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Roman Hocke: Così nacque La storia infinita di Michael Ende

Nell’ottobre del 1981, esattamente quarant’anni fa, usciva per Longanesi l’edizione italiana de La storia infinita, il capolavoro di Michael Ende che ha appassionato milioni di persone in tutto il mondo. Pochi sanno però che questo libro fu concepito e scritto in Italia, a Genzano, un borgo dei Castelli Romani dove Ende ha vissuto per oltre un decennio. Per indagare questo legame misterioso e affascinante tra lo scrittore tedesco e la cultura italiana ho incontrato Roman Hocke, amico di Ende, grande conoscitore della sua poetica e suo agente letterario. Roman, che vive tra l’Italia e la Germania, mi accoglie nella sua residenza genzanese, non lontano dalla villetta in cui Michael Ende visse con la moglie Ingeborg Hoffmann tra il 1970 e il 1985.

Cosa spinse Michael Ende a lasciare la Germania?
In Germania Ende, sebbene il suo lavoro avesse trovato un grande riscontro di pubblico, si era confrontato con un clima intellettuale ostile. Erano gli anni 60, gran parte degli intellettuali erano vicini alla sinistra extraparlamentare e vedevano le sue storie fantastiche come un superficiale escapismo dal confronto con la realtà politica di allora. Erano naturalmente posizioni di stampo molto ideologico, ma a quel tempo era difficile uscire da questi schemi. Ricordo che Michael Ende si è sempre dichiarato orientato a sinistra, e non ha mai capito il senso di questa critica. Lui cercava la libertà di potersi esprimere e sviluppare i temi che gli interessavano. Per lui cambiare il mondo significava prima di tutto cambiare le cose nella testa della gente. Così, mentre in Germania, qualsiasi cosa facesse, ovunque andasse, anche ad una festa di amici, veniva criticato, perché si diceva che portava a far fuggire i giovani dalla realtà in mondi immaginari, arrivato qui in Italia, ha trovato un luogo con un’apertura culturale in cui poteva sviluppare il suo percorso liberamente, senza doversi giustificare con nessuno. In Italia non ha cercato solo il buon vivere, che pure apprezzava moltissimo. Qui ha trovato persone con cui fare lunghe discussioni su questo suo sentiero artistico-letterario, per trovare alla fine poi se stesso.

E come mai Ende scelse di trasferirsi proprio a Genzano?
Il rapporto di Ende con l’Italia risale già alla metà degli anni 60. Ogni estate scendeva con la moglie Ingeborg a Roma, dove erano ospiti della scrittrice Luise Rinser. Poi, nel 1967 quando decisero di trasferirsi definitivamente, Luise volle presentarli a mio padre, Gustav René Hocke. Mio padre aveva scritto Il mondo come labirinto, che nell’ambito degli artisti e degli scrittori fantastici è un po’ una bibbia, perché restituisce dignità all’arte fantastica, dall’antichità fino al giorno d’oggi, contrapponendola al filone classico, che sempre ciclicamente domina il…


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Lampedusa, scomoda verità

Some of the life jackets that the NGO Open Arms has delivered to 70 migrants who were traveling on a skiff, on September 8, 2021, in the Mediterranean Sea, in the vicinity of Lampedusa, Sicily (Italy). The boat 'Astral', of the NGO Open Arms, has sighted a skiff three miles off the island of Lampedusa. A total of 70 people are on the boat. Among them, there are at least four children between three and 10 years old. The boat had departed 24 hours earlier from the beaches of Tunisia. The boat 'Astral' has alerted the authorities of the Lampedusa Coast Guard to indicate the position of the boat, the number of people on board and the state they are in. After the arrival of a patrol boat, the people on board were taken to the port of Lampedusa to be identified. While waiting for the patrol boat, each person was given a life jacket and water. 08 SEPTEMBER 2021;ASTRAL;OPEN ARMS;PATERA;MEDITERRANEAN Jesús Hellín / Europa Press 09/08/2021 (Europa Press via AP)

A Lampedusa, il mare calmo e il vento di scirocco hanno favorito l’arrivo delle barche cariche di migranti in questo inizio d’autunno. Un flusso quasi continuo di uomini, donne e bambini si riversa sul molo Favaloro, mentre a pochi metri gli ultimi bagnanti della stagione prendono il sole o affollano i caffè affacciati sul porto nuovo. I barchini partono da Sfax, in Tunisia, o dalla Libia, e sono carichi di magrebini e subsahariani: molte le famiglie, che scappano da un destino di miseria portando con sé i pochi averi, a volte anche gli animali domestici; persino una pecora è sbarcata sull’isola insieme a un gruppo di tunisini.
I turisti ancora abbronzati e i profughi stremati, in ogni caso, non si incrociano mai. La polizia provvede a sbarrare il passo a chiunque si avvicini e a trasportare subito i nuovi arrivati nell’hotspot blindato e guardato a vista: allestito per 250 posti, è arrivato a contare fino a 1.500 presenze. Oltre al maxi sbarco del peschereccio con 686 migranti a bordo la notte del 27 settembre, in sole 48 ore fra il 2 e il 3 ottobre si sono contati ben 43 arrivi, per un totale di 880 persone. Il giorno successivo, in 110, fra cui alcune donne con bambini piccoli, hanno atteso con pazienza sotto il sole la nave quarantena Atlas: una nuova infornata di migranti, pronti a salire sul vecchio traghetto, dove staranno stipati per un tempo indefinito al largo delle coste lampedusane – da dieci a trenta giorni, a seconda delle necessità – in attesa di essere ridistribuiti in altri centri di accoglienza in Sicilia, se non direttamente rimpatriati.

«Dovrebbero fare domanda di asilo entro cinque giorni per evitare l’espulsione ma molti non lo sanno», spiega Yasmine Accardo, referente per i territori di LasciateCIEntrare, la campagna nazionale contro la detenzione amministrativa dei migranti, che monitora la situazione nelle strutture di accoglienza. La già non facile situazione dei richiedenti asilo è ulteriormente peggiorata con l’istituzione delle navi quarantena, vere e proprie prigioni galleggianti, dove le persone, con la scusa della pandemia e di un possibile contagio, vengono tenute confinate nelle cabine senza poter uscire all’aria aperta. «Dalla Atlas sono arrivate testimonianze di migranti alloggiati nella pancia della nave, senza la luce diretta», testimonia Accardo (autrice con Stefano Galieni del libro Mai più sulla vergogna dei Cpr, edito da Left). Gli operatori sono pochi, da cinque a quindici per ottocento persone, ma la cosa peggiore è il giro di vite sulle deportazioni: «Abbiamo saputo che a tunisini ed egiziani non è stato permesso di accedere alla procedura di richiesta di asilo a bordo delle navi», denuncia l’attivista.

Dal terribile naufragio del 3 ottobre 2013, in cui morirono 368 persone davanti alle coste di Lampedusa – il processo di primo grado si è concluso il 9 dicembre 2020 con sette condanne – non è cambiato niente, al netto dei “mai più” istituzionali ripetuti a ogni ricorrenza. Dal 2014 a oggi l’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha infatti stimato più di 23mila morti nel Mediterraneo e molti di quelli che cercavano di raggiungere Lampedusa sono oggi soltanto un numero su una lapide nei cimiteri dell’agrigentino. «La situazione è disastrosa: abbiamo radar, mezzi navali, elicotteri ed eppure queste imbarcazioni intorno a noi non le vede nessuno», denuncia Vito Fiorino, che quella notte…


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La tempesta perfetta delle leggi antiabortiste

Protesters take part in the Women's March and Rally for Abortion Justice in Austin, Texas, on October 2, 2021. - The abortion rights battle took to the streets across the US, with hundreds of demonstrations planned as part of a new "Women's March" aimed at countering an unprecedented conservative offensive to restrict the termination of pregnancies. (Photo by Sergio FLORES / AFP) (Photo by SERGIO FLORES/AFP via Getty Images)

Prendiamo il caso di una ragazza di 21 anni, Norma McCovey, che rimane incinta per la terza volta senza desiderarlo. Ha avuto un passato difficile, non si sente in grado di portare avanti la gravidanza e crescere un figlio. Torna in Texas, dove è cresciuta, ma si scontra con la legge dello Stato che le impedisce di abortire. Le prova tutte, anche mentendo, ma non c’è nulla da fare: McCovey è costretta a portare a termine la gravidanza contro la sua volontà perché non riesce ad accedere all’interruzione di gravidanza né legalmente, né illegalmente.
Questa storia risale agli anni tra il 1969 e il 1973, ma potrebbe essere benissimo ambientata nella Dallas di oggi. Norma McCovey altro non è che il vero nome di Jane Roe, la protagonista della storica sentenza Roe v. Wade del 1973 che ha reso l’aborto legale a livello federale, sancendo il diritto all’aborto e quello alla contraccezione come parte del diritto alla privacy della donna, normato dal IX e dal XIV Emendamento alla Costituzione statunitense.

Da quando è entrata in vigore la Roe v Wade, che pur essendo una sentenza della Corte Suprema in un sistema di common law come quello statunitense ha valore di legge, sembra che gli Stati più conservatori non abbiano fatto altro che cercare un modo per farla ribaltare, to be overturned. I tentativi sono stati numerosi, ma sembra che il governatore del Texas Greg Abbott e la sua squadra al Senato statale siano andati molto vicini a trovare la formula perfetta per aggirare quanto prescritto nella sentenza del 1973 e impedire, nella pratica dei fatti, alle donne di abortire. All’inizio di settembre, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha confermato la legalità del Senate Bill 8 (Sb8), un provvedimento che rende illegale abortire all’interno dei confini del Texas oltre la sesta settimana di gravidanza anche in caso di incesto, stupro o malformazioni del feto. Non è la prima volta che uno Stato conservatore presenta una cosiddetta heartbeat law (chiamata così perché il limite massimo consentito per accedere all’interruzione di gravidanza è il momento in cui è possibile rilevare il battito cardiaco del feto): nel 2019 ci avevano provato anche in Georgia, salvo poi scontrarsi con l’incostituzionalità del decreto presentato.

Quella preparata dal senatore texano Brian Hughes, invece, sembra essere la tempesta perfetta delle leggi antiabortiste: a far rispettare la Sb8 non sarà un pubblico ufficiale, ma i cittadini stessi. Sono loro gli incaricati in questo meccanismo di delazione che viene retribuito (o, come scrive la legge, “risarcito”) ben 10mila dollari. In pratica un texano si apposta nei pressi di una clinica dove si praticano aborti, spia la donna che si sta rivolgendo al medico di turno e…


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Unione europea, muri e barriere. Sulla pelle dei profughi

Refugees stand by a barbwire fence as Hungry closed the border line between Serbia and Hungary in Roszke, southern Hungary on September 15, 2015. A razor-wire barrier along the 175km border with Serbia is aimed at keeping out refugees entering from Serbia (Photo by Beata Zawrzel/NurPhoto via Getty Images)

Immagini dall’Europa Fortezza. Al largo delle coste libiche e di quelle tunisine, continuano, fra silenzio e rassegnazione, i naufragi, l’inesorabile perdita di vite umane che da oltre 30 anni caratterizza il Mediterraneo centrale. Sogni di vita da vivere che si infrangono contro un muro invalicabile. Un muro fatto di leggi, che spesso violano Convenzioni internazionali, di acqua che travolge i fuscelli su cui ci si imbarca, dell’ipertecnologia fallimentare di Frontex, di respingimenti collettivi favoriti dai governi libico e tunisino ma attuati grazie a droni che partono da basi italiane. Ora un altro muro, un’altra immagine. Il 7 ottobre scorso è arrivata alla Commissione europea una lettera firmata dai governi di 12 Paesi: capofila l’Ungheria di Orban, a seguire i governi reazionari e ultracattolici dell’Est Europa fino a quelli di Grecia, Cipro e Danimarca. Cosa chiedono costoro a Bruxelles? Soldi, milioni e milioni di euro per realizzare una barriera orientale – muri, filo spinato e altri strumenti “dissuasori” – che faccia da argine soprattutto i profughi della nuova crisi umanitaria, quella afghana.

La richiesta, odiosa e provocatoria, si può smontare con gli strumenti della conoscenza e dei dati reali. Intanto è comprovato da decenni che oltre il 90% di coloro che fuggono dall’Afghanistan (come se non bastasse il fondamentalismo dei talebani ora la popolazione deve fare i conti anche con gli attentati dell’Isis) si ferma nei Paesi confinanti, in particolare Iran e Pakistan. Quest’ultimo soprattutto con la sua frontiera porosa, la Durand line, dal nome del Segretario degli Esteri del raji (impero) britannico, detta anche zero line, rappresenta dal 1893 un confine mai totalmente riconosciuto. In futuro Islamabad potrebbe chiedere sostegno Ue o delle Nazioni Unite per i campi profughi afghani, utilizzando – come già fa da anni Erdogan con i siriani – tale disponibilità come arma di ricatto.

Ma accettiamo pure che una parte dei cittadini afghani in pericolo di vita cerchino di forzare le frontiere per arrivare in Europa. Intanto i rischi del tragitto sono enormi e i tempi per attraversare un continente sono talmente lunghi da non poter dar luogo a nessun grande spostamento. Quelli di cui ogni tanto abbiamo notizia, sui camion che attraversano la rotta balcanica o che arrivano in Calabria dalla Turchia, sono partiti oltre un anno fa, ben prima della crisi attuale. La Commissaria europea agli affari interni Johansson, nell’incontro del Consiglio d’Europa che si è tenuto l’8 ottobre ha dichiarato di…


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Leggi di civiltà, i diritti non possono attendere

Dallo ius soli all’eutanasia legale, al ddl Zan. Dalla legge contro il consumo di suolo a quella contro le delocalizzazioni selvagge e per imporre sanzioni a chi non rispetta le norme di sicurezza sul lavoro. Sono tante le norme di civiltà che ancora mancano in Italia. In questo speciale di Left ne abbiamo richiamate alcune ben consapevoli che su certe questioni serve un profondo cambiamento culturale. Non bastano le leggi. Ma tuttavia sono irrinunciabili e non più rimandabili. A cominciare da una buona legge sulla cittadinanza. La Repubblica deve riconoscere il pieno diritto che spetta ai giovani cittadini italiani ancora senza cittadinanza. Per rispondere a un vulnus di democrazia inaccettabile in un Paese civile e che ancora persiste nonostante le buone parole e le promesse di Pd e M5s, che quando erano in posizioni di governo tali da poter far passare questo provvedimento non sono stati conseguenti. Va dato atto al segretario del Pd, Enrico Letta, di aver rilanciato la battaglia, anche se è ben noto che difficilmente troverà ascolto la proposta nel draghiano patto di unità nazionale che comprende anche la Lega.

Eutanasia legale: 1 milione e 221 mila firme sono state depositate dalla associazione Luca Coscioni alla Corte di cassazione per il referendum a favore della legalizzazione dell’eutanasia per persone affette da malattie organiche irreversibili. È stato possibile dopo la Consulta si è pronunciata contro il fascista Codice Rocco dando, nel settembre del 2018, un anno di tempo al Parlamento per legiferare sul tema. Ma nulla è stato fatto. C’è stata invece una valanga di sottoscrizioni al quesito referendario per l’abrogazione parziale del reato di omicidio del consenziente ancora oggi in vigore. In un Paese dove il 56% degli elettori ha disertato i seggi per eleggere il proprio sindaco, moltissimi giovani sono andati a firmare per questo referendum, anche se hanno una vita davanti, anche se non è un loro problema personale. Lo hanno fatto per una questione di umanità. Chi dice che la facilità di partecipare ai referendum – grazie anche alla possibilità di sottoscriverli con firma digitale – sia una forma di democrazia plebiscitaria e diretta sostitutiva del potere legislativo dimentica che i referendum ammessi in Italia sono solo abrogativi e dunque dialettici rispetto all’attività del Parlamento, non certo alternativi al fondamentale lavoro dell’Aula.

E ancora, volendo parlare seriamente di transizione ecologica e di tutela dell’ambiente, è necessaria e urgente una legge contro il consumo di suolo, che in Parlamento è ferma dal 2012.

Più urgente ancora è applicare pienamente le leggi che ci sono per fermare la strage quotidiana di morti sul lavoro. Nuove assunzioni di ispettori sul lavoro sono state spesso annunciate e mai concretizzate. Sanzioni per le imprese che non sono in regola dal punto di vista della sicurezza sono state annunciate dal ministro Orlando, ne aspettiamo l’attuazione. E potremmo continuare a lungo parlando di una attesa legge contro le delocalizzazioni selvagge. Se ne parla da tempo. Intanto gli operai della Whirpool sono stati licenziati. Parliamo di una multinazionale non in crisi e che ha preso finanziamenti pubblici in Italia. Diritti civili e diritti sociali, tra i quali anche il diritto a un salario minimo, debbono andare di pari passo, in una prospettiva di progresso democratico, non ci stancheremo mai di ripeterlo.

Foto di Sharon McCutcheon da Pixabay


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Salario minimo, vogliamo solo una vita dignitosa

Nell’ultimo quarantennio abbiamo assistito a quella che Luciano Gallino ha definito “lotta di classe rovesciata”, agita dai padroni per riprendere il controllo totale sui profitti estendendoli senza freni. La partita si è giocata su due aspetti fondamentali. L’inflazione e le conseguenti politiche “monetaristiche” al centro dell’Europa di Maastricht. La globalizzazione del mercato del lavoro e della finanza. Sul primo aspetto l’Italia fu un apripista con le politiche dei redditi di La Malfa, l’accusa ai salari di provocare l’inflazione e il revisionismo per cui l’inflazione stessa sarebbe stata il nemico principale dei salari. La stretta sul Pci e sulla Cgil fu fortissima e culminò con l’assalto craxiano, e non solo, alla Scala mobile, quello strumento che serviva a tutelare il potere d’acquisto dei salari, adeguandoli in automatico all’aumento del costo della vita. Nel frattempo il Sistema monetario europeo (entrato in vigore nel 1979, ndr) cioè il primo passaggio a politiche europee di controllo monetaristiche, fa capire che il controllo accompagnerà anche processi di ristrutturazione produttiva favorevoli a più alti saggi di profitto. Il Pci avverte l’una e l’altra minaccia ma, sconfitto sulla Scala mobile, e minato nella propria autonomia di lettura, perderà la presa fino a cambiare punto di vista e ragion d’essere dallo scioglimento in poi. La sequenza “via la Scala mobile, firma di Maastricht, accordi concertativi del ’92/’93”, con lo scioglimento del Pci stesso, diventa ancora più impressionante se si leggono oggi i dati sull’andamento dei salari in Italia. L’unico Paese in Europa a registrare oggi un salario reale peggiore del 1990, come emerge da un’analisi di OpenPolis.

Tra il 1990 e il 2020, infatti, nel nostro Paese si è registrato un calo del salario medio annuale pari al 2,9%. Crescono di più i salari nei Paesi del vecchio blocco dell’Est, dove si partiva molto bassi. Ma in Germania e in Francia, per esempio, i salari medi hanno avuto un aumento rispettivamente del 33,7% e del 31,1%, nonostante partissero da livelli già alti. Se all’inizio degli anni 90 l’Italia era il settimo Stato europeo subito dopo la Germania per salari medi annuali, nel 2020 è scesa al tredicesimo posto, sotto a Paesi come Francia, Irlanda, Svezia e Spagna, che negli anni 90 avevano salari più bassi di noi. L’aggiornamento recente dei dati Eurostat mostra poi come nel 2020 il valore complessivo degli stipendi italiani sia tornato sui livelli del 2016. Lo scorso anno infatti il suo valore complessivo è diminuito di 39,2 miliardi di euro, una flessione del 7,5% rispetto al 2019. Il monte stipendi è sceso da 525,7 miliardi a 486,4. Nello stesso periodo in Francia sono stati persi 32 miliardi (da 930 a 898 miliardi) con un declino del 3,4% mentre in Germania la flessione è di soli 13 miliardi su oltre 1.500. Nell’intera Unione europea il calo è stato dell’1,9%. Per altro il dato di partenza del 2016 era già fortemente segnato dalla crisi precedente, quella del 2009. Rispetto ad essa l’Italia non aveva ancora recuperato per intero neanche il monte ore lavorato, mentre una parte molto significativa di questo monte ore si era trasformata in precaria.

Naturalmente i monte salari complessivi sono legati ai tassi occupazionali che sono storicamente molto diversi nell’area Ue e tali sono rimasti. Peraltro nel 2020 il mercato del lavoro nella Ue è stato fortemente colpito dalla pandemia: il tasso di occupazione nella fascia di età 20-64 è calato a 72,4%, giù di 0,7 punti percentuali rispetto al 2019. Secondo i dati Eurostat l’Italia è il Paese con il tasso di occupazione più basso (62,6%) dopo la Grecia (61%), mentre il più elevato si è registrato in Svezia (80,8%).

Ma oltre ai tassi occupazionali ci sono i costi del lavoro medi, i carichi fiscali e i tempi di impiego medi, molto differenziati in Europa, di cui non tratterò qui per brevità, ma che sono decisivi per definire il salario reale.

La lettura che propongo è che in generale c’è una pressione contro i salari a perdere in rapporto al saggio di profitto e che essa avviene in forme diverse ma che si sommano. In Germania si sta sotto i livelli che sarebbero motivati dalla produttività. In Italia la svalorizzazione dei salari, e del lavoro, arriva da molteplici fattori che vanno dalla compressione tour court delle paghe, alla precarizzazione, alle nuove generazioni che prendono meno delle vecchie, alla riduzione del lavoro pubblico, alla perdita di segmenti nella cosiddetta catena del valore globale. In ossequio alle teorie degli anni 80 poi dilagate per cui la riduzione del costo del lavoro e la flessibilità avrebbero favorito occupazione e competitività, teorie sono pienamente falsificate. Ma che purtroppo non sono mai state abbandonate. Basti pensare che, in base a quanto contenuto nel Documento di economia e finanza, si calcola che 56 miliardi su 108 di aiuti di Stato distribuiti nell’anno del lockdown siano andati alle imprese: ciò non ha certo favorito i salari. Cioè, in pratica, le paghe scendono sia con l’austerity che con il Pnrr.

La verità è che fare la battaglia per un vero salario minimo europeo che abbini armonizzazione e dignità significa ripensare alle fondamenta il dogma per cui sarebbe stata l’integrazione, e la libertà, di mercato a determinarlo. Questa tesi è falsificata dalla realtà ma ciò non basta a modificare l’ideologismo fondativo di Maastricht.

Adesso, una proposta sul salario minimo della Commissione europea c’è, ma è indicativa e debolissima. C’è una discussione aperta in Germania, Francia, Spagna. E anche in Italia. È necessario però partire dallo stato dell’arte. Al primo gennaio 2021, 21 dei 27 Stati membri Ue hanno un salario minimo nazionale; non ce l’hanno Danimarca, Italia, Cipro, Austria, Finlandia e Svezia.

Il punto di partenza per me è che “minimo” deve significare “dignitoso”. La quota minima di retribuzione deve essere dichiaratamente volta ad aumentare la quota di reddito che va ai salari e non accompagnare il contrario. Cioè non deve essere una politica di sussidio della ulteriore liberalizzazione dei mercati del lavoro. Cioè deve invertire il trend dominante. Non è facile e metterlo in chiaro è decisivo.

Ma come si fa? Le mie idee sono che si deve operare in una connessione stretta tra dimensioni nazionali ed europea. E tra legge e contrattazione. Che significa? Che la soglia minima indicata solitamente nel 60% del salario medio deve essere quella relativa alla media europea, almeno tendenzialmente. E che per farlo ci vuole anche un livello legislativo e contrattuale europeo. Quello legislativo sembrerebbe escluso dalle norme esistenti. Ma, dico io, se la Commissione europea ha trattato per tutti il prezzo e l’acquisto dei vaccini si può ben pensare a un tavolo europeo almeno all’inizio su imprese multinazionali e lavoratori pubblici che produca accordi sui minimi che diventano regolamenti erga omnes. Così come si può pensare a un livello contrattuale europeo da aggiungere a quelli nazionali e territoriali. Quali che siano le soluzioni concrete che si possono proporre la cosa fondamentale è che su di esse ci sia una lotta che riunifichi il mondo del lavoro che Maastricht ha frantumato.


L’articolo fa parte dello SPECIALE LEGGI DI CIVILTÀ pubblicato
su Left del 22-28 ottobre 2021

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Il governo dei Maroni

La ministra Lamorgese decide di nominare Roberto Maroni per guidare la Consulta contro il caporalato. Il governo dei migliori, si sa, per sua costituzione deve tenere dentro tutti e la ministra deve avere pensato che non ci fosse modo migliore per rispondere agli attacchi di Salvini di queste settimane nominando un suo nemico interno, come se non avesse già abbastanza problemi dopo i pessimi risultati delle amministrative.

Maroni del resto è lo stesso che in questi ultimi mesi non ha lesinato critiche al segretario della Lega (nonostante l’abbia inventato lui, ve lo ricordate?, quando prese a ramazzare con la scopa di saggina una Lega che era ai minimi storici per i disastri combinati da Umberto Bossi): «Umberto Bossi, stratega per eccellenza, aveva una visione», disse Maroni al Foglio. «Usava me come tattico, sì, ma si capiva che guardava lontano. E io non voglio certo parlare male di Salvini, però insomma, qui la tattica rischia di sconfinare nell’assenza di progetto per il domani della Lega. Non a caso i governatori sul territorio non ragionano così». Sempre sul Foglio Maroni attaccò Salvini quando si trattò di trovare un candidato in Regione Lombardia (poi ci misero Fontana) e qualche malalingua disse che Maroni puntasse a un ministero: accusò Salvini di aver usato nei suoi confronti «metodi staliniani». «In tanti si affannano a dire che io non sarò ministro», spiegò Maroni, «ma chi vuole fare il ministro? Non pretendevo di sentirmi dire che sono stato un bravo governatore, pretendevo però che il segretario del mio partito non utilizzasse la mia scelta di vita per cercare di colpirmi». E poi l’affondo: «Io sono un leninista convinto, uno che crede nella leadership. Ma non avrei mai creduto di trovarmi di fronte un leader stalinista».

Qualcuno gode: guardate che bello scherzetto ha fatto Lamorgese a Salvini, si dicono dandosi di gomito, come se il governo fosse una cosa talmente poco seria da poter diventare il cortile delle scaramucce. Pochi, vedo, rimangono sul punto: nominare in un ruolo così delicato per quanto riguarda disperazioni e diritti un ex ministro dell’Interno che diede il via alla stagione dei respingimenti (con tanto di condanna all’Italia, come nel caso Hirsi), un ex ministro che difese con i denti quella legge Bossi-Fini che creò la sacca di disperati invisibili che sono il serbatoio perfetto per il caporalato, un ex ministro che voleva prendere le impronte digitali ai bambini rom, un ex ministro che volle il trattenimento nei Cie per 18 mesi è un’evidente scelta politica. Una pessima scelta politica.

Lo dice benissimo l’associazione Terra! (che di caporalato si occupa da anni) che nel suo comunicato scrive: «Desta stupore la decisione di istituire un ulteriore organo – oltre al già esistente Tavolo Caporalato – presieduto dagli stessi Ministeri e impegnato nella stessa missione, cioè l’attuazione del Piano Triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo. Riteniamo infatti che la moltiplicazione dei luoghi deputati a dare impulso alle iniziative contro il caporalato abbia come effetto il rallentamento dei processi decisionali e, quindi, il raggiungimento degli obiettivi. La scelta della ministra Lamorgese – dichiara Fabio Ciconte, direttore di Terra! – ha come effetto l’indebolimento degli spazi di democrazia, di confronto e dialogo sul tema del caporalato, che ci ha visti finora protagonisti, al fianco dei sindacati e di tante reti associative, nel ripensamento della filiera agroalimentare e nella tutela dei diritti di tutti gli attori del comparto. Affidare ad una personalità con la storia e le idee di Maroni la presidenza di un organo che replica le azioni portate avanti in altri Tavoli, renderà complicata la consultazione degli attori coinvolti nell’azione di contrasto». E ancora: «Conosciamo bene la storia politica dell’ex ministro del Lavoro e dell’Interno, e del suo partito, la Lega, che negli anni scorsi ha contribuito a creare nel paese un clima di persecuzione nei confronti delle persone migranti, che risiedono nelle nostre città e lavorano nelle nostre campagne. Da oggi, a Roberto Maroni viene affidata una delle sfide più difficili del nostro tempo: il contrasto allo sfruttamento di quelle stesse persone che lui e i suoi colleghi di partito avrebbero voluto espellere, spesso residenti negli insediamenti informali che punteggiano la nostra penisola, sgomberati con forza negli anni in cui alla testa del Ministero dell’Interno c’era Matteo Salvini. La nomina giunge come un attacco netto a tutte le vittime di caporalato e anche a quelle associazioni, come la nostra, che, nel corso di questi anni, si sono spese con determinazione per l’approvazione della legge anti caporalato, un provvedimento criticato e deriso dalla Lega, che più volte ha chiesto di modificarlo, ritenendolo “persecutorio” nei confronti dei datori di lavoro e dei caporali».

Che dite, tutto bene?

Buon venerdì.

 

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Una piazza sindacale e democratica. Antifascista

In un’epoca di revisionismo e di pensieri deboli le parole della politica si svuotano del loro senso più intrinsecamente storico, prospettico e sociale.
Sabato a Roma c’erano centinaia di migliaia di persone, molte sono rimaste bloccate nelle stazioni della metropolitana non riuscendo ad arrivare, migliaia hanno invaso le strade limitrofe alla Piazza, con quella forza e determinazione che necessitava la brutalità e la violazione della Casa dei lavoratori quale emblema di libertà e riscatto. A tanti che affollavano le stazioni della metropolitana, sperando di poter arrivare per sostenere le ragioni dell’antifascismo, curiosamente sono stati chiesti i documenti, la provenienza e a rispondere a domande del tipo: come mai siete venuti a Roma? Eppure le bandiere rosse erano una matrice abbastanza evidente, ma si sa le matrici sono difficili da determinare di questi tempi, per chi sa che agitare il vessillo del nazionalismo, del securitarismo, della xenofobia e dell’intolleranza verso le moltitudini di identità di genere, culturali, geografiche, sociali. Come se nel mondo globalizzato vi fosse un idealtipo di persona, società e forma istituzionale che possa prevalere sulle altre, salvo poi dover gestire l’incompatibilità tra questi orientamenti e la democrazia costituzionale.
Una piazza sindacale perché all’appello di Cgil, Cisl e Uil hanno risposto lavoratrici e lavoratori, studentesse e studenti, pensionate e pensionati. Una piazza del lavoro e per i diritti.
Una piazza democratica perché di molti: antifascista è chiunque si riconosca nella Costituzione le cui radici si ritrovano nella Democrazia fondata sul lavoro.
Proprio alla Costituzione ci richiamiamo nella rivendicazione di agire con determinazione istituzionale nel volere dare attuazione alla XII disposizione transitoria e finale della Costituzione Italiana che vieta la riorganizzazione del partito fascista: «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista».
Abbiamo appoggiato con forza l’iniziativa del Comune di Sant’Anna di Stazzema, siamo iscritti all’anagrafe antifascista e sosteniamo la legge di iniziativa popolare che intende disciplinare pene e sanzioni verso coloro che attuano propaganda fascista e nazista con ogni mezzo. Vale giusto la pena ricordare che la legge Scelba del ’52 all’art.1 stabilisce così: «Si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione o un movimento persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politico o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di…

*L’autrice: Serena Sorrentino è segretaria generale Funzione pubblica Cgil (Fp-Cgil)


L’articolo prosegue su Left del 22-28 ottobre 2021

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Nuoce gravemente alla democrazia

IMAGE DISTRIBUTED FOR SUMOFUS - SumOfUs erected a seven-foot visual protest outside the US Capitol depicting Facebook CEO Mark Zuckerberg surfing on a wave of cash, while young women surround him appearing to be suffering Thursday, Sept. 30, 2021, in Washington. On Thursday, members of the Senate Subcommittee on Consumer Protection, Product Safety, and Data Security met to discuss the negative impact social media is having on children. (Eric Kayne/AP Images for SumofUS)

Prima è arrivata la bomba di metà settembre, sganciata dal Wall Street journal: Facebook sa che Instagram sarebbe pericoloso per la salute mentale delle adolescenti, ma ancora non ha preso alcun provvedimento. Poi a inizio ottobre c’è stato il lungo stop (quasi sei ore) di Facebook, Instagram e Whatsapp (brand che fanno parte del medesimo gruppo capitanato da Fb), costato a Mark Zuckerberg oltre 6 miliardi di dollari. Infine la deposizione al Senato Usa di Frances Haugen, la ex dipendente della azienda di Menlo Park che ha fatto trapelare gli studi interni dedicati agli effetti negativi dei social sui ragazzini e ha permesso così la serie di inchieste del Wall Street journal.

Insomma, non tira certo una bella aria dalle parti dell’azienda di Zuckerberg, nell’occhio del ciclone di stampa e opinione pubblica in particolare nel mondo anglosassone.

In una slide che compone i dossier consegnati al Wsj da Haugen, e poi pubblicati da Facebook stesso poco prima che la whistleblower – dopo essere uscita allo scoperto – fosse interrogata davanti alla commissione del Senato, si legge che il 32% delle adolescenti ha affermato che quando si sentivano male per il proprio corpo, Instagram le faceva sentire peggio. Da un altro documento si evince che diversi adolescenti incolpano Instagram per l’aumento del tasso di ansia e depressione. Tra i teenager che manifestano “pensieri suicidi”, il 13% dei britannici intervistati e il 6% degli statunitensi fanno risalire questo pensiero a Instagram, indicava un’altra presentazione a uso dei dipendenti.

Un quadro che diventa ancora più allarmante se si aggiunge che da tempo Facebook era al lavoro per il lancio di Instagram Kids, definito come «un’esperienza Instagram ad hoc per i ragazzi e le ragazze sotto i 13 anni». Ora questo progetto risulta ufficialmente sospeso. Nel commentare la vicenda, oltreoceano, c’è chi ha paragonato queste rivelazioni a quelle che fecero vacillare i colossi delle sigarette – colpevoli di aver ingannato i consumatori sugli effetti tossici e cancerogeni del fumo – e che portarono a grandi cambiamenti nel settore.

È pur vero che, come ha ricordato Facebook nei suoi lunghi comunicati in difesa del proprio operato, la ricerca resa pubblica da Haugen parla anche di effetti positivi di Instagram sulla vita degli adolescenti e il campione su cui si basava lo studio era piccolo e non indicativo. D’altro canto, stiamo parlando di studi i cui dati non sono trasparenti, risultano inaccessibili a ricercatori indipendenti per ulteriori analisi, dunque occorre fare estrema attenzione prima di trarre conclusioni avventate. Ma Haugen si è spinta oltre la questione della salute mentale dei minori. «Sono qui oggi – ha dichiarato in Senato – perché credo che i prodotti Facebook danneggino i bambini, alimentino la divisione e indeboliscano la nostra democrazia. La leadership dell’azienda sa come rendere più sicuri Facebook e Instagram, ma non apporterà i cambiamenti necessari. Perché ha messo i suoi profitti astronomici prima delle persone».

Secondo i documenti interni che Haugen, prima di abbandonare Facebook, aveva copiato di nascosto (parliamo di migliaia di pagine) l’azienda avrebbe mentito sui progressi per contrastare hate speech, violenza e disinformazione. Alla base del problema ci sarebbero gli algoritmi introdotti nel 2018, a detta della whistleblower pensati per aumentare l’engagement (ossia il coinvolgimento degli utenti) anche al costo di instillare odio e paura nei cittadini. Perché «è più facile infondere nelle persone la rabbia che altre emozioni» ha dichiarato Haugen.

Da un documento di marzo 2021 si evincerebbe che solo il 3-5% dei contenuti di odio sono intercettati da Facebook, a causa dei limiti delle prassi umane e automatizzate di moderazione, e dunque circa il 95% dei post che violano le norme di Facebook in quanto hate speech passano tra le larghe maglie dei controlli, a differenza di quanto spesso dichiarato dai vertici della azienda. Inoltre, secondo altri dossier, Facebook investirebbe l’87% del proprio budget dedicato alla lotta contro la disinformazione per topic e utenti degli Stati Uniti, anche se coloro che usano i social negli States sono circa il 10% degli utenti totali attivi ogni giorno nella piattaforma. Questa politica avrebbe dunque esacerbato lo “spread” di discorsi di odio e fake news nei Paesi non occidentali, dunque anche in zone dove i conflitti interni e l’instabilità politica avrebbero dovuto suggerire un maggior controllo di questi canali di comunicazione al fine di evitare un’escalation della violenza nei confronti della popolazione civile e in particolare delle minoranze.
Questo dato conferma un’evidenza: l’attenzione mediatica nei confronti dei social network è massima nel mondo anglosassone e in particolare negli Usa. E se vogliamo capirne le ragioni profonde, bisogna addentrarsi nella geopolitica e nella storia degli States. Ne è convinto Edoardo Fleischner, docente di Comunicazione crossmediale all’Università degli Studi di Milano e autore, insieme a Emilio Targia, del format di approfondimento Media e dintorni su Radio radicale.
«Per capire il…»…


L’inchiesta prosegue su Left del 22-28 ottobre 2021

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Il brutto di Instagram, il bello degli adolescenti

Sulla base di documenti forniti da una ex dipendente di Facebook, Frances Haugen, che con la sua denuncia è arrivata fino al Congresso americano, il Wall Street Journal il mese scorso ha pubblicato un’inchiesta rimbalzata in questi giorni su diverse autorevoli testate internazionali. Il succo della questione è che l’azienda fondata da Zuckerberg sapeva che certi suoi prodotti potevano ledere la salute mentale delle adolescenti, ma ha preferito tenere tutto questo nascosto, senza intervenire.

È ben noto del resto (e non da ora) che l’algoritmo dei social più diffusi e in particolare Instragram premia in visibilità una comunicazione fotografica che esalta la perfezione della figura fisica, definita in base a freddi standard. Quanto tutto questo può impattare su chi attraversa una fase vitale di cambiamento come l’adolescenza? Che cosa può provocare nella mente di quella fetta di giovanissimi che hanno delle fragilità? E più in generale quanto i ragazzi sono invece capaci di fare un uso critico dei social, di reagire e dribblare i loro meccanismi?

Abbiamo preso spunto dalla cronaca di questi giorni e settimane per tornare a mettere al centro una questione importantissima: la salute mentale dei più giovani che durante questi due lunghi anni di pandemia e di dad, perlopiù, hanno avuto a disposizione solo il web per comunicare con i propri amici e compagni. Ne abbiamo parlato in primo luogo proprio con loro e, come leggerete, le loro risposte sono sorprendenti per vitalità, intelligenza, bellezza. E ne abbiamo parlato con i maggiori esperti di social media e soprattutto con psichiatri e psicoterapeuti dell’età evolutiva. Il quadro che emerge è complesso e sfaccettato: se i social certamente non vanno demonizzati e anzi possono essere uno straordinario strumento di comunicazione, di espressione e di realizzazione di sé, dall’altra parte non possiamo chiudere gli occhi sui meccanismi di un capitalismo delle piattaforme che usa le persone come merce. Nel libro Facebook: l’inchiesta finale (da poco pubblicato da Einaudi) Sheera Frenkel e Cecilia Kang che rispettivamente si occupano di cybersecurity e nuove tecnologie e politica per il New York Times scrivono che «per anni Facebook si è avvalsa di una strategia spietata basata sul bury or buy, compra o soccombi, per eliminare la concorrenza. Ne è risultato un potente monopolio che ha fatto grossi danni. Ha abusato della privacy degli utenti e ha fomentato la diffusione di contenuti tossici e dannosi raggiungendo tre miliardi di persone». Lo strumento principe è stata una strategia pubblicitaria «innovativa e deleteria che sorvegliava gli utenti per ricavarne dati personali». In pratica più tempo passano gli utenti sulla piattaforma, maggiori sono i dati che vengono estratti. «Per usare Facebook gli utenti non danno denaro. Cedono il proprio tempo, la propria attenzione e i propri dati personali».

Si tratta di un modello di business che usa i dati umani come strumenti economici scambiati sui mercati come fossero futures sul granoturco o sulla pancetta» scrivono le due giornaliste del NYT. Li usa con un sistema che funziona per contagio come ha spiegato Shoshana Zuboff in un testo che è già un classico, Il capitalismo della sorveglianza. Questo significa che dovremmo tutti fuggire dai social che appartengono a piattaforme monopolistiche private? Non pensiamo che la soluzione possa venire da un passo indietro. Casomai da un passo in avanti, immaginando – perché no – piattaforme pubbliche come suggerisce anche Edoardo Fleischner in questa storia di copertina. E soprattutto significa che la scuola e le famiglie dovrebbero far crescere nei giovanissimi senso critico nell’uso di questi strumenti, che in prospettiva potrebbero diventare sempre più invasivi.

Nei giorni scorsi Zuckerberg ha lanciato il “progetto metaverso” per far sì che i social sempre più utilizzino l’intelligenza artificiale e la realtà aumentata per offrire esperienze immersive, sulla scorta di quanto già fanno molti videogiochi. Il lancio di metaverso, insieme alla promessa di creare con Facebook 10mila posti di lavoro in Europa, arrivano non a caso dopo il recente blackout mondiale e le inchieste dei media anglosassoni e certamente questi annunci hanno a che fare con una strategia propagandistica. Sarà comunque importante osservarne attentamente gli sviluppi.
L’uso razionale dell’essere umano come fosse una merce a fini di profitto non è mai innocuo e senza conseguenze. Specie se quella persona è ancora in una fase bella e delicata della crescita.

Foto di Mohit Maurya da Pixabay


L’editoriale è tratto da Left del 22-28 ottobre 2021

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