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Mangiare meno, vivere meglio

«In mancanza di azioni concrete, il mondo rischia di non soddisfare gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdgs) dell’Onu e l’Accordo di Parigi, e le future generazioni erediteranno un pianeta gravemente danneggiato in cui gran parte della popolazione soffrirà sempre più di malnutrizione e malattie prevenibili». Inizia con questo monito il rapporto preparato dalla Commissione Eat-Lancet su diete sane da sistemi alimentari sostenibili.

Entro il 2050, la popolazione mondiale sarà di 10 miliardi di persone, e con tale crescita aumenterà anche la domanda alimentare senza contare che le regioni più sviluppate del pianeta consumano più cibo di quanto necessitano e molti tipi di alimentazione sono ricchi di prodotti che impattano negativamente sull’ambiente.

Per garantire cibo a sufficienza per le generazioni future e al tempo stesso minimizzarne l’impatto ambientale, è necessario passare a produzioni alimentari più sostenibili e cambiare le nostre abitudini a tavola. È infatti ben noto come le scelte alimentari abbiano un impatto rilevante sul consumo di acqua, l’utilizzo delle terre, produzione di gas impattanti sui cambiamenti climatici, oltre che, naturalmente, su numerosi aspetti sociali, etici ed economici che minacciano la sicurezza alimentare futura.

È ovvio che un tema di tale portata dovrà essere considerato innanzi tutto nelle politiche agricole ed economiche e nelle strategie di intervento sul territorio, ma anche nei programmi di educazione alimentare e nelle linee guida per l’alimentazione con l’intento di aumentare la consapevolezza del consumatore alle problematiche emergenti e a cui tutti siamo chiamati a dare una risposta.

In quest’ottica, per la prima volta in Italia nelle edizioni delle Linee guida per una sana alimentazione, è stata presa in considerazione una direttiva dedicata alla sostenibilità, e questo perché oggi sappiamo che la salute dell’uomo non può prescindere dalla salute dell’ecosistema. Definire l’adeguatezza della dieta anche in termini di sostenibilità è difficile dal momento che devono essere presi in considerazione non solo gli aspetti di carattere squisitamente nutrizionale (es: come assicurare tutti i nutrienti), ma anche quelli alimentari (es: come scegliere gli alimenti in funzione della qualità dei nutrienti), di comodità d’uso e del recupero di tradizioni e tipicità. A tutti questi aspetti si devono però aggiungere anche importanti considerazioni riguardo la sostenibilità.

Secondo una definizione della Fao, «le diete sostenibili sono quelle che hanno un basso impatto ambientale e che contribuiscono alla sicurezza alimentare e nutrizionale e a una vita sana per le generazioni presenti e future. Le diete sostenibili sono rispettose della biodiversità e degli ecosistemi, culturalmente accettabili, accessibili, economicamente eque e convenienti, nutrizionalmente adeguate, sicure e salutari, favorendo allo stesso modo l’ottimizzazione delle risorse naturali e umane».

Quali comportamenti e quali scelte alimentari può fare il consumatore in relazione all’impatto ambientale?

Il consumatore può fare molto per la propria salute e per la tutela dell’ambiente attraverso le proprie scelte alimentari come ad esempio consumare meno cibo, sprecarne di meno e ridurre il consumo di prodotti alimentari di origine animale, optando per alternative di origine vegetale. In particolare, la tendenza al sovraconsumo alimentare è molto diffusa nel mondo occidentale estendendosi ai Paesi in via di sviluppo, soprattutto in economie emergenti come Cina e Brasile. La conseguenza di una alimentazione eccessiva non è solo quella di provocare un aumento del sovrappeso e dell’obesità ma al tempo stesso determina una superflua domanda alimentare che fa aumentare coltivazioni e allevamenti e il loro conseguente impatto ambientale. Tutto questo a discapito di molte regioni del pianeta dove è ancora alto il numero di persone denutrite.

Altro tema dominante è quello dello “spreco alimentare”, termine che si riferisce comunemente al cibo non consumato, che dunque si trasforma in rifiuto e in dispersione di risorse. Secondo la Direzione generale dell’Ambiente della Commissione europea, la fase del sistema agroalimentare in cui vi sono maggiori sprechi e perdite è quella del consumo casalingo (43%). Questo dato è confermato anche dalle stime italiane secondo cui il 53% dello spreco alimentare si realizza lungo la filiera di produzione e distribuzione e il restante 47% è responsabilità dei consumatori. A livello internazionale si sta ponendo sempre maggiore attenzione alle misure di prevenzione volte al recupero delle eccedenze alimentari. Molti Paesi, tra cui l’Italia, stanno adottando formalmente impegni di riduzione degli sprechi e delle perdite alimentari. In Italia nel 2016 è stata approvata una legge finalizzata proprio alla donazione e distribuzione di prodotti alimentari e farmaceutici a fini di solidarietà sociale e per la limitazione degli sprechi. La legge prevede la promozione di campagne informative per incentivare la riduzione dei rifiuti alimentari con specifica attenzione alle pratiche virtuose nelle attività della ristorazione per sensibilizzare consumatori e produttori.

Mangiare meno scegliendo alimenti vegetali

I motivi che devono spingerci a una tale scelta sono da una parte legati al fatto che la produzione di alimenti di origine animale determina un maggiore impatto ambientale in termini di sfruttamento delle risorse agricole e idriche e emissioni di CO2 per tonnellata di proteine consumate rispetto a quelle di origine vegetale. D’altro canto il maggior consumo di alimenti di origine vegetale determina un maggior beneficio per la salute in quanto è associato ad un minor rischio di ipertensione, ictus, diabete di tipo 2 e alcune forme di cancro. A tale scopo per comprendere meglio il modello della dieta sostenibile, il gruppo di lavoro di Eat-Lancet, ha ideato il piatto sano e sostenibile.

Come indicato in figura circa metà del piatto dovrebbe essere composto da verdura e frutta, seguono le fonti di carboidrati rappresentati dai cereali integrali e da un piccolo spicchio di vegetali amidacei, come le patate.

Per quanto riguarda gli alimenti fonte di proteine, la preferenza dovrebbe essere data soprattutto a quelle di origine vegetale come legumi e frutta a guscio, seguono i formaggi magri, pesce, uova, carni bianche e carne rossa. Tra i grassi preferire quelli che sono fonte di grassi insaturi come olio extravergine d’oliva e altri oli vegetali. Infine, una piccola porzione del piatto è coperta dagli zuccheri aggiunti. Questi ultimi devono essere, infatti, limitati il più possibile, un eccesso può favorire le condizioni di sovrappeso e obesità, che a loro volta sono un fattore di rischio per le patologie più diffuse nei Paesi occidentali.

L’analisi dell’impatto ambientale dei diversi modelli alimentari, da quelli a forte componente vegetale a quelli con elevati contenuti di carne, risulta molto importante sia in termini di emissione di CO2 (impronta del carbonio) che di consumo di risorse idriche (impronta idrica) e di utilizzo del suolo (impronta ecologica). Diversi studi hanno dimostrato come un aumento della quantità di carne nella dieta contribuisca in modo significativo ad un aumento della richiesta di terreno agricolo, dell’emissione di gas serra e del consumo d’acqua.

La dieta mediterranea, esempio di sostenibilità

Riconosciuta dall’Unesco come patrimonio culturale immateriale dell’umanità, la dieta mediterranea è uno stile di vita che enfatizza una serie di valori, i cui vantaggi abbracciano molteplici aree, tra cui l’ambiente. Dal punto di vista alimentare il modello alimentare mediterraneo predilige il consumo di verdura, frutta, cereali (preferibilmente integrali), fonti di proteine vegetali (legumi), frutta secca e l’utilizzo di olio di oliva, mentre prevede un consumo moderato o limitato di uova, pesce, carne, latte e i suoi derivati.

Nel 2016, l’International foundation of Mediterranean diet (Ifmed) con la pubblicazione della Met Diet 4.0, ha proposto la Nuova piramide della dieta mediterranea con l’obiettivo di spostare la percezione dei benefici di questo modello da una particolare attenzione per l’uomo, a un focus sui benefici per il pianeta e le sue popolazioni. Il nuovo modello di dieta mediterranea identifica quattro vantaggi come modello alimentare sostenibile: 1. Miglioramento della salute; 2. Minor impatto ambientale e ricchezza della biodiversità; 3. Alto valore socioculturale; 4. Ritorni positivi sull’economia locale. Questa dieta infatti incentiva il consumo stagionale di prodotti freschi e locali, la biodiversità e la varietà di cibi, stimola le attività culinarie tradizionali, la convivialità e la frugalità e inoltre rispetta la territorialità, il che può giovare alle economie locali.

Appare chiaro dalle considerazioni sino ad ora fatte che tutti possiamo (ma soprattutto dobbiamo) contribuire a fare di più per la nostra salute e per la tutela dell’ambiente, ne vale per il nostro futuro ma soprattutto per quello delle generazioni che verranno. Al consumatore non sono richieste grandi azioni se non rivedere le proprie scelte quotidiane motivandole per i benefici che si potranno ottenere sia nel breve termine come miglioramento del proprio stato di salute, che nel lungo termine a vantaggio di un pianeta più sostenibile.


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Clima rovente tra i Paesi grandi inquinatori

An aerial view shows a massive collage of 125,000 drawings and messages from children from around the world about climate change seen rolled out on the Aletsch Glacier at an altitude of 3,400 metres near the Jungfraujoch in the Swiss Alps smashing the world record for giant postcards, on November 16, 2018. - The mosaic of postcards, measuring 2,500 square metres (26,910 square feet), was laid out in the snow to "boost a global youth climate movement ahead of the next global climate conference (COP24) in Poland", next month, said the WAVE foundation, which organised the event in cooperation with Swiss authorities. (Photo by Fabrice COFFRINI / AFP) (Photo by FABRICE COFFRINI/AFP via Getty Images)

Fino al 12 novembre 2021 si svolge a Glasgow la 26esima Conferenza delle parti (Cop26) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che riunisce i rappresentanti di 197 governi e coinvolge scienziati, organizzazioni della società civile e movimenti politici in una serie di incontri che si terranno a margine dei negoziati e che rivestiranno un’importanza non secondaria.

Il governo britannico e il governo italiano, che guidano la Conferenza, hanno già messo al centro delle agende internazionali del 2021 il tema della lotta ai cambiamenti climatici, avendo presieduto rispettivamente il G7 e il G20. La Cop26 rappresenta quindi la conclusione di un percorso che, si spera, possa portare ad accordi giuridicamente vincolanti per ottenere risultati concreti nella lotta contro i cambiamenti climatici.

La Convenzione sui cambiamenti climatici, entrata in vigore nel 1994, è stata “lanciata”, insieme alle Convenzioni internazionali sulla biodiversità e sul contrasto alla desertificazione, in occasione della storica Conferenza di Rio de Janeiro del 1992 (il Summit della Terra). Ogni anno, dal 1995, la Conferenza delle parti si riunisce per assumere decisioni che possono determinare mutamenti significativi nelle politiche nazionali e gli impegni che saranno assunti in questa 26a Conferenza rivestiranno certamente un’importanza cruciale per lo sviluppo di gran parte delle società e delle economie del Pianeta.

Nelle due settimane dei negoziati che si svolgeranno presso lo Scottish event campus di Glasgow, oltre alla 26esima Conferenza della convenzione, si terranno in parallelo la…


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Logica del profitto versus qualità della vita

Climate change, compare image with Drought, Green field and Ocean metaphor Nature disaster, World climate and Environment, Ecology system.

Nel 1991, su una delle principali riviste di economia (The economic journal, “To slow or not to slow. The economics of greenhouse effect”) William D. Nordhaus calcolava in che misura fosse conveniente contenere le emissioni dei gas serra, confrontando i costi e i benefici monetari delle alterazioni climatiche del pianeta con i costi di abbattimento delle emissioni stesse. Tra gli scenari di questo folle esercizio, si considerava anche che istituzioni, popolazioni e mercati potessero adattarsi in modo automatico al disastro che si andava prefigurando: «Se determinate aree diventano improduttive, lavoro e capitale migrerebbero in regioni più produttive. Se il livello del mare aumenta, gli insediamenti si ritirerebbero gradualmente verso l’alto» ecc. Nordhaus affermava inoltre che, per gli Stati Uniti e gli altri Paesi avanzati, «il cambiamento climatico verosimilmente produrrà una combinazione di guadagni e perdite senza sostanziali danni economici netti». Insomma, al crescere delle preoccupazioni sul riscaldamento globale – ricordiamo che si era alla vigilia del primo summit mondiale sull’ambiente – Nordhaus si affrettava a dire che non c’era da allarmarsi poi troppo. L’anno successivo l’Economist (15 febbraio 1992) riportava un memorandum in cui il capo economista della World Bank, L. Summers, affermava: «I costi dei danni alla salute dipendono dai mancati guadagni per morbilità e mortalità. Dunque…la logica economica dietro lo scarico dei rifiuti tossici nei Paesi con salari più bassi è impeccabile… Ho sempre pensato che i Paesi sotto-popolati in Africa siano enormemente sotto-inquinati». Nordhaus ha seguitato ad occuparsi del problema ricevendo, nel 2018, piuttosto che una denuncia per crimini contro l’umanità, quel premio istituito dalla banca di Svezia impropriamente detto “Nobel per l’economia”. Nelle motivazioni si legge: «Per aver integrato il cambiamento climatico nell’analisi macroeconomica di lungo periodo». Summers divenne segretario al Tesoro con Clinton, poi consigliere di Obama, ed oggi è uno dei più influenti economisti statunitensi. Le nuove generazioni, che rischiano di veder compromesso il loro futuro, sapranno chi ringraziare.

Il modo in cui è affrontata la questione ambientale, di cui questi sono solo due esempi, è la conseguenza di…


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Il richiamo delle foreste

FILE - In this Aug. 23, 2020 file photo, cattle graze on land recently burned and deforested by cattle farmers near Novo Progresso, Para state, Brazil. Brazil's government will accelerate its timeline by two to three years to completely eliminate illegal deforestation, Vice President Hamilton Mourão told foreign press reporters on Monday, Oct. 25, 2021. (AP Photo/Andre Penner, File)

L’obiettivo principale della Cop26 è mettere il mondo sulla strada giusta per rispettare l’Accordo di Parigi, approvato in occasione della Cop21 sei anni fa. L’accordo impegna i 192 Paesi che lo hanno ratificato a «contenere il riscaldamento globale ben al di sotto di 2°C rispetto ai livelli pre-industriali» e «perseguire gli sforzi per rimanere entro 1,5°C». Il rapporto dell’Ipccc (il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico), la massima autorità scientifica mondiale sui cambiamenti climatici, presentato tre mesi fa, ha valutato che finora il global warming sia stato pari a 1,2°C e che per stare sotto la soglia di 1,5°C la comunità mondiale dovrebbe dimezzare le emissioni globali di gas-serra registrate nel 2015 entro il 2030 e arrivare a un budget “netto pari a zero” tra emissioni ed assorbimenti di carbonio verso l’atmosfera e dall’atmosfera entro il 2050.

Nei mesi scorsi diversi leader, tra cui il premier britannico Boris Johnson e il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, e figure di spicco dei colloqui sul clima, come John Kerry, inviato speciale Usa sul clima, hanno ammesso che i tagli alle emissioni finora dichiarati dai Paesi, noti come Nationally determined contributions (Ndc), sono troppo deboli per centrare i target dell’Accordo di Parigi e che difficilmente potremo evitare un riscaldamento di almeno 3°C.

Di fronte alla riluttanza di alcuni tra i Paesi maggiori em


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Il governo Draghi alla canna del gas

MILAN, ITALY - SEPTEMBER 30: (L-R) Mario Draghi President of the Council of Ministers of the Italian Republic and Roberto Cingolani Minister of the ecological transition attends the Pre-COP26 on September 30, 2021 in Milan, Italy. On the final day of the pre-COP26 climate change summit in Milan, some 400 young activists from 180 countries met for thematic working groups before addressing and debating with ministers attending the UN climate change conference COP26 in Glasgow this November. (Photo by Stefano Guidi/Getty Images)

Chi in questi anni ha seguito il dibattito sui temi energetici non aveva dubbi: al primo rialzo di gas ed elettricità ci avrebbero di certo riprovato. A dare la colpa del caro bollette alle rinnovabili, ovviamente, e alla transizione ecologica. Come avvenne nel 1998, quando il primo tentativo di carbon tax, voluto dal ministro verde Edoardo “Edo” Ronchi, che funzionava applicando un’imposta di duemila miliardi annui delle vecchie lire ai produttori di combustibili fossili, e assicurando uno sgravio di pari importo sul costo del lavoro, fu stroncato alla prima oscillazione dei costi petroliferi.

Ma stavolta siamo nel 2021, il dibattito pubblico e la consapevolezza – per fortuna – almeno un po’ sono andati avanti, e, anche se il tentativo c’è sicuramente stato, per l’ennesima volta, di usare il rialzo del prezzo del gas per dare un nuovo stop alle energie pulite, stavolta è stato sonoramente rispedito al mittente. No, hanno risposto in coro, l’Agenzia internazionale dell’energia, l’Unione Europea, persino Francesco Starace, l’ad di Enel, la colpa non è della transizione ecologica, o degli incentivi che si pagano in bolletta per le energie rinnovabili: al contrario, la colpa è del fatto che siamo ancora troppo legati al fossile, e che non abbiamo abbastanza energie pulite nel nostro mix elettrico.

Non stiamo pagando la transizione ecologica, stiamo pagando il non averla ancora fatta.

E stiamo anche pagando, senza averli mai diminuiti neppure di un centesimo, nonostante le promesse di questo e dei passati governi, dai 20 ai 35 miliardi di euro annui di incentivi alle fonti fossili: soldi che non vediamo in bolletta, come quelli per le rinnovabili, ma che pesano comunque sulla nostra dichiarazione dei redditi, essendo a carico della fiscalità generale.

La soluzione quindi non è pagare di meno il gas, abbassandone l’Iva al 5%, come ha fatto con lesta operazione demagogica il governo Draghi, ma…


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Il South working che terrorizza Brunetta

Man sitting on the beach and using laptop

Si è acceso da alcune settimane il dibattito sullo smart working, alimentato soprattutto dagli attacchi continui da parte del ministro della Pubblica amministrazione Brunetta, che ha dichiarato che il lavoro da casa è stato fatto da tutti i lavoratori “all’italiana”, quasi fosse un disvalore. È vero, gli italiani durante la pandemia si sono dovuti “arrangiare” da casa, utilizzando la propria connessione, computer e stampanti, senza chiedere nulla e con una altissima produttività, solo per salvare il Paese. Come chiedevano tutti, anche i media, nel periodo peggiore del lockdown. Allora non sembrava fosse negativo lavorare da casa per salvaguardare la produttività delle aziende, a maggior ragione dato che in Italia, a fronte di questo uso di risorse messe a disposizione dal lavoratore a proprie spese, non è stato riconosciuto nulla, nemmeno un buono pasto, mentre in Spagna rifondono le spese, in Olanda si riceve un contributo di 360 euro al mese e in Canada si propone una detassazione di 400 dollari ai lavoratori in smart working.

A fronte di questi sacrifici fatti dai lavoratori italiani, senza chiedere nulla in anticipo, ci è toccato perfino sentire alla Camera le parole poco generose rivolte ai lavoratori da parte di Brunetta. Il ministro ha fissato al 15% la quota di dipendenti che possono usufruirne. Intanto 3,2 milioni di statali sono tornati al lavoro in presenza il 15 ottobre. Le motivazioni si possono riassumere in tre punti: l’assenza di un contratto collettivo che regoli il lavoro da remoto, l’inadeguatezza dei sistemi informatici di supporto e la scarsa efficienza della forza lavoro, data anche l’assenza, a suo dire, di sistemi di monitoraggio. Per quel che riguarda le prime due osservazioni, basterebbe semplicemente attivarsi per colmare le lacune evidenziate. Sulla terza, invece, è evidente il pregiudizio che caratterizza il ministro verso gli statali, visti come unici responsabili dei problemi del comparto.

Tanta avversione verso lo smart working è poco comprensibile, soprattutto considerando che il World economic forum ha calcolato che negli Usa il ricorso a questa forma di lavoro ha portato ad un incremento della produttività pari al 4,6%. Inoltre una ricerca su un campione di dipendenti in smart working pubblici e privati, svolta nel 2020 in Francia e Italia, ha messo in luce le capacità di adattamento dei dipendenti, che spesso hanno saputo cooperare efficacemente nei momenti più difficili dell’emergenza, colmando anche eventuali deficienze nel procedere dei superiori. Nel settore privato è…

*L’autore: Natale Cuccurese è presidente del Partito del Sud – Meridionalisti progressisti


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La maschera dei no vax

Il microbiologo dell’Università di Padova Andrea Crisanti ha sostenuto in una recente apparizione televisiva che non si può obbligare una persona che ha paura del vaccino ad immunizzarsi, in assenza di una legge, piuttosto si potrebbe suggerire di mettere la mascherina Ffp2 tutti i giorni. L’avversione o il rifiuto del vaccino, quando non motivata da specifiche situazioni cliniche, diventerebbe «irrazionale» e allora le argomentazioni non fanno breccia poiché si sarebbe di fronte ad una patologia di «persone che soffrono di fobie, ansia, nevrosi».

Il suggerimento del professor Crisanti, del quale personalmente ho condiviso molte analisi fatte sulla pandemia, merita un approfondimento. In un articolo pubblicato ad ottobre 2021 sulla rivista di psichiatria e psicoterapia Il sogno della farfalla (“Una raccolta di sogni durante la pandemia: aspetti sociali e interpretativi” a cura di D. Fargnoli, P. Bisconti e F. Fargnoli), attraverso un questionario rivolto a 780 operatori sanitari coinvolti nell’emergenza Covid, abbiamo cercato di valutare l’impatto non solo sulla salute psichica, ma anche su vissuti specifici come quello relativo all’uso della mascherina. Si è constatato che anch’essa può essere oggetto di una particolare avversione se non di una vera e propria fobia. L’immagine della maschera è infatti intrinsecamente ambivalente: protegge e contemporaneamente nasconde alla vista.

I sogni nei quali non si indossa la mascherina durante il Covid, potrebbero essere ricondotti ad una difficoltà e all’angoscia del tutto irrazionale, come suggerisce Crisanti, di indossarla in quanto essa occulta e scotomizza il volto e quindi l’identità del soggetto. L’etimo della parola maschera rimanda ad una valenza originariamente negativa in quanto essa significava fuliggine, macchia nera sul viso, figura demoniaca, strega e fantasma, falsa identità. Le maschere a becco di uccello indossate dai medici speziali a partire dal XIV secolo durante la peste polmonare toglievano a chi le indossava la fisionomia umana sostituendola con una figura teriomorfa.

Nelle pandemie in generale, e in quella attuale in particolare, sarebbe presente un vissuto di annullamento dell’identità umana, della soggettività del singolo inerme non solo di fronte al rischio di contagio ma anche allo strapotere delle istituzioni e alle strategie di Big Pharma, del potere politico. La popolazione di coloro che non si sono vaccinati e che probabilmente non si vaccineranno in assenza di una legge che renda l’immunizzazione obbligatoria è stimata in diversi milioni di persone (3-4% della popolazione globale): difficile pensare di poter estendere a tutti costoro una patologia di…

*L’autore: Domenico Fargnoli è psichiatra e psicoterapeuta


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Disinformazione e social media: Dalla politica del disordine al capitalismo della sorveglianza

5G letters on smartphone in a hand and purposely blurred coronavirus in the background. Conspiracy theory.

Da almeno 5 anni il termine Fake News è di uso comune. Con lo scoppio della pandemia, spesso si è parlato di Fake News facendo riferimento a teorie cospirazioniste anti-vax. Politici, giornalisti e opinionisti di vario orientamento ideologico usano questo termine quando parlano di notizie o informazioni false o non del tutto vere. Nostro malgrado, non è una locuzione del tutto corretta: l’abbiamo imparata ad utilizzare con Donald Trump, che dalla sua entrata nella scena politica l’ha usata per screditare i quotidiani tradizionali e i suoi avversari, disorientando di fatto i cittadini con le sue menzogne e la cosiddetta post-verità. Il termine corretto è e rimane disinformazione. “Questo punto è fondamentale se si vuole cercare di capire il mondo della disinformazione e misinformazione nell’era dei social e come viene utilizzata dai partiti per aumentare consensi, oppure dai no vax per creare disordine sociale”. Un aspetto che ci tiene a ribadire Costanza Sciubba Caniglia, direttrice dell’Istituto di Geopolitica Digitale, di stanza a New York, recentemente a Roma, sua terra natale, ospite del Festival della Diplomazia, per parlare del ruolo che gioca la disinformazione sui social media negli scenari geopolitici.

Il concetto di disinformazione non è certo nato nell’era Trump, ma quello che però va chiarito è che non nasce “spontaneamente” per colpa della tecnologia, ma è “un’operazione di influenza pensata per veicolare informazioni false o ingannevoli con il fine di manipolare l’opinione altrui”. Il punto è che con i social media la disinformazione viaggia velocemente e si diffonde, apparentemente senza limiti. Generalmente, per motivi ben precisi: «O per motivi strategici, politici e geopolitici, messi in campo talvolta anche da attori statali o da partiti politici, oppure per ragioni economiche». Applicata alla realtà la disinformazione è una vera e propria strategia, in parte sviluppata per anni dalla destra internazionale per aumentare e consolidare i consensi, anche attraverso l’uso di account falsi e Bot, ma non solo. «Alcuni Paesi hanno delle fabbriche di troll. Per esempio, la società russa Internet research agency (Ira), che fa proprio questo. Persone che di lavoro producono e impacchettano notizie false, le diffondono con account fasulli con l’obiettivo di influenzare l’opinione pubblica».

L’Ira è nota alla cronaca per il Russiagate grazie alle indagini condotte da Cia e Fbi. Una società che ha operato almeno dal 2013 fino al 2018 da San Pietroburgo, elaborando campagne diffamatorie con l’obiettivo di creare confusione e disorientamento sociale tra gli utenti delle piattaforme digitali, in particolare negli Stati Uniti. Se guardiamo all’attualità, ovvero alla pandemia, anche qui ci viene qualche sospetto. Sui diversi social, che abbiamo usato più del solito causa lockdown, sono circolati e circolano video, post e foto dalle fonti inverosimili, che utilizzano spiegazioni semplicistiche per cercare di spiegare e di rendere chiara una situazione che in realtà è complessa, alimentando teorie cospirazioniste. Parliamo, in alcuni casi, di vera e propria disinformazione.

Costanza Sciubba Caniglia ha condotto una ricerca su vari gruppi di disinformazione in Italia, insieme alla Luiss, l’Università del Michigan e l’Hks Misinformation Review, rivista edita dall’Università di Harvard. Da questo studio è emerso che «nonostante spesso si pensi ai no vax, o ai gruppi cospirazionisti, come composti da o guidati da persone con limitata scolarizzazione, la nostra ricerca ha invece scoperto una realtà differente. Queste teorie della cospirazione sono spesso portate avanti da professionisti: medici, avvocati, politici, che hanno utilizzato la pandemia per i propri scopi, non solo politici, ma anche economici». La pandemia per costoro è stata una grande opportunità perché «la loro disinformazione indirizza gli utenti sui propri siti dove fanno raccolta fondi e vendita di materiale. Ma guadagnano anche come se fossero influencer, poiché avendo molto seguito, riescono a ottenere sponsorizzazioni».

Va detto che la Silicon valley, negli ultimi tempi, soprattutto per quel che riguarda il Covid-19, si sta impegnando per arginare la diffusione di informazioni con fonti non verificate. Ma va anche specificato però che non solo i manipolatori delle notizie ci guadagnano. Le stesse piattaforme digitali traggono profitto da quella che Domenico Talia, docente di Ingegneria informatica all’Università della Calabria, definisce «economia dell’ignoranza». Guadagni stratosferici per i social media basati sulla diffusione di notizie false.

Ma quello che più colpisce e che più fa riflettere, ascoltando la direttrice dell’Istituto di Geopolitica digitale, è il collegamento tra disinformazione e capitalismo della sorveglianza: «I social network sono attori relativamente nuovi che stanno acquistando sempre di più potere e che influenzano fortemente l’ecosistema dell’informazione». Una questione che riguarda la vita quotidiana di tutti noi. Per questo la politica dovrebbe occuparsene, intervenendo con una seria regolamentazione. Queste piattaforme, anche attraverso la disinformazione, contribuiscono ad accrescere l’infrastruttura ideale e ideologica di quello che è il capitalismo della sorveglianza. “Un sistema che può essere definito come la nuova frontiera del capitalismo, dove la persona diventa materia prima”. Non più oro o petrolio. Gli esseri umani si trasformano, allo stesso tempo, in prodotti e produttori dei dati.

E allora, di nuovo, «la politica deve iniziare a elaborare politiche per arginare questo strapotere. Soprattutto la sinistra, perché questo sistema colpisce i più fragili, gli ultimi e alimenta le disuguaglianze sociali», i social media si muovono oltre i confini nazionali, su piattaforme globali. Per questo, se le piattaforme digitali sono transnazionali, le politiche di regolamentazione dovranno essere transnazionali. Sono battaglie che non possono essere posticipate. E la sinistra, nella sua lunga, quasi perenne fase di transizione, deve avere un ruolo di prim’ordine in questa lotta per la giustizia sociale, la libertà, la democrazia e l’uguaglianza.

 

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Jeremy Corbyn: «Così continuo a lottare, fuori e dentro il Labour»

Opposition Labour party leader Jeremy Corbyn delivers a speech on the final day of the Labour Party Conference in Brighton on September 27, 2017. (Photo by Daniel LEAL-OLIVAS / AFP) (Photo by DANIEL LEAL-OLIVAS/AFP via Getty Images)

Jeremy Corbyn, dopo cinque anni di leadership laburista che ha attraversato uno dei momenti più turbolenti della storia britannica con un referendum e ben due elezioni anticipate, non si è certo ritirato dalla politica. «Sono occupato come non mai», dice. «Ho partecipato a tantissimi eventi su Zoom, come oggi, e ora che è più facile mi sposto molto in treno. Per fortuna mi piacciono i treni!».
Corbyn continua con le sue battaglie, non solo nel Parlamento di Westminster: ha fondato un ente che porta avanti le sue storiche istanze, in particolare su pace e giustizia sociale, che si chiama appunto Peace and justice project (www.thecorbynproject.com). Proprio da qui siamo partiti nel nostro colloquio.

Cosa ha fatto da quando si è dimesso da segretario del Partito laburista? Sappiamo che si è tenuto molto occupato in questo anno e mezzo…

Dopo il triste risultato delle elezioni nel dicembre 2019 – e colgo l’occasione per ringraziare i tanti che durante quella campagna elettorale sono venuti anche dall’estero per aiutarci – la mia leadership del Partito laburista è continuata fino ad aprile 2020. E questo è stato molto interessante, perché si è sovrapposta al primo periodo del Covid. Penso che abbiamo agito molto efficacemente in quel periodo fino ad aprile, in particolare in materia di cassa integrazione, sostegno ai lavoratori, test and tracing. Soprattutto, ero interessato a non disperdere gli ideali contenuti nei programmi elettorali delle elezioni del 2017 e del 2019. Essenzialmente, la necessità per la sinistra in tutto il mondo di rendersi conto che il modello economico attuale non funziona, non motiva o mobilita le persone, e quello che succede in realtà, come Bernie Sanders ha articolato così bene, è che abbiamo una ridistribuzione del potere e della ricchezza che va tutta nella direzione sbagliata. I nostri programmi redistributivi di quegli anni erano la base di ciò che stavamo facendo e che continuo a fare. E poi, ho parlato per molto tempo con altre persone di creare un istituto o un progetto, e alla fine abbiamo deciso di realizzare il Peace and justice project, nel cui ufficio mi trovo adesso. L’abbiamo creato per promuovere le politiche di questi due programmi, per fornire una casa politica alle persone che erano nel Partito laburista – o meno – e per diventare un’organizzazione basata e focalizzata sulla comunità; in altre parole, riprendendo il grande lavoro organizzativo fatto durante la mia leadership del partito. Quando ho lasciato l’incarico, il Labour aveva 600mila iscritti, il più grande partito politico in Europa, credo.

Di cosa si occupa questa istituzione che avete fondato?

Il Pjp ha circa 50mila iscritti. Riceviamo piccole donazioni ricorrenti da molte persone che ci assicurano la possibilità di pagare i costi di gestione di base. Abbiamo stabilito quattro aree politiche su cui lavorare, e sono tutte assolutamente cruciali, essenziali. La prima area è la riforma dei media. È necessario sviluppare un dibattito sul potere dei mezzi di informazione di decidere e dirigere le nostre vite, e anche sul potere che hanno sulle elezioni e le campagne politiche sia nel Regno Unito che negli Usa. Per fare questo stiamo istituendo dei news club in tutto il Paese, dove la gente si riunisce per consultare le notizie locali e discuterne criticamente. Ce ne sono circa 20 al momento, ma stanno crescendo molto velocemente. La seconda e terza area sono l’economia e l’ambiente: temi del tutto collegati. Il principio del nostro progetto è che non stiamo cercando di prendere il controllo di altre organizzazioni, stiamo cercando di lavorare con le persone. Ci impegniamo assieme alle campagne per il riconoscimento sindacale dei lavoratori della gig economy: i rider di Uber, di Deliveroo… gruppi emarginati che lavorano con contratti a zero ore, a volte senza nessun contratto. Sosteniamo il loro diritto di iscriversi a un sindacato e le loro azioni di protesta. Poi, sosteniamo cooperative alimentari e di abbigliamento, organizzazioni che stanno dando voce a persone bisognose. E questo è ovviamente qualcosa che richiede un enorme sforzo. C’è sempre più lavoro: nel Regno Unito ci sono ora più banchi alimentari che filiali di McDonald’s – un dato stupefacente. E poi, naturalmente, c’è la rivoluzione industriale verde, la Cop26 (Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, ndr), la questione del cambiamento climatico, e come si affronta una nuova rivoluzione industriale. Se pensate alle precedenti rivoluzioni industriali, queste hanno tutte arricchito e reso più potente chi era già ricco e potente. Nella crisi climatica, sono le persone più povere che mangiano il cibo peggiore, respirano l’aria peggiore, hanno l’aspettativa di vita più breve, in tutto il mondo. La crisi climatica è qui ed è reale. L’intera strategia che abbiamo presentato in due campagne elettorali, ma in particolare nel 2019, era una rivoluzione industriale verde che investiva in progetti energetici per la comunità, e sfidava anche la distruzione della natura e della biodiversità. Saremo a Glasgow per la Cop26, e speriamo di dare voce a quelle comunità nel Regno Unito, in Europa e nel mondo che altrimenti non sarebbero ascoltate. E l’ultima area è la solidarietà internazionale. Ho fatto parte del movimento per la pace per tutta la vita ed è ancora un mio grande impegno. Il Regno Unito, come altri Paesi in Europa, ha aumentato la spesa per le armi – 24 miliardi di sterline in più nei prossimi 4 anni – e aumentato il numero di testate nucleari fino a 280. Vogliamo promuovere un dibattito su questo tema: cos’è la sicurezza? La sicurezza è la forza delle nostre forze armate, la capacità di uccidere e distruggere le persone, avere i più grandi droni, le più grandi bombe, le più grandi armi, il più grande sistema di sorveglianza? O è il nostro cibo, la nostra acqua, la nostra salute, la nostra istruzione, la nostra casa, la nostra terra? Penso che tutti noi conosciamo la risposta. Le questioni importanti diventano quindi come ci si approccia al commercio internazionale, come si ridistribuisce il potere e la ricchezza durante l’era della transizione verso una vita sostenibile, e se si continua con il modello del libero mercato oppure si sviluppa qualcosa di molto diverso, un modello più socialista che garantisce gli standard di vita di base a tutti.

Sul tema dei rifugiati in particolare lei si è impegnato sempre molto, anche da leader laburista.

Certo. C’è una vera crisi in atto. Nel mondo ci sono più di 70 milioni di rifugiati – un numero superiore alla popolazione del Regno Unito. Sono tutti esseri umani e il loro trattamento è disgustoso e vergognoso. I libri di storia del XXI secolo non saranno gentili con la freddezza dei politici europei e americani che hanno voltato lo sguardo di fronte ai rifugiati. So che molti giornali e media in Europa non sarebbero d’accordo con me, ma il numero di rifugiati nel continente nel suo complesso è in realtà molto piccolo rispetto al numero globale. Il Bangladesh, un Paese popoloso ma povero, con infrastrutture molto limitate, ospita un milione di rifugiati Rohingya. Un milione di rifugiati in un Paese!

In che modo, secondo lei, il Covid ha influenzato la politica britannica e anche internazionale?

Penso che quello che la pandemia ha fatto è stato cambiare gli atteggiamenti del pubblico verso il ruolo del governo nella società. Ha anche cambiato molti atteggiamenti delle persone all’interno delle nostre comunità: qui, come immagino da voi, molte persone hanno prestato attività di volontariato che hanno in qualche modo cambiato la loro visione del mondo.  L’altra questione è quella dei profitti fatti sulle vaccinazioni. Ora, le vaccinazioni, naturalmente, sono necessarie. Ma i brevetti dei vaccini dovrebbero essere di proprietà comune. Mentre la ricerca sui vaccini è stata tutta finanziata dal pubblico, i profitti rimangono in mani private, di Big pharma. Sono uno di quelli che sta chiedendo che i diritti di proprietà intellettuale sui vaccini siano consegnati all’Organizzazione mondiale della sanità, a costo zero, e che quindi tutti i vaccini contro il Covid possano diventare vaccini generici in tutto il mondo. In questo momento stiamo assistendo a una enorme discriminazione vaccinale: i Paesi più poveri non ottengono nulla, anche le persone più povere nei Paesi a reddito medio ottengono poco. Tutto ciò è semplicemente sbagliato.

Quale è stato il suo rapporto con la storia italiana dei movimenti operai e la sinistra in generale in Italia?

I contatti tra la sinistra britannica e quella europea continentale sono stati principalmente, nel periodo della Guerra fredda, quelli tra i partiti comunisti e le forze di orientamento comunista in Regno Unito. Queste non hanno mai avuto grande successo elettorale, se non in qualche caso, perché il Partito laburista ha avuto la tendenza a dominare quello spazio. Sono però sempre state molto potenti nel sindacato e nei circoli intellettuali di sinistra. Per quanto riguarda gli intellettuali, hanno avuto un legame con la sinistra italiana sia a livello di Partito comunista che a livello di Partito socialista; altri contatti ci sono stati all’interno delle federazioni sindacali internazionali. Sull’Italia, mi colpirono molto le storie, forse apocrife, che si raccontavano sulle importantissime elezioni del 1948. Era prima che io nascessi, ma mi ricordo quel manifesto geniale ma assurdo di un operaio che andava a votare sotto gli occhi di Stalin e della Vergine Maria, e lo slogan “Dio ti vede, Stalin no!”. Abbiamo avuto molti contatti con meravigliosi compagni in Italia! Ho ricordi di partecipazioni a feste popolari, a fine estate o inizio autunno. Ciò che amo dello stile e della cultura italiana è che si fa tutto all’aperto, accompagnato da cibo e buon vino – io non bevo, ma mi piace vedere gli altri divertirsi. Penso che sia così che la politica vada fatta. Per questo motivo ho sempre investito molto tempo nel promuovere attività culturali all’interno della sinistra: alle nostre feste si fa musica, si fa arte, si fa poesia… Del resto, storicamente alcuni dei grandi poeti sono stati anche grandi inventori: la mente che può scrivere poesia può anche scrivere equazioni…

Lei parla spesso di giovani generazioni e questa forse è stata ed è una delle cose più affascinanti della sua campagna e del suo movimento, specie durante le elezioni nel 2017 e 2019, in cui gli under 35 hanno votato per il Labour come mai prima. In Italia, invece, la situazione è opposta: la sinistra ha un elettorato abbastanza anziano e ha grandi difficoltà a parlare alle giovani generazioni che hanno votato per il Movimento 5 stelle nel 2018 e ora sono, in parte, affascinati dall’estrema destra. Come siete riusciti a mobilitare queste giovani generazioni?

I giovani stanno ereditando un mondo molto ingiusto. Nel Regno Unito, un giovane di 20 anni avrà debiti per circa 40/50mila sterline se si iscrive all’università (circa il 40-50% di loro). Probabilmente vivrà in affitto in alloggi privati, che almeno a Londra sono molto costosi – 300 sterline a settimana per un piccolo appartamento. Vorrà dire che probabilmente più della metà del loro reddito verrà speso in affitto. I giovani lavoreranno, spesso con un lavoro precario, e non sarà loro garantita un’indennità di malattia sufficiente, o una pensione, alla fine, e saranno sotto pressione per aiutare a finanziare l’assistenza sociale dei loro genitori quando invecchieranno, e anche i loro nonni, se si parla di persone di 20 o 30 anni. E allora, nonostante abbia subìto molte pressioni nel Labour per non prendere questa posizione, ho detto: no, non faremo pasticci con le tasse universitarie. Le aboliremo, e torneremo al principio dell’istruzione gratuita universale come un diritto umano, come l’assistenza sanitaria dalla culla alla tomba: un National education service. Un’istruzione gratuita nella scuola primaria, secondaria, in una certa misura a livello di college, e in misura considerevole a livello di scuola dell’infanzia, per tutti i bambini con più di due anni. E volevamo rendere gratuita anche la formazione continua, perché anche questa è importante. Lo so, tutto questo sarebbe stato costoso. Ma mi sembrava assolutamente la cosa giusta da fare e in cui investire. L’effetto sui giovani è stato elettrizzante, anche per coloro i quali non sono andati all’università, perché avevano la dimostrazione che fossimo davvero seri riguardo alle opportunità dei giovani. Proponevamo anche schemi di apprendistato garantito per chi non ha fatto l’università – o anche per chi l’ha fatta, non c’era motivo perché questi venissero esclusi. Si trattava quindi di un programma per i giovani. Ecco l’idea: perché la sinistra tutta, in Europa e in America, non si mette d’accordo su un “manifesto minimo” per i giovani? Un manifesto su cui fare campagna per l’istruzione gratuita, l’accesso all’assistenza sanitaria, il diritto di viaggiare, il diritto allo studio. Ad esempio, ero entusiasta di espandere le opportunità di studio in altri Paesi. In Europa abbiamo il programma Erasmus, che a mio avviso deve essere molto più ampio. Volevo introdurre l’idea di studenti che fanno abitualmente uno dei loro tre anni di università in un altro Paese: questo aiuterà a portare una maggiore comprensione tra persone di vari Stati. E poi c’è molto altro: giovani e diritto alla casa, giovani e associazionismo, giovani e atteggiamenti della polizia nei loro confronti… Un manifesto che dia potere ai giovani, e io sono abbastanza vecchio per poter dire che tutto questo serve.

Alla Conference del Partito laburista a fine settembre, e in altre circostanze, lei è stato ancora accolto con il famoso coro “Ooh Jeremy Corbyn”. Penso soprattutto all’accoglienza ricevuta al festival di Glastonbury. Si sarebbe mai aspettato questo momento “pop”?

Quello che successe a Glastonbury fu abbastanza incredibile. Conosco Michael Eavis, il fondatore di Glastonbury, che mi ha invitato a parlare. Le persone del mio ufficio erano incredibilmente entusiaste all’idea, penso soprattutto per la possibilità di avere dei biglietti per l’evento… Improvvisamente tutti vollero lavorare il sabato e la domenica per venire con me a Glastonbury… Varie persone hanno pensato a cosa avrei dovuto dire e ai discorsi che avrei dovuto fare e così via… Ma poi, circa 20 minuti prima di salire sul palco, decisi che non mi piaceva affatto il discorso preparato. Così l’ho scartato e ne ho scritto un altro su un taccuino, seduto su uno sgabello dietro il palco, ho fatto del mio meglio, e ho concluso con le meravigliose parole di Shelley: «Rise like lions after slumber/ In unvanquishable number/ Shake your chains to earth like dew/ Which in sleep had fallen on you/ You are many, they are few!» (Alzati come leoni dopo il sonno, in numero invincibile! Scuoti le tue catene sulla terra come rugiada, che nel sonno ti è caduta addosso: siete molti, sono pochi!). Shelley che, naturalmente, era mezzo italiano nella sua visione della vita, e infatti è morto in Italia… Parole tratte dal meraviglioso poema The mask of anarchy, che parla dell’uccisione, a Manchester nel 1819, di manifestanti che si stavano battendo per i loro diritti politici. È stata un’esperienza incredibile, durante e dopo il discorso. Il mio tempo sul palco era abbastanza limitato… Michael mi ha detto, mentre salivo sul palco: dì quello che vuoi, fai quello che vuoi, ma non stare più di nove minuti. Gli chiesi “Che succede se vado oltre?” “Ti prendo per il collo e ti porto via”. Sarebbe stata ottima televisione! E poi ho avuto discussioni molto interessanti, con la gente lì. Penso che la sinistra sia troppo spesso rivolta verso se stessa, e non si renda conto che un sacco di persone sono motivate da musica, arte, teatro. Anche i social media, ad esempio, possono essere un posto orribile, ma possono essere anche un luogo dove dare luce a un sacco di grandi idee e informazioni importanti. Ci dobbiamo lavorare.

Un’ultima domanda sul futuro, il futuro della sinistra, specialmente nel Partito laburista?

Ora abbiamo 36 membri della sinistra nel gruppo parlamentare laburista e alcuni giovani meravigliosi neo eletti, Zarah Sultana, Bell Ribeiro-Addy, Marsha de Cordova, Claudia Webbe, e altre persone meravigliose; più della metà sono donne appartenenti a una minoranza etnica. Questo è stato un risultato della mia politica sul processo di selezione dei candidati. Le cose sono cambiate molto da quando, nel 2015, godevo del sostegno di neanche 20 membri del Plp (Parliamentary labour party)… ma ovviamente non abbiamo vinto le elezioni. Qual è il futuro della sinistra… Penso che la sinistra nel partito stia affrontando un sacco di attacchi: molti membri sono stati sospesi, li stiamo sostenendo e combattendo per loro, come molti stanno facendo. La partecipazione a tutti gli eventi che abbiamo organizzato quest’anno alla Conference di Brighton era assolutamente enorme. Quello organizzato dal Socialist campaign group era completamente esaurito un’ora prima dell’inizio, e c’erano molte persone all’esterno, sotto la pioggia, ad ascoltare. È fondamentale che la sinistra abbia la fiducia necessaria per portare avanti le proprie posizioni a favore del socialismo e della giustizia sociale. Non si può risolvere la crisi climatica entrando nei “bunker” di nazionalismo, xenofobia, razzismo. Dobbiamo sconfiggere l’estrema destra. Nelle scorse settimane sono arrivate buone notizie dalle elezioni tedesche. La priorità, tuttavia, è controbattere alla retorica dell’estrema destra, qualcosa che tanti compagni fanno ogni giorno, anche in Italia. L’estrema destra non offre altro che odio e divisione. Il 3 ottobre sono stato a Cable Street, nell’East End di Londra, a commemorare quando 85 anni fa la comunità ebraica e la comunità irlandese scesero in strada per fermare la marcia di Oswald Mosley (il fondatore dell’Unione britannica dei fascisti ndr) e dei fascisti britannici.

Si può collaborare con il Peace and justice project anche dall’Italia?

Sì, certo che è possibile. Penso che sia importante costruire un senso di solidarietà internazionale. Abbiamo costruito contatti in Grecia: andremo a Lesbo nel prossimo futuro, andrò in Spagna e sarò in Messico più avanti nell’anno – mia moglie è messicana. Naturalmente il nostro lavoro a Glasgow durante la Cop26 sarà promuovere la cooperazione internazionale. Perché entro i confini di un solo Paese non risolveremo tutti questi problemi, solo l’azione collettiva conta. E se la nostra azione collettiva è ostacolata dai nazionalismi, e ci dimostriamo incapaci di esprimere solidarietà, saremo tutti più deboli.

(In collaborazione con Federico D’Ambrosio e Roberto Volpe)


L’articolo prosegue su Left del 29 ottobre 2021

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Il senso del Nobel Giorgio Parisi per l’ambiente

Greetings from the Nobel Prize winner Giorgio Parisi at the Sapienza Università di Roma academic community after being named one of the winners of the Nobel Prize in Physics, Tuesday 5 October 2021, Rectorate Hall and Physics Building - (Photo by Stefania Sepulcri/Sapienza Università di Roma via Sipa USA) **Mandatory Credit-Editorial Use Only** Sipa Usa/LaPresse Only Italy 35456496

«L’umanità deve fare delle scelte essenziali, deve contrastare con forza il cambiamento climatico. Sono decenni che la scienza ci ha avvertito che i comportamenti umani stavano mettendo le basi per un aumento vertiginoso della temperatura del nostro pianeta. Sfortunatamente le azioni intraprese dai governi non sono state all’altezza di questa sfida e i risultati finora sono stati estremamente modesti». È questo un brano significativo dell’intervento del premio Nobel per la fisica e vice presidente dell’Accademia dei Lincei Giorgio Parisi, avvenuto l’8 ottobre 2021 alla Camera dei deputati durante la riunione di preparazione in vista della Cop26. A tal proposito abbiamo rivolto a Parisi alcune domande.
Professore, alla Camera lei ha detto che l’aumento del Pil è in contrasto con lotta al riscaldamento globale, è per questo che l’azione dei governi per combattere i cambiamenti climatici “non è stata finora all’altezza della sfida”? E quale può essere secondo lei un punto di svolta?
«Alcuni giornali hanno riportato la mia affermazione in questo modo, forse per esigenze di sintesi. In realtà io ho detto che mettere l’incremento del Pil come prima priorità dell’azione di governo è in contrasto con il mettere come prima priorità la lotta al cambiamento climatico. Occorrono quindi dei correttivi perché bisogna tener conto che ci sono tante cose importanti, diversi parametri che non sono dentro il Pil e hanno a che fare con la qualità della vita delle persone e la tutela dell’ambiente. Tantissimi premi Nobel, tra cui Joseph Stiglitz – prosegue Parisi -, sostengono che il Pil non è una buona misura dell’economia poiché cattura la quantità ma non la qualità della crescita. Non a caso negli anni sono stati proposti diversi indici alternativi, tra cui l’indice di sviluppo umano e l’indice di benessere economico sostenibile. Ma al centro dell’attenzione della politica è rimasto il prodotto nazionale. Se continuerà così, il nostro futuro sarà triste: aumentare il Pil il più possibile è in profondo contrasto con l’arresto del global warming». Secondo il Nobel per la fisica, l’attenzione eccessiva dedicata dai media e dai politici alle performance del prodotto nazionale lordo fa perdere ai governi la percezione di cosa sia il bene comune.
«È chiaro che per migliorare la qualità della vita delle persone senza impattare sull’ambiente si possono compiere delle scelte politiche che non necessariamente aumentano il Pil. Supponiamo di realizzare un enorme ed efficace sistema di trasporto pubblico a Roma. Cosa può comportare questo? Può accadere che nel tempo i romani comprino sempre meno auto private oppure che le usino meno frequentemente. Quindi diminuirebbe il consumo di benzina, gli incidenti, il costo delle assicurazioni etc». Tutti parametri che sono nel Pil… «Esatto, lo sviluppo di mezzi pubblici di trasporto di massa alla lunga non favorisce l’incremento del prodotto nazionale lordo ma può consentire di ottenere un risultato che ora viene indicato tra le priorità».
Ci sono esempi, nel passato, che vanno in questa direzione e che andrebbero seguiti. Uno di questi è Robert Kennedy e Parisi ci tiene a ricordare alcune delle parole che il senatore Usa pronunciò il 18 marzo del 1968 all’università del Kansas (tre mesi prima di essere ucciso): «Il prodotto nazionale lordo comprende l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per ripulire le nostre autostrade dalla carneficina. Comprende le serrature speciali per le nostre porte e le prigioni per le persone che le rompono. Comprende la distruzione delle sequoie e la perdita della nostra meraviglia naturale come effetto di un caotico sviluppo… Insomma misura tutto, tranne ciò che rende la vita degna di essere vissuta». Insomma, conclude il Nobel per la fisica, «non si tratta di buttare il Pil nel secchio della spazzatura ma di integrarlo con alcuni parametri coerenti con la necessità di arrestare il cambiamento climatico».


L’intervista è stata pubblicata su Left del 29 ottobre 2021

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