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Il caso Natoli, lo specchio screpolato del Csm

C’è voluto quasi un anno perché Rosanna Natoli lasciasse formalmente il Consiglio Superiore della Magistratura. Non per senso delle istituzioni, non per rispetto del ruolo, ma – come lei stessa scrive – perché “costretta”. Una parola che pesa, soprattutto detta da chi è indagata per rivelazione di segreto d’ufficio, per avere incontrato in privato una giudice sotto procedimento disciplinare e averle suggerito come difendersi, rivelando gli “umori” della camera di consiglio. A registrare tutto, un audio consegnato alla sezione disciplinare. A inchiodare la scena, l’imbarazzo della complicità.

La consigliera in quota Fratelli d’Italia, sostenuta fino all’ultimo da Ignazio La Russa e difesa malvolentieri da Giorgia Meloni, si è aggrappata alla scomparsa dell’abuso d’ufficio – cancellato dalla riforma Nordio – come se questo bastasse a lavare tutto. Intanto il Csm l’aveva già sospesa da incarico e stipendio. Lei, però, restava lì. A Palazzo Bachelet. Perché? Perché no.

Solo quando la speranza di un’archiviazione rapida si è spenta, Natoli ha scelto di scrivere la lettera di dimissioni, dicendo di non poter più lavorare e di essere danneggiata “psicologicamente e economicamente”. Nessuna parola sull’istituzione ferita, sull’etica pubblica, sulla credibilità del Consiglio. Solo vittimismo.

L’ennesima dimostrazione che nel nostro sistema il problema non è solo chi sbaglia, ma chi si rifiuta di rispondere al proprio errore. E chi intorno fa finta che non sia successo nulla.

Buon lunedì.

In foto Palazzo Bachelet, foto wikipedia commons

Ma Pd e M5s non hanno niente da dire sul Copasir?

Da ieri sappiamo che nella redazione di Fanpage non c’era solo il direttore intercettato con lo spyware Graphite dell’azienda israeliana Paragon Solutions. Anche il giornalista Ciro Pellegrino ha avuto conferma che l’avviso arrivatogli da Apple non mentiva: il più importante laboratorio di analisi del mondo ha ritrovato tracce del software israeliano nel suo telefono. Due giornalisti della stessa testata (particolarmente indigesta al governo) sono stati spiati in ogni loro mossa.

A Bruxelles hanno strabuzzato gli occhi. Paragon, qualche giorno fa, ha confermato di poter scoprire in breve tempo chi ha puntato i giornalisti, ma racconta che al governo non interessava fare chiarezza. Il governo nega. Potrebbe chiedere chiarezza oggi, subito. Potrebbe dire una parola la presidente del Consiglio, potrebbe dire qualcosa anche il presidente della Repubblica. Aspettiamo fiduciosi.

Da ieri, però, sappiamo anche che il Copasir, il comitato parlamentare che si occupa dei rapporti con i servizi segreti, ha vergato una relazione che è carta straccia — per usare un eufemismo. Hanno messo in dubbio le analisi del più importante laboratorio al mondo sul telefono del direttore di Fanpage, Francesco Cancellato. Hanno ignorato il caso di Ciro Pellegrino. Hanno, di fatto, corroborato l’omertà del governo.

Il Copasir è guidato dal deputato del Pd Lorenzo Guerini. La relazione è stata votata all’unanimità, quindi anche da M5S, Italia Viva e Azione. Il giornalista meloniano Italo Bocchino dice di «non avere dubbi» su Guerini. Non avevamo dubbi. Ma che ne pensano Elly Schlein e Giuseppe Conte? Anche perché sullo sfondo c’è un altro giornalista (forse due) spiato, che consentirebbe di scoprire esecutore e mandanti dello spionaggio. E a quel punto la figuraccia diventerebbe un disastro.

Buon venerdì.

Referendum e crisi sociale: un segnale d’allarme per la sinistra

Ci sono tre questioni che il risultato referendario ha riportato in primo piano. La prima la possiamo chiamare questione democratica. Maurizio Landini ha parlato di «crisi democratica», con ragione. Un voto cui partecipano solo 15 milioni di elettori, il 30,6%, mostra la lontananza sempre più drammatica tra la società politica e quella civile.

Un referendum, pur voluto dal sindacato sui temi del lavoro, che non riesce a mobilitare quell’elettorato a cui si rivolge evidenzia che c’è una parte del corpo sociale che è decisamente lontana, separata, che non partecipa e si chiama fuori. Non è forse corretto dire che sia “disinteressata”, ma forse che è totalmente sfiduciata nella possibilità di cambiare qualcosa votando.

La seconda la possiamo chiamare questione sociale, o di classe. In Italia vi sono quasi 24 milioni di occupati, 18,9 milioni dei quali sono lavoratori dipendenti (di cui 16,68 italiani e 2,77 stranieri). Ora, la condizione professionale, lavorativa e contrattuale di questi varia molto, a seconda dei settori, dell’età e dei livelli di qualificazione. E la normativa sui contratti e il mercato del lavoro, negli ultimi trent’anni, ha moltiplicato le posizioni lavorative, rendendo le condizioni dei meno “garantiti” più precarie. I lavoratori assunti a tempo determinato, ad esempio, sono 2,77 milioni (con 450mila stranieri). Di questi, 815mila sono a tempo parziale, mentre i part-time tra gli assunti a tempo indeterminato sono 2,55 milioni. Il tempo parziale è una condizione che colpisce soprattutto le donne. I contratti a tempo determinato e a tempo parziale, com’è ovvio, sono le due forme che più influiscono sulla precarietà dell’occupazione e sui bassi livelli di salario. E sono quei 5,3 milioni di titolari di quei contratti ai quali i quesiti oggetto dei referendum erano rivolti, in primis.

Se poi consideriamo la collocazione professionale secondo i livelli di qualificazione, partendo dal basso, abbiamo che 3,7 milioni di salariati hanno un lavoro non qualificato o semi-qualificato, 3,3 milioni sono dipendenti del commercio o dei servizi e quasi 3 milioni sono impiegati esecutivi, cui si aggiungono altri 3 milioni di impiegati tecnici o amministrativi a media qualificazione. Le categorie del lavoro salariato, in ogni caso, assommano al 40% dell’occupazione totale, cui si aggiunge un 25% di impiegati a bassa o media qualificazione e un 8,5% di lavoratori autonomi a bassa o media qualificazione. Quote enormi, che descrivono una composizione sociale molto polarizzata, in cui le professioni con redditi alti raccolgono non più di un quarto dell’occupazione. Se a ciò aggiungiamo che i livelli retributivi per le occupazioni a bassa o media qualificazione sono rimasti stagnanti negli ultimi due decenni, mentre i redditi alti hanno continuato a crescere, possiamo concludere che in Italia esiste una questione sociale, di classe, che origina da una condizione del lavoro particolarmente divaricata.

La terza è la questione politica, che interroga la natura e le prospettive della sinistra. Le classi popolari, in Italia, rappresentano ancora una fetta ben consistente del corpo sociale, in cui i ceti bassi e medio bassi del lavoro salariato e impiegatizio assommano a due terzi del totale. In una situazione in cui la mobilità sociale si è ridotta, l’economia langue e sono i settori a più basso valore aggiunto e a bassa produttività che vedono aumentare l’occupazione – in condizioni di sempre maggiore precarietà – le classi popolari, tuttavia, hanno trovato sempre meno rappresentanza anche tra le forze di sinistra, che hanno teso a privilegiare il ceto medio. E non sorprende che tanto il sostegno a quelle forze che la partecipazione elettorale stessa da parte dei ceti bassi e medio-bassi siano andati diminuendo vistosamente negli ultimi anni.

Al lavoro, negli ultimi trent’anni, sono stati tolti diritti, anche con il concorso della sinistra liberal che, accettando il credo neoliberista, diceva che era l’impresa che andava messa al centro, perché «crea ricchezza». La sinistra liberal ha promosso politiche che, di fatto, hanno portato ad un impoverimento del lavoro, nelle sue fasce meno qualificate, favorendo l’aumento della precarietà, spesso in nome della flessibilità. Nel contempo, il capitale è stato favorito e i redditi alti hanno preso a crescere, anche a svantaggio del ceto medio. Le disuguaglianze sono aumentate, così come la povertà.

Promuovere i referendum sui Jobs act e altri provvedimenti, per ridare al lavoro diritti e tutele, è stata quindi una decisione che ha risposto all’esigenza di «rimettere il lavoro al centro», una decisione che la Cgil ha preso coraggiosamente e che pone comunque una questione politica rilevante, quella di ridare voce alle fasce più deboli e meno rappresentate. Una questione che interroga in primo luogo il Pd, e la sua adesione al neoliberismo mercatista, e tutto il fronte progressista.

Ora, se guardiamo al voto si possono cogliere elementi di speranza, che indicano soluzioni per le tre questioni sopra esposte, a partire dalla questione democratica.
L’astensione di quasi il 70% dell’elettorato confermerebbe che vi sono larghe fasce di popolazione che si sentono escluse, non rappresentate e non ne vogliono sapere, non ci credono più. E, tuttavia, dalla conta dei voti emerge anche un’altra tendenza. Alle elezioni politiche del 2022, su 46,1 milioni di elettori i voti valido furono 28,2 milioni, il 61%. Alle elezioni europee di un anno fa su 51,2 milioni di elettori, i voti validi furono poco più di 23,4 milioni, il 45,7%. A questa tornata di referendum su 51,3 milioni di aventi diritto, in 14,1 milioni si sono espressi (in Italia), il 30,6%, mentre nelle circoscrizioni estere sono stati 1,1 milioni, il 21,3%. I Sì al primo referendum (quello con la percentuale più alta) sono stati 13.031.443. Ora, i tre partiti del “campo largo” – Pd, AVS e M5S – più UP o PTD totalizzarono 11,6 milioni di voti nel 2022 e 10,1 milioni nel 2024. Il che significa che i Sì sono stati 2,94 milioni in più dei voti di quei partiti nel 2024 e quasi un milione e mezzo in più del 2022.

Ora, possibilmente, non tutti gli elettori Pd hanno votato Sì – come da dichiarazioni di vari leader – e hanno votato No con Renzi e Calenda. È però vero che questi avevano 2,19 milioni di voti, nel 2022, mentre i No sono stati 1,85 milioni, il che fa ritenere che buona parte di quell’elettorato “centrista” si sia astenuto. Assumendo che tutti gli elettori del centro-destra non abbiano votato, assieme a gran parte di quelli del centro, possiamo concludere che parte dei No fossero originariamente elettori del centro-sinistra. E che, quindi, la partecipazione non sia stata davvero così inferiore. Se poi ipotizziamo che molti elettori del Movimento 5 Stelle non hanno votato (soprattutto al Sud), ciò implica che un certo bacino di elettori “delusi” è stato mobilitato, che può essere quantificato in (almeno) 3 milioni e forse più. Insomma, tre milioni di elettori sono stati catturati, fuori dal perimetro del campo “larghissimo” PD+AVS+M5S più Rifondazione comunista. C’è quindi una crisi democratica, non c’è dubbio, ma il «popolo della sinistra», forse, ha cominciato a rispondere all’appello.

La questione sociale e la questione politica. Chi è andato a votare? Senz’altro chi vota sempre – quella parte che è “inclusa” e “garantita” – e che vota per il centro-sinistra. Non a caso l’affluenza è maggiore nei centri delle grandi città, nelle zone ex rosse, e dove maggiori sono le quote di laureati, ovvero le zone abitate dai ceti medi, più colti, progressisti. Molto meno le zone operaie e del lavoro salariato, le periferie, le cinture urbane, le aree interne. Alta affluenza nei capoluoghi, bassa in provincia, più alta al Nord, bassissima in quasi tutto il Sud.
Si è detto che una parte del corpo sociale – sempre maggiore – non si sente più rappresentata e si sente esclusa. Il lavoro, che doveva essere un tema “coinvolgente”, non ha mobilitato le masse, soprattutto quelle avrebbero dovuto essere più coinvolte. Perché il ceto politico – nella sua accezione più ampia, includendo il sindacato – ha perso credibilità agli occhi delle fasce del lavoro più deboli ed esposte. Il referendum è stata un’occasione per invertire la rotta e – con due soli mesi di una campagna elettorale fatta in sordina, con il boicottaggio dei media – il risultato non è stato disprezzabile. Certo, dai partiti sono arrivati messaggi poco convinti, come il «non può essere un’abiura», in luogo di un «abbiamo sbagliato, abbiamo cambiato idea perché quelle politiche hanno provocato danni». Ma è un punto di partenza, che sarà tanto più credibile nel dare rappresentanza ai lavoratori se si vorrà davvero cambiare registro e gettare alle ortiche le prescrizioni neoliberiste.

Ora, se è vero che quei 13 milioni di Sì sono stati più dei 12,3 milioni presi dalla coalizione di centro-destra nel 2022, è però anche vero che non sono tutti necessariamente voti che andrebbero al “campo larghissimo” alle prossime elezioni. Certo, ad essere mobilitato è stato soprattutto il vasto elettorato attivo del centro-sinistra allargato ma il “recinto”, forse, è stato abbattuto, coinvolgendo elettori al di fuori di quello: si può per questo ritenere che si è aperta una breccia nel loro astensionismo? Il voto resta una prerogativa di quell’elettorato che dal punto di vista del lavoro, dei contratti e dei diritti è il più “garantito”. Il vasto mondo dei non garantiti, dei lavoratori precari delle periferie e delle aree interne, degli esclusi e degli abbandonati non si è recato alle urne, ma non in toto. Tuttavia, lavoratori, giovani ed elettori più sensibilizzati, altrimenti non aderenti al centro-sinistra, si sono espressi, il che può essere un tenue elemento di speranza. Per un insieme di forze progressiste che voglia rimettere il lavoro al centro e far ripartire l’Italia c’è dunque motivo di guardare al futuro con fiducia, se la sinistra «tornerà a fare la sinistra».

L’autore: Pier Giorgio Ardeni è professore ordinario all’Università di Bologna. Insegna Economia dello sviluppo ed Economia dello sviluppo internazionale. Il suo nuovo libro s’intitola Le classi sociali in italia oggi (Laterza)

 

foto Adobe stock

Gli invisibili di cui Trump non può fare a meno

Trump vuole fare la guerra agli immigrati. Non a quelli ricchi, non a quelli armati, non a quelli che truccano bilanci o finanziano campagne: a quelli che raccolgono cipolle, puliscono case, costruiscono muri e si prendono cura dei figli degli americani. Il suo nuovo zar del confine, Tom Homan, promette “più retate nei luoghi di lavoro di quante se ne siano mai viste”. Gli obiettivi? I soliti: braccianti, manovali, badanti, camerieri. Gli invisibili.

Ma gli invisibili tengono in piedi l’America. Sono 8,3 milioni, quasi il 5% della forza lavoro. Metà del settore agricolo dipende da loro. Nel settore edile sono 1,4 milioni, quelli che rendono possibile un tetto a prezzi accessibili. Durante la pandemia nessuno li cercava, perché servivano. Ora diventano il nemico.

Trump sa bene che mancano i criminali da espellere: allora alza i numeri. Vuole 3.000 arresti al giorno. Stephen Miller lo sprona. Ma i repubblicani iniziano a frenare: la propaganda non può costare troppo.

E infatti Trump non tocca i padroni. Nel 2017 ha graziato un imprenditore condannato per aver assunto e pagato lavoratori senza documenti. Il problema non è chi sfrutta, ma chi fatica.

Il sistema è ipocrita. La domanda resta, ma si colpisce solo l’offerta. E intanto si chiudono le porte all’immigrazione regolare. Trump lo sa: serve mano d’opera. Ma preferisce seminare paura. Anche se poi, a raccoglierla, sarà proprio chi oggi applaude.
E quando mancheranno braccia nei campi, nei cantieri e nelle case, nessuno potrà dire che non era previsto. Solo che conveniva fare finta di non vedere.

Buon giovedì. 

Foto AS

Caso Cnr, l’indifferenza del governo è un attacco al futuro del Paese

Nel panorama della complessa e per alcuni versi preoccupante situazione nazionale, c’è un caso di clamorosa scomparsa e omissione. Non si tratta delle vicende, attuali o riproposte da nuovi elementi, relative alla cronaca nera. In tal caso saremmo sopraffatti (su Tv, giornali, social) da dibattiti e approfondimenti di variegati livelli e approcci, dal peggior voyeurismo alle più composte analisi socio-culturali.

La clamorosa vicenda a cui ci riferiamo non determina alcuna curiosità popolare e tanto meno alcun reale dibattito nel Paese: né culturale, né politico e neppure di bassa cronaca di approfondimento (né tantomeno un’immeritata morbosità). La scomparsa, duplice oltretutto, è quella del CdA e del presidente del Consiglio nazionale delle ricerche, il più importante e grande Ente di ricerca del Paese, che di conseguenza dallo scorso 27 maggio non ha più il proprio rappresentante legale (funzione assegnata al presidente dalla Legge ed essenziale per lo svolgimento delle più rilevanti attività del Cnr).

Questa scomparsa però non è dovuta ad un evento imprevedibile o ad un catastrofico collassamento del sistema Cnr (che invece è solido e di eccellente valore internazionale), ma banalmente ad una gravissima omissione (duplice anche questa).
Infatti, da una parte, i tre membri scaduti del CdA – quelli indicati per legge dalla Conferenza Stato-Regioni, CRUI e Confindustria – potevano essere rinominati da vari mesi, in quanto inviate nei cassetti del ministero le terne necessarie da cui la ministra avrebbe potuto/dovuto selezionare e nominare i prescelti.

E analogamente per il nuovo presidente, la legge prevederebbe: 1) la presenza di un Comitato di selezione (già nominato alla fine del 2024); 2) un meccanismo di bando per la individuazione dei candidati da cui il Comitato di selezione dovrebbe scegliere la cinquina sottoponendola alla valutazione del ministro.
Questo bando non è mai stato partorito dal ministero. Eppure la scadenza del presidente era nota fin dalla sua nomina (durata quattro anni).

Lo scorso 26 maggio in anteprima su Left scrivevamo quindi, valutando questo stallo, che la ministra Bernini stava compiendo l’ultimo passo per giungere al commissariamento del Consiglio nazionale delle ricerche.
Ad oggi invece questo commissariamento non è ancora stato adottato: forse per l’impossibilità di produrre ragioni legittime necessarie alla sua determinazione oppure alla ricerca di queste ultime (avviando per esempio una nuova riforma del Cnr come possibile alibi).

La cosa che ormai appare certa è comunque la volontà di cambiare governance al sistema Cnr e di ridurne l’autonomia restringendo i già esigui margini di autodeterminazione degli Organi di questa comunità scientifica. Stravolgendo così i principi costituzionali di garanzia all’autonomia della scienza.

Si tratta però di comprendere come possa tutto questo passare sotto la più assoluta indifferenza. Come se le sorti della ricerca pubblica nazionale riguardassero solo i ricercatori e i lavoratori del Cnr.

Come se gli studi che mettono in relazione la crescita del PIL di un Paese alla percentuale di investimento che quel Paese destina alla ricerca, non fossero noti e stabilissero un vincolo ineludibile.

Come se non si concepisse quanto rilevanti siano scienza, ricerca, cultura per lo sviluppo adeguato delle nostre infrastrutture sociali e produttive.

Si assiste, seppure in una versione italiana minimalista e di imbarazzata cautela, alla messa in soggezione della maggiore acquisizione che la storia dell’umanità è stata capace di produrre: il sapere.
Ossia quella capacità di costruzione delle conoscenze approfondite e accurate che ci permettono di fornire la più adeguata interpretazione (di volta in volta in evoluzione) del mondo naturale, sociale e cognitivo.

Questo tentativo di emarginazione e per certi versi di mortificazione del paradigma della conoscenza, emerge come una tendenza frutto dell’insofferenza verso la complessità e le sue articolate e parziali risoluzioni e si trasforma in una politica che strumentalmente cavalca questa insofferenza e disagio.
Una tendenza che travalica gli ambiti nazionali e diventa a sua volta paradigma di contrasto dei saperi come valori dominanti rispetto alle opinioni e alle soggettività delle scorciatoie falsamente risolutive.

Uno stravolgimento che dovrebbe interrogare l’opinione pubblica più ampia e avveduta. Invece le due indifferenze di cui parlavamo sopra, quella popolare e quella di analisi critica dei soggetti preposti, si alimentano e si rafforzano reciprocamente.

Per questo il caso Cnr diventa un caso paradigmatico, su cui accendere quella poca attenta riflessione che ancora possiamo esercitare.
Avremmo dovuto assistere a prime pagine dei giornali e a titoli dei TG sulla vicenda Cnr che invece ha visto qualche trafiletto, nelle pagine interne ispirate da qualche giornalista volenteroso e illuminato.

Il Consiglio nazionale delle ricerche non è un problema dei ricercatori e lavoratori del Cnr o del personale precario che vi opera (e a cui dovrebbe essere riconosciuto il merito della professionalità impiegata).
Così come la ricerca e la scienza del nostro Paese non riguardano solo gli scienziati italiani. Interrogano la società nel suo complesso e il futuro su cui intende procedere.

L’autore: Rino Falcone, già direttore dell’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del Consiglio nazionale delle ricerche

Foto dalla pagina Fb di Precari uniti CNR

La maranza di governo

Una presidente del Consiglio che, per suoi complessi di inferiorità, si fa chiamare con pronomi maschili non ce la meritiamo. Non ci meritiamo nemmeno una presidente del Consiglio che, il giorno dopo cinque quesiti referendari, si fotografa con un infantile sorriso di sfida. Ieri Giorgia Meloni – che interpreta la maschera dell’impegnatissima – ha chiamato il suo fotografo di fiducia, si è messa in posa in una stanza dorata di Palazzo Chigi e si è fatta immortalare con postura da maranza di Stato.

Quel sorriso avrebbe voluto essere la risposta alla segretaria del Partito democratico Elly Schlein. «Elly Schlein dice che i voti del referendum dicono no a questo governo…», ha fatto scrivere Meloni. Lei ha dettato, lui ha citato il capo per digitare compulsivamente, poi ha schiacciato il tasto invio e alla fine, soddisfatti, avranno sorriso convinti di avere segnato una tacca nella storia della Repubblica.

Non ce la meritiamo la maranza di Stato Giorgia Meloni, arrivata a capo del governo con un solo chiodo fisso: vendicarsi, vendicarsi, vendicarsi. I suoi elettori hanno cercato su Google le foto del mare da postare sui social. Al mare non ci sono stati. Stanno aspettando un condono tombale per tornare a respirare, hanno come massima aspirazione che vengano puniti quelli più poveri di loro, finché non diventeranno poveri come loro.

Non ce la meritiamo una maggioranza di governo che ha attaccato il Jobs Act quando è stato votato e oggi lo difende perché non ha mai studiato le carte. L’ignoranza ha vita breve, come i suoi portatori.

Buon mercoledì.

A Gaza l’orrore di Guernica rivive moltiplicato a dismisura

Il 7 giugno, a Roma, la piazza per Gaza dei partiti di opposizione, Pd, Avs, Cinquestelle, ma c’era anche Rifondazione con il grande bandierone palestinese, è stata una grande piazza di popolo. La mozione parlamentare che era la base della convocazione era chiara e così lo è stata la manifestazione. Certo, si può dire che si è aspettato molto, troppo, lasciando soli a mobilitarsi i pezzi più sensibili. Ora preferisco dire, finalmente. Quando l’orrore è grande, serve una grande forza per cercare di fermarlo.
A Gaza, l’orrore di Guernica che Picasso consegnò alle nostre coscienze, rivive moltiplicato a dismisura. Sconfina in quella parola, genocidio, che le nostre coscienze e, soprattutto, ciò che nacque dopo la sconfitta del nazifascismo che lo aveva praticato fino all’ Olocausto, avevano detto mai più.
La guerra tra Russia e Ucraina continua sull’orlo del ricorso al nucleare e chi pensava che l’avrebbe fermata l’elezione di Trump deve fare i conti con un mondo in cui i dominanti, tutti e anche quelli a capo della Ue, coltivano la ricerca dei propri posti al sole, spesso con la guerra. Un sole dei morenti, per ricordare un grande scrittore, Jean Claude Izzo. Morenti sono I dominati, carne da cannone, come Benjamin ricordava fosse la storia del passato.
Un passato che è tornato presente. I testi bellicisti che chiamano alle armi i dominati sembrano scritti da Orwell. La distonia bellicista e repressiva invece è realtà. Tutti si riarmano. E le armi vengono usate. La Ue dice che servono a far avanzare la propria unità. Per armarsi consente di sforare i sacri dogmi del pareggio di bilancio e di stornare fondi destinati alla coesione o rimanenti dal Pnrr. Ma se vedi come la Germania di Merz, che di questo riarmo fa la parte del leone, nei modi di esprimersi e pensare se stessa, cancelli tanti impegni presi dopo la seconda guerra mondiale a partire dal non riarmarsi, pensi che più che andare verso la nuova Europa unita si va tornando verso quella per cui la Prima guerra mondiale cominciò chiamandomi in realtà Grande guerra europea. E sentire Starmer, il premier inglese, invitare a prepararsi alla guerra, anche nucleare, lo conferma. E la Polonia, altro Paese in corsa sui cingoli della spesa militare, che vota ed elegge la propria versione di leader trumpiano, dice di come la partita tra le destre globaliste e quelle nazionaliste sia tutta aperta. Si ritrovano sul riarmo. Sono divise sul che farne, sul come impiegarlo. Importante è che i dominati siano in condizione di non nuocere. E qui Meloni docet col terribile dl “sicurezza”. Zitto e muori.
Per questo le Resistenze che si stanno palesando sono una preziosa speranza.
Il 21 giugno ci sarà il momento clou di una grande mobilitazione europea già in corso contro il piano ReArm (ribattezzato ipocritamente Readiness 2030) varato dalla Commissione europea e che prevede una spesa di 800 miliardi per una Ue che punta a sostituire il welfare con il warfare, lo stato sociale con lo stato di guerra. E non è che l’inizio visto che il segretario generale della Nato, Rutte, dice che proporrà di portare al 5% la spesa per la difesa.
In quei giorni ci sarà all’Aja una sessione Nato dedicata anche a questo. Una Nato che fa i conti con Trump che chiede all’Ue di pagarsi la sicurezza e con la Ue sempre più imbarcata sulla strada recentemente definita in un testo contenente le linee guida di questa “sicurezza europea”. Affidata appunto ad un riarmo massiccio e ad una massiccia preparazione dei cittadini, già dalle scuole, di fatto alla guerra. Un testo, quello varato ed approvato, tutto pieno di nemici da cui “difendersi”. Con la forza e non con la politica.
A 50 anni dalla Conferenza di Helsinki sulla sicurezza comune europea che, in piena guerra fredda, vide la partecipazione di tutti i Paesi europei di entrambi i lati della Cortina di ferro e di Usa ed Urss, che fu capace di definire accordi di cooperazione, rispetto di regole e di diritti, si va esattamente in senso inverso. Quello che Enrico Berlinguer, in una intervista a Critica Marxista del 1984, paventava e considerava esiziale per l’Europa, contrario alla sua natura e al suo ruolo, foriero di una vittoria delle destre. Parlava di una Europa che sostituisce la politica della forza alla forza della politica.
Purtroppo questa è la strada intrapresa sempre più marcatamente dal 1989 in poi. Con una Ue che si adegua alla nuova fase della globalizzazione di cui rimane lo strapotere della finanziarizzazione e delle grandi imprese globali mentre ci si riassetta su aree geopolitiche e geoeconomiche confliggenti. E due ideologie, di destra, dominanti, quella ormai vecchia dei neoconservatori e la rampante tecno feudale come è stata definita. Tra autoritarismo e democrature. Dominanti e dominati. Sembra di essere 50 anni prima e non 50 anni dopo Helsinki. Naturalmente non basta certo tornare indietro. Un mondo di Stati ha prodotto, sulla spinta della lotta al nazifascismo, e nel “confronto” tra socialismo e capitalismo “reali” il  ‘900 per come lo abbiamo conosciuto. Processi di liberazione, avanzamenti ma anche nuovi orrori e drammi irrisolti. Il Sudafrica si è liberato.
A Gaza torna il genocidio. Perciò dovremmo provare ad andare oltre. Verso un nuovo internazionalismo, una nuova democrazia dell’umanità. Un orizzonte difficile, forse lontano ma necessario. Anche a piccoli passi.
In questa situazione la realizzazione di un appello europeo, Stop Rearm, promosso da reti europee come Transform Europa, TNI, International Peace Bureau, GCOMS, da reti italiane come Ferma il Riarmo, e da organizzazioni del Regno Unito, Spagna e Italia come Attac e ARCI, capace di realizzare quasi 2 mila adesioni di associazioni europee e centinaia italiane, è un fatto di grande importanza. Per molte ragioni. Perché la militarizzazione sta marciando a livello delle decisioni della UE sia pure in connubio con le leadership nazionali anche se con evidenti diversità di intenti. E perché si cominciano a superare antiche sconfitte ma anche diversità paralizzanti emerse con la guerra Russia Ucraina.
In Italia poi si è costruita una convergenza di oltre 350 aderenti, che ha esteso i temi dal no a ReArm a no a guerra, genocidio e autoritarismo. Collaborazione anche con la rete contro il dl sicurezza che ha realizzato la grandissima manifestazione del 31 maggio. Le adesioni sono tantissime. Arci, Cgil, Anpi, Acli. Pacifismo e non solo. Femminismo. Partiti come Sinistra europea, Cinquestelle, Avs, Rifondazione comunista, Partito del Sud, Sinistra anticapitalista. L’elenco completo, e in crescita, va letto perché da il senso di una costruzione a rete che ricorda il movimento dei movimenti, quello di Genova, e reincontra il grande pacifismo italiano che fu protagonista, dalla lotta contro gli euromissili a quella contro le guerre preventive e permanenti.
Tantissime anche le adesioni individuali tra cui mi fa piacere citare il premio nobel Giorgio Parisi, Tomaso Montanari e Paola Caridi, animatori dei sudari bianchi. E tanti artisti che donano immagini e pensieri.
I sottoscrittori dell’appello europeo si riuniscono in assemblee on line. Si ha così conferma che sono in crescita anche gli appuntamenti europei.
Già il 7 giugno in Gran Bretagna c’è stata una grande  manifestazione “welfare not warfare” contro austerità e riarmo a Londra. Stato sociale, non stato di guerra, gridato al governo Starmer che dichiara di volersi attrezzare alla terza guerra mondiale, investe 15 miliardi di sterline per il rinnovo dell’arsenale atomico, costruisce 12 nuovi sottomarini nucleari, aumenta il numero di riservisti, impegna la cittadinanza civile alla difesa, e sostiene la richiesta Nato del 5% del Pil in spese militari. Nella grande coalizione promotrice, The people assembly, alcune sigle firmatarie dell’appello europeo.
Sempre il 7 giugno e sempre in Gran Bretagna altra manifestazione a Plymouth “Investire nella pace non nel nucleare” significativamente alla base dei sottomarini nucleari Il 21 giugno in Spagna ci sarà un  contro summit a Madrid e mobilitazioni locali in diverse città. Ancora il 21 giugno, questa volta in Francia a Le Bourget, manifestazione contro la fiera delle armi. Il 22 giugno alla Aja manifestazione e controvertice in occasione del vertice Nato. Dal 23 al 24 giugno a Bruxelles forum internazionale per la pace. In Grecia si stanno definendo gli appuntamenti. In Irlanda sono impegnati da mesi in una grande campagna per difendere la neutralità del Paese I paesi nordici sono al lavoro per iniziative internazionali in occasione dell’anniversario di Helsinki.

L’Italia sta facendo la sua parte. L’intreccio di movimenti e temi, contro guerra e riarmo, contro il genocidio e per Gaza, contro l’autoritarismo e la militarizzazione di economia, società e scuola, rappresenta un possibile “ritorno al futuro”. Appuntamento il 21 giugno a Roma, a piazza San Paolo, alle ore 14.

L’autore: Roberto Musacchio, già parlamentare europeo, è politico e collaboratore di Transform e Left

Uno dei tanti motivi per cui si è perso il referendum

Uno dei tanti motivi per cui non è stato raggiunto il quorum dei cinque quesiti referendari lo si ritrova a urne chiuse, mentre nei seggi non hanno ancora posato le matite.

A destra il partito del presidente del Consiglio Giorgia Meloni e i suoi alleati, soprattutto i leghisti, esultano appropriandosi della vittoria. Curioso, sono gli stessi che lamentavano “un’eccessiva politicizzazione” del referendum. Ora si appuntano la stelletta. Hanno vinto a modo loro, senza mai stare nei contenuti, invitando i loro seguaci all’annichilimento degli strumenti democratici gonfi di revanscismo. Ma non è questo il motivo. Questo al massimo è il fastidio per una classe di governo che gode nel vedere i suoi cittadini esultare mentre si stringono il cappio al collo.

Nella simulata compagine che vorrebbe essere l’alternativa a questa maggioranza Carlo Calenda (pendolo sentimentale un po’ a destra e un po’ a sinistra) ne approfitta per demolire il cosiddetto campo largo. Matteo Renzi – che di referendum si era dichiarato politicamente ucciso prima di ripensarci – s’offre come rimedio al fallimento. Nel partito democratico la banda dei cosiddetti riformisti ne approfitta per scavare la fossa alla loro segretaria. Non riescono a trattenere la loro riprovevole abitudine di giocare all’ammazza segretaria anche sulla pelle delle persone e dei lavoratori. Qualcuno prova – male – a piegare i numeri per intravedere uno spiraglio di vittoria.

Come dice Ilaria Salis in politica non serve avere ragione, occorre avere forza delle proprie idee. E chi non è capace di apparire comunità con i suoi alleati e nel suo partito difficilmente può cementare abbastanza comunità tra i cittadini.

Buon martedì.

 

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Così Salvini si è scelto il comandante

Come racconta Il Fatto Quotidiano Sergio Liardo è il nuovo comandante generale delle Capitanerie di porto. La nomina è stata firmata dal Quirinale, ma la regia politica è tutta nelle mani di Matteo Salvini, oggi ministro delle Infrastrutture. I due incrociano i rispettivi destini quattro anni fa, al processo Open Arms. Allora Salvini era imputato per sequestro di persona aggravato. Liardo, ufficiale della Guardia Costiera, fu chiamato in aula come testimone chiave della difesa. Dichiarò che «le condizioni del mare» non consentivano lo sbarco immediato dei 39 migranti soccorsi dalla nave spagnola. Una deposizione perfettamente allineata alla narrazione politica di Salvini, che grazie anche a quella testimonianza fu assolto nel dicembre 2024.

A meno di due anni da quella udienza, Liardo incassa la seconda promozione consecutiva: dopo la nomina a vicecomandante nel 2023, ora arriva al vertice assoluto delle Capitanerie. La scelta cade mentre la Guardia costiera è attraversata da scandali che hanno travolto decine di ufficiali coinvolti in episodi di corruzione e favori al gruppo Onorato. Liardo non è mai stato indagato, ma la sua carriera si muove stabilmente nell’orbita politica della Lega, con rapporti consolidati anche con il vice Edoardo Rixi. È l’uomo giusto per la macchina di potere: affidabile, allineato, funzionale, già rodato nei passaggi delicati dove politica e giustizia si sfiorano.

Il legittimo dubbio mettendo in fila i fatti è che il metodo sia sempre lo stesso: premiare i fedeli, trasformare le carriere in rendite politiche, normalizzare la subordinazione amministrativa al potere. Chi è utile avanza. Gli altri restano a guardare.

Buon lunedì.

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Votiamo “Sì” per rompere la catena di morte degli appalti

10 gennaio 2025, nelle prime ore del pomeriggio, una fuga di ammoniaca alla FrigoCaserta di Gricignano d’Aversa (CE) uccide Patrizio Spasiano.
Patrizio ha soli 19 anni ed è il primo morto del nuovo anno in Campania. Patrizio, in realtà, è solo un tirocinante. Pagato 500€ al mese per quello che dovrebbe essere un percorso di “orientamento e formazione”. Il tirocinio è stato stipulato dalla Cofrin di Villaricca (NA), una piccola azienda attiva nel campo della refrigerazione industriale.
Se quel 10 gennaio Patrizio è al lavoro alla FrigoCaserta è perché la FrigoCaserta ha affidato alcuni lavori in appalto alla Cofrin.

A cinque mesi da questo omidicio sul lavoro, il processo non è ancora iniziato. I giudici dovranno verificare le responsabilità delle due ditte coinvolte, la committente FrigoCaserta e la società in appalto, la Cofrin.

Se i giudici dovessero riscontrare che la morte di Patrizio è esclusivamente “conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici” (cioè della Cofrin), la FrigoCaserta potrà lavarsene le mani (diverso se i giudici accerteranno responsabilità della stessa FrigoCaserta).

Funziona così perché è la legge a prevedere questo meccanismo. Ed è proprio questa la norma che il quarto quesito del referendum dell’8 e 9 giugno vuole cambiare. Se vincessero i “sì”, infatti, il committente – in questo caso la FrigoCaserta – sarebbe d’ora in poi “responsabile in solido”, così che il lavoratore o i suoi cari potranno chiedere il risarcimento sia al datore di lavoro diretto che al committente.

Nel mirino, quindi, c’è il sistema di appalti e subappalti che costituisce la giungla in cui si producono numerosissimi incidenti e morti sul lavoro.
La stessa in cui si è prodotta la strage di Brandizzo quando, tra il 30 e il 31 agosto 2023, cinque operai della Sigifer, impresa che aveva l’appalto dalla committente Rfi, furono investiti e uccisi da un convoglio fuori servizio.
La stessa in cui si è prodotta la strage del cantiere Esselunga a Firenze, quando, il 16 febbraio 2024, cinque operai furono travolti da un crollo e morirono. Su quell’unico cantiere c’era una giungla di decine di aziende in appalto, che rende intricata la strada dell’individuazione delle responsabilità.

È il segreto di Pulcinella che le lunghe catene di appalti e subappalti servono alle imprese più in alto a risparmiare quanto più possibile. Più scendiamo nella catena degli appalti, più emerge un inferno di bassi salari, precarietà e assenza di misure di sicurezza. Perché ogni impresa cerca di massimizzare quanto più possibile i profitti e lo fa spesso in ogni modo possibile, compreso il risparmio su salute e sicurezza.
Quello che per loro è un costo da abbattere per chi sta dall’altra parte, lavoratori e lavoratrici, è invece letteralmente la possibilità di non farsi male, di non morire.

Votare “sì” al quarto quesito referendario è quindi un’arma nelle mani di lavoratori e lavoratrici per difendere sé stessi, i propri colleghi, i propri cari.
Perché se un’azienda committenta saprà di poter essere considerata responsabile in solido per gli incidenti prodotti dalla negligenza o dalle azioni sconsiderate di un’azienda in appalto, avrà maggior interesse a verificare che lungo la catena degli appalti siano rispettate le misure di sicurezza. Non per amore dei lavoratori e delle lavoratrici, ma per amore del proprio portafogli, l’unica cosa che pare interessare loro.

Non si tratterebbe dunque di una vittoria per “punire”, ma per “prevenire”. Costruire la giusta deterrenza contro gli imprenditori delinquenti che per il profitto mettono a repentaglio le nostre vite è interesse della maggioranza della nostra gente.

Votare “sì” al referendum non significa fare qualcosa di concreto per noi stesse e stessi. Senza delegare a nessuno. Un esercizio di democrazia diretta, che sarebbe anche uno schiaffo in faccia a un’intera classe dirigente – compresa quella che oggi promuove i referendum ma che negli ultimi 30 anni ha contribuito a portarci nel baratro in cui ci troviamo – e un importante segnale di presa

di coscienza e di voglia di trasformazioni profonde in quel mondo del lavoro devastato da decenni di liberismo di destra e di sinistra.

Votare “sì” significa impiegare qualche minuto del proprio tempo, domenica 8 o lunedì 9 giugno, per chi è uscito di casa per andare a guadagnarsi il pane col lavoro e non è più rientrato.
E per contrastare concretamente questa strage che ogni anno produce almeno 500mila infortuni e nel solo 2024, stando ai dati pubblicati dall’Osservatorio Nazionale di Bologna Morti sul Lavoro, ha causato ben 1.482 morti.

Che si vinca o che si perda, però, la guerra sarà ancora tutta da combattere. E questa contro gli “operaicidi”, come li ha definiti l’ex Direttore dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, è l’unica guerra da combattere. Per vincerla non basta un referendum né un post sui social, serve l’organizzazione politica e sindacale di lavoratori e lavoratrici.
Perché solo conquistando più potere potremo difendere le nostre vite e quelle dei nostri cari.

L’autore: Giuliano Granato è portavoce di Potere al Popolo