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Votiamo “Sì” per rompere la catena di morte degli appalti

10 gennaio 2025, nelle prime ore del pomeriggio, una fuga di ammoniaca alla FrigoCaserta di Gricignano d’Aversa (CE) uccide Patrizio Spasiano.
Patrizio ha soli 19 anni ed è il primo morto del nuovo anno in Campania. Patrizio, in realtà, è solo un tirocinante. Pagato 500€ al mese per quello che dovrebbe essere un percorso di “orientamento e formazione”. Il tirocinio è stato stipulato dalla Cofrin di Villaricca (NA), una piccola azienda attiva nel campo della refrigerazione industriale.
Se quel 10 gennaio Patrizio è al lavoro alla FrigoCaserta è perché la FrigoCaserta ha affidato alcuni lavori in appalto alla Cofrin.

A cinque mesi da questo omidicio sul lavoro, il processo non è ancora iniziato. I giudici dovranno verificare le responsabilità delle due ditte coinvolte, la committente FrigoCaserta e la società in appalto, la Cofrin.

Se i giudici dovessero riscontrare che la morte di Patrizio è esclusivamente “conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici” (cioè della Cofrin), la FrigoCaserta potrà lavarsene le mani (diverso se i giudici accerteranno responsabilità della stessa FrigoCaserta).

Funziona così perché è la legge a prevedere questo meccanismo. Ed è proprio questa la norma che il quarto quesito del referendum dell’8 e 9 giugno vuole cambiare. Se vincessero i “sì”, infatti, il committente – in questo caso la FrigoCaserta – sarebbe d’ora in poi “responsabile in solido”, così che il lavoratore o i suoi cari potranno chiedere il risarcimento sia al datore di lavoro diretto che al committente.

Nel mirino, quindi, c’è il sistema di appalti e subappalti che costituisce la giungla in cui si producono numerosissimi incidenti e morti sul lavoro.
La stessa in cui si è prodotta la strage di Brandizzo quando, tra il 30 e il 31 agosto 2023, cinque operai della Sigifer, impresa che aveva l’appalto dalla committente Rfi, furono investiti e uccisi da un convoglio fuori servizio.
La stessa in cui si è prodotta la strage del cantiere Esselunga a Firenze, quando, il 16 febbraio 2024, cinque operai furono travolti da un crollo e morirono. Su quell’unico cantiere c’era una giungla di decine di aziende in appalto, che rende intricata la strada dell’individuazione delle responsabilità.

È il segreto di Pulcinella che le lunghe catene di appalti e subappalti servono alle imprese più in alto a risparmiare quanto più possibile. Più scendiamo nella catena degli appalti, più emerge un inferno di bassi salari, precarietà e assenza di misure di sicurezza. Perché ogni impresa cerca di massimizzare quanto più possibile i profitti e lo fa spesso in ogni modo possibile, compreso il risparmio su salute e sicurezza.
Quello che per loro è un costo da abbattere per chi sta dall’altra parte, lavoratori e lavoratrici, è invece letteralmente la possibilità di non farsi male, di non morire.

Votare “sì” al quarto quesito referendario è quindi un’arma nelle mani di lavoratori e lavoratrici per difendere sé stessi, i propri colleghi, i propri cari.
Perché se un’azienda committenta saprà di poter essere considerata responsabile in solido per gli incidenti prodotti dalla negligenza o dalle azioni sconsiderate di un’azienda in appalto, avrà maggior interesse a verificare che lungo la catena degli appalti siano rispettate le misure di sicurezza. Non per amore dei lavoratori e delle lavoratrici, ma per amore del proprio portafogli, l’unica cosa che pare interessare loro.

Non si tratterebbe dunque di una vittoria per “punire”, ma per “prevenire”. Costruire la giusta deterrenza contro gli imprenditori delinquenti che per il profitto mettono a repentaglio le nostre vite è interesse della maggioranza della nostra gente.

Votare “sì” al referendum non significa fare qualcosa di concreto per noi stesse e stessi. Senza delegare a nessuno. Un esercizio di democrazia diretta, che sarebbe anche uno schiaffo in faccia a un’intera classe dirigente – compresa quella che oggi promuove i referendum ma che negli ultimi 30 anni ha contribuito a portarci nel baratro in cui ci troviamo – e un importante segnale di presa

di coscienza e di voglia di trasformazioni profonde in quel mondo del lavoro devastato da decenni di liberismo di destra e di sinistra.

Votare “sì” significa impiegare qualche minuto del proprio tempo, domenica 8 o lunedì 9 giugno, per chi è uscito di casa per andare a guadagnarsi il pane col lavoro e non è più rientrato.
E per contrastare concretamente questa strage che ogni anno produce almeno 500mila infortuni e nel solo 2024, stando ai dati pubblicati dall’Osservatorio Nazionale di Bologna Morti sul Lavoro, ha causato ben 1.482 morti.

Che si vinca o che si perda, però, la guerra sarà ancora tutta da combattere. E questa contro gli “operaicidi”, come li ha definiti l’ex Direttore dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, è l’unica guerra da combattere. Per vincerla non basta un referendum né un post sui social, serve l’organizzazione politica e sindacale di lavoratori e lavoratrici.
Perché solo conquistando più potere potremo difendere le nostre vite e quelle dei nostri cari.

L’autore: Giuliano Granato è portavoce di Potere al Popolo

L’8 e 9 giugno la democrazia si difende armati di matita

Come ormai dovrebbe essere noto a tutti, nei giorni dell’8 e 9 giugno si voterà per cinque  referendum, di cui quattro in materia di  lavoro e uno per il dimezzamento dei termini per ottenere la cittadinanza italiana.

Le posizioni politiche su questi quesiti cominciano ad essere davvero troppe, trovando un moltiplicatore nella problematica del quorum in quanto una partecipazione al di sotto del 50% più uno degli aventi diritto al voto renderà invalida la chiamata alle urne.

Con l’aggiunta di questa variante del quorum, il numero delle posizioni dei votanti, a seconda dell’appartenenza a questo o quel partito, aumenta enormemente.

C’è chi andrà a votare e chi non andrà a votare; chi andrà a votare, ritirerà le schede e le annullerà e chi prenderà le schede e voterà “no”; chi andrà a votare e voterà “si” e chi, pur andando a votare, non ritirerà le schede. Ognuna di queste posizioni, e le altre che la fantasia giuridica può inventare nel rispetto della legge, si colloca sulla retta della legittimità, ma trasmette messaggi sociopolitici contrastanti. Né la storia dei referendum italiani aiuta, perché tutti i partiti politici, a seconda della convenienza sul singolo quesito, hanno invitato i loro sostenitori ad andare al mare piuttosto che al seggio.

In questa giungla di proposte, che poi non riguarda solo i referendum, ma l’intera materia del voto dalla quale sempre più cittadini si distaccano, forse è giunto il momento di fare il punto per trovare un indirizzo al quale attenersi tutte le volte che viene proposta una convocazione elettorale.

Muoviamo da un primo elemento: il diritto di voto universale è molto recente ed è una conquista che le donne italiane hanno raggiunto solo il 10 marzo 1946, col loro primo voto amministrativo come ci ha ricordato lo splendido film di Paola Cortellesi C’è ancora domani del 2023. Dunque, recarsi a votare, per le donne, è l’esercizio di un diritto faticosamente ottenuto e, quindi, da celebrare ogni volta che se ne presenta l’occasione per rimarcare il successo finalmente conseguito e rincorso per secoli.

Per tutti, poi, uomini e donne, l’esercizio del diritto di voto non deve mai essere inteso come una vuota ed inutile routine ma, in primo luogo, rappresentata la commemorazione di quanti hanno dato il sangue contro i dittatori di ogni epoca per permettere al popolo di partecipare attivamente alla vita della collettività. In secondo luogo, poi, recarsi a votare costituisce l’esaltazione del più profondo principio democratico che ci piace continuare ad attribuire a Voltaire: «Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo».

Ecco, andare a votare è esattamente l’applicazione di questo principio: affinché tutti possano dire ciò che ritengono utile per la società, occorre andare a votare anche se non si è d’accordo con i temi posti in discussione: basta votare “no”, ma andare sempre e comunque a votare per mantenere vivo il fuoco della libertà e della democrazia.

L’autrice: Shukri Said è giornalista. Coautrice e co conduttrice di “Africa Oggi” per Radio Radicale, è inoltre corrispondente dall’Italia per la Bbc e per Voice of America

 

illustrazione di Valentina Stecchi

 

Musk vs Trump: la cleptocrazia americana si sbrana

Che l’unione di fatto tra Elon Musk e il presidente Usa Donald Trump sarebbe finita in baruffa era già scritto. I due, coppia di fatto nella cleptocrazia americana, intendono la politica come occasione personale di revanscismo. Solo che le rivincite dell’uno non coincidono con quelle dell’altro. A Trump interessa diventare la statua vivente di sé stesso, divorato da un’egomania che per molti sconfina nel caso clinico. Elon Musk ha voluto provare il brivido di trasformare i soldi in potere, ennesimo lusso di un visionario che si soddisfa solo con le trasformazioni.

Ha ragione Musk quando dice che Trump non avrebbe mai riconquistato la Casa Bianca senza di lui. Meglio: senza il suo denaro, in cui Musk si identifica ed è identificato. Ha ragione Trump quando dice che Musk è riccamente foraggiato dai soldi dei contribuenti americani: il patron di Tesla e SpaceX è un maestro nel costruire bisogni e creare dipendenze. È anche per questo che l’idea del governo Meloni di legarsi al magnate sudafricano per l’internet via satellite è pericolosa, oltre che cretina.

L’utopia Maga che ha soffiato dietro la rielezione di Trump è già sbriciolata e finirà nel peggiore dei modi. Dove la politica diventa avanspettacolo anche le separazioni sono un’operetta buffa. Nel bisticcio di queste ultime ore si assiste alla gara di chi ha il complottismo più lungo. Non c’è politica nella sequela di offese personali: due bambini che bisticciano, negano, accusano. Due tra gli uomini più potenti del mondo che si tirano i capelli in cortile. Eccoli, gli Usa del Make America Great Again.

Buon venerdì.

Esseri umani uguali

Qui su Left lo abbiamo scritto tante volte. La radice di una violenza così estrema va ricercata in un pensiero sugli “altri” che vengono pensati come non più umani.

È un pensiero che pensa gli altri come mostri, come qualcosa, non più qualcuno, che va eliminato. La “soluzione finale”, che poi è il pensiero sottostante, è l’eliminazione totale per fare in modo che sia “come non fossero mai esistiti”.

Ogni giorno a Gaza muoiono decine e centinaia di persone: bambini, donne, uomini che vivono un assedio senza alcun senso, in una prigionia di fatto e con l’unica prospettiva di poter essere uccisi da un bombardamento dell’esercito israeliano. È notizia quotidiana il bombardamento di scuole e ospedali che è qualcosa di inconcepibile anche solo a pensarlo come qualcosa di possibile. Se una volta c’era forse una sorta di vergogna nel compiere questi crimini forse perché c’era una consapevolezza di non essere nel giusto nell’uccidere civili, giustificando quelle morti come vittime collaterali, in questa folle epoca distopica, l’uccisione indiscriminata di persone inermi viene proposta come qualcosa di assolutamente normale. L’assassinio di persone innocenti che viene istituzionalizzato, reso strumento politico. Tra le righe dei trafiletti che fanno la conta senza dire il nome di chi è morto, passa l’idea che non siano persone.

Sono meno che esseri umani, non sono importanti. Ed è terribile pensare che questi omicidi quotidiani di persone inermi, colpevoli di essere abitanti di una piccolissima striscia di terra, avvengono in nome di una difesa dei valori di un’identità ebraica che sarebbe messa a rischio da queste popolazioni. Identità ebraica che, come tutti sappiamo, ha subito uno dei più grandi crimini della storia con la Shoah, che nei programmi dei nazisti doveva essere l’eliminazione totale e definitiva degli ebrei. Un’eliminazione che non si limitava all’uccisione ma faceva scomparire i corpi nei forni crematori. Un’eliminazione che significava la realizzazione del pensiero “come non fossero mai esistiti”. Ma perché non dovevano più esistere?

La follia nazista voleva realizzare l’idea di una “razza ariana superiore”, il popolo tedesco “puro” doveva realizzare il proprio scopo. I nazisti dovevano combattere i nemici interni del popolo tedesco (le razze inferiori) e i nemici esterni. Dovevano essere eliminate le possibilità di corruzione della razza ariana da parte di ebrei, rom, africani, slavi. Ma anche disabili fisici e malati di mente, pensati evidentemente anch’essi come portatori di corruzione. L’individuo, l’identità del singolo, non aveva nessuna importanza, anzi essa si realizzava nella grandezza del popolo e della patria, che era l’essere supremo cui bisognava sacrificare sé stessi. Non esisteva l’individualità, esisteva un essere collettivo cui ogni appartenente al gruppo doveva sacrificare sé stesso.

L’idea di razza superiore e conseguentemente di altre razze inferiori, fece sì che la riduzione progressiva dei diritti tra il 1933 e il 1938 e in seguito l’eliminazione fisica, la sparizione fisica dell’oppositore, divenne politicamente accettabile, perché si stava eliminando un essere inferiore. Si doveva in ogni modo realizzare una purezza genetica che permettesse all’uomo ariano di realizzare il compito di divenire dominatore del mondo. Ed era anche necessario che i cittadini “ariani” avessero la possibilità di riprodursi in gran numero e per far questo era anche necessario conquistare nuovi spazi, nuove terre dove permettere la crescita della popolazione ariana. L’espansionismo militare era necessario a questo scopo, per far sì che la popolazione tedesca “pura” avesse il necessario spazio vitale. Allora ricordato tutto ciò e tornando all’oggi, è veramente sconvolgente leggere come non solo i rappresentanti del governo israeliano, ma anche tante persone di discendenza ebraica nel mondo, vadano su tutte le furie e parlino di attacchi antisemiti, evocando le persecuzioni naziste, quando ci si riferisce alla tragedia in corso a Gaza come genocidio. La realtà è quella e le responsabilità di Israele e del suo governo sono evidenti a chiunque. Questo non vuol dire accusare chi ha discendenza ebraica di alcunché; né tantomeno accusare Israele e il suo governo può essere pensato come un’aggressione a chi ha una discendenza ebraica. Perché questa confusione? È solo per rimescolare le acque e fare confusione, per nascondere le responsabilità?

Io non so rispondere. Certamente ogni volta mi stupisco di come da parte di queste persone non si veda, non si voglia vedere, i crimini commessi quotidianamente, le persone uccise senza motivo e una popolazione intera lasciata morire di fame. Quello che posso osservare è che in questa sovrapposizione tra Israele e il popolo ebraico c’è una storia della Bibbia, di popolo eletto e di una terra promessa, che vengono pensati come fatti reali e concreti che vanno realizzati. Dimenticando che non esiste alcuna diversità dovuta ad una discendenza genetica, che sia ariana o ebraica, perché la dinamica che ci fa esseri umani, che fa comparire il pensiero alla nascita, è una soltanto ed è la stessa per tutti gli esseri umani. Le differenze genetiche non sono rilevanti, non fanno diversità tra gli esseri umani allo stesso modo di come l’essere più alti o più bassi, con i capelli biondi o mori, con la pelle chiara o scura non fa alcuna differenza nel fatto che tutti gli esseri umani camminano su due gambe e imparano a parlare. Non esiste un’uguaglianza maggiore in un gruppo per una comune discendenza o per un credo religioso. Non esiste un’uguaglianza maggiore tra esseri umani per la cultura in cui si cresce e che si conosce. Non esiste un’uguaglianza maggiore tra esseri umani per la lingua che si parla o per il luogo in cui si è nati. Dobbiamo cercare l’uguaglianza assoluta, che supera ogni diversità apparente. Essa esiste anche se spesso viene dimenticata.

Come ha detto Simone Roffi in una recente presentazione al Salone del libro di Torino, l’uguaglianza alla nascita è ciò che fa si che un bambino appena nato stringa con tutta la forza della sua piccola mano il dito dell’essere umano che gli sta vicino, come ad abbracciarlo e a dirgli “Io so che tu sei come me”.

Foto di Emergency

Diodato: L’empatia è un’arma rivoluzionaria

Con “Fai rumore” nel 2020 ha vinto il festival di Sanremo, alla vigilia di un inaspettato lockdown che, al contrario, ci fece piombare tutti in un sinistro silenzio. Oggi, Antonio Diodato arte solo Diodato, è al suo sesto album, Ho acceso un fuoco, e ha collezionato successi e riconoscimenti.

Lo scorso anno per il brano “La mia terra”, dedicata alla martoriata Taranto città dell’e Ilva, ha vinto il premio Amnesty international e un David (miglior canzone originale composta per l’altrettanto originale pellicola di Michele Riondino, Palazzina Laf), la Targa Tenco. Cresciuto nella città pugliese, è anche direttore artistico, con Riondino e Roy Paci, del noto palco concorrente del Concertone, l’Uno Maggio libero e pensante. Dopo un tour nei teatri, Diodato è di nuovo pronto per il pubblico con un elenco nutrito di concerti per tutta l’estate. Tra le tante date, sarà al Roma Summer Fest, il prossimo 11 settembre. Partendo proprio dai luoghi a lui cari, gli chiediamo che esperienza è stata quest’anno i primo maggio a Taranto: «La risposta è stata potente, siamo arrivati a cinquantamila presenze durante la giornata, c’era un pubblico giovanissimo. C’era voglia di esserci, in un anno in cui abbiamo inserito la musica elettronica, un esperimento che è riuscito. Sono contento per la risposta perché da quel palco noi lanciamo messaggi molto forti e probabilmente è la manifestazione libera più grande che c’è oggi nel nostro Paese. Abbiamo parlato molto e apertamente Palestina, sono state lette poesie di poeti palestinesi; si è parlato di tantissime emergenze italiane e globali con la massima libertà e la musica ci ha aiutato tanto ad amplificare questi messaggi. Abbiamo vissuto un senso di bellezza». L’impegno sociale valorizza la sua produzione artistica: i suoi brani uniscono eleganza stilistica a contenuti profondi. Pensieri che scuotono, che hanno l’ambizione di spingere a un cambiamento. Canzoni per vivere e difenderci. Dalla paura, per esempio, alla ricerca dell’empatia. Del resto, lo canta lui: «Raccontarsi un’emozione è ancora un atto di rivoluzione».

Lo scorso 25 aprile è uscito “Non ci credo più”. La data del singolo è casuale?

L’origine psichica del linguaggio umano

È sempre stimolante avvicinarsi allo studio della capacità specificamente umana che è il linguaggio. Siamo l’unica specie vivente che comunica con una straordinaria complessità e pluralità di suoni che fanno parole e lingue, rendendoci per questo una specie indiscutibilmente disposta alla comunicazione e alla socialità. Allo stesso modo è sorprendente ed emozionante per ogni genitore osservare il piccolo bambino che superato il primo anno di vita durante il quale la comunicazione si è espressa unicamente nel vagito, inizia misteriosamente ad esprimere le prime incerte parole. Poi negli anni l’uomo acquisita pienamente la sua capacità linguistica. Sarà responsabilità di ognuno saperla usare nella relazione con gli altri perché le parole non sono solo il mezzo per chiedere l’acqua o comprendere la matematica, ma veicolano affetti o violenza, aggrediscono o proteggono.

Sul tema del linguaggio appare ora come novità editoriale il libro di Marcella Fagioli, La parola dell’inconscio. Ipotesi che legano gli studi linguistici alla realtà psichica, per i tipi del L’Asino d’oro. L’autrice, psichiatra e psicoterapeuta, propone lo studio svolto per la sua tesi di laurea nel 1992. Già questo aspetto potrebbe lasciarci perplessi. In effetti una tesi di laurea, pur se svolta con accuratezza, appare sempre un lavoro ancora acerbo sul piano scientifico. Invece questa è proposta come novità ben trent’anni dopo la sua elaborazione. La casa editrice ha infatti voluto a suo tempo inaugurare una nuova collana, Percorsi di ricerca con Massimo Fagioli, di cui questo volume è il terzo titolo, e nella quale sono raccolti lavori elaborati nel rapporto di persone che partecipavano alla ricerca dell’Analisi collettiva con Fagioli. E in questo volume, la ricerca

Caravaggio 2025, luce e ombra nell’attimo sospeso

A molti sarà capitato di tornare più volte davanti ai dipinti di Caravaggio. Chi vive a Roma, poi, ha la fortuna di poterli incontrare con una certa facilità: sono esposti in almeno tre chiese e in varie collezioni pubbliche. Eppure, ogni volta che ci si ferma a guardarli, qualcosa colpisce in modo diverso. Da dove nasce questa rinnovata emozione? Una spiegazione possibile – come hanno ricordato Walter Benjamin e, in modo diverso, Benedetto Croce – è che la storia, e in particolare quella dell’arte, si costruisce sempre a partire dal presente. Il passato, insomma, ci appare ogni volta con una luce nuova, come se fosse messo in prospettiva.

Anche noi, del resto, cambiamo: a volte siamo giovani e curiosi, altre volte più maturi e riflessivi; può accadere di trovarci da soli, oppure in compagnia; talvolta ci colpisce la luce, altre volte il chiaroscuro, il fuoco, le ombre. Questo mutare del nostro sguardo – insieme ai cambiamenti culturali del tempo in cui viviamo – influisce profondamente sulle riflessioni e sulle emozioni che un’opera ci suscita.

Tanto più quando non si ha davanti solo uno o due dipinti, ma un’intera mostra monografica. Roma, in questo senso, attendeva da tempo un’esposizione di rilievo dedicata a Caravaggio: l’ultima davvero memorabile risale al 2010, alle Scuderie del Quirinale. Ce ne sono state altre, certo, ma nessuna comparabile, per ampiezza e qualità, né a quella né all’attuale.

La mostra allestita a Palazzo Barberini – va detto subito – è davvero notevole: emozionante, curata con grande attenzione, e ricca di spunti. È vero che l’esposizione del 2010 alle Scuderie del Quirinale poteva contare su un numero maggiore di prestiti internazionali, ma anche Caravaggio 2025 presenta una selezione di opere di assoluto rilievo, provenienti da importanti musei stranieri, da gallerie italiane e da collezioni private.

Afro Women Poetry. L’onda ribelle delle voci femminili

Questo è «il ritratto di una prescelta… l’incarnazione di una profeta… perché solo loro conoscono il potere delle parole… Certo, hanno combattuto battaglie, ma prima vennero le parole e poi le spade… e io non credo né a spade né a fucili… o AK47… le pallottole fanno correre la gente per salvarsi la vita mentre le parole le inducono a voltarsi ed ascoltare… questo è il tiro con l’arco della poesia…i poeti parlano con le loro armi. Sono versi di Rajaa Bushara, poetessa sudanese morta in esilio al Cairo.

Più che esiliata era una rifugiata, una di quelle che era riuscita a fuggire da una guerra che da oltre due anni sta devastando un Paese e la vita di milioni di persone. Raj, come la chiamavano gli amici, usava la sua voce – unica cosa che possedeva realmente – per gridare il dolore di tante e tanti come lei a cui uomini assetati di potere rubano il futuro, rubano la vita.

Raj è una di quelle artiste che fanno parte del progetto AfroWomenPoetry il cui obiettivo è far diventare coro quelle voci sparse nel continente africano.

Nato nel 2017 sta raccontando l’universo femminile nell’Africa che cambia ma che – nonostante il cambiamento in corso, appunto – ci si ostina spesso a giudicare con vecchie logiche, vecchie opinioni, luoghi comuni e pregiudizi lontani dalla realtà. Sono le donne stesse a raccontarsi e lo fanno attraverso lo strumento poetico, attraverso la parola scritta ma anche declamata, diffusa negli happening, nelle scuole, nelle strade.

Non dobbiamo pensare a spazi chiusi, come la propria scrivania o le pagine di un libro con le parole stampate. Certo anche la poesia tradizionale è scritta per andare verso qualcuno ma i versi di queste artiste più che intimistici, più che moti dell’animo sono forme civili di protesta. Un impegno sociale e politico che racchiude l’esigenza personale di gridare la realtà che le circonda, l’esigenza di liberarsi, esporsi, uscire dall’invisibilità.

Trame a fumetti sotto cieli di bombe

All’atterraggio in Libano, in un giorno di primavera, l’impressione è che il Paese cada a pezzi. Va comunque molto meglio, assicurano in molti, da quando a novembre 2024 è stata firmata la tregua con Israele e a gennaio scorso è stato eletto il nuovo presidente della Repubblica e si è formato il nuovo governo dopo due anni di impasse. Sarà. Negli ultimi anni, il Libano ha attraversato una serie ininterrotta di catastrofi. Nel 2019, una crisi finanziaria devastante ha scatenato un’ondata di proteste contro corruzione e ingiustizia sociale, che i libanesi chiamano la thawra “rivoluzione” del 2019, ma che non è riuscita a rovesciare il sistema, complice anche il lockdown del 2020, che ha ulteriormente aggravato la situazione di un Paese allo stremo. Nell’agosto del 2020, il porto di Beirut è esploso per colpa di enormi depositi di nitrato di ammonio sui quali i governanti non hanno ancora fatto chiarezza. Dopo il 7 ottobre 2023, si è aperto il fuoco tra Hezbollah e Israele e quest’ultimo ha bombardato il Libano per settimane, nel quadro di un genocidio che la superpotenza porta avanti a pochi chilometri di distanza, a Gaza, e di una guerra totale che sembra voler condurre contro tutti i suoi vicini. Di questi tempi, se non altro, non piovono bombe sul centro di Beirut. Ma in realtà il sud del Libano, al confine con Israele, non ha mai smesso di essere colpito. Quotidianamente. Da fine marzo, inoltre, sembrano ricominciati bombardamenti mirati nella periferia sud di Beirut.

Nella capitale, certi giorni si sente il ronzio dei droni. Google maps a tratti impazzisce e il cursore che segna la propria posizione si sposta avanti e indietro da solo: sono gli israeliani che giocano coi satelliti, mi dicono. Il pensiero corre all’operazione con cui il Mossad ha fatto esplodere migliaia di cercapersone lo scorso settembre.

Cosa ci facciamo in Niger con i mercenari russi?

Il primo impatto il Niger si presenta con una curiosa immagine: l’intera sua superficie di 1.267.000 Km2 (4 volte l’Italia) ha la forma di un pesce rombo con la coda a sudovest, dove c’è la capitale Niamey, e la testa a nordest, ma non ha nessun contatto col mare, confinando a nord con l’Algeria, a nordest con la Libia, a est col Ciad, a sud con la Nigeria, a sudovest col Burkina Faso e il Benin e a ovest col Mali. Questa immagine di pesce all’asciutto è però l’unica cosa buffa del Niger. Per il resto si tratta di uno dei Paesi più poveri del Terzo Mondo e occupa una delle ultime posizioni nella graduatoria del Pil pro capite (189esimo). Gli abitanti, prevalentemente di religione musulmana sunnita, sono circa 25,5 milioni e sono analfabeti per il 70% (in Italia il tasso è 0,6%). Il tasso di fecondità (dati 2021) è di 6,2 per donna (in Italia 1,18) ma la mortalità infantile è del 50% (in Italia è 4 per mille). La popolazione è dedita ad agricoltura e pastorizia, ma l’intera parte nord del Paese è occupata dal deserto del Sahara. La parte centrale del Niger, invece, ha il clima del Sahel (in arabo: “bordo del deserto”), la fascia climatica è caratterizzata dalla spoglia savana che offre un magro pasto alle greggi. La parte meridionale, più esposta ai venti Alisei provenienti dal Golfo di Guinea, è caratterizzata dalla savana alberata con acacie, baobab, karité e mogano che ospita la splendida fauna africana. È sviluppata anche l’attività mineraria: il Niger è ricco di uranio e fino al 2021 ne era il maggior fornitore dell’Ue. Come tutti i Paesi della parte occidentale dell’Africa, anche il Niger ha vissuto il colonialismo francese ed ha ottenuto l’indipendenza nel 1960 dotandosi di una Costituzione che, nell’intervallo sino al 2010, è cambiata sei volte.