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L’ultima sconfitta di Abu Mazen

A Palestinian artist adds the final touches to a mural painting calling on people to vote during the upcoming elections (legislative in May and presidential in July) in a street in Gaza City, on March 24, 2021. (Photo by MOHAMMED ABED / AFP) (Photo by MOHAMMED ABED/AFP via Getty Images)

Tanto rumore per nulla. Il 29 aprile le tanto attese elezioni palestinesi sono state rinviate a data da destinarsi dal presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen: non si voterà né il 22 maggio per le legislative né il 31 luglio per le presidenziali.
La decisione era nell’aria, i palestinesi se l’aspettavano, dopotutto sono 15 anni che non si va alle urne e ogni volta che ci si prova la sospensione è l’unica meta. Ma sono anche tanti quelli che non nascondono la rabbia: i sondaggi davano un’affluenza sopra il 70per cento e una genuina voglia di esprimersi.

La giustificazione per il rinvio è iniziata a montare settimane fa, una sorta di preparazione all’inevitabile: Gerusalemme est. Territorio occupato militarmente da Israele nel 1967, secondo gli accordi di Oslo firmati nel 1993 da Israele e Organizzazione per la liberazione della Palestina, Gerusalemme est vota alle elezioni dell’Anp. Negli anni non è mai accaduto, le autorità israeliane lo hanno costantemente impedito e stavolta – dopo arresti di personalità gerusalemite di spicco – la mancata risposta israeliana alla richiesta di aprire urne nella Città “santa” ha servito gli interessi di un governo, quello palestinese, che di votare non aveva alcuna voglia. «Abbiamo provato con la comunità internazionale a costringere lo Stato occupante a far svolgere le elezioni a Gerusalemme – ha detto il presidente Abu Mazen – ma i nostri sforzi sono stati finora rigettati. Abbiamo deciso di sospendere le legislative fin quando non potremo garantire la partecipazione della gente di Gerusalemme».

In teoria un principio comprensibile, di fatto una via d’uscita. Perché queste elezioni si stavano trasformando nell’ultimo chiodo nella bara dell’Anp come l’abbiamo conosciuta. Un’entità governativa senza sovranità, un’amministrazione con le mani legate dall’occupazione, per molti il migliore strumento che Israele abbia mai avuto per non doversi preoccupare di fornire a popolo occupato il minimo di servizi che il diritto internazionale gli impone di garantire. E, nel tempo, un’elefantiaca struttura capace solo di mantenersi in vita. Secondo fonti interne all’Anp, che ne hanno parlato con Middle East Eye, al presidente erano state date delle alternative: seggi dentro le strutture dell’Onu a Gerusalemme o nelle ambasciate europee (da cui, va detto, non sono giunte risposte), voto elettronico. L’anziano leader le ha rigettate tutte. Secondo la stessa fonte, il…


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Infanzia senza nido

Doveva essere la grande occasione per superare il divario nei servizi per la prima infanzia presente in Italia. E invece il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) inviato a Bruxelles dimostra che l’attenzione che il governo Draghi riserva alla questione educativa dei primi anni di vita di un bambino è ancora insufficiente rispetto ai bisogni reali del Paese e rispetto al diritto ad avere un servizio di qualità fin dalla nascita, come del resto stabilisce la legge 65 del 2017 che supera il concetto di «temporanea custodia» delle prime norme in materia, risalenti a 50 anni fa.

Secondo l’obiettivo fissato nel Consiglio europeo a Barcellona nel 2002, gli Stati membri si sarebbero dovuti impegnare a offrire servizi di prima infanzia almeno al 33% dei bambini sotto i tre anni. In Italia, come evidenzia bene l’ultimo rapporto Openpolis/Con i bambini, siamo al 25,5%, con 18,5 punti di divario tra Centro-nord e Sud. I bambini tra 0 e 2 anni nel 2020, ricordiamo, erano un milione e 300mila.

Secondo una bozza del Pnrr del 23 aprile i 4 miliardi e 600 milioni di investimenti per la prima infanzia sarebbero serviti per «la creazione di circa 228mila posti, di cui 152mila per i bambini 0-3 anni e circa 76mila per la fascia 3-6 anni». Nella stesura definitiva del Piano, la distinzione tra nidi e scuole dell’infanzia è scomparsa. Rimane solo la cifra generica di 228mila posti. Secondo la sociologa Chiara Saraceno, che si occupa da molto tempo della famiglia e delle politiche sociali ed è portavoce del think tank Alleanza per l’infanzia, questa modifica «è sicuramente allarmante perché già il numero previsto era al di sotto di quello che noi come Alleanza per l’infanzia e la rete EducAzioni avevamo stimato come necessario, cioè che fosse almeno di 300mila posti per…


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Quanti soldi a certe fondazioni

Il 16 aprile è uscito lo Schema di decreto ministeriale con la tabella delle istituzioni culturali da ammettere al contributo ordinario dello Stato per il triennio 2021-2023. Un decreto previsto dalla legge 534/1996 che prevede finanziamenti per gli Istituti culturali che abbiano precisi requisiti a partire da un notevole patrimonio archivistico e bibliografico da mettere a disposizione di tutti. Dalle utenze, agli stipendi del personale, alle spese per garantire la conservazione e l’incremento di tale patrimonio, tutto o quasi dipende da questi contributi.

La legge individua chi può presentare le domande. Chi ha i requisiti viene incluso in una tabella del ministero della Cultura sottoposta a revisione ogni tre anni e inviata alle commissioni parlamentari competenti. Per essere inseriti nella tabella, le istituzioni culturali debbono: «Essere istituite con legge dello Stato, svolgere compiti stabiliti da detta legge o avere personalità giuridica; non avere fini di lucro; svolgere in modo continuativo attività di ricerca e di elaborazione culturale documentata e fruibile; disporre di un rilevante patrimonio documentario (bibliografico, archivistico, museale, cinematografico, audiovisivo), pubblicamente fruibile in forma continuativa; fornire servizi di rilevante ed accertato valore culturale, collegati all’attività di ricerca ed al patrimonio documentario; sviluppare attività di catalogazione e applicazioni informatiche finalizzate alla costruzione di basi di dati rilevanti per le attività di programmazione dei ministeri competenti nei settori dei beni culturali e della ricerca scientifica; operare sulla base di una programmazione almeno triennale; documentare l’attività svolta nel triennio precedente … ; disporre di sede idonea ed attrezzature adeguate. Per il primo inserimento in tabella è prescritto che le istituzioni siano costituite e svolgano attività continuativa da almeno 5 anni». Questo recita l’articolo 2 della legge. Nei seguenti articoli, che tengono conto di circolari successive e aggiornamenti, si stabiliscono dei punteggi. Più alto è il punteggio più si ha diritto a ottenere fondi.

Sono 210 le istituzioni, secondo lo staff dell’ineffabile ministro Dario Franceschini, che hanno raggiunto quello necessario. Di domande ne erano state presentate 283, 148 di istituzioni già sostenute nel triennio passato.
Colpisce la distribuzione geografica: oltre il 90% dei fondi (17.613.433 euro annui) vanno al Centro nord, mentre al Sud e isole solo un milione e 761 mila euro. Delle due l’una: o città che vantano immensi patrimoni culturali come Napoli, Palermo, Bari, Matera, Cagliari (per citare le più note) non hanno istituzioni adeguate (e allora non si capisce come mai i governi e i ministeri competenti non abbiano trovato il tempo per stimolarne la nascita e lo sviluppo), oppure il Mezzogiorno è stato penalizzato da…


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Il jazz militante di Ada Montellanico

Musicista – senza ulteriori e forse inutili aggettivi – questa è la giusta definizione per un’artista come Ada Montellanico, laddove “cantante di Jazz”, seppure formalmente corretto, risulta senz’altro riduttivo rispetto allo spessore del personaggio. Ada, ormai da molti anni, è il vero direttore musicale di tutti i suoi progetti, discografici e non, nonché compositrice, autrice di testi ed interlocutore unico degli arrangiatori che volta per volta la affiancano nei suoi lavori. Lo dimostra la sua lunga ed approfondita ricerca nell’universo poetico di Luigi Tenco, nonché le molteplici collaborazioni di altissimo livello con musicisti del calibro di Jimmy Cobb, Enrico Rava, Lee Konitz, Enrico Pieranunzi, Giovanni Falzone e tantissimi altri. Inoltre è da sempre impegnata in prima linea a livello sociale, politico ed istituzionale in difesa dei diritti degli artisti e dei lavoratori dello spettacolo, essendo stata tra l’altro fondatrice e per quattro anni presidente del Midj – Associazione nazionale dei musicisti di jazz – con la quale ha anche partecipato all’organizzazione dell’ultima edizione di “Jazz italiano per le Terre del sisma” svoltasi a L’Aquila lo scorso settembre. L’abbiamo incontrata in occasione dell’uscita proprio in questi giorni della sua ultima fatica discografica, l’album We Tuba – featuring Michel Godard, inciso per la Incipit records.

Raccontaci di come è nata l’idea di questo progetto.
L’idea è partita da lontano, quando nell’autunno del 2019, in occasione del festival italo-francese “Una striscia di terra feconda”, coordinato da Paolo Damiani, ho avuto l’occasione di collaborare con Michel Godard, grande musicista, oltre che virtuoso del basso tuba. Avendo da sempre un debole per l’organizzazione di ensemble “asimmetrici” arricchiti dall’inserimento di strumenti poco usuali, è nato pian piano questo progetto, cui si sono aggregati volta per volta quattro musicisti con i quali si era stabilito negli ultimi anni un legame non solo artistico, ma anche un comune impegno umano, civile e politico in difesa del ruolo e della dignità dei musicisti nel difficile momento che stiamo vivendo. In primis Francesco Ponticelli al contrabbasso, con il quale avevo già a lungo collaborato, che ha scritto ben quattro dei nove brani del disco, dando altresì il suo decisivo apporto alla definizione complessiva del progetto; poi Simone Graziano al pianoforte, con cui c’era stato fino ad allora un forte sodalizio “militante” (Simone è il mio successore alla guida del Midj) che è finalmente sfociato in una collaborazione artistica, con l’apporto di due sue composizioni, ed infine ha completato l’organico l’arrivo di…


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Nel Pnrr di Draghi solo briciole per la ricerca di base

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 12-01-2021 Roma Cronaca I laboratori ReiThera dove si sta sviluppando il vaccino anti Covid-19 tutto italiano Nella foto Ricercatori al lavoro nei laboratori di Castel Romano Photo Roberto Monaldo / LaPresse 12-01-2020 Rome (Italy) The ReiThera laboratories where the Italian anti Covid-19 vaccine is being developed In the pic Researchers at work

Non è purtroppo avvenuto con il Piano nazionale di ripresa e resilienza quel cambio di passo tanto atteso per la ricerca italiana, nonostante proprio l’Unione europea avesse riconosciuto la ricerca scientifica tra le priorità di investimento pubblico per il rilancio. Era necessario per l’Italia un cambio di paradigma che prevedesse un utilizzo coraggioso ed illuminato dei fondi del Next generation Eu per la ripresa post pandemia e per la costruzione del nostro futuro.

Oggi in Italia, gli investimenti pubblici in ricerca e sviluppo ammontano allo 0,5 % del Pil (0,32 % per la ricerca di base e 0,18 % per la ricerca applicata) che in termini assoluti corrispondevano nel 2019 a un investimento di 9,3 miliardi di euro (6 circa in ricerca di base e 3 in ricerca applicata) molto al di sotto della media dei…

* L’autrice: la biologa Serena Pillozzi è docente all’Università di Firenze e responsabile “Salute e ricerca” di Sinistra italiana


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Politiche green, un’occasione persa

Foto LaPresse - Mourad Balti Touati 28/03/2018 Milano (Ita) - via hoepli Cronaca La sfida dell'energia - evento fondazione corriere presso l'auditorium San Fedele di via Hoepli Nella foto: Roberto Cingolani, direttore scientifico dell'Istituto Italiano di Tecnologia di Genova

Il governo Draghi, dal giorno del suo insediamento, si è definito il governo più ambientalista di sempre. La stesura del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) era quindi attesa da molti come il banco di prova per le credenziali verdi dell’esecutivo. L’esito? Tutte le associazioni ambientaliste del nostro Paese lo hanno definito decisamente insufficiente. Infatti la spesa per la “Rivoluzione verde e transizione ecologica” viene drasticamente ridotta dai quasi 70 miliardi inizialmente annunciati a meno di 60. Verrebbe da credere che nel governo ormai il verde della Lega abbia offuscato quello ecologista.

Sebbene alcuni aspetti positivi ci siano – come l’inserimento delle smart grid e delle comunità energetiche – nel complesso il Pnrr risulta miope alle vere sfide della transizione ecologica. In primis, manca una strategia sulle fonti energetiche rinnovabili: la nuova capacità rinnovabile prevista (ossia 4200MW) equivale solamente a quella necessaria per coprire meno di un anno di crescita per rimanere in linea con gli obiettivi europei. Nel Pnrr manca inoltre lo snellimento degli iter autorizzativi che dovrebbero porre fine all’assurdità per cui ancora oggi chi vuole investire in energie rinnovabili si scontra con lungaggini e ostacoli che spesso scoraggiano l’investimento.

Il portato di tale ipertrofia burocratica è che negli ultimi 9 anni in Italia si è registrato un calo dell’80% dell’installato. Inoltre il Pnrr presenta l’anomalia di uno sviluppo sbilanciato a favore del biometano e dei biocombustibili che assorbono il 30% delle risorse per le rinnovabili.

Il governo Draghi punta invece sull’idrogeno, una tecnologia sicuramente interessante ma non…

* Gli autori: Rossella Muroni è deputata iscritta al gruppo misto ed ex presidente nazionale di Legambiente. Insieme a Lorenzo Fioramonti ha fondato alla Camera il gruppo Facciamo Eco-Componenti Verdi. Fioramonti è stato ministro dell’Istruzione, dell’università e della ricerca dal 4 settembre 2019 al 30 dicembre 2019 nel II governo Conte. Riccardo Mastini è ricercatore in Ecologia politica presso l’Universitat autònoma de Barcelona.


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Una legge per eliminare ciò che resta del fascismo

Foto Cecilia Fabiano/LaPresse 04-06-2020 Roma, Italia Politica Sgombero Casapound Nella foto: l’edificio occupato dove ha sede il movimento politico CasaPoundPhoto Cecilia Fabiano/LaPresseJune 04, 2020  Rome, ItalyPoliticsEviction of CasaPound buildingIn the picture: the occupied building where the Casa Pound political movement is located

na legge antifascista è oggi più che mai necessaria, perché è fondamentale fornire e migliorare gli strumenti giuridici contro chi ancora oggi pratica la discriminazione come gesto politico. Il primo obiettivo, senza troppi giri di parole, è quello di consentire lo scioglimento e la confisca dei beni di organizzazioni condannate per «fattispecie di reato aggravate dal movente del fascismo o della discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi nei confronti di uno o più esponenti di un gruppo, un’organizzazione, un movimento, un’associazione o un partito politico», come si legge nel testo della norma che ho presentato in Parlamento ormai due anni e mezzo fa, e che lo scorso 26 aprile ha iniziato l’iter di esame in commissione Giustizia alla Camera. E sarebbe bello poter festeggiare il prossimo 25 aprile con una legge netta sul tema.

Sono decine i casi di cronaca in cui organizzazioni neofasciste, e che in realtà di una legge antifascista è oggi più che mai necessaria, perché è fondamentale fornire e migliorare gli strumenti giuridici contro chi ancora oggi pratica la discriminazione come gesto politico. Il primo obiettivo, senza troppi giri di parole, è quello di consentire lo scioglimento e la confisca dei beni di organizzazioni condannate per «fattispecie di reato aggravate dal movente del fascismo o della discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi nei confronti di uno o più esponenti di un gruppo, un’organizzazione, un movimento, un’associazione o un partito politico», come si legge nel testo della norma che ho presentato in Parlamento ormai due anni e mezzo fa, e che lo scorso 26 aprile ha iniziato l’iter di esame in commissione Giustizia alla Camera. E sarebbe bello poter festeggiare il 25 aprile dell’anno prossimo con una legge netta sul tema. Sono decine i casi di cronaca in cui…

* L’autore: Luca Pastorino è deputato di Leu e co-fondatore di èViva


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Marco Cappato: Quei dati sul Covid che il governo non rende pubblici

People wear face masks to prevent the spread of COVID-19 at a subway station, in Milan, Italy, Wednesday, Oct. 14, 2020. Italian Premier Giuseppe Conte says the aim of Italy's new anti-virus restrictions limiting nightlife and socializing is to head off another generalized lockdown. (AP Photo/Luca Bruno)

Molti scienziati ce lo hanno ripetuto in queste settimane: il recente allentamento delle misure di mitigazione del Covid disposto dal governo va in direzione contraria rispetto a quanto ci indicano i dati della pandemia. Il “rischio ragionato” di Draghi, insomma, guarda più alle ragioni dell’economia che a quelle della salute, poiché le evidenze scientifiche imporrebbero maggior cautela. Già, ma di cosa parliamo realmente quando facciamo riferimento ai “dati” sul Covid? Quali conosciamo davvero e quanti sono pubblici nel nostro Paese? Quanto sarebbe importante che le informazioni in base alle quali vengono prese le decisioni che impattano sulle nostre libertà personali e sulle attività produttive, a tutela della salute pubblica, fossero liberamente accessibili alla cittadinanza?

Ad ormai 14 mesi da quando tutta l’Italia entrava per la prima volta in zona rossa, i dati di cui stiamo parlando sono ancora pochi, troppo pochi. E poco trasparenti. Non è solamente un problema di democrazia: è anche un freno che limita la ricerca scientifica e allontana la luce in fondo al tunnel del virus. Per questo, numerosi attivisti – e non solo – chiedono con forza che le informazioni riguardo al contagio siano raccolte meglio e vengano rese accessibili a tutti gli scienziati e cittadini (v. la campagna #DatiBeneComune, con annessa raccolta firme).

Ma andiamo per gradi. Al momento in Italia abbiamo a disposizione tre principali fonti di dati sulla pandemia. La prima fonte è…


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Alle radici della vergogna

Refugees and migrants are rescued by members of the Spanish NGO Proactiva Open Arms, after leaving Libya trying to reach European soil aboard an overcrowded rubber boat in the Mediterranean sea, Wednesday, Nov. 11, 2020. The Open Arms rescue ship had been searching for the boat in distress for hours before finally finding it Wednesday morning in international waters north of Libya. The NGO had just finished distributing life vests and masks to the passengers to begin transferring them to safety when the flimsy boat split in half throwing them into cold waters. (AP Photo/Sergi Camara)

Da 4 anni, i pochi attori politici e le scarse voci che hanno mantenuto l’attenzione su quanto avviene nel Mediterraneo centrale, si ostinano a porre all’Unione europea, alle sue agenzie, ai governi dei Paesi del Sud Europa, una semplice domanda: perché non si interviene più per salvare chi fugge da un inferno come quello libico o dalle difficoltà della Tunisia e dell’Algeria? Le recenti immagini di 130 persone abbandonate in mare e annegate per la decisione di lasciare alle motovedette libiche il compito di intervenire, consapevoli dell’alto rischio di un mancato soccorso, hanno riproposto la domanda.

Ma questa vicenda ha inizio molti anni prima. Almeno dal 2006, in Parlamento, si spiegava come, per far diminuire gli arrivi, bisognasse rendere più rischioso e quindi costoso il viaggio. Negli anni successivi si giunse a sequestrare pescherecci che portavano in salvo persone. E, in base alla procura in cui si incappava, ci si poteva ritrovare indagati perché si interveniva per impedire un naufragio o, viceversa, per omissione di soccorso. Vinceva la discrezionalità. Ma già nel 2004 era stata formata l’agenzia europea Frontex, con lo scopo di «assistere gli Stati membri dell’Ue e i Paesi Schengen nella protezione delle frontiere esterne». Ovvero fermare chi non aveva diritto ad entrare in Europa. Dal 2008 al 2012, per diverse vicende, non ultime le Primavere arabe, il numero di persone che hanno cercato rifugio in Europa è sensibilmente cresciuto.

Nessuna invasione c’è mai stata – è importante ripeterlo – ma c’è stato un aumento dei rischi di naufragio che ha portato a dover ampliare gli interventi di salvataggio, soprattutto da parte della Guardia costiera. Contemporaneamente continuavano le pratiche, illegali, di respingimenti collettivi.
La strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013 portò per un anno, con l’operazione Mare nostrum, con tutti i limiti, a salvare 120 mila persone. Poi per ragioni politiche interne e internazionali, la missione venne sospesa e il Mediterraneo centrale divenne un deserto. Frontex nel 2016 ebbe l’opportunità di modificare il proprio mandato ampliando le sue risorse. Divenne Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera e il suo ruolo venne esteso alla gestione in proprio delle frontiere.
Da una parte la lotta alla “criminalità transfrontaliera”, dall’altra i servizi di ricerca e salvataggio nel contesto della sorveglianza delle frontiere marittime.
E proprio quando l’agenzia estende i propri compiti, le sue navi smettono di…


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Arresto ex terroristi, prova muscolare di uno Stato debole

Emmanuel Macron si dovrà scontrare con Marine Le Pen nelle prossime elezioni per l’Eliseo e, in questa prospettiva, dare in pasto all’opinione pubblica gli ex terroristi italiani non gli costa nulla, anzi gli fa comodo. Lo Stato italiano, il cui sistema giudiziario è screditato a livello internazionale, tra inefficienze e scandali interni, ha necessità di dare prova di autoritarismo per accontentare la parte forcaiola dell’elettorato, rimasta orfana del giustizialismo targato Cinque stelle.

Inoltre, in vista di una stagione ad alto tasso di conflittualità, dato lo scontento sociale crescente ed una economia in grave difficoltà, passare il messaggio che lo Stato non dimentica, è quanto mai opportuno: non alzate il conflitto, che noi, prima o poi, veniamo a chiedere il conto.

Un conto quanto mai tardivo e sgangherato, che non ha mai voluto mettere negli addendi dei calcoli che hanno portato a quel risultato finale, le proprie responsabilità ed inefficienze: ma ve la ricordate (o, magari, qualcuno non l’ha mai saputo) la teoria del “concorso morale”, promulgata in fase di emergenza, grazie alla quale molti fruitori della cosiddetta “dottrina Mitterand” sono stati condannati? Un obbrobrio giuridico, che…

* L’autrice: Valentina Angeli è avvocato penalista del Foro di Roma


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