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Alla fine tutti a scodinzolare da Berlusconi

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 19 Ottobre 2021 Roma (Italia) Cronaca: Incontro dei leader di centro destra presso la villa sull’Appia dove risiede Silvio Berlusconi Nella Foto : Silvio Berlusconi , Giorgia Meloni Matteo Salvini Photo Cecilia Fabiano/ LaPresse October 20 , 2021 Rome (Italy) News : Meeting off conservative parties in Berlusconi’s house in Rome In the Pic : Silvio Berlusconi , Giorgia Meloni Matteo Salvini

L’immagine più potente del disastroso momento del centrodestra è la finta serenità sputata ai giornali ieri di Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni mentre passeggiano, sorridono, si abbracciano, si baciano e fanno comunella a Villa Grande, la ex dimora del regista Zeffirelli sull’Appia oggi residenza romana di Berlusconi. È un incredibile salto indietro nel tempo, negli anni 90, quando la politica che si era fatta marketing era convinta di potersi raccontare sulle pagine patinate senza il bisogno di raccontare i contenuti.

L’incontro di ieri (fortemente voluto da Berlusconi che è convinto di poter tenere a bada i suoi giovani, inesperti e troppo focosi alleati) porta con sé la nostalgia dei tempi andati, come quelle cene di classe molti anni dopo quando tutti si ritrovano un po’ ammaccati dalla vita, piuttosto imbolsiti e pateticamente incagliati sugli amori e le simpatie che erano allora perché vuoti di emozioni presenti. La linea politica che esce dall’incontro dei tre leader è un comunicato bulgaro che non vale nemmeno la pena leggere, ripete quel “volemose bene” che è la strategia di uscita più banale per le situazioni complesse. Berlusconi dice che sono tutti “uniti” e che ha intenzione di “sostenere Draghi e di tenere unito il centrodestra” come se non fosse un fatto su cui riflettere che due partiti su tre sostengano il governo mentre Fratelli d’Italia sta bellamente a sollazzarsi all’opposizione.

L’idea della federazione lanciata da Salvini è finita nel cassetto delle sparate buone per un paio di articoli di giornale mentre quello che esce è per l’ennesima volta un commissariamento del Cavaliere che vuole riproporsi come leader. Anche la recita di Salvini e Meloni che sono amici per la pelle è qualcosa a cui non crede più nessuno.

Ma c’è un punto sostanziale che racconta bene il degrado: Silvio Berlusconi ieri pare che abbia raccontato ai suoi discoli di Lega e FdI che mancherebbero solo una trentina di voti per coronare il suo sogno di diventare presidente della Repubblica. E questo è il punto cruciale che racconta la sensazione: il centrodestra che si lamenta di avere perso male le elezioni amministrative per mancanza di proposte di spessore sta davvero brigando convinto di poter eleggere presidente della Repubblica un uomo che si è seduto al tavolo con Cosa Nostra e che ne ha finanziato le attività con le sue società.

Basta questo, solo questo, per rappresentare il momento.

Buon giovedì.

 

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Francesca Fagioli: L’energia, e la fragilità, degli adolescenti alla prova dei social

NEW YORK, USA, 25. MAY 2020: Facebook online social media and social networking Children silhouette, sitting together and playing on their laptops. Company logo on screen in background

Come abbiamo letto nell’inchiesta di Leonardo Filippi su Left, dallo studio commissionato da Facebook è emerso che uno dei canali social appartenenti al gruppo di Mark Zuckerberg, Instagram, può nuocere alla salute psicofisica dei più giovani e degli adolescenti, perché, in estrema sintesi, gli algoritmi sono stati appositamente calibrati per privilegiare la circolazione di immagini tra i minori, legate alla bellezza fisica e all’apparire in un certo modo. Non vogliamo demonizzare i social ma indagarne il lato più problematico, legato al business a tutti i costi da parte di chi li gestisce. Per approfondire, ci siamo rivolti alla psichiatra e psicoterapeuta Francesca Fagioli, docente della scuola di psicoterapia Bios Psychè e componente del comitato editoriale della rivista scientifica Il Sogno della Farfalla. Ne è nata, come vedrete, un’intervista nell’intervista.

Fagioli, lei da anni lavora nel servizio pubblico e si occupa in particolare dello sviluppo psicologico in adolescenza delle patologie che possono insorgere in questa fase delicata della vita, cosa si può dire su quest’uso razionale di ragazzi da parte di chi gestisce e lucra sui social, come fossero merce?
È uno degli aspetti più inquietanti dei social, ovvero il fatto che possono arrivare senza nessun filtro ai minori che invece dovrebbero essere tutelati. La legge infatti prevede oggi tutta una serie di attenzioni nei confronti dei minori.
Che tipo di idea hanno certi adulti riguardo la realtà umana dei minori?
Per millenni, e da alcuni ancora oggi, i bambini sono stati considerati esseri umani incompleti perché poco razionali. Al contrario i bambini hanno possibilità molto maggiori di quelle degli adulti ma questo significa anche che i traumi in fase di sviluppo provocano danni enormi. Sappiamo inoltre che la fase dell’adolescenza è molto delicata. Con la pubertà il corpo diventa atto alla sessualità ma questo non significa essere pronti ad un rapporto sessuale o anche a rendere visibile il proprio corpo ad altri anche virtualmente. La biologia del corpo è indissolubilmente legata alla nostra mente e di conseguenza non può essere toccata.
Come vanno considerati i ragazzi in questa particolare fase della loro crescita?
È una fase della vita particolare dove la ricerca di una propria identità nel processo di individuazione separazione va di pari passo con una fragilità e talvolta con una non valutazione del rischio. Ogni ragazzo necessita di un “tempo” che è personale e diverso per ciascuno.
In questi quasi due anni di pandemia, per forza di cose, i rapporti interpersonali “in presenza” si sono rarefatti, fino quasi a scomparire in certi periodi di lockdown. Ora, grazie soprattutto al vaccino, seppur lentamente e con tutte le cautele necessarie stiamo tornando a una “normale” vita di relazione. Secondo la sua esperienza, qual è lo stato d’animo tra i bambini e gli adolescenti?
Dopo questo periodo durissimo, forse anche inaspettatamente i ragazzi si sono ritrovati una vitalità, la forza di ricominciare, di uscire allo scoperto, di rimettersi in gioco. Sempre privilegiando il rapporto interpersonale, il rapporto umano in presenza, quasi tutti sanno benissimo discernere l’uso dei social positivo per loro (seguire un cantante, cercare la data di un evento, comunicare con gli amici etc) da quello che può diventare qualcosa che fa male. Chiaramente in tutto questo vanno distinti gli adolescenti dai…


L’intervista prosegue su Left del 22-28 ottobre 2021

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Toh, quelli del G7 si pentono delle politiche neoliberiste

From left, Canadian Prime Minister Justin Trudeau, President of the European Council Charles Michel, US President Joe Biden, Japanese Prime Minister Yoshihide Suga, British Prime Minister Boris Johnson, Italian Prime Minister Mario Draghi, French President Emmanuel Macron, President of the European Commission Ursula von der Leyen and German Chancellor Angela Merkel, during the leaders official welcome and family photo in Carbis Bay England on Friday, June 11, 2021. (Leon Neal/Pool Photo via AP)

Con le vittorie di Ronald Reagan negli Stati Uniti, e di Margaret Thatcher nel Regno Unito, gli anni Ottanta si aprirono con un radicale cambiamento delle politiche economiche: la celebre affermazione del primo, secondo cui “lo Stato è il problema e non la soluzione”, e della seconda, secondo cui “la società non esiste, esistono solo gli individui con le loro famiglie”, illustrano bene la visione sottostante al progetto neoliberista, che segnò quel decennio e quelli successivi. Nel 1989 l’economista Williamson definì l’insieme delle ricette neoliberiste con il termine Washington Consensus. Quel consensus, riassunto in dieci prescrizioni, prevedeva rigore fiscale, riduzione dell’intervento pubblico nelle economie, deregolamentazione, liberalizzazioni dei movimenti delle merci e dei capitali, protezione dei diritti di proprietà. Fu sempre più difficile difendere il lavoro perché le imprese potevano delocalizzare ovunque trovassero conveniente farlo, come anche difendere lo stato sociale, perché, mentre le tasse sui ricchi diminuivano, le stesse imprese, praticando la cosiddetta “ottimizzazione fiscale”, facevano comparire i loro profitti dove meno erano tassati. La protezione intellettuale dei brevetti garantiva lauti profitti alle multinazionali, sia a scapito dei Paesi più poveri, sia del settore pubblico, il quale continuava a sostenere la ricerca di base ma poi si trovava in una posizione di debolezza rispetto al potere sempre crescente delle stesse multinazionali: il caso della trattativa tra l’Europa e le grandi case farmaceutiche sui vaccini per il Covid ne è un illuminante esempio. Insomma, con il sigillo del Tina (There Is No Alternative), il neoliberismo ha definito le politiche economiche globali, i confini delle politiche pubbliche e gli assetti internazionali fino ad oggi.

Di questo il nostro giornale si è occupato a lungo. Altrettanto spesso abbiamo posto in luce il nesso strettissimo che lega queste politiche alla crisi politica dell’Occidente capitalistico. Perno della sua stabilità, infatti, è sempre stato il benessere delle classi medie. Nonostante le politiche neoliberiste da tempo penalizzino strati sociali sempre più vasti, prima della crisi del 2008 la stabilità era ancora assicurata dal benessere della maggioranza della società, cosicché le minoranze affette da difficoltà materiali non riuscivano ad incidere più di tanto sulle scelte pubbliche. Dopo è cambiato tutto.

I segni di crisi di questo modello economico si presentarono fin dagli anni Novanta: crolli valutari, finanziari e borsistici si verificarono in Messico (1994), Sud Est Asiatico (1997), Russia (1997-1998), Brasile (1998-1999), Argentina (2001), ma anche nel cuore del capitalismo, quando nel 2000, negli Stati Uniti, scoppiò la bolla dei titoli tecnologici. Di scala completamente diversa fu appunto la crisi del 2008, a seguito della quale si pensò che il neoliberismo fosse alle nostre spalle. Non fu così: ad essa seguirono enormi interventi pubblici, che cercarono di coprire i disastri della finanza deregolamentata e rimettere in moto un meccanismo ormai inceppato. Questi interventi da un lato mostrarono la falsità della tesi di Reagan secondo la quale “lo Stato è il problema e non la soluzione”, dall’altro realizzarono uno strano socialismo per i ricchi, dove speculatori e grandi banche furono protetti, e la gran massa della popolazione subì invece danni pesantissimi. Anche l’Europa, piuttosto che cambiare rotta, affrontò le conseguenze di quella crisi all’insegna delle ricette neoliberiste e delle politiche di austerità, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti.

Il Covid e un degrado ambientale che sembra inarrestabile, hanno ormai reso consapevoli le stesse classi dirigenti capitalistiche che le ricette neoliberiste sono ricette per il disastro. Già il Forum di Davos dell’inizio dell’anno indicava la maturazione di una consapevolezza nuova: quell’incontro avvenne all’insegna del “Great Reset”, cioè dell’idea che il mondo andava ripensato. A Davos è stata anche proposta una tassa internazionale sui giganti del web. Assai più rilevante è un documento pubblicato il 13 ottobre scorso (Global Economic Resilience: Building Forward Better: The Cornwall Consensus and Policy Recommendations), con il quale il Panel del G7 si pronuncia esplicitamente per la sostituzione del Washington Consensus con nuovo consensus internazionale, denominato Cornwall Consensus in omaggio alla contea inglese dove nel giugno scorso Boris Johnson ha accolto i leader del G7. Nel documento si propone una radicale revisione delle politiche economiche globali, per creare un sistema economico in grado di ridare legittimità ai governi e soddisfare i bisogni collettivi. Tra i pilastri del Cornwall Consensus troviamo, infatti, la salute globale, l’ambiente, la governance digitale, i diritti dei lavoratori, gli standard di protezione del lavoro, la correzione delle fragilità del mercato, la tassa minima globale sulle imprese.

Sono sviluppi rilevantissimi, che andranno seguiti con attenzione. I quesiti che un simile cambio di prospettiva solleva, comunque, non sono di poco conto. Anzitutto la sequenza degli avvenimenti mostra, ove ce ne fosse ancora bisogno, un aspetto inquietante del neoliberismo: le classi dirigenti capitalistiche, che qualche decennio fa hanno imbracciato il neoliberismo spazzando via ogni pensiero critico in economia, oggi tornano sui loro passi senza che vi sia una revisione teorica sostanziale, né che gli assetti di potere subiscano alcuna modificazione. Il fatto che il cambiamento sia stato inizialmente proposto a Davos, e solo in seguito sia stato recepito all’interno del G7, indica chiaramente quali sono i luoghi effettivi del potere, e quale funzione subalterna svolgano i governi democraticamente eletti.

In secondo luogo, il neoliberismo non ha rappresentato solo un modello a cui le politiche pubbliche ed i governi dovevano necessariamente aderire, ma ha avuto anche una funzione culturale. L’idea che “la società non esiste”, infatti, ha costituito un invito per l’individualismo esasperato e per la ricerca del benessere sul piano dell’interesse e dell’arricchimento individuale. Nell’ideologia di questi decenni, il modello dell’uomo economico è stato un cardine fondamentale. Per il rifiuto di questo modello, non basta Davos o un documento del G7; serve invece una consapevolezza diffusa su ciò che fa star bene e ciò che fa star male le persone, consapevolezza che è in contrasto con i valori che propone la cultura dominante.

Riguardo all’economia, è necessaria una modifica della sua posizione nella società, in conseguenza della quale risulti chiaro che il benessere economico è solo un aspetto secondario del benessere umano. Quest’ultimo va ricercato nella qualità della vita, e soprattutto nella qualità dei rapporti interpersonali, e non nel rapporto con gli oggetti materiali. Va acquisita quella distinzione tra bisogni ed esigenze proposta dallo psichiatra Massimo Fagioli, e su cui tanto lavoro questa rivista – e il gruppo di ricerca che attorno ad essa si è formato – ha svolto e continuerà a svolgere con sempre maggior convinzione. Perché, lo ripetiamo, sebbene Davos, il G7, le élite capitalistiche e i loro esperti siano lontani da noi, un passo importante è stato compiuto. Da oggi tutti coloro che lottano per una società diversa non hanno più il neoliberismo da contrastare: dovranno invece lavorare per liberarci più in fretta e radicalmente possibile del suo cadavere, i cui miasmi condizioneranno ancora a lungo la nostra vita sociale.

Memento Draghi semper

Finita la buriana delle elezioni vale la pena tornare su questo refrain che ci ritroviamo praticamente tutti i giorni soffiato da diversi capi di partito che insistono nel dirci che la cosa migliore che potrebbe capitarci sia un Draghi dopo il 2023, perfino dopo il 2028 e chissà forse fino al 2050.

La politica italiana, soprattutto la parte più miope, serba questo desiderio, quasi un riflesso incondizionato, di trovare il modo più indolore per fermare tutto com’è, congelare lo scorrere dei problemi e dei desideri e quindi riuscire a non doversi impegnare per un Paese che cambia continuamente nei bisogni e nelle decisioni. Non serve certo in fine analista politico per intendere che i capi partito e parlamentari eletti anelano all’errore zero confidando in un certo immobilismo. Nel dire “teniamoci Draghi” c’è tutta l’inettitudine di chi crede che basti il nome senza nemmeno sforzarsi di dirci “per fare cosa”.

Draghi in questo è utilissimo: prende decisioni che i partiti non avrebbero mai il coraggio di prendere e comunque guida un governo sostenuto da partiti che possono in continuazione farci sapere di non essere d’accordo con ciò che fa il governo di cui sono parte. Praticamente sono saliti su un pullman con l’unica preoccupazione di fare delle belle foto ricordo del viaggio e con l’impegno di ricordarsi di fare le pipì durante le soste.

La democrazia è molto più semplice di come qualcuno si sforza di raccontarla per renderla ostica: se Draghi ha intenzione di continuare a fare il presidente del Consiglio gli basterà trovare una coalizione (o un partito unico, che renderebbe meglio l’idea) che lo sostenga alle prossime elezioni rinunciando ai proprio giochetti di segreteria e soprattutto che si prenda la responsabilità di un’agenda di interventi che non può fingere che sia capitata per caso o per emergenza.

Forse vale la pena anche notare come i sostenitori del Draghi dopo Draghi siano in gran parte gli stessi che ci rifilano sonori pipponi sull’astensione e sull’allontanamento della gente dalla politica: quanta voglia vi verrebbe di votare in un Paese in cui i segretari di partito si fanno fintamente la guerra tra di loro e poi in ogni intervista ci confessano di sognare di farsi altri 5 anni di gita insieme deresponsabilizzati dalla presenza di un taumaturgo che sono riusciti a travestire da agente esterno della politica?

Negare la politica per autopreservarsi è l’atteggiamento più fastidioso che si possa cogliere in un partito, in un periodo politico, in un governo: possiamo tranquillamente dire che in questi mesi stiamo assistendo a un capolavoro del genere.

Buon mercoledì.

 

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La percentuale che conta

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 18-10-2021 Roma Piazza S. Apostoli - Roberto Gualtieri festeggia l’elezione a Sindaco di Roma Nella foto Roberto Gualtieri Photo Roberto Monaldo / LaPresse 18-10-2021 Rome (Italy) Administrative election - Roberto Gualtieri elected Rome’s Mayor In the pic Roberto Gualtieri

Il giorno dopo vincono tutti. È normale, funziona sempre così: dicono di avere vinto quelli che vincono e perfino quelli che perdono fingono di esserne vincitori. Con le vittorie a Roma e Torino, il centrosinistra amministra ora otto dei dieci comuni italiani più popolosi, compresi i primi cinque (Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Bologna, Firenze e Bari). Il bilancio dei venti comuni capoluogo al voto in questa tornata elettorale: Centrosinistra 15 (+7) Centrodestra 4 (-3) Centro 1 (=). Tra i 119 comuni superiori ai 15.000 abitanti che andavano al voto in questa tornata elettorale, 42 sono stati conquistati dal centrosinistra (più 16 dal Csx+M5s), 30 dal centrodestra e 18 dai civici. 

Ma il numero che ci interessa è quel 56,06% di persone che non sono andate a votare. È un numero storico (in peggio) perfino rispetto al risultato del 2016. In quell’occasione abbiamo letto pareri illustri che ci hanno spiegato che fosse colpa della caduta delle ideologie, che il mondo non era più quello di una volta e che avremmo dovuto fare tranquillamente i conti con questo drastico calo.

Eppure quel 56,06% è di gran lunga il partito più importante d’Italia. Dentro ci sono coloro che non si sentono rappresentati da nessuno, nemmeno da quel centrosinistra che probabilmente canta con troppa leggerezza vittoria. Sono quelli che non si riconoscono nel governo attuale, che non riesce a prendere certo snobismo di certo centrosinistra (peggio ancora il centro-centro), sono quelli che non si sentono rappresentati più dal M5s che non riesce a essere il partito del dissenso, sono quelli che ce l’hanno a morte con il “tradimento” di Meloni e Salvini.

E la sensazione è che qualcuno si illuda davvero di poter pensare al mondo seguendo questo schema, come se nella storia italiana non sia già accaduto che nel 1993 in risposta al governo Ciampi esplodesse quella Forza Italia che prima non esisteva o come se non fosse successo il boom del Movimento 5 Stelle nel 2013 dopo il governo Monti. Scenari politici di partiti che non c’erano e che improvvisamente hanno assunto un ruolo di primo piano soprattutto dopo cosiddetti governi “tecnici” che hanno pesato nello scollamento dei votanti. E invece a guardarli da fuori sembra che quel pezzo di storia recente non sia mai esistito. E addirittura si osservano i vincitori (ma anche i vinti) convinti che tutto rimarrà come è ora, come se la storia non avesse insegnato nulla.

Buon martedì.

 

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Il raglio del padrone

Ricordate la vicenda di Grafica Veneta? A luglio di quest’anno vennero arrestati Giorgio Bertan e Giampaolo Pinton, rispettivamente amministratore delegato e direttore dell’area tecnica di Grafica Veneta, insieme ad altre 9 persone con l’accusa di sfruttare alcuni lavoratori pakistani oltre all’accusa di essere a conoscenza di gravi episodi di caporalato nei confronti degli operai. Se ne parlò molto perché Grafica Veneta stampa i libri che abbiamo tutti negli scaffali e che si trovano dappertutto, i titoli più famosi e venduti, e se ne parlò molto perché a maggio 2020 uno di loro venne trovato con le mani legate dietro la schiena, dopo essere stato pestato, lungo la Statale 16 a Piove di Sacco, poi nei comuni confinanti, ne spuntarono altri quattro e poi altri cinque si presentarono al pronto soccorso di Camposampiero dicendo di essere stati picchiati, seviziati e rapinati di documenti e telefoni.

Secondo il gip, il raid «altro non era che una punizione riservata ai lavoratori che stavano maturando il proposito di ribellarsi (…), recandosi presso un sindacato per avere informazioni sui propri diritti». I lavoratori raccontarono di avere una busta paga di 1.100 euro mensili ma da quei soldi venivano trattenuti «l’affitto di 120 euro e ulteriori 200, 300 o 400 euro». Il tutto, sosteneva l’accusa, per aumentare i profitti di Grafica Veneta, che era «perfettamente consapevole del numero di ore necessarie per svolgere il lavoro che appalta e non a caso, disponendo delle timbrature dei dipendenti Bm Service», aveva «fatto di tutto per non consegnarli alla Polizia giudiziaria». «Nonostante le solide condizioni economiche e la possibilità di operare in maniera regolare», spiegava il procuratore di Padova Antonino Cappelleri, i dirigenti erano «riusciti a delocalizzare un settore nella loro stessa sede, appaltando manodopera a prezzi bassissimi».

Era un perfetto esempio di un modello di imprenditoria che qui da noi funziona così, alla faccia dei diritti che sono solo sulla carta e alla faccia delle lamentele di certi imprenditori che si lamentano di non trovare schiavi. Ai tempi Fabio Franceschi, patron di Grafica Veneta, si disse all’oscuro di tutto e profondamente addolorato, dicendo le solite frasi che si dicono in questi casi («confidiamo nella giustizia») e addirittura proponendo “una donazione” (perché gli faceva schifo pronunciare la parola esatta: risarcimento) ai pakistani.

Com’è finita? I due manager di Grafica Veneta hanno patteggiato. Quindi evidentemente le indagini non erano così fantasiose. Ma in un’orrenda intervista a La Stampa Franceschi dismette le vesti da pentito e mostra la sua vera natura. Dice che i suoi collaboratori hanno patteggiato perché: «La nostra è un’azienda in grande crescita, che non può permettersi di restare concentrata su un problema risolvibile con una sanzione amministrativa. Hanno patteggiato su consiglio degli avvocati e ora sono di nuovo operativi». Insomma, avrebbero accettato di riconoscersi colpevoli di accuse false per non perdere fatturato. Non male, eh?

Ma il meglio deve ancora venire. Accusa i pakistani di avere calunniato la sua celebre impresa (lo sfruttamento lo definisce «un mucchio di falsità», deve essere per questo che hanno patteggiato), dei lavoratori picchiati e legati al bordo della strada dice «avevano la mascherina in faccia per calunniarci. Uno era vestito come uno zingaro», del fatto che vivessero ammassati come topi dice «loro sono un po’ così, pulizia e bellezza non è che facciano parte della loro natura. Comunque vivevano in otto in una casa grande, due in una stanza. Neanche male» e poi si supera comunicandoci la sua visionaria soluzione: «Pakistani, nella mia azienda, non ne voglio più. Hanno litigato, si sono bastonati e ci hanno accusato di un mucchio di falsità. E in cinque anni non hanno imparato una parola di italiano».

Ed è incredibile come un processo concluso con un patteggiamento riesca comunque a dirci molto meno di tutta la natura che invece esce in un’intervista. Perché alla fine la natura non riescono a trattenere. E con la natura, si sa, non si patteggia.

Buon lunedì.

 

 

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Collettivo Gkn, una legge per resistere alle delocalizzazioni

Un progetto di legge dal titolo Misure a sostegno del mantenimento dei livelli occupazionali e produttività a livello nazionale e di contrasto al fenomeno delle delocalizzazioni. È quello che il 6 ottobre, nella sala stampa della Camera è stato presentato dai lavoratori della Gkn. Left ha già seguito questa vicenda (v. il numero del 24 settembre) che parte da un licenziamento collettivo – via mail nel sito produttivo di Campi Bisenzio di proprietà del fondo finanziario Melrose – ritenuto antisindacale per vizi procedurali dal tribunale di Firenze il 20 settembre scorso. La vicenda è un caso scuola per chi intende limitare le azioni speculative attraverso le delocalizzazioni.

Laddove finora la politica si è mostrata timida ad intervenire in materia, nella paura di allontanare gli investimenti, sono intervenuti i lavoratori che, supportati da giuristi, hanno presentato un testo che prova ad incidere non solo sulla loro azienda. Tante infatti sono le imprese come la Gkn che spesso hanno beneficiato di sussidi pubblici e poi sono state vendute o delocalizzate, per aumentare i profitti, diminuendo i costi del lavoro. Il mercato finanziario dimostra come funziona la speculazione: al licenziamento collettivo di inizio luglio, il valore delle azioni di Melrose è cresciuto del 5%, con la sentenza del tribunale c’è stato un calo del 7%. Il progetto di legge, prima firmataria la deputata del Gruppo misto Yana Ehm, non è certo rivoluzionario, ma determina…

*Immagine tratta dalla pagina facebook Collettivo Di Fabbrica – Lavoratori Gkn Firenze


L’articolo prosegue su Left dell’15-21 ottobre 2021

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Come ridare dignità a scuola e atenei

La notizia del Nobel per la fisica a Giorgio Parisi ha riempito di orgoglio il nostro popolo. Giorgio non è solo un grande fisico, ma anche un intellettuale che non si è mai sottratto alle battaglie per una ricerca pubblica, laica, di massa e di qualità, in opposizione alle politiche d’intervento pubblico sul comparto degli ultimi venti anni, fondate sull’idea malsana della conoscenza appaltata agli “eccellenti”, che riproduce nei fatti una logica plutocratica.

Questo traguardo italiano ci impone una riflessione sullo stato della ricerca e della formazione pubblica nel nostro Paese. Sarà possibile nei prossimi anni formare studiose e studiosi veramente in grado di contribuire allo sviluppo della nostra società, o dovremo accettare l’idea che il nostro sistema di formazione e ricerca pubblico venga smantellato, costringendo chi se lo potrà permettere a formarsi e lavorare all’estero? Guardando ai dati, la situazione non appare rosea e impone una riflessione sulla necessità storica di un grande intervento pubblico su Scuola, Università e Ricerca.

Il settore scolastico è maltrattato da anni. Un sottofinanziamento ormai endemico, politiche orientate alla riduzione del perimetro delle competenze statali in tema di istruzione, l’introduzione nella gestione dell’intero sistema e delle singole istituzioni scolastiche di modalità incentrate su una forte riduzione degli spazi di democrazia; la trasformazione dell’autonomia scolastica, da strumento per il pieno esercizio della libertà di insegnamento e ricerca, a modello esemplare di pratiche burocratiche e gerarchiche; un’offerta formativa sempre più piegata alle richieste immediate del mercato del lavoro se non proprio delle singole imprese; l’azzeramento delle risorse nazionali per la lotta alla dispersione scolastica. A tutto questo, si aggiunga il proliferare di un precariato ormai strutturale che nessun governo ha voluto ridurre a livelli fisiologici.

È necessario un cambio di rotta rispetto alle…


* Gli autori: Loris Caruso e Fabio de Nardis fanno parte del movimento “Paese reale”


L’articolo prosegue su Left dell’15-21 ottobre 2021

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Se la guerra inizia dalle parole

Soldier of Nagorno Karabakh army walks over the books on the floor of the library of the Talish school, destroyed by shelling of the Azerbaijan army on 2016. (Photo by Celestino Arce/NurPhoto via Getty Images)

L’università di Tubinga non è ricordata solo per aver formato menti del calibro del filosofo Hegel e del poeta Hölderlin. Il campus universitario della piccola cittadina tedesca a 35 km da Stoccarda è infatti salito di nuovo agli onori della cronaca per essere la culla del “progetto Cassandra”, il cui scopo è quello di prevedere conflitti attraverso l’analisi di testi letterari.

Come la sacerdotessa Cassandra aveva previsto l’arrivo del cavallo, al cui interno c’erano i greci che avrebbero espugnato la città di Troia, il team di accademici afferma di aver previsto, mediante la disamina di diversi libri, il conflitto in Azerbaijan e le proteste che in Algeria hanno portato alle dimissioni del presidente Bouteflika.

Una affermazione che sembra il parto fantasioso di uno sceneggiatore capace di intrecciare mitologia e fantascienza, ma che in realtà ha destato l’interesse perfino dell’allora ministro della Difesa tedesco, Ursula von der Leyen (che oggi da presidente della Commissione Ue parla di esercito comune europeo), che ha deciso di investire sul progetto e di finanziarlo.

A capo del gruppo di lavoro, che dal 2017 al 2019 ha collaborato a stretto contatto con i militari tedeschi, c’è il professor Jürgen Wertheimer, che ha preso parte alla dodicesima edizione del Festival della diplomazia a Roma (fino al 22 ottobre). Nel corso di una interessante sessione, Wertheimer si è confrontato con analisti politici ed esperti su come prevenire i conflitti e fare previsioni in politica estera.

Alla base delle tesi del professore di Tubinga, una constatazione: «Precedenti approcci di ricerca hanno già notato l’importanza del…


L’articolo prosegue su Left dell’15-21 ottobre 2021

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Parisi vince il Nobel ma la ricerca scientifica in Italia è ancora una cenerentola

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 22-09-2021 Roma , Italia Cronaca Precariato - Consiglio Nazionale delle Ricerche CNR Nella foto: protesta dei lavoratori precari del Consiglio Nazionale delle Ricerche davanti alla sede del CNR Photo Mauro Scrobogna /LaPresse September 22, 2021  Rome, Italy News Precariat - National Research Council CNR In the photo: protest of the precarious workers of the National Research Council in front of the CNR headquarters

La notizia del premio Nobel a Giorgio Parisi ha suscitato nella comunità scientifica e nell’opinione pubblica una emozione ed un orgoglio contagiosi. Per trovare un premio Nobel assegnato ad un ricercatore italiano per una ricerca fatta in Italia, bisogna risalire all’inizio degli anni Sessanta, all’ingegnere chimico Giulio Natta. Fu uno dei miracoli italiani che trasformarono l’Italia da Paese agricolo ad una economia industrializzata, e grazie al suo lavoro l’Italia si trovò, con la chimica, al centro della ricerca mondiale. Se i segni della storia hanno un valore, questo Nobel del 2021 è indubbiamente una iniezione di fiducia ma allo stesso tempo fa emergere in modo dirompente tutte le difficoltà che incontra chi vuole fare ricerca in Italia.

La debolezza e la precarietà della ricerca scientifica nel nostro Paese sono ormai un fatto conclamato: abbiamo un basso numero di laureati nelle discipline scientifiche (tredicesimi in Europa) e circa la metà dei ricercatori rispetto alla media europea. I nostri docenti universitari sono anziani, solo il 13% è al di sotto dei quarant’anni (contro oltre il 60% in Lussemburgo) e solo uno su tre sono donne (contro il 56% della Lituania). Il numero di dottorati di ricerca conseguiti in Italia è in costante riduzione negli ultimi anni ed è tra i più bassi nella Ue: in Italia solo una persona su…

* L’autrice: Serena Pillozzi, PhD, docente a contratto all’Università di Firenze, fa parte della Segreteria nazionale di Sinistra italiana, responsabile Salute


L’articolo prosegue su Left dell’15-21 ottobre 2021

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