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Arresto ex terroristi, prova muscolare di uno Stato debole

Emmanuel Macron si dovrà scontrare con Marine Le Pen nelle prossime elezioni per l’Eliseo e, in questa prospettiva, dare in pasto all’opinione pubblica gli ex terroristi italiani non gli costa nulla, anzi gli fa comodo. Lo Stato italiano, il cui sistema giudiziario è screditato a livello internazionale, tra inefficienze e scandali interni, ha necessità di dare prova di autoritarismo per accontentare la parte forcaiola dell’elettorato, rimasta orfana del giustizialismo targato Cinque stelle.

Inoltre, in vista di una stagione ad alto tasso di conflittualità, dato lo scontento sociale crescente ed una economia in grave difficoltà, passare il messaggio che lo Stato non dimentica, è quanto mai opportuno: non alzate il conflitto, che noi, prima o poi, veniamo a chiedere il conto.

Un conto quanto mai tardivo e sgangherato, che non ha mai voluto mettere negli addendi dei calcoli che hanno portato a quel risultato finale, le proprie responsabilità ed inefficienze: ma ve la ricordate (o, magari, qualcuno non l’ha mai saputo) la teoria del “concorso morale”, promulgata in fase di emergenza, grazie alla quale molti fruitori della cosiddetta “dottrina Mitterand” sono stati condannati? Un obbrobrio giuridico, che…

* L’autrice: Valentina Angeli è avvocato penalista del Foro di Roma


L’articolo prosegue su Left del 7-13 maggio 2021

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SOMMARIO

“Donna, ricordati di procreare altrimenti non ti realizzi”

Antonio Tajani è coordinatore nazionale di Forza Italia, mica uno qualunque. Uno dei suoi pregi, per chi ha uso di seguire la politica, è quello di essere sornione sempre allo stesso livello mentre si ritrova a parlar degli argomenti più diversi, come se recitasse a memoria il ruolo che Forza Italia si propone nel centrodestra: essere quelli “seri”, quelli “non populisti”, quelli “libertari” e così via.

Ieri Tajani era presente alla presentazione degli eventi della festa ‘Mamma è bello’ e ovviamente gli è toccato sfoderare qualche riflessione politica sul ruolo di mamma (i politici, quelli che funzionano sono così, hanno un’idea su tutto e un mazzo di slogan per qualsiasi occasione, dalla sagra della porchetta fino al complesso tema di maternità e famiglia) e così ha sfoderato la solita frase come una tiritera, forse rendendosi poco conto di quello che stava dicendo. «La famiglia senza figli non esiste», ha detto Tajani, e poi, tanto per non perdere l’occasione di peggiorare la propria figura ha deciso anche di aggiungerci che «la donna non è una fattrice, ma si realizza totalmente con la maternità».

Ma come? Ma Forza Italia non è proprio il partito delle libertà? Niente: Tajani non si è nemmeno reso conto di essere riuscito in pochi secondi a tagliare completamente fuori migliaia di persone che avrebbero tutto il diritto di sentirsi feriti dalle sue parole. Mettere in dubbio la legittimità di un amore e di una famiglia, del resto, sembra essere diventato il giochino del momento dalle parti del centrodestra e così le famiglia che non hanno figli e quelle che non ne possono avere improvvisamente si accorgono di essere meno degne di tutti gli altri. E badate bene, qui siamo addirittura oltre al solito attacco alle coppie omosessuali: qui siamo proprio a un’idea di donna che ha il supremo compito di partorire come accadeva in quei tempi in cui in Italia avevamo qualche problemino con la democrazia.

Molti sono inorriditi, giustamente e si sono lamentati ma in fondo è proprio sempre la stessa idea di mondo, anche se esce con toni e con modi diversi, che nel centrodestra si coltiva da anni: «Le donne preferiscono accudire le persone, gli uomini preferiscono la tecnologia», ha detto ieri a Piazza Pulita (solo per citare uno dei tanti esempi) Alberto Zelger, consigliere comunale della Lega a Verona.

Insomma, anche oggi, care donne vi è stato ricordato il sacro comandamento di realizzarvi solo attraverso la procreazione. E se è vero che qualcuno potrebbe fregarsene della sparata di Tajani, come accade per le boiate di Salvini, occorre ricordare che questi sono leader di partiti che decideranno come spendere i soldi che dovrebbero servire per rimettere in piedi l’Italia, sono lì a stabilire quali dovrebbero essere le priorità. E questo, vedrete, è molto di più di una semplice frase sbagliata.

Buon venerdì.

Elena Cattaneo: Senza ricerca non c’è libertà

Forse mai come in questi 15 mesi di pandemia è stato evidente quanto incida la ricerca scientifica sulla vita privata e pubblica di ciascun essere umano. L’immane sforzo scientifico e tecnologico per arrivare nel tempo più breve possibile a realizzare vaccini e a individuare i trattamenti più efficaci contro il Sars-Cov-2 ha coinvolto governi, laboratori scientifici e popolazioni di tutto il pianeta. Oltre ovviamente al mondo della divulgazione e dell’informazione. Ma cosa resterà di questa “esperienza” collettiva quando finalmente sarà superata la crisi globale provocata dal coronavirus? Partendo da questa domanda ci siamo chiesti quali ricadute potranno avere sulla ricerca per la cura di malattie diverse dal Covid-19 le conquiste scientifiche di questi mesi e se e come cambierà il peso del parere scientifico nelle decisioni politiche. Per provare a orientarci ma anche per liberarci di paure e diffidenze abbiamo pensato di rivolgere questi e altri quesiti alla senatrice a vita Elena Cattaneo, scienziata attiva nel campo della ricerca sule cellule staminali.
«Con la pandemia – osserva Cattaneo – abbiamo sperimentato un senso di vulnerabilità al contagio e alla malattia di cui da decenni, come singoli e come comunità, avevamo perso memoria. Paradossalmente, proprio le conquiste conoscitive in campo medico, assicurando livelli di salute e benessere mai immaginati in passato, avevano fatto dimenticare l’importanza della medicina per la sopravvivenza del genere umano. Di fronte alla riscoperta di quella sensazione di impotenza e di paura per la propria salute e per quella dei propri cari, i cittadini hanno reagito cercando nella scienza e nei tanti esperti interpellati quotidianamente in tv e sui giornali tutte le risposte alle incertezze di un futuro improvvisamente cupo. Abbiamo assistito quindi a un generale innamoramento e trasporto verso la scienza, dettato dalla paura».
Spesso l’opinione pubblica è rimasta spiazzata da risposte ritenute contraddittorie da parte degli scienziati di varie discipline impegnati nella “lotta” contro il Covid-19. La mancanza di chiarezza ha alimentato ancor di più la paura?
La scienza non è fatta per dare certezze a comando, previsioni da oracolo, prescrizioni infallibili, non è una sfera di cristallo da interrogare al bisogno per ottenere la soluzione immediata a un problema, bensì un metodo che rende possibile conquistare nuove conoscenze attraverso l’indagine, la sperimentazione, lo studio, la verifica; un metodo da costruire e sostenere ogni giorno, per essere pronti all’imprevisto. L’iniziale “innamoramento” per la scienza dettato dalla paura oggi è in via di affievolimento; quanto più gli studiosi sono stati veloci a costruire e rendere disponibili al mondo le nuove conoscenze, tanto più velocemente è svanito l’interesse del pubblico, che ormai dà quelle conquiste per acquisite e magari lamenta che non siano abbastanza celeri o efficaci. La sfida comunicativa del post-Covid sarà quella di recuperare quella prima attrazione di “pancia” verso la scienza che hanno provato molti cittadini per consolidare la fiducia e la familiarità col metodo scientifico, trasformando una “passione” momentanea in una “relazione” solida e duratura.
In questi 14 mesi anche la politica ha sperimentato un nuovo rapporto con la scienza. È d’accordo?
Certamente. Se, infatti, la scienza può fornire metodo, dati, risultati, certezze e probabilità, è sempre la politica ad avere la responsabilità di dire l’ultima parola, di scegliere. Una responsabilità che, laddove “la decisione perfetta” è impossibile, implica anche la capacità di saper gestire con prontezza e coraggio le conseguenze delle scelte assunte, quando gli effetti non corrispondano alle aspettative. In futuro, la scienza continuerà a fornire alla politica evidenze e azioni possibili, basandosi su fatti documentati. L’auspicio è che la politica sappia fare la necessaria sintesi tra quei fatti e gli interessi generali della popolazione, con l’obbligo però – questa è l’essenza delle istituzioni democratiche – di motivare responsabilmente al Parlamento e ai cittadini “i perché” delle decisioni prese.
Non era mai accaduto che si riuscisse a produrre vaccini sicuri ed efficaci in così poco tempo. Fermo restando che lo sforzo prodotto a livello globale per sconfiggere il coronavirus sarà vano fino a quando la somministrazione non sarà accessibile a tutti in qualsiasi angolo del pianeta, come si può far tesoro di un’impresa che ovviamente si è basata in primis sulla condivisione di dati e conoscenze?
Anche nell’enorme impresa scientifica realizzata per fronteggiare il Covid-19 dobbiamo aver ben chiaro che siamo stati come i proverbiali “nani sulle spalle dei giganti”: siamo riusciti a farci forti del sapere accumulato da chi è venuto prima di noi. In particolare, per cominciare a sviluppare un vaccino contro il Covid-19 non si è partiti da zero: molti scienziati e gruppi di ricerca si sono potuti basare sugli studi già fatti (ad esempio su Mers e Sars); sul fatto che alcune ipotesi erano state già escluse e quindi non si è “perso tempo” nuovamente a esplorare quelle strade; addirittura sul materiale genetico, conservato dai tempi della prima Sars, che ha permesso di riprodurre in breve tempo migliaia di topi geneticamente modificati per studiare come i coronavirus attaccano l’organismo, e metterli a disposizione dei laboratori di tutto il mondo. Quell’immane sforzo – guai a dimenticarlo – è stato possibile, e ha prodotto risultati in un tempo brevissimo, soprattutto grazie alla ricerca di base svolta nei decenni precedenti.
Non si può non pensare a Ugur Sahin e a sua moglie Özlem Türeci, fondatori della BioNtech…
Sahin non è solo il “padre” di uno degli innovativi vaccini sviluppati grazie all’uso dell’Rna messaggero, ad oggi approvato e in uso in tutta Europa. Lui è uno scienziato che pochi anni fa ha vinto un importante finanziamento alla ricerca di base dello European research council, finalizzato a individuare terapie immunologiche contro il cancro. E lo sviluppo di vaccini con tecnologia mRna rappresenterà certamente un “salto quantico” anche nel trattamento di altre patologie, con infinite potenziali applicazioni. Per questo è importante, anzi vitale, e lo dico con particolare attenzione riguardo all’Italia, continuare (o, per essere più precisi, riprendere massicciamente) a investire oggi nella ricerca di base, che non fornisce “risposte” immediate e dirette ai problemi, ma, libera di porre e porsi domande in ogni ambito, porta a scoperte enormi, spesso dal potenziale applicativo infinito e inaspettato.
Ritiene che il mondo della politica italiana abbia compreso fino in fondo l’importanza di questo “metodo” di lavoro che peraltro si basa su scelte coraggiose e sulla capacità di mettersi in gioco continuamente e a viso scoperto?
La ricerca scientifica in ogni ambito, soprattutto quella “curiosity driven”, è un’insostituibile fucina di nuove strade conoscitive e di future applicazioni innovative. La dimensione della scienza è stata sempre e inevitabilmente più ampia di quella imposta dai confini geografici e tra discipline: il “sovranismo scientifico”, di tutta evidenza, è una prospettiva insensata e fallimentare. La forza di un’idea, del volerla verificare, del volersi confrontare con chi studia le stesse cose nel mondo ha sempre portato gli studiosi a collaborare e confrontarsi al di là di qualunque barriera. Oggi con la pandemia ne abbiamo avuto conferma: penso ad esempio al fatto che una delle direzioni che sta prendendo la ricerca nelle scienze della vita è quella di studiare un vaccino unico e universale contro tutti i coronavirus, da mettere a disposizione di tutti, senza frontiere, senza distinzioni di sorta.
L’Italia potrà avere un ruolo in questa impresa? C’è chi pensa di costruire nuovi centri di ricerca.
In quest’ottica e in una prospettiva nazionale io mi chiedo che senso abbia. Come si può pensare di accentrare un’attività per definizione fluida, aperta, resistente a ogni tentativo di “imbottigliamento” com’è quella della ricerca scientifica? Non ha forse più senso, pensare a ogni mezzo possibile per favorire la collaborazione e lo scambio di idee, pensare a un coordinamento solido e affidabile sulle tematiche di frontiera? L’isolamento forzato di quest’ultimo periodo ha dimostrato che scambi fruttuosi sono possibili anche senza concentrare fisicamente risorse e personale in un solo luogo, che il modello dell’“eccellenza diffusa”, in cui ognuno mette in rete il proprio pezzo di conoscenza, è più attrattivo, intelligente e adatto al mondo di oggi rispetto alla creazione di nuovi “mucchi di mattoni”, che rispecchia invece una concezione un po’ obsoleta e “feudale” della ricerca.
Come se ne esce?
Serve un cambio di paradigma nel racconto della scienza e nella scienza stessa, che deve uscire dalla dimensione fisica e ristretta del laboratorio per costituire una rete, solida ma flessibile, di migliaia di menti che lavorano all’unisono, per strappare sempre nuovi pezzi di conoscenza all’ignoto e consegnare all’umanità un presente e un futuro in cui saremo sempre più curiosi e meno spaventati dalle sfide che ci attendono.
Soldi pubblici alla ricerca in Italia. Possiamo esser soddisfatti di quanto è stato stanziato nel Pnrr oppure per l’ennesima volta si è persa un’occasione sia per valorizzare i nostri ricercatori che per rendere l’Italia un Paese ambito dai ricercatori stranieri?
Non posso che ricordare quanto ho affermato nel mio discorso in Senato lo scorso 27 aprile, e cioè che quelli previsti dal Pnrr sono piani di investimento in ricerca importantissimi, ma straordinari. Non ci si può aspettare che bastino a rivitalizzare un settore finanziato poco e male da decenni, e soprattutto non la ricerca di base, sulla quale servirebbe avere come voce strutturale del bilancio dello Stato fondi specifici, per gli studi in tutti gli ambiti (umanistico, artistico, scientifico). L’ordinario oltre lo straordinario, insomma: quelle richieste di cui si sono fatti latori gli studiosi firmatari del cosiddetto “Piano Amaldi”, che mira ad aumentare l’investimento italiano in ricerca per portarlo a una quota del Pil nazionale più prossima a quella di altri Paesi europei paragonabili. Con soddisfazione per tutti coloro che si sono spesi in questa direzione, il presidente Draghi ha esplicitamente riconosciuto e accolto queste istanze, impegnandosi ad agire in questo senso anche nella prossima legge di Bilancio.
Concretamente cosa bisogna fare?
Bisogna lavorare ad una voce di bilancio di un nuovo ordine di grandezza, mai visto in passato, che però deve avere come presupposto irrinunciabile l’allocazione delle risorse competitiva e trasparente, con importi, tempistiche, obblighi di gestione e rendicontazione certi e uguali opportunità per tutti di partecipare alla competizione. Queste sono le regole secondo cui funziona la ricerca europea e internazionale, e un Paese come il nostro non può permettersi di ignorarle. In questo senso, è importante che la ministra dell’Università Cristina Messa abbia ribadito che i “centri” previsti nel Pnrr non sono ennesime “cattedrali nel deserto” da costruire da zero e su cui concentrare fondi e privilegi, ma modalità di messa in rete di tutte le eccellenze diffuse già esistenti e di quelle potenziali, su tutto il territorio nazionale.
Molto spesso si è puntato il dito contro l’infodemia per giustificare il disorientamento dell’opinione pubblica rispetto alle misure di contenimento dell’epidemia. Lei che ne pensa?
Se c’è una cosa che l’“infodemia” di questi mesi ci ha insegnato è che uno studioso esperto di una certa materia, nel rispondere a domande su temi su cui non ha una specifica competenza, dovrebbe premettere sempre con chiarezza che – in quel campo – sta semplicemente esponendo delle opinioni. C’è poi una netta differenza tra certezze e probabilità, tra fatti verificati e ipotesi. Le ipotesi solitamente sono più affascinanti, ma necessitano di prove, di discussione, di verifica prima di poter essere prese come base di politiche pubbliche. È un dovere per chi conosce e pratica il metodo scientifico chiarire in ogni possibile occasione questa differenza, anche e soprattutto quando personalmente si propende per una in particolare tra le ipotesi di lavoro. È naturale, inoltre, che un epidemiologo osservi Sars-Cov-2 e i suoi effetti sulla specie umana da un punto di vista differente rispetto a quello di un virologo, di un clinico, di un economista, di un linguista o di un sociologo, e che anche nello stesso settore possano coesistere priorità diverse, criteri diversi, interpretazioni diverse e talvolta contrastanti. Finora, però, solo pochi tra gli studiosi hanno intuito la necessità di spiegare ai cittadini che queste e altre dinamiche sono parte integrante del metodo scientifico.
A fine maggio uscirà per l’editore Raffaello Cortina un suo nuovo libro, “Armati di scienza”, ci può anticipare qualcosa?
Alla luce delle riflessioni pubbliche formulate in questi anni, con questo volume ho provato a declinare con un linguaggio semplice i contenuti essenziali della dimensione etica della scienza, del coltivare il suo metodo, del rapporto altalenante con la politica e l’informazione. Armati di scienza spazia davvero tra tanti temi, che non voglio anticipare. Per molti versi è per me un “esperimento narrativo” del cui esito, a differenza di quel che vivo al bancone del laboratorio, saranno severi giudici i lettori stessi. Il titolo dal sapore “guerresco” è, come spiego nell’introduzione, figlio dei tempi che stiamo attraversando: richiama la necessità di farsi letteralmente forza della scienza e del suo portentoso metodo per conoscere la realtà delle cose, per affrontare un presente sempre più tumultuoso di fatti, eventi, informazioni che corrono il rischio di trascinarci nella corrente della vita, sballottandoci indifesi tra mode, narrazioni fantasiose e – specie nella salute e in politica – suggestioni pericolose.


L’intervista è stata pubblicata su Left del 7-13 maggio 2021

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Il Piano senza qualità

Italian Premier Minister Mario Draghi sips water at the end of his address at the Senate in Rome, Tuesday, April 27, 2021. Italian Premier Mario Draghi is presenting a 222.1 billion euro ($268.6 billion) coronavirus recovery plan to the Seante. The plan is aiming to not only bounce back from the pandemic but enact "epochal" reforms to address structural problems that long predated COVID-19.(AP Photo/Gregorio Borgia, Pool) Italian Premier Minister Mario Draghi sips water at the end of his address at the Senate in Rome, Tuesday, April 27, 2021. Italian Premier Mario Draghi is presenting a 222.1 billion euro ($268.6 billion) coronavirus recovery plan to the Seante. The plan is aiming to not only bounce back from the pandemic but enact "epochal" reforms to address structural problems that long predated COVID-19.(AP Photo/Gregorio Borgia, Pool)

«Devo confessare il mio sconforto a leggere il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) proposto dal governo Draghi e recentemente approvato dal Parlamento. Fin dal linguaggio che vi viene usato. Siamo alle solite. Sembra davvero che la pandemia non ci abbia insegnato nulla». Non usa mezzi termini il fisico Guido Tonelli sul Corriere della sera nell’argomentare perché il Pnrr è assolutamente deludente sotto il profilo della ricerca e dell’istruzione.

L’ordinario dell’Università di Pisa (che ha partecipato all’esperimento del Cern che ha portato alla scoperta del bosone di Higgs) parla di poche briciole stanziate per la ricerca, denuncia l’assenza di investimenti strutturali e, tra i punti di maggior delusione, rileva l’assoluto silenzio riguardo all’assunzione di ricercatori. Diamo uno sguardo alle cifre: con il Pnrr l’Italia arriva a investire in ricerca e sviluppo lo 0,6 per cento del Pil (fin qui era lo 0,5), a fronte dello 0,75 della Francia e l’1 per cento della Germania. E Francia e Germania già stanno pianificando di rilanciare.

E ancor più deprimente appare il piano draghiano se messo a confronto con il Plan de relance approvato per la Francia, scrive Tonelli. Che l’auspicato e necessario cambio di passo riguardo a istruzione e ricerca in Italia non avvenga neanche ora che arrivano i soldi del Next generation Eu è un fatto gravissimo. E stupisce che tutto ciò avvenga nel silenzio più assordante. Ci saremmo aspettati barricate anche in Aula. Ma in Italia non c’è una reale opposizione in Parlamento, se non quella numericamente sparuta di Sinistra italiana.

L’analisi critica del Pnrr che dipana su Left la docente universitaria Serena Pillozzi (responsabile salute e ricerca nella segreteria nazionale di Sinistra italiana) parla chiaro: i soldi messi a disposizione per la ricerca sono pochissimi. Sotto la voce “dalla ricerca all’impresa” sono previsti 11,44 miliardi di euro. E di questi la parte destinata alla ricerca di base è estremamente esigua.

La richiesta che veniva dal mondo accademico e avanzata dal fisico Ugo Amaldi del Cern chiedeva che si arrivasse a 20 miliardi. Draghi in questi mesi ha fatto un gran parlare di giovani ma per il finanziamento di progetti presentati da ricercatori restano appena 600 milioni di euro e il sostegno alle borse di studio è irrisorio.

In sintesi «il Pnrr del governo Draghi ha rinnovato la scelta di sotto finanziare la ricerca di base privilegiando la ricerca finalizzata a favore dell’impresa privata, penalizzando severamente la potenzialità e creatività della ricerca limitando conseguentemente la vera innovazione», scrive Serena Pillozzi. E sappiamo che è proprio la ricerca di base, che esplora lo sconosciuto, a portare a scoperte inaspettate e al progresso scientifico.

La pandemia ha fatto registrare un grande cambiamento nel rapporto fra politica e scienza. Per la prima volta abbiamo visto scienziati al fianco dei politici nel momento di prendere decisioni importanti per la salute dei cittadini. Ma la lezione rischia di essere troppo in fretta accantonata, specie in Italia. Il calcolo ragionato di Draghi sulle riaperture non è stato argomentato sulla base di evidenze scientifiche. È stato detto scommettiamo e vediamo come va. E mentre continuano ad esserci 300 morti al giorno si riapre tutto.

Il governo Conte aveva promesso di fare una operazione trasparenza sui dati scientifici che riguardano la pandemia, mettendoli a disposizione di tutti. Così non è stato. E non è avvenuto nemmeno con il governo Draghi. È stato fatto un accordo fra Istituto superiore di sanità e Accademia dei Lincei, ma non è sufficiente fare un accordo fra enti.

Come osserva il tesoriere dell’associazione Coscioni Marco Cappato la pandemia ha reso evidente la necessità di una scienza aperta, ma questo obiettivo non è stato raggiunto in Italia per questo l’associazione ha attivato CovidLeaks, un sito che ha come obiettivo la raccolta e la diffusione dei dati su cui vengono decise chiusure e prese misure, chiedendo ai cittadini di collaborare.

«Il sovranismo scientifico ha un impatto disastroso sulla ricerca» rimarca Elena Cattaneo in un’ampia intervista in cui incalza il governo perché sostenga maggiormente la ricerca, asse determinante non solo per arrivare preparati alle sfide che ci attendono in futuro, ma anche per i nuovi orizzonti scientifici che si stanno già aprendo. I massicci investimenti pubblici che hanno permesso di arrivare in tempi rapidi ai vaccini, la quantità e qualità di ricerche che sono state svolte in poco tempo da gruppi di ricercatori che hanno lavorato in contemporanea in tutto il mondo avranno certamente ricadute positive anche in altri ambiti della medicina.

In particolare lo sviluppo di vaccini con tecnologia che usa l’Rna messaggero «potrebbe determinare un salto quantico anche nel trattamento di altre patologie», dice la scienziata e senatrice a vita. In particolare per alcune forme di tumore. Ma non solo.
In un momento storico così drammatico ma in cui si scorgono anche possibilità impreviste per costruire un futuro più umano mettendo al centro la scienza, la salute, il benessere psico-fisico e la tutela dell’ambiente non è accettabile che i paraocchi imposti da una visione vecchia ancora di stampo neoliberista ci facciamo perdere il treno. Quello dei finanziamenti del Next generation Eu non ripasserà.

Ma come scrivono i deputati Lorenzo Fioramonti e Rossella Muroni, che hanno dato vita a FacciamoEco, il piano proposto dal governo Draghi rischia di essere un’occasione persa anche per quel che riguarda la transizione ecologica. Con il ricercatore Riccardo Mastini lo argomentano qui in un chiarissimo articolo. Invertiamo la rotta prima che sia troppo tardi.


L’editoriale è tratto da Left del 7-13 maggio 2021

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La vigliaccheria fiscale

FILE - In this June 6, 2019, Amazon CEO Jeff Bezos speaks at the the Amazon re:MARS convention in Las Vegas. Amazon said Tuesday, Feb. 2, 2021, that Bezos is stepping down as CEO later in the year, a role he's had since he founded the company nearly 30 years ago. (AP Photo/John Locher, File)

Complice la pandemia che è stata tutt’altro che una livella per sofferenza dei diversi lavoratori e per danni alle diverse aziende la ricchissima Amazon del ricchissimo Bezos è diventata ancora più ricca aumentando di 12 miliardi i ricavi rispetto all’anno precedente in Europa e arrivando a un totale di 44 miliardi di euro.

Poiché i numeri sono importanti vale la pena ricordare che sono 221 miliardi circa tutti i soldi che l’Italia ha a disposizione dall’Europa per risollevarsi. Giusto per fare un po’ di proporzioni. L’ultimo bilancio della divisione europea di Amazon (lo trovate qui) racconta della società con sede legale in quel meraviglioso paradiso per ricchi che è il Lussemburgo gestisce le vendite delle filiali di Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia, Spagna, Olanda, Polonia, Svezia. Ovviamente le tasse si pagano sui profitti, non certo sui ricavi, eppure le acrobazie fiscali di Amazon hanno permesso di risultare in perdita per 1,2 miliardi di euro nonostante un aumento del ricavo del 30%. «I nostri profitti sono rimasti bassi a causa dei massicci investimenti e del fatto che il nostro è un settore altamente competitivo e con margini ridotti», ha spiegato un dirigente di Amazon. Insomma, poveretti, lavorano per perderci. E infatti hanno accumulato 56 milioni di euro di credito d’imposta che potranno usare nei prossimi anni e che portano a 2,7 miliardi di euro il credito totale.

È incredibile che un’azienda che vale in Borsa quanto il prodotto interno lordo dell’Italia non riesca proprio a fare profitto o forse semplicemente i profitti vengono spostati altrove, complice la vigliaccheria fiscale di un’Europa che è sempre forte con i deboli ma è sempre piuttosto debole con i forti, come sempre. Attraverso compravendite fittizie infragruppo tra filiali dei diversi Paesi i guadagni vengono spostati da dove si realizzano a dove più conviene e le contromisure del Lussemburgo contro queste pratiche sono volutamente morbide.

In una nota la commissione Ue commenta: «Abbiamo visto quanto apparso sulla stampa, non entriamo nei dettagli, in linea generale la Commissione ha adottato un’agenda molto ambiziosa in materia di fiscalità e contro le frodi fiscali, nelle prossime settimane pubblicheremo una comunicazione e sul piano globale siamo impegnati con i partner internazionali nella discussione in corso» sull’equa tassazione delle imprese. Si tratta del negoziato per definire un’imposta minima globale per evitare la concorrenza fiscale al ribasso. Quanto agli aspetti di concorrenza, del caso Amazon/Lussemburgo il dossier resta in mano alla Corte di Giustizia Ue: il gruppo Usa e il Granducato hanno contestato la decisione comunitaria che nel 2017 concluse che il Lussemburgo aveva concesso ad Amazon vantaggi fiscali indebiti per circa 250 milioni di euro, un trattamento considerato illegale «ha permesso ad Amazon di versare molte meno imposte di altre imprese». Peccato che contro la decisione europea abbia ricorso Amazon (e questo ci sta) e perfino il Lussemburgo.

Sono numeri spaventosi che raccontano perfettamente come la guerra tra poveri e tra disperati non riesca mai a guardare in alto dove si consumano le ingiustizie peggiori. Vi ricordate quando si diceva che dalla pandemia sarebbe uscito un “nuovo mondo”? Ecco, per ora è esattamente come prima, con i ricchi sempre più ricchi. E invece una questione politica enorme passa sottovoce mentre i nostri leader stanno litigando sul bacio a Biancaneve.

Buon giovedì.

Madrid resta nel ventesimo secolo, la destra non perde la presa sulla capitale

La destra spagnola vince senza ambiguità e si tiene ben stretta Madrid e la sua regione. Questo è il risultato delle elezioni per il nuovo governo della Comunità di Madrid, convocate in fretta e furia a marzo dalla presidente Isabel Ayuso, del Partito Popolare, per evitare una possibile mozione di sfiducia pensata dal Psoe e da Más Madrid, la formazione nata da una scissione di Podemos. È così che si è arrivati a queste elezioni decisive per il futuro della comunità e della gente di Madrid, ma determinanti anche per il resto della Spagna. Non è bastata una partecipazione al voto elevata, oltre il 75%, per permettere alla sinistra di sparigliare quelle destre madrilene al governo della regione da 26 anni. Ogni sforzo è stato inutile, anche la candidatura diretta di Pablo Iglesias, che ora annuncia di voler abbandonare la politica istituzionale.

C’è stata una crescita per Podemos, 3 seggi in più, e il consolidamento di Más Madrid, che smette di essere “il partito di Errejón” con la nuova leadership di Mónica García e supera il Psoe che ha ottenuto il peggior risultato di sempre. Ai socialisti che hanno perso ben 13 seggi e al suo candidato Gabilondo non resta che l’opposizione. Dal fronte della destra liberale scompare Ciudadanos, formazione in caduta libera da più di un anno e mezzo. La vittoria netta è tutta per il Partito Popolare: si aggiudica un numero di seggi che supera in blocco quelli di tutta la sinistra. Ayuso è il punto di riferimento della nuova destra, si affaccia dal balcone della sede di partito e urla che «la libertà ha trionfato a Madrid» e Casado, il presidente dei popolari, la stringe tra le braccia e afferma che questo risultato è una vera mozione di sfiducia nei confronti del sanchismo.

Isabel Díaz Ayuso è arrivata a queste elezioni preceduta da un’enorme popolarità per aver permesso alle imprese, a tutti i negozi, ai bar e ai ristoranti di rimanere aperti nonostante le severe restrizioni stabilite in piena pandemia dal governo Sánchez. Lo aveva detto a gran voce «.. la sera compro dove voglio, consumo dove mi va. E se vado a messa, a una corrida o in discoteca, lo faccio perché ne ho voglia. Vivo a Madrid e per questo sono libera.. in queste elezioni si sceglie il modello di paese che vogliamo». I sondaggi avevano previsto l’ampia vittoria per la leader del Partito Popolare e adesso è stata sciolta anche l’incognita della maggioranza assoluta necessaria per poter governare da sola, con questo risultato sarà sufficiente l’astensione di Vox, il partito dell’ultradestra con idee contrarie alla democrazia. Resta l’appoggio incondizionato e i suoi 13 seggi a disposizione di Ayuso, per facilitarne l’investitura.

È stata una campagna elettorale davvero bizzarra e senza esclusione di colpi, tra minacce di morte ai candidati e dibattiti elettorali in televisione abbandonati dai partecipanti, con slogan inneggianti al fascismo e alle libertà, mentre in tutta l’area di Madrid la stolta gestione della pandemia, tra un aperitivo e l’altro, faceva salire il tasso di infezione ben al di sopra della media nazionale.

Ora è in gioco come uscirà dalla pandemia la regione che registra il maggior numero di morti e contagi e quale strada prenderà per la ripresa economica, ma è chiaro che il risultato di questa elezione trascende le elezioni regionali. Chissà se Madrid resterà allineata con il governo Sánchez nella gestione dei fondi europei e con l’idea del governo di coalizione per un maggior impegno di investimento nei servizi pubblici. Ora, con questa ascesa della destra e una possibile riluttanza di Bruxelles ad accettare le riforme pensate dal governo spagnolo per il lavoro e per le pensioni, con un prevedibile ritardo nel pagamento dei fondi di salvataggio dell’Ue che potrebbe riportare il Pil nazionale a una crescita negativa, le prospettive del dominio elettorale di Sánchez potrebbero presto cambiare.

Il vero allarme sicurezza

Pensateci bene, non avete la sensazione che il problema degli omicidi sia il primo problema della sicurezza in Italia? Non vi è capitato ogni volta, tutte le volte, di vedere rilanciato, di sentire dibattuto un delitto qualsiasi soprattutto se torna utile alle esigenze televisive (quindi con qualche efferatezza di cui disquisire in studio) o se torna utile alle esigenze della propaganda (e qui lo straniero viene perfetto)?

Se dovessimo disegnare il Paese come esce raccontato dai giornali e dalla televisione verrebbe da dire che gli omicidi siano moltissimi. Pensate ai morti sul lavoro e ai morti di lavoro: da 24 ore si parla (e per fortuna) della morte di Luana D’Orazio risucchiata da un macchinario tessile a Prato. D’Orazio è perfetta per la narrazione perché era giovane (22 anni), mamma da appena un anno e bella.

Eppure si muore più di lavoro che di omicidio: l’anno scorso 1.270 persone hanno perso la vita sul lavoro e gli omicidi sono stati 271. Se le emergenze devono essere pesate con i numeri l’allarme sicurezza che dovrebbe far strepitare la classe politica e su cui si dovrebbero accapigliare dovrebbero essere questi morti. Attenzione, quest’anno sta andando tutto molto peggio: le denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale presentate all’Inail entro il mese di marzo sono state 185, 19 in più rispetto alle 166 registrate nel primo trimestre del 2020 con un incremento dell’11,4%. Per capirsi: lo scorso 29 aprile una trave aveva ceduto nel deposito Amazon di Alessandria causando un morto e 5 feriti, a Taranto un gruista di 49 anni è morto precipitando sulla banchina e a Montebelluna (Treviso) un operaio di 23 anni era stato investito da un’impalcatura, morendo sul colpo. Tre morti in un giorno.

Parlare dei morti sul lavoro è molto meno redditizio dell’altra “sicurezza” di cui si ciancia un po’ dappertutto: c’è da mettere mano a una normativa che risale al 1965 e il Decreto 81 del 2008 che ha ampiamente superato i 10 anni non ha mai visto il completamento di alcuni articoli che attendono ancora la firma di una ventina di decreti attuativi che avrebbero dovuto renderli operativi.

E se qualcuno pensa che sia inaccettabile morire a 22 anni sul lavoro allora vale la pena rileggere la dichiarazione di ieri della madre di Luana D’Orazio: «Sul lavoro non devono morire né ventenni, né trentenni, né più anziani, sono tutte vite umane».

Buon mercoledì.

Fermarsi a guardare e a sentire il mondo

«Le isole del nostro arcipelago, laggiù, sul mare napoletano, sono tutte belle … In primavera, le colline si coprono di ginestre: riconosci il loro odore selvatico e carezzevole, appena ti avvicini ai nostri porti, viaggiando sul mare nel mese di giugno… la mia isola… ha varie spiagge dalla sabbia chiara e delicata, e altre rive più piccole, coperte di ciottoli e conchiglie, e nascoste fra grandi scogliere. Fra quelle rocce torreggianti, che sovrastano l’acqua, fanno il nido i gabbiani e le tortore selvatiche, di cui, specialmente al mattino presto, s’odono le voci, ora lamentose, ora allegre. Là, nei giorni quieti, il mare è tenero e fresco, e si posa sulla riva come una rugiada».

La descrizione che fa di Procida il giovane protagonista de L’isola di Arturo, è fra quelle che più mi è rimasta dentro. Elsa Morante non ha alcun intento documentario. La geografia di quei luoghi deve molto più alla sua immaginazione che alla realtà. Sublimata attraverso un susseguirsi di nomi ed aggettivi che fanno riferimento all’intera sfera sensoriale. Leggendo quella descrizione, vediamo dei luoghi, ovviamente. Ma riusciamo anche ad ascoltarne i rumori e a sentirne gli odori. Insomma un capolavoro.

Ogni anno, i primi giorni di scuola, alle medie, ripeto un esperimento. Senza distinzione tra le classi. Appoggio una mela sulla cattedra che ho spostato al centro dell’aula, dopo aver disposto i banchi tutt’intorno. I ragazzi devono farne una descrizione. Utilizzando i cinque sensi. Perché possano riuscirci aggiungo un’altra mela. Che possono sbucciare e toccare. Far rotolare. Per le seconde e le terze è diventata una consuetudine. Nelle prime, mi guardano con sospetto. «Professore, in che senso una descrizione? È solo una mela», mi hanno chiesto quest’anno Gaia e Noemi. Le più coraggiose. «Ragazze, guardatela quella mela. Con attenzione. Soffermate lo sguardo. Cambiando il punto di osservazione. Noterete particolari che il solo “vedere” non vi avrebbe permesso», ho risposto. Aggiungendo subito. «E non accontentatevi delle superfici. Dell’esterno. La mela ha un sapore. Ogni tipo di mela ne ha uno, differente. E poi abbandonatevi agli odori. Identificateli e associateli. Trasformateli in parole. Che diventeranno memorie». Prendo il…


L’articolo prosegue su Left del 30 aprile – 6 maggio 2021

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A proposito di priorità

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 27-04-2021 Roma, Italia Politica Camera dei Deputati - misure urgenti per fronteggiare la diffusione del COVID-19 Nella foto: Francesco Lollobrigida e Giorgia Meloni durante la discussione dell’ordine del giorno FDI per l’abolizione del coprifuoco serale anti covid19 Photo Mauro Scrobogna /LaPresse April 27, 2021  Rome, Italy Politics Chamber of Deputies - urgent measures to deal with the spread of COVID-19 In the photo: Francesco Lollobrigida and Giorgia Meloni during the discussion of the FDI agenda for the abolition of the anti-covid19 evening curfew

Ogni tanto converrebbe prendersi la briga di leggere gli atti parlamentari perché in fondo è proprio il Parlamento che dovrebbe essere la sede per l’azione politica più importante, quella più sostanziosa e evidente.

Le parole, si sa, sono importanti e in politica le parole disegnano l’azione che si ha in mente per il futuro. Ogni tanto si crede che i leader politici esagerino durante le loro comparsate televisive per semplificare il loro messaggio e per fomentare un po’ la propaganda.

Ecco, proviamo a metterci le mani, tanto per capire di cosa stiamo parlando. Per Fratelli d’Italia il deputato De Toma è intervenuto alla Camera per presentare una mozione (la 1/00469) di cui è primo firmatario il suo compagno di partito Lollobrigida, dal titolo impegnativo: Mozione concernente iniziative per il rilancio produttivo e economico della nazione. Uno si immagina finalmente di vedere una proposta di soluzione da parte dell’unico partito di opposizione, sono quelli che dicono che i diritti non siano una priorità e che bisogna occuparsi del bene del Paese, non perdersi in chiacchiere. Benissimo. Nel suo discorso alla Camera ha usato parole altissime: «Più volte è stato annunciato l’avvento di tempi nuovi. Oggi ci staremmo preparando ad affrontare un’altra svolta, con il Governo dei migliori alla guida del Paese, eppure è evidente a tutti che così non è. L’Italia ha bisogno di gente che sappia fare le cose e che abbia il contatto con la vita reale».

E uno pensa: oh, finalmente si esce dalle barriere ideologiche e si lavora per il bene del Paese. Perfetto, cosa si dice nella mozione? Ecco qui uno stralcio, del “visto che”:

si assiste alla perdurante furia «gender» portata avanti dalla sinistra, a cominciare dalla sostituzione della mamma e del papà con la triste dizione «genitore uno» e «genitore due», mentre per alcune forze di Governo tematiche quali lo «ius soli» sembrano avere maggiore importanza della ripresa economica, che è la vera sfida di oggi, con la crisi che morde milioni di famiglie e di imprese italiane;

la cosiddetta «cancel culture» e l’iconoclastia, cioè la vandalizzazione o addirittura l’abbattimento di parte del patrimonio culturale considerato «politicamente scorretto», è un fenomeno che dagli Usa e da alcune nazioni europee sta arrivando, grazie ad alcuni presunti intellettuali, in Italia; il dibattito sul passato, totalmente decontestualizzato, rischia d’inasprire il confronto e di cancellare, dai libri e dal nostro patrimonio, la nostra cultura;

è insensato pensare di invertire il trend della caduta della curva demografica e della natalità zero nel nostro Paese, attraverso l’agevolazione di un ingresso incontrastato di immigrati e clandestini, anche attraverso la semplificazione contenuta nell’ultimo «decreto sicurezza» delle pratiche necessarie per ottenere accoglienza e residenza, non solo per chi provenga da zone teatro di guerra ma anche per motivi di lavoro, ove ne ricorrano i requisiti;

sul fronte della sicurezza e della lotta all’immigrazione clandestina Fratelli d’Italia ha proposto fin da subito la soluzione del blocco navale: per evitare che il Mediterraneo continui ad essere un mare di morte, regno degli scafisti e delle organizzazioni non governative che, dietro presunte operazioni umanitarie, sono state spesso complici anche involontarie ma non per questo meno colpevoli del traffico di esseri umani.

Fa bene leggere gli atti parlamentari. Perché di questo stiamo parlando: della propaganda che addirittura non viene più usata per rendere vendibili i contenuti ma che diventa essa stessa contenuto. Il rilancio del Paese, per Giorgia Meloni, è anche questa cosa qui. Segnatevelo.

Buon martedì.

(nella foto Francesco Lollobrigida e Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia)

In classe senza trasporto

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 18-03-2021 Roma , Italia Cronaca Scuola trasporti Nella foto: fermata scuolabus a piedi Photo Mauro Scrobogna /LaPresse March 18, 2021  Rome, Italy News Transport school In the photo: school bus stop on foot

Roma, banchina del tram 3, ore 7:21. Lavoratori e studenti incrociano i rispettivi sguardi perplessi. Rassegnati. Che fare? Salire sul mezzo anche se significa accalcarsi a meno di dieci centimetri di distanza? Aspettare la corsa successiva e magari arrivare in ritardo? Quasi tutti, a bordo, hanno la mascherina. Non tutti, però, hanno la più protettiva Ffp2, molti hanno chirurgiche e homemade.
È una scena che conoscono bene i pendolari e più in generale le persone che ogni giorno utilizzano i trasporti pubblici, non solo nella Capitale, per raggiungere la scuola o il luogo di lavoro, dal Sud al Nord del Paese. E il quadro si è fatto ancora più critico, dopo che il 26 aprile almeno 7,6 milioni di alunni sono rientrati in classe, un numero pari all’89,5% della popolazione scolastica. Un rientro che cade a circa 14 mesi dalla grande serrata del marzo 2020. Ma cosa è stato fatto in tutto questo tempo per garantire uno spostamento sicuro per gli alunni, minimizzando i rischi di contagio? Poco. Molto poco.
In realtà, i due governi che si sono succeduti durante la pandemia non sono stati particolarmente avari di nuovi fondi per il ristoro e il potenziamento del trasporto pubblico regionale e locale. A questo settore il decreto Rilancio di maggio 2020 aveva dedicato un Fondo ad hoc, per compensare gli operatori, finanziato con 500 milioni di euro. Importo aumentato poi col decreto Agosto di ulteriori 400 milioni di euro, una parte dei quali, 300 milioni, si sarebbero potuti utilizzare per il «finanziamento di servizi aggiuntivi di trasporto pubblico locale e regionale, destinato anche a studenti, occorrenti per fronteggiare le esigenze trasportistiche conseguenti all’attuazione delle misure di contenimento». Sin dallo scorso autunno, però, diverse Regioni avevano lamentato l’inadeguatezza del provvedimento. I problemi principali? Decreti attuativi in ampio ritardo, e fondi assorbiti in grande quantità dal ristoro delle aziende colpite dalla crisi Covid, circostanza che lasciava poco margine per aumentare di fatto il numero di mezzi a disposizione.
A ottobre 2020 sono poi arrivati altri 390 milioni, di cui una parte, 195 milioni, è stata anticipata a gennaio con la destinazione specifica al rafforzamento dei servizi per gli studenti. L’ultimo stanziamento è stato firmato dal governo a marzo, nel decreto Sostegni: 800 milioni. Attenzione però, si tratta…


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