Home Blog Pagina 383

Risiko a Palazzo

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 27-01-2021 Roma, Italia Politica Quirinale - Shoah giorno della Memoria Nella foto: Palazzo del Quirinale Presidenza della Repubblica Photo Mauro Scrobogna /LaPresse January 27, 2021  Rome, Italy Politics Quirinale - Shoah memorial day In the photo: Palazzo del Quirinale Presidency of the Republica

Basta provare ad allungare lo sguardo: il governo Draghi è inevitabilmente un governo a termine, la futura elezione del prossimo presidente della Repubblica sancirà la fine di questa esperienza politica del “tutti dentro” e ci riporterà a nuove elezioni. La pandemia che sembrerebbe nella sua fase conclusiva spegnerà inevitabilmente anche questo tentativo di rimanere tutti uniti, tutti compatti (o almeno quasi tutti) e determinerà di nuovo il solito clima da campagna elettorale permanente che da sempre infesta la politica nostrana.

I numeri per ora parlano chiaro: la prossima maggioranza che guiderà il Paese, a meno che non accadano stratosferici ribaltoni, vedrà il centrodestra governare comodo comodo, probabilmente con Matteo Salvini seduto di nuovo sulla poltrona del ministero all’Interno e Giorgia Meloni lanciata verso la leadership assoluta. Anche i movimenti dei sondaggi a destra ci dicono che la battaglia è tra Salvini e Meloni, senza grandi spiragli per travasi di voti che possano al momento vedere il centrosinistra minimamente competitivo.

A proposito di centrosinistra, dalle parti del Pd i maggiorenti del partito da mesi insistono sull’alleanza con il Movimento 5 Stelle (alcuni di loro addirittura vedendo in Giuseppe Conte un presunto punto di riferimento) ma ora la situazione si complica terribilmente. La guerra interna al Movimento 5 Stelle, comunque vada a finire, porterà inevitabilmente a un allentamento di rapporti con il Pd: se dovesse vincere l’ala più moderata (Conte e compagni) probabilmente l’alleanza potrebbe continuare ma si…


L’articolo prosegue su Left del 9-15 luglio 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Simona Baldanzi: Scrivere e lavorare a schiena dritta

Simona Baldanzi, nata in una famiglia operaia, è una scrittrice con una sua riconoscibile fisionomia e coerenza militante, che si è imposta all’attenzione per essere arrivata finalista al Premio Campiello Giovani nel 1996, e successivamente con il romanzo Figlia di una vestaglia blu (Fazi, 2006, ristampato nel 2019 da Alegre nella collana Working class diretta da Alberto Prunetti). Scrive romanzi, reportage narrativi e inchieste, narrazioni della viandanza, ma interviene anche sui temi della politica, e in passato è stata capogruppo di Rifondazione comunista nel comune di Barberino di Mugello. Da tre anni è rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale della Cgil nel territorio di Prato e provincia, nel settore dell’artigianato.
Tu sei una scrittrice che ha raccontato molto il mondo del lavoro, a cominciare dal tuo libro d’esordio di memoria famigliare, Figlia di una vestaglia blu, e nella vita sei una sindacalista della Cgil, come convivono questi due mondi?
Scrivere per me è anche rappresentare e viceversa, scrivere è cercare una voce e fare sindacato è mettere insieme le voci, scrivere è fare ricerca su di me e su ciò che mi circonda e fare sindacato è rimescolare ciò che imparo da queste ricerche. Sono mondi che se saputi mettere al servizio l’uno dell’altro possono essere potenti. Il primo atto di riconoscimento di una condizione, di una vita, di una persona, come di una lavoratrice o di un lavoratore è il raccontare. Ci si racconta per riconoscersi, per fare gruppo, per difendersi, per rivendicare, per migliorare. Da sindacalista e rappresentante dei lavoratori per la sicurezza mi capita di scrivere e scherzando dico che faccio spesso la ghostwriter per i lavoratori. Mi inorgoglisce. Il mondo del lavoro non è banale da raccontare: occorre appropriarsi di linguaggi, di processi, di strumenti, di verbi e nomi tutti suoi e che variano da contesto a contesto. Ci vuole ascolto, studio, umiltà. È sfidante e affascinante per chi scrive. Scrivere in più implica organizzarsi per farlo, darsi dei metodi, fare tentativi, sperimentare. Ciò che imparo dalla scrittura provo a portarlo nel sindacato e ciò che imparo dal sindacato lo porto nello scrivere. Non sempre è facile perché mentre la seconda operazione è solo mia, l’altra implica il confronto con gli altri e con un’organizzazione che difende se stessa troppo spesso appellandosi al pericoloso “abbiamo sempre fatto così”. Il sindacato è ancora troppo rigido, poco incline a mescolare, maschilista. Fortunatamente con molte compagne sindacaliste tentiamo di contaminarlo con un po’ di sano, fresco e pungente femminismo.
A proposito di questo tuo doppio osservatorio, di recente, dopo la morte di Luana D’Orazio, una lavoratrice tessile di 22 anni, hai scritto che a uccidere in fabbrica è l’organizzazione del lavoro, operai uccisi dal “lavoro grigio”.
Il dibattito sui macchinari insicuri viene dal dopoguerra e dagli anni Cinquanta in poi la legislazione si è andata strutturando e la tecnologia è via via progredita per darci macchine che si fermano se qualcosa non va grazie a fotocellule e protezioni. Se le manomettiamo togliendo le protezioni per fare prima, se dobbiamo correre sempre di più, se la filiera tessile spinge a fare prezzi sempre più al ribasso, se i contratti non sono regolari o l’inquadramento non prevede certe mansioni (e quindi non si è fatta l’adeguata formazione e addestramento) uccide un subbio di un orditoio o l’organizzazione che ha concesso che tutto questo succedesse? In questo sistema ci stiamo dentro anche da consumatori e da cittadini. Per questo salute e sicurezza sui luoghi di lavoro devono riguardare tutti e non solo chi vive quel tipo di lavoro. Andrebbe poi analizzato l’impatto di questa morte sul lavoro, le ragioni per cui ha fatto più eco di altre. In Italia i morti sul lavoro sono 3 o 4 al giorno e spesso non fanno notizia o sono solo trafiletti di poche righe. Luana D’Orazio ha stracciato la narrazione tossica, ha incrinato un immaginario distorto che c’è sul lavoro, che nega la presenza di giovani operaie ed operai. Contrastava l’immagine della giovane sorridente sui social e la brutalità della fine da altri tempi. Quest’attenzione però non dura e un problema di questa portata, strutturale (dunque non è un’emergenza), non può essere risolto con l’emotività. L’indignazione intermittente senza le azioni conseguenti rischia di acuire la percezione della disgrazia. Se invece si studiano le storie sui morti sul lavoro, le dinamiche, la fatalità non c’è mai, ma sono precise conseguenze di cose che non dovevano essere fatte.
Ti sei occupata anche dell’alta velocità con un reportage alla Orwell, Mugello sottosopra, un libro dichiaratamente militante. C’è chi ha scritto di recente un libro contro l’impegno degli scrittori, tu che ne pensi? Esiste davvero una letteratura working class?
I miei nonni hanno migliorato le loro vite grazie ad un accordo promosso da Di Vittorio che girò fra i campi nel Mugello e che fu siglato nel 1952 che diceva «da oggi cessano di essere mezzadri e diventano operai agricoli». Leggendo quell’accordo, che usa parole chiare e pulite (oggi gli accordi e i contratti sono un dedalo e un intreccio da perderci la testa per quanto incomprensibili o appunto interpretabili e anche dall’uso distorto della scrittura vediamo quanto potere di forza abbiamo perso) io ci ho letto una bella storia di tante famiglie. Non è letteratura? Sì, ma qualcuno si è impegnato a scrivere per difendere qualcun altro e per i coinvolti contano le conseguenze più del fatto che fosse un tipo di scrittura piuttosto che un’altra. Voglio dire che quella provocazione contro la letteratura di impegno mi pare riguardi solo noi che scriviamo e dove ci vogliamo posizionare: il resto del mondo se ne frega, vuole vivere meglio. Se legge, vorrà leggere meglio. Personalmente mi annoia anche il dibattito. La letteratura working class c’è anche se fatica a farsi spazio perché i racconti dominanti sono altri, perché l’editoria è in questo sistema di mercato, non ne è esclusa. “Il lavoro non tira, non vende” ti senti spesso dire. Si parla di letteratura del lavoro, meglio ancora di letteratura della classe lavoratrice quando la storia di lavoro diventa non più la tua o solo la tua, ma una storia universale, con una sua voce, uno stile, una potenza. Se poi questa letteratura diventa riconoscimento e strumento di dibattito e lotta non vedo che male fa. O meglio, a chi fa male lo so, ma non alla letteratura.
Poi ti sei messa a raccontare attraverso reportage di viaggio fatti a piedi, con lentezza, una trilogia che comprende anche il tuo ultimo libro Corpo Appennino, un cammino da Monte Sole a Sant’Anna di Stazzema. Perché questa scelta, questa forma corporale di raccontare gli altri, il mondo, ma anche i luoghi della Storia?
Non ci pensavo alla trilogia, non l’avevo pensata come progetto, è venuta inseguendo domande, curiosando, rimettendomi in cammino. Vivo in un territorio da sempre impregnato di cantieri come l’alta velocità, l’autostrada e la variante di valico, l’invaso di Bilancino. Ambiente e lavoro sono sempre stati contrapposti quando invece hanno le stesse ferite, gli stessi meccanismi di sfruttamento, sono parti offese dal capitalismo. Ho ricominciato a camminare nei dintorni di casa grazie all’incontro di due persone a me carissime, guide Cai Sergio e Marinella che mi chiesero di fare la Barbiana Monte Sole e dal nulla, con loro, mi sentii pronta a farlo, anche se continuativamente, per giorni, non camminavo dalle vacanze in montagna con i miei da ragazzina. Sentivo un affidamento che non trovavo più in politica. Ho ricominciato a camminare un po’ per fuggire dai cantieri, un po’ per guardarli da altri punti. Camminare come metodo di osservazione, di inchiesta, come modalità adatta al nostro sentire umano per raccogliere le storie e anche per trovare un ritmo, uno stile nella scrittura proprio come lo si fa coi passi. In questi libri non racconto mai solo del camminare, ma tento di intrecciare più piani narrativi: storie di lavoro, di terre, di sponde. Nell’ultimo, il corpo territorio dialoga coi corpi dei morti delle stragi nazifasciste e dei migranti in mare, coi corpi dei camminatori, col mio corpo che ha subito un’operazione alla testa. Oltre all’affidarsi agli altri, al cammino di gruppo ma anche al personale sanitario che mi ha curato, ho ritrovato il piacere di fare le cose insieme. Protagonista è il corpo e l’ascolto: l’ascolto serve non solo a recepire una storia, ma anche a collocarci come corpi dentro un territorio, una comunità, una realtà.
Oggi viviamo in una società, quella dello spettacolo, dove il ruolo dell’intellettuale è diventato ormai quello dell’entertrainer, di imbonitore festivaliero. Quale è la tua postura invece?
Grazie a dieci anni di pallavolo ho una discreta postura. A parte gli scherzi, io ho esordito grazie a un racconto al Campiello Giovani. Senza quella circolare che pubblicizzava quel concorso e che passò dalla scuola pubblica in quinta superiore di un istituto tecnico commerciale, molto probabilmente il mio contesto familiare e di provincia non mi avrebbe avvicinato agevolmente al mondo editoriale. Non sono una contro i premi letterari o contro i festival se diventano occasioni per allargare sguardi, tessere relazioni fra chi ha interessi simili, provare a scardinare delle certezze, avere regole note e trasparenti, creare nuovi progetti. Grazie a molte di queste occasioni per me sono nati seri incontri di confronto, amicizie, legami di stima. Ho imparato molto persino dalle delusioni e ho compreso meglio ciò da cui voglio stare distante. Sicuramente vedo in crisi la figura dell’intellettuale, quella o quello che aspetti di leggere o ascoltare per sapere che ne pensa di un certo fenomeno su cui è davvero preparato e se non lo è fa ricerca raffinata, che ti solletica sotto il mento e ti spinge a volerne sapere di più. Penso spesso ad Alessandro Leogrande e quanto manca. Più che intrattenere vorrei chi disturba, chi si infila nelle contraddizioni, chi non teme di incrinare qualche potere incancrenito e se devo indicare una postura a schiena dritta senza sbraitare o ammiccare.


L’intervista corsara è stata pubblicata su Left del 9-15 luglio 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

La vita nuova delle biblioteche scolastiche

Portrait of a female student wearing a facemask at the library while looking for a book during the COVID-19 pandemic

All’inizio del nuovo millennio un libro intelligente e di notevole lungimiranza metteva in guardia il mondo dell’istruzione e più in generale quello della cultura sulle forme di sapere che la nostra civiltà era sul punto di perdere. Il libro si intitolava La Terza Fase. Forme di sapere che stiamo perdendo (edito da Laterza nel 2000) e il suo autore, il noto linguista Raffaele Simone, ammoniva sul fatto che si stava entrando in una fase nuova della storia della conoscenza, caratterizzata dalla rivoluzione informatica.

Le forme di cui Simone si occupava nel suo libro sono la scrittura e la lettura, sulle quali per secoli si è fondata la conservazione e la trasmissione del sapere, in base al principio che «le cose che sappiamo le abbiamo lette da qualche parte, dove qualcuno le aveva depositate per iscritto» . Dalla fine del Novecento in poi, con l’esplosione della telematica, concludeva Simone, «il libro non è più l’emblema unico, e forse neanche il principale, del sapere e della cultura»; la scuola, dal canto suo, non sembra in grado di fronteggiare l’enorme espansione della conoscenza, uno dei caratteri fondamentali della Terza Fase, in quanto, «invece che essere il luogo dove la conoscenza si trasmette e riceve una sua prima elaborazione» appare piuttosto «il rifugio nel quale ci si rinchiude per essere protetti dalla conoscenza, dal suo fluire, dal suo accrescersi».

Cosa è successo negli oltre vent’anni che ci separano da queste osservazioni? Se si legge il Rapporto sulla conoscenza, pubblicato dall’Istat nel 2018, si ricava che ancora oggi «la pratica culturale più diffusa è la lettura di libri», sebbene la sua diffusione risulti «di quasi 7 punti percentuali inferiore rispetto al 2010, e in diminuzione in tutte le fasce d’età a eccezione degli anziani». Tuttavia, benché la ricerca confermi che l’Italia «non è tra i Paesi europei con maggior propensione alla lettura», i libri, certo per forza di tradizione ma anche perché geneticamente funzionali a dare forma e struttura al sapere, «continuano a rappresentare lo strumento più diffuso, prodotto, distribuito, acquistato e utilizzato in misura importante» per organizzare e trasmettere la conoscenza.
Se dunque lo scenario ipotizzato da Simone non si è ancora del tutto realizzato, le forme di sapere legate alla scrittura e alla lettura sembrano però destinate a…


L’articolo prosegue su Left del 9-15 luglio 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

La questione afgana e il pacifismo calcolato di Xi Jinping

This photo taken on January 4, 2021 shows Chinese People's Liberation Army (PLA) soldiers assembling during military training at Pamir Mountains in Kashgar, northwestern China's Xinjiang region. (Photo by STR / AFP) / China OUT (Photo by STR/AFP via Getty Images)

A tremila metri di altitudine, in una striscia di terra tra Pakistan e Tagikistan, si estende il corridoio di Wakhan. Un territorio ai margini della vivibilità, solcato solo da animali selvatici e qualche rara carovana dei nomadi del Pamir. Quella stessa terra la attraversò Marco Polo per raggiungere la Cina. Fu raffigurata con colori surreali dal pittore russo Nicholas Roerich, suggestionato dalle visioni evocative delle sue vette remote. Il Wakhan è da secoli una delle porte d’accesso terrestri tra occidente e oriente. L’antica via della seta passava anche di qui, nonostante l’altitudine, le montagne, le basse temperature e le grandi distese disabitate.

Sebbene ancora oggi il corridoio del Wakhan resti un territorio difficilmente accessibile, si sente in lontananza il roboare della Belt and road, che sopraggiunge ad aprire una via d’accesso per gli interessi cinesi in Afghanistan, ora che le truppe Usa e Nato cominciano ad abbandonare il territorio. Perché i progetti economici cinesi possano avere successo, però, al ritiro delle truppe straniere non deve corrispondere un aumento dei tumulti interni.

Per questo la diplomazia cinese si è attivata presso i protagonisti del conflitto interno afghano, ovvero governo e talebani, proponendo dialoghi di pace tra le due parti e convocando un incontro con i ministri degli Esteri di Afghanistan e Pakistan. Dopo venti anni di «guerra eterna», nella quale hanno perso la vita più di 200mila persone, l’impegno militare di Usa e alleati è giunto al termine. Un primo barlume di pace era stato scorto già nel 2014 con la presidenza Obama, cresciuto poi con Trump e ora giunto al suo massimo bagliore con Biden, assolutamente intenzionato a non protrarre oltre questa guerra.

Davanti al ritiro del contingente statunitense, la Cina ha sollevato le sue preoccupazioni e allertato la comunità internazionale che un rientro troppo precipitoso e poco organizzato delle truppe potrebbe lasciare ampio spazio di intervento ai talebani che potrebbero sovvertire il governo di Ashraf Ghani, presidente afghano recentemente confermato per il suo secondo mandato. Il timore di una ricaduta bellica nasce dal mancato raggiungimento, ad oggi, di un dialogo di pace fra le due fazioni in lotta, ma anche dall’eco degli eventi che seguirono la guerra in Afghanistan terminata nel 1989, quando i mujaheddin, nell’arco di tre anni, riuscirono a rovesciare il governo di Najibullah.

Consapevole delle difficoltà politiche della missione, ma altamente interessata all’Afghanistan per il suo posizionamento strategico e le sue risorse minerarie, la Cina ha già avanzato proposte di dialogo per portare il governo di Kabul e talebani su un terreno di confronto. Negli scorsi anni, già a partire dal 2017, Cina, Pakistan e Afghanistan si sono incontrati in diverse occasioni per discutere delle prospettive economiche e industriali dei tre Paesi, sotto l’egida del progetto cinese Belt and road. Pakistan e Cina inoltre cooperano ormai da più di otto anni all’interno del Cpec, “China-Pakistan economic corridor”, un progetto dal valore di 62 miliardi di dollari, incentrato soprattutto sulla realizzazione di infrastrutture dedicate al trasporto e alla produzione energetica. Tuttavia, al momento, la Cina attribuisce grande importanza al porto di Gwadar, nel Pakistan sud-occidentale, molto vicino all’Iran e all’Afganistan, fondamentale per il commercio cinese con l’Asia centrale e l’Africa orientale.

L’incontro trilaterale tra Cina, Pakistan e Afghanistan si è svolto agli inizi del mese di giugno in video conferenza ed è stato condotto dal ministro degli Esteri cinese Wang Yi, il quale ha sintetizzato in otto punti gli elementi centrali di questo rapporto di cooperazione. Le tematiche principali sono state il processo di pace, di ricostruzione e di stabilizzazione dell’Afghanistan successivamente alla partenza delle forze straniere, lo sviluppo del dialogo e dei rapporti economici, in particolare della Belt and road, e il contrasto al terrorismo del Turkistan islamic party. Nessuna delle potenze impegnate nel pacificare l’Afghanistan si batte per l’Afghanistan in sé, ma per i propri interessi, parafrasando Thomas Rutting, co-fondatore dell’Afghanistan analysts network. Con questo gesto di altruismo, infatti, la Cina nasconde la sua vera agenda.

Lo dimostra, ad esempio, il suo interesse per la lotta contro il Turikistan islamic party, precedentemente noto col nome di Etim, East turkestan islamic movement, una frangia estremista all’interno della quale militano un gran numero di uiguri fuggiti dalla Cina utilizzando passaporti turchi falsi. Siegfried Wolf, direttore di ricerca presso il South Asia democratic forum, racconta al Deutsche welle in un’intervista che gli uiguri in fuga dalla Cina vengono accolti tra i movimenti terroristici islamici presenti in Afghanistan e mandati a combattere contro le truppe Nato, addirittura alcuni di essi avrebbero partecipato ad attacchi terroristici in Siria e Kyrgyzstan.

Tra i gruppi con cui gli uiguri avrebbero militato sono inclusi anche Al-Qaeda e i talebani, protagonisti della guerra in Afghanistan. Sul fronte islamico tuttavia la Cina non ha una politica univoca, poiché tende a mutare il suo approccio a seconda del contesto. Basti pensare alla discrepanza del rapporto che essa intrattiene con gli uiguri e con i talebani: mentre i primi sono oggetto di una politica di segregazione e rieducazione, i secondi invece sono legati alla Cina in una relazione di cooperazione già dal 2001, quando la Cina firmò un rapporto di collaborazione economica con il gruppo, che ora si sta rafforzando in occasione del Belt and road, attraverso dei progetti stradali che connetterebbero le città sotto il dominio talebano, in cambio di collaborazione nel processo di pace.

Lo stesso Pakistan ha lavorato molto nell’intessere un dialogo tra Cina e talebani, i quali sono largamente presenti sul suolo pakistano. Rendere l’Afghanistan una zona sicura e prevenire qualunque forma di terrorismo è per Pechino un tema pressante, considerato poi che il Paese dell’Asia centrale confina con lo Xinjiang per un tratto di 75 km nella zona del corridoio di Wakhan. Molti sono gli accordi che la Cina ha stipulato con i Paesi del Centro oriente, Afghanistan incluso, tuttavia i conflitti che soffocano la regione da decenni ne rendono impossibile l’attuazione. Ad esempio, la miniera di rame di Mes Aynak, quaranta chilometri a sudest di Kabul, presa in concessione dalla Cina nel 2007 per un totale di 3,4 miliardi di dollari, è ad oggi ancora in attesa di poter essere sfruttata a causa delle tensioni tra terroristi e governo afghano.

Se la Cina riuscisse a far riconciliare i due attori, governo nazionale e talebani, avrebbe tutto il modo di poter avviare i progetti di connessione della Belt and road tra Pakistan, Afghanistan e Iran, nonché poter tenere sotto controllo il formarsi e l’insorgere di movimenti estremisti islamici legati all’etnia uigura. L’attenzione della Cina si focalizza quindi proprio su quella porzione di terra così ostile da non ospitare alcun presidio umano, il corridoio del Wakhan. Pechino attende dal 2009 che i lavori accordati nel Memorandum of understanding firmato da Cina e Afghanistan abbiano inizio e che l’asfalto apra la strada tra le montagne del passo di Wakhjir. A quel punto la Cina non sarà soltanto in grado di collegarsi anche agli altri enormi lavori stradali come la superstrada che connette Kashgar, Xinjiang, e Islamabad, e alle infrastrutture realizzate grazie alle relazioni afghano-iraniane come la ferrovia Khaf-Herat, ma anche di poter pattugliare liberamente le zone di confine dello Xinjiang, senza correre il rischio di incorrere in inchieste scomode, come quella pubblicata dalla stampa indiana che presentava in esclusiva immagini ritraenti convogli cinesi all’interno del confine afghano.

Il governo cinese si propone quindi come mediatore diplomatico tra Kabul e i talebani. Dal suo operato dipendono le sorti di decenni di diplomazia fra Pechino e i Paesi del centro Asia, di miliardi di dollari già investiti nei progetti economici specifici e, conseguentemente, del progetto Belt and road. Tutte le potenze coinvolte sono ben disposte a seguire la leadership cinese, certe che ne trarranno un grande guadagno politico ed economico. L’unico fattore a non essere ancora sotto il controllo cinese è la moltitudine di gruppi estremisti che popolano l’area, tutti diversi fra loro, sia per natura che per obiettivi.

La Cina ha ampiamente dimostrato di essere disposta a scendere anche al dialogo con questi gruppi pur di raggiungere il proprio obiettivo, tuttavia il Partito resta all’oscuro delle modalità con cui le forze Nato abbandoneranno il suolo afghano e ciò che ne conseguirà, quindi non può fare altro che tenersi pronto a tutto.

*

💥 Porta Left sempre con te!
Regalati un abbonamento digitale e potremo regalarti altre articoli come questo
🆙 Bastano pochi click!
🆒 Qui > https://left.it/abbonamenti
—> Per regalare un abbonamento digitale cliccare sull’opzione da 117 euro e inserire, oltre ai propri dati, nome, cognome e indirizzo mail del destinatario <— ⏱
🔴 Left, un pensiero nuovo a sinistra


L’articolo è stato pubblicato su Left del 9-15 luglio 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Aleida Guevara: «La mia Cuba resiste a due pandemie, embargo e Covid»

«Sono un medico cubano, una donna che si è formata vivendo in un contesto rivoluzionario, e se ho un valore a cui tengo è quello di servire il mio popolo o qualsiasi altro popolo nel mondo». Aleida Guevara è in Italia e si presenta così in un incontro pubblico in Calabria. L’identità medica vista alla luce dell’esperienza di un Paese che ha sempre puntato, fin dai tempi della rivoluzione castrista, sul privilegiare la sanità e l’istruzione, è il tema che la figlia del Che, medico pediatra, ha toccato spesso nei suoi interventi durante il tour di conferenze lungo la Penisola organizzate dall’associazione Italia-Cuba. E oltre a questo, come quando incontra noi di Left, sottolinea i meriti di Cuba nella lotta alla pandemia sia per quanto riguarda la prevenzione e il trattamento dei casi sia rispetto alla straordinaria ricerca sui vaccini che ha portato nei mesi scorsi all’autorizzazione di emergenza per il Soberana 02 e di recente a un’analoga richiesta per il vaccino Abdala.

Tutto questo realizzato da un Paese sotto embargo da oltre 60 anni.
Partiamo da qui, vogliamo sapere come viene vissuta a Cuba l’emergenza sanitaria da coronavirus. «Si prendono in carica non solo i pazienti che hanno una sintomatologia da Covid-19 – racconta Guevara – se infatti attraverso i tamponi il paziente risulta positivo, pur essendo asintomatico, comunque viene sottoposto a un trattamento terapeutico. Se presenta i sintomi viene inviato in ospedale. La cosa importante − prosegue − è che interveniamo direttamente nella zona del contagio. Dove si verificano casi positivi, chiudiamo tutto il quartiere. I volontari poi vanno casa per casa a portare tutto quello di cui le persone hanno bisogno: cibo, medicine ecc. In questo modo siamo riusciti a gestire la pandemia. Anche se, per via del problema dell’embargo, ci sono grandi file per avere i generi alimentari e questo può creare problemi di distanziamento».

A maggio mentre erano ancora in corso i test, è iniziata la somministrazione del Soberana 02 prodotto da BioCubaFarma ed efficace al 62%. A che punto sono la ricerca e la somministrazione? «Iniziammo con una sperimentazione in doppio cieco con un gruppo di pazienti. Ad alcuni somministravamo il vaccino, ad altri il placebo. Questo accadeva con la prima dose di Soberana 02, poi siamo passati alla seconda e alla terza dose; nel frattempo si analizzava la risposta immunitaria». Ed ecco il risultato: «Fino ad ora quello che si è ottenuto dallo studio è che ci sono pochi effetti collaterali e che non sono gravi; si ottiene l’immunità ma non sappiamo ancora per quanto tempo. In questo momento sono stati vaccinati con Soberana 02 circa 2 milioni di abitanti con almeno una dose e 300mila con tutte e tre le dosi. Si è cominciato in maniera massiva dal personale sanitario e quello dei servizi come le ambulanze e i taxi. Tutti questi soggetti sono stati vaccinati. A giugno il Soberana 02 ha superato gli standard richiesti dall’Organizzazione mondiale della sanità per un vaccino. E questo darà la possibilità ad altri Paesi di ottenerlo o di avere le tecnologie per produrlo».

Chiediamo ad Aleida Guavara di parlarci della politica sanitaria cubana. Lo spunto viene dall’incontro che si è svolto a Cosenza, dal titolo “Sanità a confronto, alla luce della pandemia”, con medici e studiosi che hanno parlato del sistema medico e psichiatrico cubano in rapporto a quello italiano che durante l’emergenza ha messo a nudo tutte le carenze dovute alle privatizzazioni e ai tagli di risorse, specie alla medicina territoriale. «La salute pubblica cubana si basa su principi molto importanti. In primo luogo è completamente gratuita, è un diritto della popolazione cubana. Tu non puoi fare soldi con il dolore e con la sofferenza di un essere umano», sottolinea con forza. Un altro principio importante è che «la medicina cubana è integrale, pertanto una persona è sana non solo dal punto di vista fisico, ma anche per quanto riguarda la salute mentale. E per noi una persona è sana quando è felice».

Questa visione globale del paziente come essere umano la si riscontra anche nella medicina di base, che a Cuba è costituita dall’équipe territoriale formata dal medico ed infermiere e che risponde all’80% per cento della domanda sanitaria totale della popolazione, sempre in costante e diretto rapporto con gli specialisti. Tale organizzazione ha portato Cuba ad avere degli indici sanitari che fanno invidia non solo ai Paesi in via di sviluppo, con i quali condivide il Pil, ma anche a quelli del cosiddetto Primo mondo. Infatti Cuba ha un tasso di mortalità infantile tra i più bassi al mondo, inferiore anche rispetto agli Stati Uniti. Lo spiega la stessa Aleida, grazie alla sua esperienza da pediatra. «A Cuba uno dei problemi più gravi era quello della mortalità infantile ma anche materna. E allora abbiamo raggiunto, per così dire, l’unione tra il medico di base e l’ostetrica, per cui il medico di famiglia segue la donna quando è incinta, deve andare a farle visita, le fa fare le analisi per vedere se il feto sta bene. È tutto sotto il suo controllo, per questo il medico di famiglia è un ruolo chiave nella sanità cubana».

Questo dimostra che la priorità delle scelte sanitarie per il governo cubano, a differenza di altri Paesi, è l’attenzione per le fasce della popolazione più fragili come la donna e il bambino. Un altro aspetto che Aleida Guevara tiene a sottolineare – raccontando anche episodi vissuti in molti Paesi, come il Nicaragua e l’Ecuador – è quello del suo essere internazionalista: «Tutti noi medici cubani formati con la rivoluzione sappiamo che dobbiamo essere utili non solo al nostro popolo ma a qualsiasi altro popolo del mondo che ha bisogno». «El pueblo cubano está dispuesto a hacer lo que pueda porque el amor se paga solo devolviéndolo y eso es exactamente lo que estamos tratando de hacer». Essere medici internazionalisti è anche un modo per formarsi ulteriormente, per acquisire ulteriori saperi ed esperienze nelle tante situazioni di emergenza incontrate nei Paesi più poveri del mondo. «La cosa importante è lo scambio di conoscenza tra noi tutti». Il racconto di Aleida prosegue: «Bisogna guardarsi intorno e chiedersi a cosa possiamo servire, dobbiamo sempre imparare anche quando il medico ha molti anni di esperienza alle spalle. Bisogna ascoltare le persone, c’è sempre qualcosa di nuovo da apprendere. Pertanto essere internazionalisti ci fa essere migliori come esseri umani e questo a noi, medici cubani, dà un grande orgoglio. In questo momento molti medici di famiglia fanno parte della brigata Henry Reeve, e allora a Cuba altri colleghi si fanno carico del loro lavoro e a volte non è facile, bisogna resistere».

Aleida spiega che nell’isola c’è un medico ogni 167 abitanti, un numero destinato a crescere, perché «chiediamo di avere un medico nei circoli infantili (asili nido e scuola dell’infanzia, ndr), nelle scuole e nei luoghi di lavoro per poter fare veramente medicina preventiva». Cuba secondo il Global health security index (2019) è il Paese con la migliore densità di operatori sanitari (tra medici e infermieri sono circa 480mila) che rappresentano il 6,6% della popolazione in età lavorativa; il 71,2% sono donne. Un accenno anche alla scuola latinoamericana di medicina (Elam) voluta da Fidel Castro già negli anni 60: «Abbiamo formato più di 20mila medici del continente e ci sono stati anche 500 studenti statunitensi che hanno studiato gratuitamente a Cuba e questo è molto bello».

Aleida è medico, il padre era medico e rivoluzionario «che ha insegnato a tutti noi ad essere uomini e donne onesti, utili al popolo». C’è un nesso, chiediamo infine, tra medicina e rivoluzione? «Per essere un medico rivoluzionario – risponde – non c’è bisogno della rivoluzione. Inoltre, tu puoi essere un medico bravo, ma da solo non cambi la società; per farlo c’è bisogno di un processo rivoluzionario. Non tutti i medici sono rivoluzionari né solo i medici fanno la rivoluzione, però se un medico si coinvolge a livello sociale e si rende conto delle responsabilità che ha come professionista della salute inevitabilmente inizia a essere rivoluzionario». Qual è il lascito più importante del padre? Aleida risponde, concludendo così: «Che devi essere un essere umano capace di sentire in modo profondo l’ingiustizia, di non restare indifferente di fronte a un torto, ma anche di agire per “ripararlo”. Capire qual è il problema e trovare la soluzione: questa è la cosa più importante. Non solo vedere quello che fa star male ma cercare di risolverlo. Ma bisogna avere una grande sensibilità, altrimenti non sei un vero rivoluzionario. Il vero rivoluzionario è capace di amare».


L’intervista è stata pubblicata su Left del 9-15 luglio 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Alla ricerca delle cause della malattia mentale

Foto Guido Calamosca/LaPresse 30 Giugno 2021 Bologna, Italia cronaca Monteveglio, Fiaccolata in memoria di Chiara Gualzetti, uccisa da un suo coetaneoNella foto: un momento della fiaccolata Photo Guido Calamosca/LaPresse June 30, 2021 Bologna, Italy news Monteveglio, Torchlight procession in memory of Chiara Gualzetti, killed by her peer In the picture: a moment of the procession

«Mi dicono che ho un bel corpo, mi dicono che sono intelligente e bella… E va sempre a finire che quando lo dicono, lo dicono per approfittarsi del mio corpo e della mia intelligenza. Oppure spariscono perché si stancano di provare a usare il mio corpo e si stancano della mia intelligenza»: è amaro il racconto delle sue delusioni di quindicenne che Chiara lanciava sui social, di un’amarezza che oggi, all’indomani della sua tragica morte, ci sembra ingenua. Il suo feroce assassino, subito dopo averla uccisa con il coltello nascosto nello zaino che Chiara sperava contenesse un regalo per lei, scrive a un’amica: «Questa è depressa, l’ho fatto, me l’ha detto lui. Lei mi urtava i nervi». Pare che la ragazza si fosse invaghita di lui, e questo sarebbe l’assurdo movente dell’omicidio: eliminare questa pretesa di affetti, di umana reciprocità, l’adolescenziale slancio verso l’altro.

La glaciale lucidità con cui l’assassino appena sedicenne ha messo in atto il suo piano è stata interpretata come piena capacità d’intendere e volere dal Gip del Tribunale per i minorenni di Bologna che ha convalidato il fermo del ragazzo, «e ciò anche nel caso di eventuali problemi psicologici, quali in effetti e precedentemente ai fatti già occasionalmente emersi», precisa il Gip Luigi Martello.

Eppure le questioni aperte da questa storia sconvolgente, innanzitutto per l’età della vittima e del suo carnefice, sono così complesse da…

* La psichiatra e psicoterapeuta Barbara Pelletti è presidente dell’associazione Cassandra


L’articolo prosegue su Left del 9-15 luglio 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Mauro Palma: Quel pestaggio non è un caso isolato

La ministra della Giustizia Marta Cartabia, in merito a quanto avvenuto nel carcere campano di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020 a seguito di alcune rivolte nate dalla paura della diffusione del Covid dietro le sbarre, ha parlato di «tradimento della Costituzione» e di «un’offesa e un oltraggio alla dignità della persona dei detenuti e anche a quella divisa che ogni donna e ogni uomo della Polizia penitenziaria deve portare con onore». 117 indagati, 52 persone raggiunte da misure cautelari, accusate a vario titolo di torture pluriaggravate, maltrattamenti pluriaggravati, lesioni personali pluriaggravate, falso in atto pubblico aggravato, calunnia, favoreggiamento personale, frode processuale e depistaggio. Tenendo fermo il principio di presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva, tuttavia fa orrore quanto scrive la Procura sammaritana: «Il personale di Polizia penitenziaria aveva formato un “corridoio umano” al cui interno erano costretti a transitare indistintamente tutti i detenuti dei singoli reparti, ai quali venivano inflitti un numero impressionante di calci, pugni, schiaffi alla nuca e violenti colpi di manganello». A ricevere le prime segnalazioni delle violenze è stato il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, un faro sempre acceso nel buio delle prigioni.

Garante, cosa ha provato appena ha visto il video pubblicato dal Domani in cui agenti della Polizia penitenziaria malmenavano moltissimi detenuti inermi e inginocchiati?
La prima impressione è stata quella di uno sguardo al passato, del tipo “Siamo ancora qui”. Quelle immagini mi hanno ricordato Genova, Bolzaneto. Trovarsi a 20 anni di distanza dai fatti del G8 del capoluogo ligure dinanzi a qualcosa che ricorda quei terribili giorni è particolarmente triste. Poi quelle immagini mostrano l’assenza di una qualunque catena di comando, una specie di branco che si getta contro altre persone. Anche l’utilizzo da parte di alcuni agenti penitenziari di affermazioni del tipo «abbattiamoli come vitelli» sanno di tifoserie da stadio da parte di gruppi di identità debole che si ritrovano in una falsa identità forte di tipo aggressivo. Inoltre quelle sequenze di violenza testimoniano un’operazione compiuta con la certezza dell’impunità, perché portata avanti nonostante le telecamere. Tutto ciò non è accettabile. L’altra riflessione è stata quella di interrogarmi su quali fossero le vittime. Ce ne sono di…


L’intervista prosegue su Left del 9-15 luglio 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Nicola Fratoianni: C’è una ignobile campagna delle destre contro i giovani e il lavoro

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 11-06-2021 Roma, Italia Politica Corte di Cassazione - proposta di legge su tassa patrimoniale Nella foto: Il Segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni con i parlamentari Fratoianni, Doriana Sarli, Eleana Fattori, Virgina LaMura e Paola Nugnes, presenta in Corte di cassazione una proposta di legge di iniziativa popolare su tassa patrimoniale Photo Mauro Scrobogna /LaPresse June 11, 2021  Rome, Italy Politics Court of Cassation - bill on property tax In the photo: The Secretary of the Italian Left Nicola Fratoianni with the parliamentarians Fratoianni, Doriana Sarli, Eleana Fattori, Virgina LaMura and Paola Nugnes, presents in the Court of Cassation a proposal for a popular initiative law on property tax

Dovremmo avere il coraggio di dirci, guardandoci negli occhi, che di sinistra in giro se ne vede proprio poca. Per carità, che le istanze di sinistra siano all’angolo non è una novità e perfino ci assale la sensazione che quelle poche volte in cui riescono a bucare vengano subito annacquate, dipinte come antistoriche e soprattutto godano di poca considerazione, ma il governo Draghi (che in molti si affrettarono a dichiarare governo “tecnico” e non politico) è riuscito in quattro e quattr’otto a riassegnare ruoli da protagonisti anche a chi sembrava ormai fuori dai giochi. Che Silvio Berlusconi possa permettersi di avanzare e far discutere della sua candidatura a presidente della Repubblica senza prendersi una sonora pernacchia e finire dritto tra le barzellette del momento è altamente indicativo e che qualche giorno fa Matteo Renzi abbia avuto il coraggio di rivendicare lo spessore di ministri come Mariastella Gelmini e Renato Brunetta svela ampiamente quali fossero gli obiettivi dell’ultima crisi di governo.

Lo so, tocca ripeterlo ma che un governo possa elogiare Erdoğan e la Libia in tema di immigrazione, che in scioltezza si ritrovi a sbloccare i licenziamenti per permettere alle imprese di licenziare e riassumere a condizioni migliori (per loro), che senza battere ciglio elimini il cashback (unico provvedimento che si ricordi contro il nero nonostante tutti i suoi limiti), che insista nella narrazione tossica contro i sussidi chiamando invece investimenti i sussidi alle imprese, che sotto traccia continui nella battaglia frontale al reddito di cittadinanza e che nasconda irresponsabilmente la povertà, è un governo di destra. Destra, punto. Del resto tutti quelli che si dicono né di destra né di sinistra (o perfino tecnici) sono di destra. Anche questo la Storia dovrebbe avercelo insegnato, no?

E allora verrebbe da chiedersi per…


L’articolo prosegue su Left del 9-15 luglio 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Andrea Crisanti: Variante Delta, il vaccino non basta. Ripensare il tracciamento

Andrea Crisanti during EKopark 2020 at Monselice, Padova, Italy on 26, August 2020. Andrea Crisanti is an Italian full professor of Microbiology at the University of Padua. He previously was professor of Molecular Parasitology at Imperial College London. He is best known for the development of genetically manipulated mosquitoes with the objective to interfere with either their reproductive rate or the capability to transmit diseases such as malaria. (Photo by Massimo Bertolini/NurPhoto via Getty Images)

Nonostante il dilagare della variante Delta e il balzo nei contagi da Sars-Cov-2, Boris Johnson decide di riaprire tutto. Pura follia? Persino Israele, Paese super efficiente nella vaccinazione e nel tracciamento ha ripristinato le mascherine al chiuso. «Serve prudenza, anche qui in Italia», dice Brusaferro, dell’Istituto superiore di sanità. Intanto una nuova variante del coronavirus, la Lambda, mette in allarme gli scienziati: rilevata per la prima volta in Perù nel dicembre 2020 e scientificamente nota come C.37, da allora si è diffusa in 30 nazioni in quattro continenti: Europa, America, Africa e Oceania. Per cercare di capire quali sono i rischi della fase che stiamo attraversando abbiamo interpellato il virologo Andrea Crisanti, ordinario di Microbiologia all’Università di Padova e autore, con il giornalista e ideatore di Rai news 24 Michele Mezza, del libro Caccia al virus, appena pubblicato da Donzelli.

Professor Crisanti a che punto siamo? È stato sottovalutato il sistema imprevedibile e frenetico delle varianti?
La possibilità che emergano in continuazione varianti fa parte della biografia del virus. Non ci si può fare nulla, fondamentalmente. Questo va tenuto presente. Ma il punto non è tanto che emergano delle varianti, ma che emergano varianti resistenti al vaccino, questa è la cosa più importante da considerare. L’altro aspetto che avrà un impatto importantissimo è la durata della copertura vaccinale.

Bisogna capire quanto dura la protezione avendo fatto le due dosi di vaccino?

Certo. Il punto è quanto dura. Se abbiamo una protezione che dura otto-nove mesi è cosa ben diversa rispetto al fatto che la protezione duri 15 mesi, un anno o due anni, sono situazioni completamente differenti anche da gestire.

Nel libro che lei ha scritto con Michele Mezza, Caccia al virus, si legge che in questi ultimi mesi è stata avviata «una spensierata liberalizzazione». C’è stato, secondo lei, un abbassamento dell’attenzione collettiva?

Io penso che sia un problema politico. Alla fine che c’entrano le persone? Le persone fanno quello che gli viene detto o consentito di fare. Io penso che questa retorica sul comportamento dei cittadini non sia accettabile.

“Figliuolo ci siamo persi il tracciamento” recita il titolo di un’inchiesta di Left. Test e tracing avrebbero dovuto procedere in altro modo?

Purtroppo è sempre mancato un coordinamento nazionale, sono mancate politiche chiare per attivare questa procedura in modo efficiente. E non ci siamo ancora.

Nel libro scrivete che si sarebbe potuto usare un sistema di geolocalizzazione stile Google. Ma non è stato attivato, perché?

Il problema è che l’Italia non è proprio preparata, non hanno le competenze. Al fondo non erano in grado di gestirlo, questa è la realtà.

Cosa possiamo fare per cercare di superare questo gap, visto che purtroppo con il virus dovremo ancora fare i conti a lungo?

Questo purtroppo è sicuro, ce lo porteremo dietro per un po’. Non è una cosa molto semplice da risolvere. Ormai tutti quanti sono dell’idea che ogni cosa si risolva con la vaccinazione. Purtroppo non è così. Se la vaccinazione non viene accompagnata da misure che abbiano l’obiettivo di bloccare la trasmissione difficilmente riusciremo ad uscire da questa situazione.

Tuttavia lei, in Caccia al virus afferma che i vaccini sono strumenti in evoluzione continua. Questo ci offre qualche cartuccia in più?

Come dicevo quello che conta con i vaccini è la durata della protezione. Ripeto, con i vaccini da soli non si risolve. C’è bisogno anche di una gestione diversa dei dati, bisogna verificare come vengono utilizzati e come vengono integrati con il contact tracing.

C’è stato bisogno di una sentenza del Consiglio di Stato perché fossero resi pubblici i dati del Comitato tecnico scientifico. C’è un tema irrisolto di diritto alla conoscenza che riguarda certamente i ricercatori ma anche i cittadini in senso più ampio?

Il punto è che in Italia c’è una cultura molto provinciale. Non c’è la cultura della trasparenza. Questo è un difetto tutto italiano.

Le decisioni politiche dovrebbero essere basate sull’evidenza scientifica e spiegate su questa base?

Il cardine dovrebbero essere le evidenze scientifiche condivise dalla comunità scientifica. Perché la comunità scientifica fa parte della società, la quale ha il diritto di sapere.

Torniamo al suo lavoro, nella prima fase della pandemia lei sottolineò il rischio legato agli asintomatici. Perché furono sottovalutati?

Furono trascurati per errori, anche dell’Oms, e poi  perché la Cina non era stata trasparente nel comunicare la reale situazione di quel che stava accadendo nel Paese.

Che fine ha fatto il piano che lei aveva predisposto per il governo nell’agosto 2020?

Ah guardi non lo so proprio. Non ho proprio idea. Penso non sia stato considerato.

Cosa prevedeva il suo piano in quel momento?

Era un piano che prevedeva la costruzione di una vasta struttura per poter far fronte al tracciamento nella maniera più efficace possibile. Aumentare la capacità di fare tamponi, aumentare la logistica, l’informatizzazione, era un lavoro abbastanza complesso. Non si poteva ridurre tutto a una questione solo di tamponi.

Allargando lo sguardo a livello globale, torniamo a sottolineare che sono pochissime le persone vaccinate nei Paesi a medio e basso reddito. C’è un gap enorme da colmare?

Questo è un problema gigantesco, considerando che i vaccini che abbiamo a disposizione adesso non vanno bene per i Paesi in via di sviluppo. Perché sono vaccini molto costosi. E perché hanno bisogno di due dosi, richiedono una doppia vaccinazione. Insomma non sono vaccini adatti per aree del mondo dove hanno a disposizione mezzo euro per fare un vaccino. La maggior parte di questi Paesi non ha neanche l’acqua potabile. Per l’ottanta per cento della popolazione l’acqua potabile è un sogno. Siamo davanti a questa situazione drammatica.

Dobbiamo essere in grado di rispondere per ragioni umanitarie ma anche per uscire dalla pandemia, da cui non usciremo se non siamo in grado di vaccinare tutti. Trasferire le competenze tecnologiche ai Paesi più poveri potrebbe essere una delle strade?

Non penso che il problema sia solo il gap tecnologico. È difficile che i Paesi poveri possano produrre i vaccini autonomamente. Penso che i Paesi industrializzati debbano fare un investimento per sviluppare vaccini che siano adatti a quelle aree del mondo.


L’intervista prosegue su Left del 9-15 luglio 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Che seccatura, le opinioni

L’aspetto più importante e interessante dello scontro tra Matteo Renzi e Chiara Ferragni e poi successivamente suo marito Fedez mi pare che stia sfuggendo ai più, soprattutto alla luce dell’accusa (la solita accusa) di “intromettersi” nella politica contro la celebre coppia. Lo racconta perfettamente anche l’editoriale di Stefano Feltri, direttore del quotidiano Domani, che propone «di negoziare un concordato Stato-Ferragnez, per perimetrare l’influenza degli influencer sulla vita pubblica e la politica» in un editoriale in cui ci si diverte a tirare in ballo gli shampoo pubblicizzati per sminuire e canzonare.

Il primo aspetto sta tutto nella frase di Renzi (ma non è un discorso che riguarda solo Renzi, riguarda indistintamente tutti e ogni volta ripete le stesse dinamiche) che dice alla Ferragni «la politica non si fa su Instagram». Questa pletora di politici che sognano di fare gli influencer, che rovistano tra le foto in occasione del lutto di ogni personaggio pubblico, che si fotografano mentre corrono, mentre mangiano, mentre giocano con i figli, mentre preparano le grigliate, mentre vanno allo stadio o mentre fanno la spesa usano i social per raccattare un po’ di algoritmica empatia nella speranza di trasformarla in voti, si battagliano a colpi di follower (“io ne ho più di te”) e fanno (male) quello che Chiara Ferragni ha trasformato in una redditizia attività. È la favola della volpe e dell’uva, sempre quella, solo che la stragrande maggioranza dei politici usano i social per fingere interviste che nessuno gli vuole fare e per immaginare paparazzi assolutamente disinteressati a loro con il risultato di essere patetici. E quindi disprezzano ciò che non sanno governare. Accade sempre così, anche con i cittadini.

Poi c’è questa idea per cui i social siano abitati da strani esseri che non vivono nella vita reale: i social sono un luogo che come tutti i luoghi hanno bisogno di regole ma le opinioni dei cittadini (soprattutto se certificati, riconoscibili e riconosciuti come Fedez e Ferragni) non hanno bisogno di regole se non incitano all’odio, alla violenza o al commettere reati. Ma come? Ma tutta questa manfrina sulla libertà di pensiero dell’articolo 21 della Costituzione ce la siamo già dimenticata? Anche qui il procedimento è molto più semplice, perfino banale: ci sono persone che hanno molti più “lettori” e “ascoltatori” di altri media che sono rimasti nella loro torre d’avorio. I vecchi si arrabbiano perché perdono terreno e loro che rivendicavano fino a qualche anno fa il peso dei numeri ora la buttano sulla nobiltà dei contenuti. Fa piuttosto ridere, davvero.

Poi c’è l’assoluta perdita del senso delle proporzioni. Lo ha scritto benissimo ieri Alessandro Robecchi su twitter: «Ma ho capito bene? Il direttore del quotidiano dell’imprenditore De Benedetti, già padrone di Repubblica, si duole e si dispiace perché l’imprenditrice Chiara Ferragni influenza l’opinione pubblica con il suo account Instagram? Sul serio? Ahahah!». E poi, sempre Robecchi: «De Benedetti, Elkann, Cairo (e altri) sono influencer coi giornali. Chiara Ferragni è influencer col suo account. Fugurati se non sono contrario al conflitto di interessi tra imprenditori e media. Ecco, diciamo che iniziare da Fedez sembra un po’ grottesco».

E infine c’è la politica, ovvero l’occuparsi della polis, della cosa pubblica, che per fortuna è un diritto e un dovere di tutti i cittadini. Tutti. E sentire i campioni del trasformismo e della banalità rivendicare una superiorità di cui si sono autoproclamati rende tutto ancora più goffo. E intanto ancora una volta si è alzato un polverone senza parlare di contenuti, un altro giorno ancora.

Buon venerdì.