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Immigrazione, il paradosso del Regno Unito

DOVER, ENGLAND - JUNE 11: Border Force officials arrive in the port after picking up migrants in the English Channel on June 11, 2021 in Dover, England. More than 500 migrants arrived in the final week of May, according to the UK Home Office, adding that 3,600 people had been stopped from crossing the channel by French authorities. (Photo by Dan Kitwood/Getty Images)

Cinque anni fa veniva smantellata la cosiddetta giungla di Calais, l’inglorioso campo migranti alle porte del tunnel della Manica che collega il continente all’Inghilterra. Ma continuano ancora oggi a formarsi assembramenti spontanei di persone determinate a raggiungere la Gran Bretagna, vittime di sistematici episodi di violenze ed abusi ad opera della polizia francese, profumatamente finanziata dal Regno Unito affinché contenga le partenze.

Nell’estate del 2016 un controverso referendum decretava l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. In quei mesi le città del Regno Unito venivano tappezzate di fotomontaggi che ritraevano delle scale mobili installate sulle scogliere di Dover incorniciate dallo slogan “No border. No control”. Oltre a sommarie rivendicazioni sovraniste, la campagna anti europeista britannica si incentrava sull’argomento della riappropriazione del controllo delle frontiere – o detto altrimenti, sul contrasto all’immigrazione.

Lo spauracchio della fazione più nazionalista del popolo britannico prendeva forma a sole venti miglia dalle coste inglesi, oltre il canale della Manica, nei pressi della cittadina di Calais. L’assembramento alle porte del tunnel della Manica e da decenni una consolidata tappa della rotta migratoria verso il Regno Unito, nel 2015 raggiungeva dimensioni senza precedenti e acquisiva un nome alquanto evocativo: la giungla. Nell’anno della Brexit, le organizzazioni umanitarie riportavano circa diecimila residenti nel campo di Calais – e gli euroscettici ne fecero il loro cavallo di battaglia.

Vinse il “Leave”. Oggi, cinque anni dopo, il Regno Unito non fa più parte dell’Unione europea. Ma la separazione non sembra aver condotto il Paese in una nuova età dell’oro, anzi: quest’estate, la prima senza Europa, gli scaffali dei supermercati inglesi hanno iniziato a svuotarsi e da qualche settimana le pompe di benzina sono rimaste a secco: code di macchine bloccano le strade mentre aspettano il loro turno per fare il pieno di carburante nei pochi distributori che sono riusciti a rifornirsi. Il proprietario di una panetteria a Newkey, cittadina della Cornovaglia che vive di turismo, mi racconta che quest’estate gli alberghi sono stati costretti a chiudere due giorni a settimana da quando i dipendenti – prevalentemente spagnoli e polacchi – hanno lasciato il Paese.

Dopo un anno e mezzo di pandemia e lockdown, il Regno Unito tarda a riappropriarsi degli standard della vita pre-Covid perché decine di migliaia di lavoratori e lavoratrici stranieri sono rientrati nei loro Paesi di origine lasciando mutilato l’apparato logistico britannico. Nei siti di annunci rumeni e polacchi è comparso un improbabile piano di visti speciali per titolari di patente C che il governo di Londra sta promuovendo in un goffo tentativo di mettere una…


L’articolo prosegue su Left del 29 ottobre 2021

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Ciao ciao nuovo Ulivo

Succede ogni volta così ed è accaduto anche questa volta: il centrosinistra esce vittorioso quasi inaspettatamente da una tornata elettorale (questa volta erano le elezioni amministrative) e subito qualcuno lancia la proposta di un “nuovo Ulivo”, ogni volta un modello nuovo, ogni volta con l’idea di metterci dentro tutti tranne quelli sporchi e cattivi che sono troppo sporchi e troppo cattivi per starci dentro. È la teoria politica dell’ammasso: se sommo componenti avrò la somma dei voti indipendentemente dalla coerenza delle idee. Non funziona mai, non ha mai funzionato però ogni volta ce se ne dimentica.

Anche questa volta il Pd per bocca di Enrico Letta ha deciso di lanciare l’amo. Ci sta, Enrico Letta è riconosciuto per le grandi doti di mediazione e qualcuno avrà pensato che se non ci riesce Letta a tenere insieme Renzi e Fratoianni non ci riuscirà mai più nessuno. A questo si aggiunga che Letta non ha proprio dei trascorsi felici con Renzi e il suo decidere di mettere da parte l’acredine era un gesto elegante in mezzo a un’ineleganza forsennata come quella che ieri ha applaudito con cori da stadio. Ma si sapeva che sarebbe finita male.

E infatti ieri brandendo il ddl Zan il nuovo Ulivo è già diventato un’idea vecchia. «Nella giornata di ieri si è sancita una rottura, anche una rottura di fiducia, a tutto campo. Italia Viva ma complessivamente con la parte che ha votato in quel modo», ha detto il segretario del Pd a Radio Immagina.«Italia viva immediatamente ha cominciato a prendersela con noi. Chi reagisce così ha qualcosa da nascondere. Una reazione così vocale, sguaiata, la dice lunga».

Matteo Renzi ha dato la sua versione dei fatti in risposta: «Martedì, alla riunione al Senato, Zan e gli esponenti Pd e 5 stelle hanno detto, questo è il testo prendere o lasciare. Hanno detto, muro contro muro. Bravi, con questa scelta suicida avete distrutto il Ddl Zan».

Alessandro Zan intervistato dal Corriere della Sera dice la sua: «Quando è arrivato il governo di Draghi il partito di Renzi si è messo in testa di voler essere l’ago della bilancia del Senato». Per Zan è questo il motivo per cui i renziani sono passati dal sì compatto al ddl alla Camera all’apertura alle modifiche al testo per andare incontro alle richieste delle destre: «Basta sentire le dichiarazioni di Davide Faraone, il presidente di Italia viva al Senato – dice Zan – Parla e sembra che a parlare sia Salvini».

Perfino Calenda sembra avere perso la pazienza e lancia un messaggio a Renzi: «Dovremmo lavorare insieme e costruire un grande polo riformista. Ma come possiamo farlo credibilmente se continui così! Fermati un secondo a riflettere. Te lo chiedo pubblicamente dopo averlo fatto tante volte privatamente. Fermati», dice il leader di Azione. E poi: «Ma come cavolo ti viene in mente di legarti all’Arabia Saudita e allearti con Micciché»

A proposito di Micciché, il ras siciliano di Forza Italia dice chiaramente che il progetto è un “tutti dentro” ma nel centrodestra: «Stare tutti insieme. Con gli uomini di Renzi e Salvini insieme. Perché Salvini non dovrebbe accettare un allargamento verso il centro?».

Questa è la partita (giocata come al solito sulla pelle degli invisibili). Si può dire che il “nuovo Ulivo” sia già rinsecchito. Ora ci si può dedicare a cose più serie?

Buon venerdì.

Ultima occasione

TOPSHOT - Protesters, including members of Extinction Rebellion and Fridays for Future stage a protest demanding more action as G20 climate and environment ministers hold a meeting in Naples on July 22, 2021. . (Photo by Filippo MONTEFORTE / AFP) (Photo by FILIPPO MONTEFORTE/AFP via Getty Images)

La conferenza delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici in programma a Glasgow dal 31 ottobre al 12 novembre, anche conosciuta come Cop26, è stata definita da molti esperti come il make or break event, l’ultima occasione per i leader politici di tutto il mondo di evitare le più disastrose conseguenze del climate change. Ma per far sì che questo accada, serve una consapevolezza e una pressione dell’opinione pubblica ben più alta di quella attuale: dobbiamo assumerci tutti quanti il compito di vigilare sui negoziatori affinché prendano le decisioni necessarie.

Per capire concretamente se la conferenza sarà stata un successo o un fallimento, dovremo valutare i risultati raggiunti su cinque temi specifici. Il primo tema, di importanza cruciale, è quello dei Nationally determined contributions (Ndc), ovvero gli obiettivi di riduzione delle emissioni che ogni Paese firmatario degli Accordi di Parigi del 2015 (che impegnano i sottoscrittori a limitare il riscaldamento globale al di sotto dei 2 gradi, ndr) si è prefissato. Ad oggi, le premesse non fanno ben sperare: nonostante molti scienziati sostengano che sia necessario dimezzare le emissioni entro il 2030, le ultime analisi dell’Onu sugli Ndc prevedono non una riduzione, bensì un aumento delle emissioni di circa il 16%. L’Unione europea e gli Stati Uniti hanno da poco aggiornato i loro obiettivi, ma è fondamentale che lo facciano anche gli altri grandi emettitori, come Arabia Saudita, Australia, Cina, Russia e India.
Per quanto riguarda l’Arabia Saudita, il principe Bin Salman ha affermato che il Paese raggiungerà lo zero netto di emissioni nel 2060, seguendo la strada indicata dalla Russia.

Contemporaneamente, però, ha affermato che non intende rallentare (né tantomeno fermare) l’estrazione di combustibili fossili dalle riserve del Paese. La multinazionale petrolifera Saudi Aramco, di proprietà statale, ha affermato che seguirà il progetto del governo azzerando le sue emissioni nel 2050. Il diavolo però si nasconde nei dettagli: l’obiettivo riguarda solo le emissioni causate direttamente dalle operazioni dell’azienda, nonostante l’80% delle emissioni derivino dai clienti della Saudi Aramco che ne bruciano gli idrocarburi.

La Russia ha anch’essa annunciato il raggiungimento della neutralità climatica nel 2060, affermando che impegni più ambiziosi dipenderanno dalla “situazione economica internazionale”. Vladimir Putin non parteciperà in persona alla Cop26, sebbene abbia dichiarato che il cambiamento climatico è una delle sue priorità. La collaborazione della Russia è molto importante soprattutto per ciò che riguarda l’abbattimento delle emissioni di metano, un gas serra 80 volte più potente della CO2. Per far sì che il governo si impegni su questo fronte, l’inviato speciale per il clima Ruslan Edelgeriyev ha dichiarato che servirà rimuovere le sanzioni imposte al gigante dell’energia Gazprom: «Queste due cose non vanno d’accordo, sanzioni e clima», ha dichiarato.

Per quanto riguarda l’India, il primo ministro Narendra Modi e il segretario del ministero dell’Ambiente
Rameshwar Prasad Gupta sembrano essere ben disposti a collaborare. L’India è – a livello complessivo – il terzo maggiore emettitore al mondo, ma le emissioni pro-capite restano tutt’ora estremamente basse: circa due tonnellate di CO2 all’anno, contro le 16 degli Stati Uniti. Per questo Gupta ha chiesto che i Paesi più responsabili storicamente delle emissioni scendano in campo per aiutare le economie emergenti. Già all’interno dell’Accordo di Parigi, infatti, era stato previsto un fondo di 100 miliardi di dollari annui per finanziare la transizione ecologica nei Paesi in via di sviluppo, a partire dal 2020. Se si richiede all’India di accelerare questa transizione, Gupta…

*L’autore: Luca Sardo è attivista e portavoce Fridays for future Torino


L’articolo prosegue su Left del 29 ottobre 2021

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Non c’è giustizia ambientale senza giustizia sociale

Mentre stiamo lavorando alla nuova e più che mai urgentissima storia di copertina dedicata alla lotta contro il climate change e per la giustizia sociale in vista della prossima Cop26, dalla Sicilia e dalla Calabria arrivano notizie e immagini drammatiche di eventi atmosferici di straordinaria violenza. Strade allagate, auto sommerse, il dramma di persone morte e disperse. I quotidiani hanno parlato di un uragano mediterraneo. Ancora una volta non possiamo limitarci alla cronaca. Con il pensiero rivolto ai cittadini catanesi e di altre località del Sud colpite dal nubifragio constatiamo purtroppo che gli eventi climatici avversi ed estremi si moltiplicano da anni nel mondo. Gli scienziati ci hanno avvertito già da tempo: se non invertiamo rapidamente la rotta molte città costiere e ricche d’arte sono a rischio, la stessa Venezia sarà sommersa entro il 2050.

I giovani dei Fridays for future con molta più sensibilità di noi adulti lanciano l’allarme da anni. E lo fanno con sensibilità, ma anche con straordinaria competenza e lucidità come traspare chiaramente dall’incisivo articolo di Luca Sardo che pubblichiamo ad apertura e che squaderna con chiarezza i cinque obiettivi essenziali che Cop26 dovrebbe fissare pena il suo totale fallimento. Staremo a vedere, ben sapendo che la storia dei fallimenti alle spalle è già lunga.

Qui si parrà la vostra nobilitate, dicono i Fridays for future, avanzando concrete proposte ai grandi che pretendono di essere tali e che si radunano a Glasgow dal 31 ottobre al 12 novembre. Vediamo se tragicamente tutto si ridurrà a un “bla, bla, bla”, per dirla con la sintetica ed efficace espressione di Greta Thunberg, che perfino Draghi ha ripetuto insieme ad altri leader e ministri non sappiamo quanto davvero consapevoli degli impegni seri che implica.

La partita contro il climate change è gigantesca e beninteso non pensiamo che basti un summit a risolverla. Ma passi avanti auspicabili e necessarissimi possono e dovrebbero essere fatti. Certo il quadro politico globale che si profila all’orizzonte è inquietante e non può essere in alcun modo ignorato. Non solo come dicevamo, per il moltiplicarsi di eventi climatici avversi e improvvisi, non solo per il consistente innalzamento del livello dei mari, ma anche per la crescente ingiustizia sociale collegata a questi fenomeni. Ricordiamo che l’86% delle emissioni globali di CO2 è responsabilità dei Paesi più ricchi, e che sono i Paesi più poveri, quelli del sud del mondo, a soffrire maggiormente degli effetti devastanti prodotti da tutto questo. Il fenomeno dei migranti climatici, grandi masse di persone costrette ad abbandonare le proprie terre a causa di siccità, fenomeni di desertificazione ecc., è sotto gli occhi di tutti. Ma anche rispetto a questo l’Europa e i Paesi più ricchi si voltano dall’altra parte, arroccandosi, fra molti pretestuosi distinguo, facendo agghiaccianti classifiche fra rifugiati che fuggono da guerre, e chi invece fugge dalla miseria o da condizioni climatiche insostenibili.

Il problema si farà ancora più pressante nei prossimi anni, ne siamo tutti consapevoli? Intanto le grandi potenze giocano a domino sullo scacchiere internazionale. Non parliamo solo dei Paesi che presenzieranno alla Cop26 di Glasgow, ma anche e soprattutto a quelli che non ci saranno, a cominciare dalla Russia e dalla Cina, per non dire dell’Arabia Saudita che basa la propria potenza economica e politica sui combustibili fossili.

Fra tutti questi sarà Pechino a giocare un ruolo di player internazionale. La sua strategia non è facile da leggere e interpretare. Se da un lato la Cina, la cui struttura energetica è ancora dominata dal carbone, dice no a Glasgow dall’altra lancia un proprio programma di “diplomazia climatica” volendo lasciare un segno sui negoziati sulla biodiversità e sul clima. «Faremo dello sviluppo di una civiltà ecologica la nostra guida per coordinare il rapporto tra uomo e natura», ha detto di recente Xi Jinping nel suo discorso all’apertura del cerimoniale di Cop15 nello Yunnan. Il presidente cinese ha annunciato un fondo di 233 milioni di dollari (come investimento iniziale) per proteggere la biodiversità nei Paesi in via di sviluppo. Una misura solo propagandistica? Tanto più sarebbe importante dunque che i Paesi che aderiscono a Cop26 prendessero decisioni significative. Non bastano operazioni di maquillage.

Come ribadiamo con questa storia di copertina – che mette in rete molte competenze diverse di scienziati, economisti, giuristi – serve un vero e proprio cambio di paradigma nel modo di produzione, negli stili di vita, nel modo di concepire il rapporto con il pianeta, liberandoci del capitalismo predatorio in cui siamo immersi e oppressi, rimettendo al centro il benessere psico-fisico delle persone, la tutela dell’ambiente, dando valore alla socialità in un rapporto non distruttivo con l’ambiente. Basta trasformare il mondo è tempo di trasformare noi stessi.


L’editoriale è tratto da Left del 29 ottobre 2021

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Cronaca dell’oscurantismo

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 27-10-2021 Roma Senato - ddl su misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per sesso, genere o disabilità Nella foto L’esultanza della Lega dopo l’esito del voto sul non passaggio in aula del ddl Photo Roberto Monaldo / LaPresse 27-10-2021 Rome (Italy) Senate - Bill on measures against the discrimination based on sex, gender or disability

In Senato ieri sono arrivati tutti alla spicciolata. Nel Partito democratico erano convinti in mattinata erano convinti di avere 146 voti contro 143. Nel centrodestra Calderoli spera che si voti prima di pranzo perché poi avrebbero potuto perdere alcuni dei loro. Nel Pd erano tranquilli. Si sbagliavano.

Per avere un’idea dello spessore della discussione basta ripercorrere alcuni interventi. Si parte con Cucca di Italia Viva che lascia subito intendere le intenzioni: «Oggi stiamo segnando una pagina buia della storia del Parlamento stiamo arroccandoci su soluzioni ideologiche. Urlo fermiamoci. Abbiamo tempo. Mediamo», dice. Del resto manipolare i diritti in ideologia è il trucco antico della destra.

Barboni del gruppo Forza Italia Berlusconi Presidente-Udc ci mette un po’ del solito benaltrismo: «Questo disegno di legge non salva vite ma forse tutela diritti. Credo ci sia un problema più importante: la crisi economica». Evidentemente Barboni non sa che la politica ha il dovere di occuparsi di più cose contemporaneamente.

Balboni di Fratelli d’Italia ovviamente la butta sul reato di opinione: «Con questa legge si vuole perseguire una penalità ulteriore: introdurre un vero reato di opinione. Con questa legge non rendiamo punibile solo atti di violenza e istigazione alla violenza. Ma rendiamo punibili anche l’istigazione alla discriminazione». Poveretti, temono di non poter più urlare “frocio” a qualcuno. Poi si supera: «Potrebbe diventare reato che un bambino ha una madre e un padre, che un uomo non partecipi a competizioni femminili di donne, di quel religioso arrestato alla metropolitana di Londra che predicava che Dio ha creato uomo e donna». Questo per rendersi conto del livello.

Ronzulli di Forza Italia ha lo slogan già pronto: «Questa legge non combatte l’omofobia è una copertina patinata». E poi: «Se volete imporre ai bambini di 3 anni le teorie gender fluid siamo qui per impedirlo. Non lo voteremo mai». Ancora con la teoria gender, del resto in un’intervista a Fanpage anche Renzi aveva avuto il coraggio di citare una teoria che non esiste da nessuna parte. Romeo della Lega riesce a vincere il premio della cretinata del giorno: «Bisogna dare ai bambini il tempo necessario per essere ciò che vogliono. Si vuole obbligare i bambini a cambiare sesso». Complimenti. La Russa di Fratelli d’Italia dice «Per tanti anni mi sono sentito molto discriminato e non per motivi di sesso e religione ma appartenenza politica. E quindi sono molto sensibile alle discriminazioni. Ma il #ddlZan è un tentativo surrettizio di introdurre un pensiero unico». Poveretto, è stato discriminato.

Si chiede il voto segreto sulla tagliola. Finisce 154 a 131. Applausi scroscianti e festeggiamenti animaleschi del centrodestra. Applaudire un mancato progresso sui diritti ha un nome: oscurantismo. Il ddl Zan è sostanzialmente morto anche se Zan promette ancora battaglia. Del resto anche la comunità Lgbt aveva detto di preferire nessuna legge a una pessima legge. L’Italia resta senza una legge contro l’omotransfobia. Partono le accuse incrociate ma quello che conta è che non si è fatto nessun passo sui diritti. Basta rileggere le dichiarazioni del centrodestra per capire che l’ipotesi di una mediazione con loro è solo una giustificazione meschina. Renzi non c’era, occupato in Arabia Saudita insieme al principe Bin Salman per un evento del FII Institute, la fondazione nel cui board siede proprio l’ex premier.

Alessandro Zan la spiega benissimo: «Una forza politica si è sfilata e ha flirtato con la destra sovranista solo per un gioco legato alla partita del Quirinale. Una battuta d’arresto che comunque non ci ferma è solo momentanea». A proposito: questo è lo stesso Parlamento che voterà il prossimo presidente della Repubblica.

Tanti auguri.

Buon giovedì.

 

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Il governo israeliano mette fuorilegge la solidarietà. E tutti zitti

Chadi Nassir, 7, sits on a donkey cart as his brother, Mahmoud, loads it with belongings from their damaged house in Beit Hanoun, northern Gaza Strip, Sunday, June 13, 2021. (AP Photo/Felipe Dana)

La nostra stampa non brilla per onestà dell’informazione. La nostra politica non brilla per coerenza intellettuale e politica. Mi riferisco al recente caso delle 6 Ong palestinesi per i diritti umani messe fuori legge, come terroriste, dal governo di Israele. Condannare tale decisione e chiederne il ritiro sarebbe un atto dovuto di ogni Paese democratico, che si dichiari sostenitore dei diritti umani e dei loro difensori. Ma non si sono finora sentite voci in tal senso. Tutti zitti.

I gruppi colpiti sono Al-Haq, uno dei più importanti centri per i diritti umani dal 1979; Addameer, che dal 1991 offre aiuto legale gratuito ai prigionieri, in carceri palestinesi e israeliani; Defense for Children International-Palestine, per la protezione e promozione dei diritti dei bambini; Bisan Center for Research and Development, dal 1989 impegnato in aree emarginate e rurali; Union of Palestine Women’s Committees dal 1980, femminista, per diritti delle donne; Union of Agricultural Work committees, dal 1989, per la tutela dei contadini e lo sviluppo agricolo. Associazioni internazionalmente riconosciute, premiate e alcune con status consultivo presso le Nazioni Unite. L’ordine è stato emanato in base alla Legge Anti-terrorismo del 2016, con l’accusa, senza prove, di avere rapporti con l’organizzazione PFLP (designata come “terrorista” anche da Canada, Stati Uniti e Unione Europea). L’articolo 24 (a) impone fino a tre anni di carcere a chiunque «commetta un atto di identificazione con un’organizzazione terroristica, anche pubblicando parole di lode, sostegno o simpatia». Ma il sistema della criminalizzazione di massa (Luigi Daniele in Il lavoro culturale, 26/10) che esige dalla popolazione occupata, sotto minaccia di reclusione, accettazione, soggiogamento e persino lealtà al progetto e ai valori coloniali della potenza occupante ha origini lontane (1967).

Se istituzioni e media tacciono di fronte a questa intollerabile decisione, sono centinaia le voci della società civile e le lettere inviate a governi e parlamentari, in Italia e altrove. Una dichiarazione congiunta di Amnesty International e Human Rights Watch ha definito la decisione “spaventosa e ingiusta”, un attacco del governo israeliano al movimento internazionale per i diritti umani.

Nell’editoriale del 24 ottobre di Haaretz, si legge: «La dichiarazione del governo relativa alle organizzazioni della società civile in Cisgiordania come organizzazioni terroristiche è una follia distruttiva che offusca tutti i partiti della coalizione e lo stato stesso. La messa al bando dei gruppi per i diritti umani e la persecuzione degli attivisti umanitari sono caratteristiche per antonomasia dei regimi militari, in cui la democrazia nel suo senso più profondo è lettera morta».

È pur vero che nella strampalata coalizione di governo di Israele, c’è chi critica questa decisione perché teme che ne possa mettere in discussione la “stabilità”, magari impedendo l’approvazione imminente del bilancio e il rischio di nuove elezioni, ma ci sono voci genuinamente solidali con le associazioni palestinesi.

22 organizzazioni per i diritti umani in Israele (tra cui B’tselem, Adalah, Physicians for human rights, Rabbis for human rights…) hanno pubblicato un annuncio in prima pagina sul quotidiano Haaretz affermando che: «Criminalizzare le organizzazioni per i diritti umani è un atto codardo caratteristico dei regimi autoritari oppressivi». E il direttore di B’tselem Hagar el Aid dichiara: «… Israele ha collocato qualsiasi mossa palestinese che non fosse una resa all’apartheid e all’occupazione come “terrorismo”. Fare appello alla Corte penale Internazionale? Terrorismo giudiziario. Rivolgersi alle Nazioni Unite? Terrorismo diplomatico. Invitare al boicottaggio i consumatori? Terrorismo finanziario. Protestare? Terrorismo popolare».

Quali sono le ragioni dell’escalation israeliana? Almeno due: i risultati importanti raggiunti dalla società civile palestinese organizzata con la denuncia e l’azione per perseguire gli israeliani responsabili di crimini di guerra e di apartheid presso la Corte penale internazionale dell’Aia, indicando questa strada anche all’Autorità palestinese; nello smascherare il sistema di apartheid e le infinite vessazioni anche sui bambini, dell’amministrazione civile e dei coloni. L’altra è la permanente impunità di Israele, che non sarebbe così vendicativo se avesse dovuto pagare per i suoi crimini un prezzo, come altri Paesi, imposto dalla Comunità internazionale, inclusa la Unione Europea. Uno degli obiettivi, particolarmente grave, di Israele con questa decisione è spingere i Paesi finanziatori a ritirare i propri finanziamenti alle Ong, quindi condannarle a mettere fine o ridurre di molto la loro attività in difesa dei diritti umani.

È difficile credere che stavolta lo pagherà.

Appare come un grido nel deserto quello di Amira Hass, giornalista israeliana: «Sto annunciando e confessando qui che finanzio il terrorismo. Parte del denaro delle tasse che pago al governo israeliano viene trasferito alle sue attività terroristiche e a quelle dei suoi rappresentanti, i coloni, contro il popolo palestinese. Se per “terrorismo” si intende imporre terrore e paura, allora cosa fanno i comandanti dell’esercito e dei servizi di sicurezza dello Shin Bet quando inviano soldati mascherati a fare irruzione nelle case dei palestinesi notte dopo notte? Accompagnati da cani e con i fucili puntati, i soldati svegliano le famiglie dal loro torpore, rovesciano il contenuto degli armadi, confiscano beni e colpiscono gli adulti davanti ai bambini. Cosa fanno gli ispettori dell’Amministrazione Civile … tra le comunità di pastori, e controllano se magari è stata aggiunta una tenda o uno scivolo per bambini da demolire? E …i poliziotti di frontiera maschi e femmine a Gerusalemme, che detengono chiunque sembri loro un arabo, e i soldati e i poliziotti che danno un calcio qui, uno schiaffo là, a chiunque osi litigare con loro, o raccogliere olive – qual è il loro compito se non quello di incutere paura?…».

Nessun autorevole soggetto politico istituzionale ha mai chiesto conto ad Israele dei suoi crimini. Nessuno osa chiedere al potere occupante, con quale legittimità possa colpire con l’accusa di terrorismo, ben riconosciuti attivisti e associazioni palestinesi per i diritti umani mentre agisce come attore primario di terrorismo. Sarebbe ora di cominciare a farlo.

Nella foto: bambini palestinesi, Beit Hanoun, Striscia di Gaza, giugno 2021

 

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Eccola, Forza Italia Viva

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 16–09-2021 Roma, Italia Politica RAI - trasmissione 'Porta a Porta' Nella foto: Matteo Renzi (ITALIA VIVA) Photo Mauro Scrobogna /LaPresse September 16, 2021  Rome, Italy Politics RAI - 'Porta a Porta' broadcast In the photo: Matteo Renzi (ITALIA VIVA)

L’agenzia viene battuta nel tardo pomeriggio e lascia pochi dubbi:

= FI: in Sicilia siglato accordo politico con Italia Viva = AGI0494 3 POL 0 R01 / = FI: in Sicilia siglato accordo politico con Italia Viva = (AGI) – – “Oggi sigliamo un accordo politico forte, stretto e serio tra Sicilia futura-IV e Forza Italia”.

L’alleanza tra il forzista Micciché e Matteo Renzi diventa ufficiale in previsione delle prossime elezioni comunali a Palermo e le elezioni regionali siciliane. In un mese i due hanno coronato il loro sogno: a settembre Matteo Renzi era in tour in Sicilia per promuovere il suo libro (ovvio) e c’è stato il primo incontro. Poi la cena con menu di ravioli mascarpone e bottarga, agnello dei monti lucani e biscotto di paprika dolce all’enoteca Pinchiorri. «Vogliamo far prevalere l’impostazione moderata e centrista, evitare gli eccessi sovranisti e populisti» ha detto il capogruppo regionale renziano Nicola D’Agostino. Si parte con un “intergruppo” di 15 parlamentari e poi liste uniche per amministrative e Regionali. Del resto bastava buttare l’occhio sul programma della “Leopoldina siciliana” (giuro, si chiama così) ovvero la scuola politica organizzata dal senatore renziano e siciliano Davide Faraone con Mara Carfagna e Giancarlo Giorgetti per farsi un’idea.

Da Italia Viva fanno sapere che si parla «solo di un’intesa locale», peccato che siano gli stessi che pochi mesi fa dicevano “noi con Forza Italia mai e poi mai” e poi si buttavano in grasse risate. E siamo arrivati fin qui.

Per carità, che Matteo Renzi (insieme a Calenda) sogni di formare in Italia un polo liberale che penda verso il centrodestra è un’idea legittima e forse nemmeno poi così male. Ci sono alcuni passaggi da segnalare: parliamo di quello stesso politico (lui e i suoi sfegatati fan) che ancora fino a ieri insisteva di essere “più a sinistra” della sinistra. Parliamo di quello che per un enorme fraintendimento e lassismo generale ha guidato il principale partito di centrosinistra italiano. Stiamo parlando di un’orda spesso fanatica che fino a ieri pomeriggio definiva “invenzioni” gli abboccamenti tra Renzi e il partito di Berlusconi. Insomma ci sono anni di simulazione antisportiva che ogni volta che veniva segnalata accendeva un putiferio. Ecco ora si sa che il putiferio era cretino.

In fondo che sia finalmente sbocciata Forza Italia Viva è un bene per chiarire le posizioni in campo. È andata come è andata. Anzi, è andata come si sapeva che sarebbe andata. Lo sapevano tutti, tranne i fan di Italia Viva.

Buon mercoledì.

 

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L’algoritmo dell’odio

FILE – In this May 9, 2019, file photo, protesters, wearing "angry emoticon" masks picket the Facebook office in the country to protest Facebook's alleged inaction against fake news, hate speech and red-tagging or vilification campaign of health activists, in suburban Taguig city east of Manila, Philippines. From complaints whistleblower Frances Haugen has filed with the SEC, along with redacted internal documents obtained by The Associated Press, the picture of the mighty Facebook that emerges is of a troubled, internally conflicted company, where data on the harms it causes is abundant, but solutions are halting at best. (AP Photo/Bullit Marquez, File)

Abbiamo passato (giustamente) anni a discutere di odio applicato alla politica, alla società. Stiamo discutendo degli effetti che l’odio ha sulle nostre vite e sulla nostra economia. Poi, improvvisamente, ci siamo convinti che l’odio sia così e soprattutto che i social possano essere così. Una resa incondizionata di fronte all’architettura del web: ci siamo detti che il mondo va così e la gente è fatta così.

Quello che sta spiegando in giro per il mondo Frances Haugen, ex data scientist di Facebook, ora definita “talpa” perché ha deciso di raccontare ciò che ha visto all’interno del colosso è un tema politicissimo. Haugen nel Regno Unito di fronte ai legislatori che stanno lavorando a norme sui social media ha spiegato in che modo i gruppi di Facebook amplificano l’odio online: gli algoritmi, in sintesi, danno la priorità all’engagement e spingono ai margini le persone con interessi generali. In sostanza più odi e più funzioni, su Facebook e poi a cascata nella vita e nella politica, dove gli algoritmi social si sono fatti forma mentis.

Ha detto Haugen: «Il social network vede la sicurezza come una fonte di costo, celebra la cultura delle startup di ‘accorciare i percorsi’»e “senza dubbio” peggiora il clima di odio. «Gli eventi che stiamo vedendo in tutto il mondo, come in Myanmar e in Etiopia sono i capitoli iniziali perché la classifica basata sull’engagement fa due cose: dà priorità e amplifica i contenuti estremi che dividono e polarizzano e li concentra».

Haugen aveva già consegnato al Congresso americano documenti di ricerca interna che aveva copiato di nascosto prima di lasciare il suo lavoro in Facebook. Un consorzio di 17 testate giornalistiche americane ha ricevuto i documenti, già in parte raccontati nelle scorse settimane dal Wall Street Journal che rivelano come Menlo Park abbia in modo riservato e meticoloso ‘tracciato’ i conflitti nel mondo reale esacerbati sulla piattaforma, ignorato i consigli dei dipendenti sui rischi di alcune pratiche, esponendo comunità vulnerabili in tutto il mondo a messaggi pericolosi e incendiari.

Haugen aveva detto di fronte al Congresso americano: «Quando abbiamo capito che le compagnie di tabacco nascondevano i danni che provocavano, il governo è intervenuto. Quando abbiamo capito che le auto erano più sicure con le cinture di sicurezza, il governo è intervenuto. E oggi, il governo sta intervenendo contro le compagnie che hanno nascosto le prove sugli oppioidi. Vi imploro di fare lo stesso in questo caso. In questo momento, Facebook sceglie le informazioni che miliardi di persone vedono, modellando la loro percezione della realtà. Anche coloro che non usano Facebook sono influenzati dalla radicalizzazione delle persone che lo usano. Un’azienda che ha il controllo sui nostri pensieri, sentimenti e comportamenti più profondi necessita di una supervisione reale».

Non sembra anche a voi che non si parli solo di Facebook ma del mondo qui intorno, perfino delle proteste che attraversano il Paese in questi giorni?

Buon martedì.

Nella foto: attivisti a Taguig a est di Manila, nelle Filippine, protestano davanti alla sede di Facebook

 


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Il chierichetto della guerra

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 24-06-2021 Roma Politica Senato - Informativa del Ministro della Difesa Lorenzo Guerini sulla conclusione della missione italiana in Afghanistan Nella foto Lorenzo Guerini Photo Roberto Monaldo / LaPresse 24-06-2021 Rome (Italy) Senate - Report from Defense Minister Lorenzo Guerini on the conclusion of the Italian mission in Afghanistan In the pic Lorenzo Guerini

I ministri più talentuosamente spaventosi sono quelli che non esistono, quelli che riescono ad agire sotto traccia spostando miliardi di euro mentre sulle colonne dei giornali si accapigliano su qualche sparuto milione, quelli che pesano moltissimo nel bilancio dello Stato eppure quando li vedi sembrano dei boy scout in gita a Roma, con l’espressione incredula di chi scoppierebbe a ridere confessando di essere arrivato fin lì.

Al ministero della Difesa c’è Lorenzo Guerini, uomo politico che ha avuto come più grande pregio quello di essere l’amichetto del cuore di Matteo Renzi in quel periodo in cui perfino il lattaio di Renzi finiva in qualche consiglio di amministrazione. Guerini però con Renzi ha rotto quando è nata Italia Viva e i ben informati dicono che Matteo non l’abbia presa benissimo, no. Del resto, pensateci bene, perché rischiare di scendere dal tram quando si è già arrivati alla fermata più prestigiosa. Guerini attraversa i governi e li attraverserà ancora a lungo, la scuola democristiana insegna l’arte della facoltosa immersione, e alla Difesa sta facendo cose di cui non si sente mai parlare in giro.

Cosa sta facendo Guerini? Come racconta Luciano Bertozzi in un suo articolo Guerini ha ordinato: tranche di elicotteri multiruolo Light utility helicopter (Luh) per i carabinieri, con un costo di 246 milioni di euro; programma pluriennale di ammodernamento e rinnovamento per lo sviluppo di un sistema europeo di aeromobili a pilotaggio remoto (cioè senza pilota): costo di 1.903 milioni; veicoli ad alta tecnologia per la mobilità tattica terrestre dei carabinieri: costo 112 milioni di euro; implementazione, potenziamento e aggiornamento di una capacità di Space situational awareness (Ssa), basata su sensori (radar e ottici) e un centro operativo Ssa per la conoscenza di oggetti spaziali artificiali: costo di 90 milioni di euro.

E ancora, aggiornamento e completamento della capacità di comando e controllo multidominio delle Brigate dell’esercito italiano: costo di 501 milioni; acquisizione di ulteriori 175 veicoli di nuova generazione Vtlm Lince 2 per l’esercito italiano (mezzi ampiamente usati nelle missioni italiane all’estero): costo 385 milioni; ammodernamento e rinnovamento dei sistemi missilistici di difesa aerea navale Principal anti air missile system (Paams) e dei radar per la sorveglianza a lunga distanza imbarcati sulle navi Andrea Doria e Caio Duilio: costo di 640 milioni; munizioni a guida remota per le forze speciali.

Infine, ammodernamento, rinnovamento e potenziamento della capacità nazionale di difesa aerea e missilistica a protezione del territorio nazionale e dell’Alleanza atlantica, e a garantire la protezione di teatro alle forze schierate in aree di operazione: costo 2.378 milioni di euro.

Guerini ha appena chiesto al Parlamento di poter spendere oltre 6 miliardi di euro per comprare nuove armi. Del resto il ministro della Difesa italiano, all’incontro Nato del 17-18 febbraio, aveva annunciato di voler aumentare la spesa militare (in termini reali) da 26 a 36 miliardi di euro annui. Manlio Dinucci sul Manifesto del 23 febbraio scorso scriveva: «l’Italia si è impegnata a destinare almeno il 20% della spesa militare all’acquisto di nuovi armamenti all’interno della Nato. Per questo, appena entrato in carica, il 19 febbraio Guerini ha firmato un nuovo accordo con 13 paesi dell’Alleanza atlantica più Finlandia, denominato Air Battle Decisive Munition, per l’acquisto congiunto di “missili, razzi e bombe che hanno un effetto decisivo in battaglia aerea”».

Con 6 miliardi di euro si costruiscono 120mila asili nido, si attrezzano 75mila posti letto in terapia intensiva, si costruiscono 48mila case popolari, si costruiscono 1.200 chilometri di autostrada. E così via, solo per dare un’idea di ordine di grandezza.

Poi ci sarebbe la domanda delle domande? Perché in Italia non esiste mai un dibattito sul convertire le spese militari in sedi civili? Bisognerebbe chiederlo a Guerini. Ma Guerini è uno di quei ministri che non esistono.

Buon lunedì.

 

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Michelangelo Frammartino: «Nelle immagini cerco la materia»

«Oggi non ho una casa che io senta mia, come era quella dell’infanzia. Sul piazzale di fronte, mio padre, che lavorava in Alfa Romeo, una volta fu capace di stare due settimane a rifare la testata della sua automobile. Mia madre, figlia di contadini calabresi che mangiavano solo cipolle e verdure, con le mani sapeva fare ogni cosa. Costruiva i nostri giocattoli, cuciva finanche gli zaini della scuola». Toccare, adoperare la materia, fondersi con gli elementi della terra, immergersi in quel suo intreccio di cose e uomini, luce, buio, silenzi: il talento di Michelangelo Frammartino certamente è fiorito nella vigna d’osservazione dei suoi genitori, di quella loro maniera così speciale, seria, di far da sé, di rapportarsi giudiziosamente con la realtà, penetrandovi, ascoltando poeticamente ma concretamente che cosa ha da dirci. Ecco perché, oggi, con le sue opere lui ci restituisce una narrazione sorprendente. Distinta (finalmente) dai modelli a cui siamo abituati e che ci fanno avere, per dirla con Paolo Conte, quell’espressione un po’ così prima di andare al cinema (gran parte di quello italiano). Lo scavare di papà Francesco negli abissi del motore, la magia creativa nelle dita sapienti di mamma Maria, e giocare per ore sul pavimento di graniglia dello stabile di viale Aretusa, in quel piccolo bilocale al secondo piano dal quale Michelangelo scrutava il suo esclusivo universo: Il buco, che ha vinto il premio speciale della giuria a Venezia, viene da lì, da lontanissimo. Chissà, ha cominciato ad aprirsi proprio in una di quelle forme impresse sulle mattonelle di mescola di marmo dove il piccolo Frammartino probabilmente avrebbe voluto ficcarsi, come ha fatto quasi cinquant’anni più tardi nell’Abisso del Bifurto, a Cerchiara di Calabria, una grotta di origine carsica alle pendici del Pollino e profonda quasi 700 metri e set impensabile, ma reale, di un film all’ingiù. Contrario, rivoluzionario. Speculare alla direzione nella quale vanno tutti, come descrive quella tv accesa in paese che invia la luce ipnotica delle immagini della diretta dal cantiere del Pirellone, cattedrale simbolo del boom italiano e di un’Italia, di un mondo, le cui aspirazioni sono evidentemente inverse.
Ed è qui, a Milano, dove il regista de Le quattro volte (che precede di ben undici anni la discesa nella cosiddetta Fossa del Lupo di Cerchiara) è nato 53 anni fa – ma anche nello spazio e nel tempo del su e giù con la Calabria negli interminabili mesi di una estate che durava da giugno a ottobre, vivendo appieno gli istanti lenti della Magna Grecia senza più bagnanti, in quella estesa lingua di terra che s’affaccia sullo Jonio del mito, respirando quelle sue atmosfere rarefatte, incompiute, silenziose, spessissimo zitte (non è difficile, ahinoi, capire il perché) – che Frammartino ha ricevuto il…


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