Ustica è una bella e tranquilla isola del Mediterraneo, di fronte alla Sicilia; le acque che la circondano sono ricche di pesci e piante marine. Era difficile raggiungerla fu fatta diventare zona di confino sin dagli inizi del secolo scorso. Tra le due guerre, il regime della dittatura mussoliniana vi deportò alcune tra le più importanti personalità antifasciste: Gramsci, Carlo e Nello Rosselli, Ferruccio Parri, Giuseppe Staderini.
Dal 27 giugno 1980, il nome dell’isola è rimasto legato, suo malgrado, alla tragedia della caduta dell’aereo DC-9IH870 della Compagnia Itavia, partito da Bologna, in cui morirono 81 persone tra cui 11 bambini e 4 persone dell’equipaggio, mai arrivate a destinazione a Palermo.
Daniele Biacchessi, giornalista d’inchiesta, scrittore, regista, direttore di Giornae Radio e attento osservatore della nostra società, ha di recente pubblicato con la casa editrice Jaca Book, Ustica. Ultimo volo che va ad arricchire il lunghissimo elenco dei suoi libri.
Fu una notte straordinaria quella del 27 giugno 1980 che cominciò alle ore 20:59 quando scomparve dai radar quel puntino rosso che era l’aereo dell’Itavia con tutto il suo carico umano. L’autore, con una scrittura incalzante, ricostruisce i 45 anni trascorsi da quell’ultimo volo, con particolare attenzione ai passeggeri e all’equipaggio che persero la vita, mai solo numeri, alla magistratura anch’essa giunta all’ultimo atto, dopo procedimenti lunghissimi, con il coinvolgimento di autorità politiche e militari, italiane e straniere, con rogatorie internazionali, commissioni di inchiesta nelle quali hanno lavorato i maggiori esperti italiani e stranieri.
Ma soprattutto l’attenzione è per gli “assenti” cioè quelli che hanno nascosto le verità, non hanno dato risposte, hanno depistato le ricerche con una serie di “non so” o “non risulta”, che non hanno presentato i documenti o che li hanno modificati.
La lunga introduzione del libro è dedicata ad Andrea Purgatori, il giornalista d’inchiesta, prematuramente scomparso nel 2023, che ha dedicato alla caduta del DC-9, sin dai primi giorni, il tempo della sua vita, fino agli ultimi mesi prima di morire.
Sua la definizione di “muro di gomma” per descrivere l’atmosfera che respirava quando poneva domande che rimbalzavano e scivolavano via senza risposte, che poi, nel 1991, divenne il titolo del film del regista Marco Risi.
La nostra storia comincia nell’Inghilterra di fine anni 80, all’ombra delle grandi aree industriali dismesse e del rigido Regno Unito dell’era Thatcher, laboratorio del laissez-faire e del capitalismo estremo. Dall’America arriva un nuovo suono: l’acid house, con le sue sonorità distorte e oniriche. Insieme alla diffusione della Mdma, crea il terreno per una piccola rivoluzione culturale che culmina nella Seconda estate dell’amore. Dopo la rigidità del decennio precedente, la parola d’ordine è una sola: ballare. Nascono così i primi free party: feste libere, spesso illegali, in spazi occupati. Il movimento cresce, i rave si moltiplicano e diventano enormi raduni. Ma la politica reagisce: il governo conservatore di John Major dichiara guerra a questi eventi, inasprendo le leggi e la repressione. Il movimento allora attraversa la Manica e arriva nell’Europa continentale. Anche l’Italia, da metà anni 90, diventa un terreno fertile: nascono collettivi, si muovono sound system, i centri sociali scoprono la techno. A Roma si fa notare Anna Bolena, tra le poche donne dj e organizzatrici di rave. Sarda di origine, trasferitasi nella Capitale a fine anni 80, ha fondato l’etichetta Idroscalo dischi per promuovere l’elettronica industriale. Oggi vive a Berlino, dove alterna musica e insegnamento.
«Il primo party illegale che ho fatto è stato a Tor Cervara: ci siamo arrivati con il passaparola, eravamo una cinquantina. Abbiamo ballato fino all’alba», racconta Anna Bolena. «È stato il contesto politicizzato a spingermi verso questa musica. Poi ho iniziato anche a organizzare eventi, e piano piano siamo passati da poche decine a centinaia di persone». All’inizio degli anni 90, Roma viveva un forte fermento politico, con giovani attivi nei movimenti antagonisti e una rete vivace di spazi autogestiti. Il movimento
Dopo la classificazione ufficale dell’AfD (Alternative für Deutschland) come organizzazione della estrema destra e un pericolo per la democrazia da parte dell’Ufficio federale per la protezione della Costituzione, il dibattito sul divieto che pende sul capo di AfD e sul suo scioglimento si è intensificato. Questa domanda esiste già da molto tempo. Secondo i sondaggi circa la metà della popolazione in Germania è a favore di un tal divieto.
L’affermazione che Afd è un partito della estrema destra non è una sorpresa, ma che questa designazione si stata fatta ufficialmente da una istituzione statale rappresenta una novità. Che si trattasse di una forza politica estremista, non c’erano e non ci sono dubbi. La politica migratoria razzista propalata di questo partito ed anche la mancata presa di distanza di alcuni suoi vertici dai crimini del nazismo e dell’olocausto parlano da soli. Il punto cruciale nel rapporto dei servizi segreti interni è la dichiarazione che AfD persegue una politica etnica razzista secondo cui non tutti i cittadini tedeschi hanno gli stessi diritti e si fa una differenza tra tedeschi per nascita biologica e altri considerati come tedeschi di seconda classe. Questo non è compatibile con la democrazia. Sono ben note le numerose dichiarazioni xenofobe contro i rifugiati e i migranti. Esponenti come Höcke, il leader del partito in Turingia, possono essere definiti ufficialmente fascisti. E la federazione giovanile è già stata bandita.
«I ragazzi sono pronti a tornare. D’you know what I mean?». Questa frase, presa in prestito da una celebre canzone degli Oasis, è apparsa come slogan sui canali social di Azione studentesca, il movimento scolastico legato a Gioventù nazionale, braccio giovanile di Fratelli d’Italia. Una apparentemente innocua citazione musicale, ma che nelle grafiche digitali si accompagna a immagini di militanti in camicia nera e saluti romani mimetizzati. Un messaggio chiaro per chi sa leggere: il ritorno, non solo ideale, di un’identità e di uno stile di militanza. Una rivendicazione culturale che stando ad alcuni dati si sta progressivamente materializzando. Già alle elezioni politiche del 2022 Fratelli d’Italia conquistava circa il 14% dei voti tra i giovani 18-24 anni, superando su questo terreno Pd e Lega in molte regioni (fonte YouTrend per Sky Tg24). L’anno successivo, un report di BiDiMedia ha confermato per il partito con la fiamma di Almirante nel simbolo il primato tra gli under 35. Nel 2024, infine, Swg sempre tra gli under 35 ha registrato una media di consenso del 21%. Una tendenza confermata anche da Ipsos, secondo cui il 36% dei giovani tra i 18 e i 29 anni si sente rappresentato da valori di «ordine, sicurezza e identità nazionale». Gli slogan preferiti da Giorgia Meloni e compari di partito. Numeri che raccontano una svolta silenziosa ma netta: la destra radicale non è più un’eredità marginale, ma una scelta diffusa e consapevole.
Dentro questa trasformazione, la formazione giovanile di Fratelli d’Italia, Gioventù nazionale, si è imposta come laboratorio politico di riferimento. Fondata il 5 maggio 2014, sulla scia degli adulti, si pone come obiettivo la formazione di nuove generazioni su basi patriottiche, conservatrici e identitarie. Ma dietro la patina istituzionale si cela un tessuto ideologico ben più torbido. Un mondo in cui la linea tra impegno politico e nostalgia per il Ventennio si fa sottile, se non del tutto assente. La qual cosa non sembra dispiacere al partito di riferimento.
Tutte le vicende che stiamo per mettere in fila sono molto attuali ma affondano le proprie radici ideologiche lontano nel tempo.
Partiamo da una data e da un luogo: giovedì 12 aprile 1973, Milano. Un corteo di neofascisti, organizzato dal Movimento sociale italiano e dal Fronte della gioventù nonostante il divieto per motivi di ordine pubblico, marcia verso la Questura per protestare contro la decisione di negarlo, altri manifestanti si dirigono verso la casa dello Studente e il liceo Virgilio per protestare contro una non meglio definita «violenza rossa».
Nel 1969 c’era stata la strage di piazza Fontana, nel 1970 il fallito golpe Borghese e la strage di Gioia Tauro, nel 1972 quella di Peteano, inoltre erano già in azione da anni gruppi terroristici come Ordine nuovo e Avanguardia nazionale organici alla cosiddetta strategia della tensione in chiave anti democratica e anticomunista, ma il Movimento sociale – diretta emanazione della Repubblica sociale di Salò – e la sua componente giovanile protestavano contro «la violenza rossa». Viene in mente il principio della semplificazione e del nemico unico di goebbelsiana memoria: puntare il dito su un avversario e insistere sull’idea che sia lui la fonte di tutti i mali.
Durante gli scontri con il reparto celere della Polizia i manifestanti lanciano due bombe a mano, una di queste uccide il giovane agente Antonio Marino, 22 anni.
Cinque giorni prima, sabato 7 aprile, un ordigno era esploso per errore nel bagno del treno Torino-Genova-Roma nelle mani dell’attentatore che lo stava confezionando, ferendolo gravemente e impedendo l’attuazione del piano. Pochi minuti prima la stessa persona era stata notata da alcuni viaggiatori mentre percorreva i corridoi indossando un eskimo e facendo in modo che si notasse la copia di Lotta continua che spuntava dalla tasca. Un tentativo di depistaggio di tipica matrice neofascista: voleva far ricadere su militanti di sinistra la colpa di quello che stava per accadere. Lo stesso doveva succedere in Veneto nei giorni seguenti dove erano stati organizzati altri attentati “rossi”.
Il giovane, 22 anni come il poliziotto Antonio Marino, si chiamava Nico Azzi, aveva militato nelle Squadre d’azione Mussolini e successivamente era entrato nel gruppo neofascista La Fenice, legato a Ordine nuovo. Ferito ma non in pericolo di vita, Azzi venne arrestato. Aveva però fatto in tempo a preparare e consegnare, alcuni giorni prima, gli ordigni che sarebbero stati utilizzati a Milano.
I momenti di transizione storica delle società svolgono sovente la funzione di delineare, prima ancora che i caratteri del nuovo assetto in divenire, la cifra e il segno degli equilibri sistemici precedenti.
Così l’avvento del fascismo all’alba degli anni Venti del Novecento mostrò l’emergere di un fenomeno politico inedito (un regime reazionario di massa) ma specialmente l’irreversibile crisi dello Stato liberale. L’esito della Seconda guerra mondiale indicò prima di tutto la natura dei regimi nazifascisti, modellando in seguito la società su un profilo plurale e democratico. La fine della Guerra fredda avviò il tempo dell’ideologia totale del cosiddetto neoliberismo ma nella misura generale pose all’esame della storia il crollo del socialismo reale.
Oggi la transizione che accompagna il riflusso della globalizzazione ci consente di guardare alla radice della nostra democrazia, la Costituzione repubblicana, offrendo chiavi di lettura capaci di evidenziare i fenomeni più gravi che stanno informando (o deformando) il nostro presente.
Paco Ignacio Taibo II è tra le voci più immaginifiche e rigorose della narrativa latinoamericana contemporanea. Storico e scrittore, intreccia fiction e indagine storiografica per raccontare le lotte sociali del Messico e dell’America Latina. Da intellettuale militante dirige il Fundo de Cultura, la più importante impresa editoriale messicana, attiva in molti Paesi latinoamericani e impegnata anche nella “controinformazione”. Anche per questo ci pare importante conoscere la sua lettura della politica imperialista di Trump e del silenzio assordante che circonda il genocidio che l’esercito israeliano sta compiendo a Gaza. L’occasione è il festival Encuentro di Perugia e Castiglione del Lago dove il 2 giugno, left coordina un incontro con lui, lo storico Alessandro Barbero e l’analista di geopolitica Greta Cristini, sul tema del nuovo ordine mondiale.
Paco, la congiuntura politica internazionale che stiamo attraversando è drammatica. A cominciare dalla guerra israeliana su Gaza. Come leggi l’attualità?
Da una parte, c’è l’assurda guerra tra Ucraina e Russia, che non ha senso da nessun punto di vista. Quando mi chiedono da che parte sto, dico sempre: io sto dalla parte delle vittime. Non provo simpatia né per il governo di Putin né per quello ucraino: entrambi hanno mentalità espansioniste, militariste. Dall’altra parte, c’è il genocidio a Gaza compiuto dall’esercito israeliano, un fatto inconcepibile, vergognoso. Mi colpisce che tutto il mondo osservi senza muoversi, incapace di fermarlo.
Nei mesi scorsi hai stigmatizzato con forza chi fra gli ispanici ha votato Trump, che va alla guerra dei dazi e pensa di poter arraffare materie prime e territori di altri Paesi. Come vedi il trumpismo?
Con tutta evidenza abbiamo un problema trumpismo delirante. Trump è come un toro impazzito in un negozio di cristalli. Entra e distrugge. Cambia idea ogni giorno. Il suo motto è “Make America Great Again”, ma la sta rendendo sempre più piccola. Va contro il suo stesso elettorato a cui aveva promesso la crescita di posti di lavoro (promessa che non potrà mantenere), ma va anche contro la manodopera migrante che ha sostenuto l’agroindustria e l’edilizia negli Stati Uniti. Trump è in conflitto con lo stesso capitale internazionale, che non ha patria, né dio, né padrone, e che non ragiona in termini di nazionalismo fascistoide come lui, ma in termini di affari e libero mercato. Non che il capitale internazionale mi sia simpatico, tutt’altro. Quello che noto però è che anche loro sono furiosi con Trump. L’industria meccanica, le catene di distribuzione, la produzione di macchinari agricoli… stanno impazzendo, perché ogni giorno lui cambia direzione.
Trump è andato alla guerra anche con il Messico con dazi e politiche di espulsione di immigrati, che ne pensi di questa aggressione?
Essere un Paese confinante con gli Stati Uniti ha costretto il governo messicano a parare colpi continuamente. Se Trump caccia la manodopera migrante che lavora nei campi di fragole, cipolle ecc., danneggia i piccoli agricoltori americani e l’agroindustria. Genera un effetto boomerang. E se poi vuole mettere dazi sui pomodori messicani è fuori di testa. Si troverà contro la sua stessa classe media – quella che l’ha votato – senza ketchup per l’hamburger, o con la fetta di pomodoro sempre più sottile fino a scomparire in quelle orribili insalate che loro mangiano. Il trumpismo è un progetto aggressivo, che lancia iniziative, poi le ritira, poi le rilancia, generando crisi che costringono l’America Latina a difendersi.
L’onda nera e questo neo imperialismo procedono insieme?
No. Non si percepiscono come un tutto a livello internazionale. Sono fenomeni diversi, con origini e contraddizioni diverse. C’è però, è vero, un’onda nera che sale in molti Paesi, penso a Afd in Germania, al governo Meloni, per restare in Europa, ma penso anche a Milei in Argentina…
È preoccupante.
Sì, il sorgere un po’ ovunque di movimenti fascistoidi è preoccupante. In America Latina, il caso peruviano, l’estrema destra ecuadoriana, Milei – che è un Trump vestito da pagliaccio – fanno riflettere. Tuttavia, ci sono anche avanzamenti della sinistra progressista, penso al Frente Amplio lasciato in eredità da Pepe Mujica in Uruguay… ma anche arretramenti. Dobbiamo finalmente capire che la storia non è lineare e progressiva, ha un andamento altalenante. Questa idea di una teleologia ha infettato il marxismo dal XIX secolo: l’idea del progresso continuo è antistorica. Il problema sono le risposte che si danno nel momento specifico. Credo che molte risposte vadano trovate nella costruzione di relazioni diverse su scala regionale.
Quanto all’Italia governata da Meloni e all’Europa che si è spostata a destra?
Se mi chiedi come diavolo si possa capire l’ascesa della destra fascistoide italiana al potere… non lo capisco. E l’unica spiegazione è l’incapacità dell’Europa – fin dal patto di Monaco, maledizione! – di costruire fronti ampi popolari. L’unica cosa sensata oggi in Europa sembra essere l’esperienza del fronte popolare francese, che prova a riunire tutto l’antifascismo, non solo con contenuti contro, ma proponendo vera libertà del tempo libero, diritti dei lavoratori e dei migranti. E soprattutto appellandosi ai movimenti sociali, che sono quelli che costruiscono i veri fronti ampi. Non sono fronti di partiti, ma fronti sociali. Quindi, guardando l’Italia, si resta scoraggiati. Si vede la perdita di una cosa che mi ha sempre appassionato: la ricchezza politica della sinistra intellettuale, letteraria e culturale in senso ampio, che si è dissolta. Uno qua, uno là, tre di là. Questa incapacità di costruire un fronte ampio e un muro antifascista a partire dalla cultura è sorprendente. Poi mi dico Ok, diamogli tempo perché le cose maturino. E tutto deve nascere – tra le tante cose – anche da un movimento studentesco, che oggi è spento, privo di luce, catturato dalla frivolezza. Questa generazione di studenti delle scuole superiori e delle università è prigioniera della superficialità. In questo senso, l’esperienza messicana è significativa: costruire un fermento politico attraverso il dibattito culturale è utile.
Però il movimento studentesco pro Palestina si è alzato in piedi. Ma viene represso e tacciato di antisemitismo. In Italia gli studenti sono stati manganellati dalla polizia. Negli Usa rischiano l’espulsione dalle Università. Può diventare movimento internazionale?
Certo, è un movimento. Ma non sai mai dove porterà. C’è vitalità ma è difficile dire se reggerà, se avrà sviluppi. Dipende anche dalla congiuntura. Quello che è chiaro è che ogni fenomeno barbaro crea una reazione, un recupero della civiltà. Oggi, per un adolescente in Messico o in Italia è importante osservare almeno un po’ la realtà, per questo migliorare la qualità dell’informazione è fondamentale. Devi poter guardare negli occhi gli sfollati di Gaza per sentire il loro dolore, per accendere la sensibilità. E tornare al vecchio principio della sinistra: non c’è un “noi”. Gli altri siamo noi.
Che ruolo può giocare la cultura per un cambiamento di mentalità? Da direttore del Fondo de Cultura, la più grande istituzione editoriale del Messico (incarico riconfermato dalla presidente Claudia Sheinbaum) ti stai impegnando molto con nuove pubblicazione, anche di giovani autori, puoi dirci di più?
In media pubblichiamo un libro e mezzo al giorno. Pubblicare giovani autori è una delle battaglie strategiche, perché il Fondo de Cultura non è solo una casa editrice: oserei dire che è anche una vera e propria multinazionale di sinistra presente in tutta l’America Latina. Il Fondo ha una rete di librerie, centri culturali, di distribuzione e strutture varie in Argentina, Cile, Colombia, Paraguay, Guatemala ecc. Ha una rete nazionale di librerie in Messico, ormai ne conta un centinaio. Fra le cose più importanti abbiamo messo in piedi una rete di promozione della lettura: abbiamo circa 20mila club e sale di lettura in tutto il Paese. In più ci sono le librerie mobili, i cosiddetti librobus, che percorrono le zone dove non ci sono librerie e la distribuzione non arriva. Facciamo una politica di donazione di libri alle comunità. Insomma il Fondo è una sorta di macchina con molte mani – non due, ma tante – che agiscono simultaneamente in un progetto generale, globale, di promozione della lettura. Non è solo un progetto editoriale.
Nonostante questa mole di impegni riesci a scrivere?
Sto scrivendo un nuovo romanzo con Olguita (sorride, e noi con lui, pensando alla giornalista ventiduenne dalla schiena dritta, protagonista di Sentendo che il campo di battaglia e di Olga forever).
Negli ultimi anni hai pubblicato quattro libri che non sono stati tradotti in italiano, Ma in Italia c’è un pubblico che ti è molto affezionato, fin dalla tua biografia del Che, Senza perdere la tenerezza.
Sì ho quattro libri che non ho pubblicato in Italia negli ultimi sei anni, o giù di lì. Una delle cose che devo fare in questo prossimo viaggio è mettermi in contatto con case editrici. Ho un paio di libri che, direi, sono interessanti dal punto di vista della mia lunga relazione con i lettori italiani. E poi sto scrivendo un nuovo romanzo poliziesco.
Vorremmo vedere pubblicato in italiano anche il tuo libro autobiografico Los alegres muchachos de la lucha de clasess” (“ Gli allegri ragazzi della lotta di classe), come ha preso forma?
E’ una narrazione personale, a volte biografica, a volte collettiva, a volte corale, a volte fatta di aneddoti che avevo voglia di tracciare sulla carta per non dimenticarli. Una specie di battaglia con la memoria, che svanisce.
Encuentro con Taibo e Barbero
Con la serie dell’investigatore Belascoarán Shayne (protagonista anche di un suo recente libro) ha rinnovato il noir in chiave politica. Mentre con libri come Senza perdere la tenerezza ha raccontato figura di Che Guevara, restituendocene il lato con opere come Patria e il progetto in corso di Controstoria degli Stati Uniti, smaschera l’imperialismo Usa ridando coscienza e memoria ai popoli latini. Su left abbiamo avuto molte volte il piacere di intervistarlo, in particolare in occasione dell’uscita del El Álamo (che smonta un mito cardine della narrazione nazionalista statunitense) e poi per il suo omaggio a Salgari in chiave politica e anticolonialista, con il romanzo Ritornano le tigri della Malesia. E di nuovo in occasione dell’uscita di Patria, trilogia storica che ricostruisce in modo dettagliato, rigoroso e accessibile la storia del Messico tra il 1854 e il 1867, un periodo cruciale segnato dalla resistenza contro l’intervento francese. Anche a partire da questi fili storici si dipana il suo dialogo con Alessandro Barbero il 2 giugno al Festival Encuentro a Castiglion del Lago, moderato da Left, dalle 18,30 in Palazzo della Corgna
ROMA – PRESENTAZIONE DEL LIBRO ‘ RITORNANO LE TIGRI DELLA MALESIA ‘. NELLA FOTO SIMONA MAGGIORELLI E LO SCRITTORE PACO IGNACIO TAIBO
In apertura. Foto di una manifestazione Pro Gaza a margine del festival Encuentro. Foto di Giovanni Dozzini. Qui sopra Paco Iganzio Taibo II e Simona Maggiorelli
Gaza non esiste più, è una terra desolata, dopo un anno e sette mesi di attacchi indiscriminati contro la popolazione civile palestinese, come vendetta su un intero popolo, all’indomani dell’attacco criminale di Hamas del 7 ottobre 2023 contro civili israeliani; un’azione terroristica, in cui furono uccise 1200 persone e 240 prese in ostaggio, che abbiamo condannato da subito.
La risposta del governo israeliano non è stata di legittima difesa. È stata ed è una sistematica azione di sterminio di donne, vecchi e bambini. Indagini dell’Onu, di Ocha, di riviste scientifiche prestigiose come The Lancet, di Human Rights Watch e altre fonti autorevoli, parlano di oltre 50mila palestinesi uccisi, di cui almeno 17mila minori, in gran parte bambini. Come ha detto l’ex generale dell’Idf, Yair Golan, leader del partito di centrosinistra dell’opposizione, criticando duramente la strategia di Netanyahu: «Ormai uccidiamo bambini per hobby».
Le bombe israeliane cadono incessantemente su quel che resta di campi profughi, ospedali, scuole. Il sistema sanitario è collassato, la popolazione è intrappolata, come ci racconta su questo numero il medico di Emergency Andrea Bona nella sua corrispondenza da Gaza, mentre i convogli di aiuti sono bloccati ai valichi come ha potuto documentare l’avvocato Andrea Maestri, tornando a Rafah a un anno di distanza dal suo primo viaggio (da cui è scaturito il suo libro edito da Left, Il penultimo respiro di Gaza). La fame è usata dal governo israeliano come strumento di guerra (dopo aver distrutto completamente il tessuto agricolo e produttivo palestinese) insieme alla deliberata mancata consegna di farmaci e di strumenti sanitari. Come chiamare tutto questo? Già il 26 gennaio 2024, la Corte internazionale di giustizia dell’Aja aveva stabilito che le accuse mosse dal Sudafrica e da molti altri Paesi contro Israele per violazioni della Convenzione sul Genocidio erano «plausibili» e aveva aperto un’indagine, intimando a Israele di «adottare subito tutte le misure possibili per prevenire atti di genocidio». Ma senza esito. Anzi Netanyahu ha fatto l’opposto.
Mentre scriviamo, contractors privati statunitensi, militarizzati e armati, a cui il governo Israeliano ha affidato la distribuzione di aiuti, hanno attirato in zone recintate i civili palestinesi che chiedono acqua e cibo. Sottoposti a sistemi di profilazione digitale (dati biometrici, riconoscimento facciale ecc), vengono schedati. E quando a Rafah la massa di persone disperate ha sfondato le recinzioni, è stata dispersa a colpi di mitra in aria. Secondo le Nazioni Unite, oltre 1,9 milioni di palestinesi, circa l’85% della popolazione di Gaza, sono stati costretti a lasciare le proprie case a causa delle operazioni militari israeliane e delle evacuazioni forzate. Ora saranno attratte in specie di enclave con questo sistema a “calamita”. Per poi essere deportati? Il piano è stato esplicitamente delineato da Netanyahu in un incontro con i riservisti dell’Idf il 13 maggio. «Abbiamo istituito un organo di governo che permetterà [ai civili] di uscire, ma il problema principale è questo: abbiamo bisogno di Paesi ospitanti disposti ad accoglierli. È su questo che stiamo lavorando in questo momento». Come chiamare tutto questo se non pulizia etnica? Questa “soluzione finale” avviene dopo mesi e mesi di attacco fisico e mortale ai civili palestinesi, preceduti da campagne di disumanizzazione. Esponenti del governo israeliano e dei coloni definiscono i palestinesi «animali umani» da eliminare: ipse dixit il ministro della Difesa, Yoav Gallant. Alla luce dei crimini contro l’umanità in corso, quella frase pronunciata mesi fa suona come il manifesto ideologico di un progetto genocidario (secondo la definizione giuridica della Convenzione Onu del 1948, come scrive su Left il giurista Vincenzo Musacchio). Il ministro dell’Agricoltura, Avi Dichter, dice apertamente che è tempo di una nuova “Nakba”, che ricalchi la cacciata dei palestinesi del 1948. Il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, leader dell’estrema destra religiosa aggiunge: «Non ci sarà Gaza senza guerra, Gaza deve essere completamente liberata dai suoi abitanti». Il primo ministro Netanyahu stesso, in più occasioni, ha detto che l’obiettivo è il «completo annientamento di Hamas» anche se comporterà l’eliminazione dell’intera popolazione di Gaza, anche a costo della vita degli ostaggi. Costoro identificano l’intero popolo palestinese con l’organizzazione che governa la striscia dal 2007, non considerando che molta parte della popolazione di oggi è nata dopo la loro vittoria alle elezioni del 2006. Netanyahu è incurante delle proteste che, a rischio della vita, i gazawi hanno portato avanti in questi mesi, e di quelle degli attivisti israeliani di Breaking the Silence e B’Tselem che parlano apertamente di apartheid e genocidio. Messo alla sbarra da accuse di corruzione e per le falle nella security del 7 ottobre 2023, ha orecchie solo per l’estrema destra fondamentalista religiosa che sostiene i coloni armati e che con l’appoggio militare hanno intensificato gli attacchi in Cisgiordania, come racconta nel reportage per Left, Cosimo Pederzoli. Interi villaggi palestinesi sono stati svuotati, agricoltori palestinesi uccisi, perché giudicati un intralcio alla «giudeizzazione completa» dei Territori, in linea con la ebraizzazione dello Stato di Israele avvenuta nel 2018 quando in Costituzione è stato definito «Stato esclusivamente ebraico». Netanyahu si sente forte, specie dopo il ritorno di Trump alla guida degli Usa. Si sente le spalle protette dai suoi aiuti militari e dai suoi annunci di voler prendere possesso di Gaza per farne un resort di lusso, deportando la popolazione palestinese in Libia. Tanto lì, basta pagare per trattenere profughi e migranti in campi lager. Lo sa bene l’Europa, e l’Italia in particolare, che ha stretto accordi con la sedicente guardia costiera libica (fin dai tempi del governo Gentiloni).
Per questo la Ue resta immobile? Da europeisti ci appare inaccettabile. Cosa fa Bruxelles? Si nasconde dietro formule diplomatiche vuote, non censura con forza le violazioni dei diritti umani, i crimini di guerra e le azioni genocidarie dell’esercito israeliano. Non intraprende azioni concrete per fare pressione sul governo israeliano. Che potrebbe fare? Tanto per cominciare potrebbe imporre un embargo militare, interrompere gli accordi commerciali (specie quelli sulle armi), imporre sanzioni, potrebbe sostenere attivamente le indagini delle Corti internazionali sui crimini commessi, potrebbe organizzare una missione internazionale indipendente per garantire accesso agli aiuti umanitari e una conferenza internazionale di pace modello Helsinki. Potrebbe riconoscere lo Stato di Palestina. Più rapidamente potrebbe farsi promotrice del cessate il fuoco e di una conferenza internazionale sulla fine dell’occupazione. Potrebbe proteggere e finanziare gli operatori umanitari sul campo. Anche in risposta alle tante manifestazioni di piazza pro Palestina che in tanti Paesi europei e adiacenti (penso alla Gran Bretagna) in questi lunghi dolorosi mesi hanno visto migliaia e migliaia di persone in piazza; una lunga serie a cui si è aggiunta finalmente quella dell’opposizione italiana indetta per il 7 giugno a Roma. Ed era l’ora, perché peggio della Commissione Ue di Von der Leyen fa il governo di Giorgia Meloni che non ha mai pronunciato parole di condanna dello sterminio e ha stipulato con Israele un accordo per la cooperazione militare mentre a Gaza si scavano fosse comuni. E se i media mainstream si sono allineati facendole da scorta mediatica, per dirla con le parole di Raffaele Oriani, noi no. Continuiamo a fare controinformazione con tutto il fiato che abbiamo. Il genocidio di Gaza non è solo l’annientamento fisico di una popolazione, ma la annullamento della sua esistenza. Fermare questa strage è possibile. Bisogna farlo. Ora.
Trascinarono Ahmad. Allah ti protegga, pensò Loai. I soldati si guardarono soddisfatti, avevano appena avuto la conferma che cercavano: era proprio quello il fidai’i a cui stavano dando la caccia. Perché un fidai’i che consegna a qualcuno la propria kefiah è come un re che consegna ai propri sudditi la corona, come uno scrittore che consegna ai lettori il calamo, come un marinaio che consegna agli avi la propria barca. Era lui il fidai’i e aveva appena consegnato la sua kefiah ai posteri».
È un passaggio chiave de Il ragazzo con la kefiah arancione (Ponte alle grazie) di Alae Al Said, scrittrice nata a Roma di origini palestinesi. Chiave perché ci parla del passaggio di un testimone, dalla vita alla morte, dalla certezza all’oblio, dal terrestre all’eterno.
La parola fidai’i traduce “combattente per la libertà, partigiano”, e il suo plurale, più noto da noi, è fidayyin. Ma questo romanzo non è affatto, ovvero, non è soltanto la storia di chi fa guerriglia. Non è, o non è solo un romanzo di guerra. È, invece, una grande storia di amicizia e di affetto, ambientata in scenari che di rado hanno, negli ultimi decenni, visto la pace.
Sanno e sappiamo tutti che è un genocidio. Lo sa il premier israeliano Benjamin Netanyahu che ha invocato da subito la distruzione di tutto, lo sa il generale a riposo Giora Eiland che già il 19 novembre 2023 consigliava di puntare sulle epidemie più che sulle armi per liberarsi dei palestinesi, lo sanno i tanti giornalisti che da un anno disquisiscono alla tv israeliana se esistano o meno innocenti a Gaza (c’è chi pensa ai neonati, chi ai minori di quattro anni, chi a nessuno). Ma lo sanno anche i tanti studiosi ebrei che – mai citati, raccontati o intervistati dalla grande stampa di casa nostra – si sgolano da mesi per dire che sì, a Gaza, è un genocidio. Uno dopo l’altro Raz Segal, Amos Goldberg, Omer Bartov, Daniel Blatman, Barry Trachtenberg, William Schabas e tanti altri hanno capitalizzato decenni di studi sull’Olocausto per affermare senza riserve che l’orrore di Gaza è, appunto, un genocidio. Loro di qua, dall’altra parte il mainstream italiano ben personificato da Bruno Vespa, che il 21 aprile 2025 tira le orecchie al papa appena deceduto perché lo scorso novembre osò chiedere che si indagasse “con attenzione” se a Gaza fosse o meno genocidio. A Porta a Porta di genocidio non si può parlare: «Però però però, le parole hanno un senso. Genocidio è stato quello nei confronti degli ebrei» è la dotta motivazione che cancella la tragica sorte di sinti, rom, armeni, ruandesi, cambogiani, bosniaci. E palestinesi.