla, bla, bla.


Per approfondire, leggi Left del 29 ottobre 2021

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La legge di sbilancio

Foto FABIO FRUSTACI/LaPresse/POOL Ansa28-10-2021 Roma - ItaliaPoliticaIl presidente del Consiglio, Mario Draghi (S), il ministro dell’economia, Daniele Franco, durante la conferenza stampa al termine della riunione del consiglio dei ministri sulla prossima legge di bilancio.Photo FABIO FRUSTACI/LaPresse/POOL Ansa28-10-2021 Rome -ItalyPoliticsCouncil of Ministers, press conference on the budget law

Circolava perfino una certa soddisfazione nelle settimane in cui Mario Draghi difendeva a spada tratta il reddito di cittadinanza (o almeno il suo principio) mentre i liberisti più spinti lo bombardavano da ogni lato confidando in suo affondamento. Ad un certo punto avrebbe potuto subentrare anche un certo gusto nel vedere deluse le speranze di chi con la sua battaglia per la demolizione del reddito di cittadinanza non vedeva l’ora di accreditarsi come il liberista più liberista egli altri. Anche coloro che contro il reddito di cittadinanza avevano lanciato uno scintillante referendum alla fine erano ritornati in buon ordine (ovviamente in sordina, perché non si sapesse della loro magra figura di capi popolo senza popolo) a più miti consigli.

Ora invece ci si può tranquillamente disilludere: la legge di bilancio del governo dei migliori promette di mantenere tutte le peggiori aspettative in termine di rafforzamento delle disuguaglianze. La differenza tra Draghi e gli altri è sempre la stessa: fare senza dire e farlo con un’elegantissima educazione. La riforma del reddito di cittadinanza così come pensata infatti riesce nel miracoloso risultato di non essere più un freno allo sfruttamento e al ribasso dei salari rendendo ben felici i politici più confindustriali. Come spiega benissimo Marta Fana la riforma prevede che l’ammontare del reddito di cittadinanza venga trasferito direttamente alle imprese anche se l’offerta di lavoro riguarda contratti a termine, in apprendistato o in somministrazione, anche part-time. Offerte di lavoro che i lavoratori non potranno rifiutare per non perdere il beneficio del sussidio. Si costringono così i lavoratori ad accettare qualsiasi offerta (anche la più vergognosa) e si trasferiscono i sussidi dalle persone alle imprese anche se queste offrono sfruttamento e precarietà esattamente come chiedeva Confindustria e tutta la sua corte. Come sottolinea l’associazione “Up – su la testa” inoltre i suoi percettori vedranno il loro assegno ridursi di 5 euro al mese fin quando non sottoscrivono un contratto di lavoro. Non conta se riceveranno o meno un’offerta, dal primo giorno di reddito parte un conto alla rovescia con la costante minaccia di perdere il sostegno. Una misura che avrebbe dovuto disarticolare un mercato del lavoro che rende schiavi ora con un piccolo ritocco riesce a ottenere il risultato opposto. Chapeau.

A questo si aggiunga anche un trucco per abbassare ulteriormente i salari con l’apprendistato che continua a esistere senza avere più nessun significato, permettendo di assumere come apprendisti lavoratori indipendentemente dalla loro età, dalla loro esperienza acquisita se questi si trovano in Cig. Anche in questo caso è bastata la retorica della riqualificazione (che ormai sempre di più è semplicemente un sinonimo di riciclaggio al ribasso di forza lavoro) per giustificare un abominio.

E se è vero che passa da 2 a 52 milioni il fondo per gli sgravi contributivi alle imprese che riducono il divario salariale tra lavoratori e lavoratrici vale la pena segnalare che nella legge vengono previsti circa 290 milioni di euro per ciascuno degli anni 2022, 2023, 2024 per la pianificazione e la realizzazione degli eventi del Giubileo 2025. Tanto per dare un’idea delle priorità.

L’importante è fare e non dire. Tutto diventa così tremendamente elegante.

Buon lunedì.

Nella foto: il presidente del Consiglio Draghi e il ministro dell’Economia Franco

 

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Arte e scienza, tre stazioni per incontrarsi

Ne usciremo migliori” era il mantra piuttosto naïve che ci ha accompagnato nel pieno della pandemia. Non era vero, ma forse dal mondo della cultura qualcosa di migliore sta venendo fuori. Un’urgenza, una spinta propositiva, spunti nuovi di riflessione su temi antichi come il rapporto tra arte e scienza. La mostra inaugurata il 12 ottobre al Palazzo delle Esposizioni di Roma, Tre stazioni per Arte-Scienza, è proprio questo. Intanto nelle proporzioni: in realtà si tratta di un tris di mostre che riempie quasi ogni spazio della sede espositiva. Una di taglio artistico (Ti con zero); una di impianto scientifico (Incertezza. Interpretare il presente, prevedere il futuro); la terza storico-scientifica (La scienza di Roma. Passato, presente e futuro di una città). Esposizioni legate l’una all’altra da un fil rouge che è «l’incontro tra i diversi saperi che il concetto di ricerca intende evidenziare» come dice Cesare Pietroiusti, presidente dell’Azienda speciale Palaexpo che ha realizzato gli allestimenti.

Gli artisti esposti in Ti con zero riflettono sulla pandemia. Dora Budor riutilizza le rane adoperate da Anderson nel film Magnolia per alludere alla minaccia incombente, all’evento straordinario che stravolge la normalità, come la pioggia di rane nel film e come un nuovo virus che blocca l’intero pianeta. E riflette sulla pandemia, fin dal titolo, la mostra Incertezza, che prova a fare i conti con chi nell’era delle post-verità ha usato proprio l’incertezza con cui la scienza ha imparato a convivere per screditarne i risultati. Ma quello che si avverte in tutte e tre le mostre è il tentativo di metabolizzare la grande paura globale, di ricondurla nell’alveo delle tematiche scottanti del nostro tempo (crisi climatica, big data, frontiere della genetica), di provare a darne una prima visione prospettica e di cercare nelle robuste radici della propria storia la forza per riemergere.

I trenta artisti, italiani e non, già affermati (Pierre Huyghe, Tacita Dean, Giuseppe Penone) o emergenti (Revital Cohen, Tega Brain, Jenna Sutela), si misurano con i linguaggi delle scienze o propongono al visitatore un percorso esperienziale dove sono affrontati temi prettamente scientifici, come lo sfruttamento delle risorse terrestri o lo scioglimento delle calotte polari. Come nella cartografia immaginaria dell’islandese Rúrí, dove i dati satellitari servono a disegnare mappe terrestri che distinguono i territori che andranno perduti nel prossimo futuro, in una sorta di…


L’articolo prosegue su Left del 29 ottobre 2021

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