Foto LaPresse - Claudio Furlan
03/03/2021 - Milano (Italia)
Conferenza stampa sul piano vaccinale in Lombardia presso l’auditorium della Regione
Nella foto: Guido Bertolaso
Photo LaPresse - Claudio Furlan
March 3, 2021 Milan (Italy)
Press conference on the vaccination plan in Lombardy at the auditorium of the Region
In the phot: Guido Bertolaso
Guido Bertolaso, il signor Wolf dei turboliberisti, il risolviproblemi che ha solo il piccolo difetto di non riuscire a risolvere i problemi, quello che se fosse giudicato dai voti in pagelle sarebbe da un decennio dietro la lavagna con le orecchie d’asino di cartone, il superPippo in salsa lombarda investito dalla signora Moratti, ieri ha tenuto una mesta conferenza stampa in cui ha indossato la maschera del dimesso e ci ha detto che forse le cose in Lombardia non stanno andando molto bene, riuscendo a partorire una faticosa analisi a cui erano arrivati già tutti da mesi mentre erano in fila dal panettiere.
«Il sistema delle vaccinazioni degli over 80 continua a funzionare male, a creare equivoci, ritardi», ha detto Bertolaso. Incredibile. A me, tanto perché va di moda sempre lo storytelling del giornalista che srotola la sua esperienza personale, capita di essere lombardo con padre lombardo dializzato e ultraottantenne e di avere prenotato sull’apposito sito la prenotazione per la vaccinazione: mi sono detto che un ultrottantenne con i reni ormai saltati e con un’invalidità al 100% sarebbe stata una priorità. Niente di niente. Per dire: non mi è arrivato nemmeno il messaggio di scuse per il ritardo. Chissà, forse Fontana ha riconosciuto il numero, mi sono detto.
Comunque ieri Bertolaso ha anche dato una grande lezione di sociologia dicendo, leggete e tremate:
«La legge dice che gli specializzandi sono chiamati a fare vaccinazioni. Non è facoltativo, è un obbligo. La pandemia di covid è un problema di profilassi internazionale – ricorda Bertolaso – e quindi è compito dello Stato in primis di intervenire. Scriverò al prefetto e gli chiederò di richiedere per la seconda volta, l’elenco degli specializzandi. La prima volta ha risposto un solo rettore».
Non vi basta? Ha anche aggiunto: «Mi basterebbe fare un appello a tutti quelli della mia età e il numero dei medici lo troveremmo subito ma non sarebbe giusto perché per un medico vaccinare è la cosa più nobile da fare. Solo vaccinando risolviamo questa emergenza».
Quindi il prode Bertolaso non è riuscito a risolvere i problemi della Lombardia ma ha trovato i colpevoli: i giovani. A posto così. L’ispettore Bertolaso ha chiuso le indagini. Saluti e baci.
L’incarico a Draghi, tecnico non eletto e con un programma mai proposto al Paese, certifica, al di là di acrobazie verbali, la sconfitta dei partiti, incapaci del compito loro deputato e sancito dalla Costituzione: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».
Al di là degli effetti economici che le scelte di questo governo produrrà, e che già si intravedono con la scelta di Giorgetti al ministero dello Sviluppo economico e non solo, prolifera un pericoloso tarlo che produce una degenerazione profonda nella coscienza sociale: la riproposizione sostanziale, ideologica, del superamento tra destra e sinistra.
Come interpretare altrimenti la convergenza nelle dichiarazioni di esponenti teoricamente politicamente distanti? Zingaretti: «Condividiamo con Draghi la stessa visione». Berlusconi: «Draghi va nella direzione da noi indicata». Salvini: «Con Draghi idea d’Italia condivisa». Questo governo di tutti, “governo dei migliori”, cosa altro racconta al Paese se non il superamento della differenza tra destra e sinistra, che di fatto risulta utile solo al capitale e al neoliberismo, che ha bisogno di mani libere e nessuno a contrastare?
Si legge una sottile, sottaciuta ma robusta linea che contraddistingue questo secolo in perfetta continuità culturale: la parabola del Movimento 5 stelle, né destra né sinistra perché superati; il renzismo che dichiarava di aver fatto le cose più a sinistra di sempre, ma che dialogava con Marchionne e dileggiava il sindacato; i governi Conte che, al di là della personale “figura dignitosa” dell’ex premier, è stato capace di governare con la Lega, poi con il Pd e Leu, e, fosse riuscito, pure con il centro moderato attraverso i responsabili.
Un tempo si sarebbe definito trasformismo, oggi “punto di equilibrio”. Insomma un’impostazione culturale, ideologica, pre-politica che accomuna al fondo tutte queste esperienze: una contaminazione e degenerazione di lungo corso, frutto avvelenato di un centrosinistra occupato ad inseguire il governo per il governo, la famosa vocazione maggioritaria, ma anche di una sinistra subalterna, incapace di affrontare i nodi e le motivazioni della propria esistenza e di contrapporsi a quel filo narrativo.
Mi rifaccio a Pietro Ingrao nel 1989 al congresso di scioglimento del Partito comunista italiano: «…una fase costituente se non vuole essere una fluttuazione verso non si sa dove, suppone che siano almeno identificati e nominati interlocutori visibili; che essi rappresentino forze politiche consistenti; che vi sia almeno un retroterra di lavoro comune con loro e un minimo di intese preliminari … Su quali basi si parla allora di fase costituente?»
Il nodo vero è rimasto quello: chi siamo, chi vogliamo essere, cosa si vuole costruire, con chi. Non affrontare quei nodi, ha portato da un lato alla nascita del Pds, poi Ds, infine Pd, che ancora non sa cos’è né cosa vuole essere. D’altro lato a una sinistra incapace di andare oltre ipotesi costituenti verso soggetti nuovi immaginando che essi risolvano in sé quelle lacune e che restano sempre privi d’identità e d’anima.
Dapprima Leu, chiusa prima ancora di nascere, poi formule di reti per nuove aggregazioni, come la recente e già silente Equologica. O la persino divertente riproposizione di Leu come soggetto politico (Arturo Scotto), escludente però chi ha votato No a Draghi (Sinistra Italiana): un’operazione di appropriazione, una Leu sostanzialmente costituita dal solo Mdp-Articolo 1, e quindi altro rispetto l’iniziale (la ricomposizione di diverse anime della sinistra), utile forse solo a dribblare difficoltà di presentazione delle liste (tecnicismi) essendo simbolo già presente in Parlamento: opportunismo contingente, non progettualità.
Insomma, ci troviamo di fronte a questioni profonde che in 32 anni non sono state affrontate né risolte e perciò senza tentare di ripensarsi e riappropriarsi di una funzione storica. È da qui che nasce il mio No al governo Draghi: non si può sempre dire di sì in nome di opportunismi dal fiato corto per mascherare l’assenza di analisi, di proposta e di prospettiva. La sinistra, tutta, purtroppo, è ferma ancora al 1989 e all’orizzonte non si vede un altro Ingrao.
*-*
L’autore: Lionello Fittante è cofondatore associazione politico-culturale #perimolti ed è membro del movimento politico èViva
Per le strane alchimie figlie di questo governo, in conferenza stampa, a presentare il nuovo Dpcm firmato da Mario Draghi, c’era l’inimmaginabile coppia Gelmini-Speranza, roba che sembrava fantascienza fino a qualche settimana fa e che invece improvvisamente è diventata digeribilissima se non addirittura godibilissima per alcuni commentatori.
A proposito, vale anche la pena ricordare cosa si diceva circa l’utilizzo dello strumento del Dpcm da parte del governo precedente. Matteo Renzi una volta disse: «L’ultimo Dpcm è uno scandalo costituzionale. Non possiamo calpestare i diritti costituzionali. Trasformiamolo in decreto». Sui Dpcm protestavano Salvini, protestava proprio Gelmini e il centrodestra (per voce di Giorgia Meloni) diceva: «Il Parlamento non decide più nulla, ci sono quattro persone che si chiudono in una stanza e decidono del futuro di milioni di persone. E che decisioni poi… questo non è più tollerabile». Perfino la neo ministra Cartabia quando non era ministra ci andò giù dura: «La nostra Costituzione non contempla un diritto speciale per gli stati di emergenza ed anzi la nostra Repubblica ha attraversato varie situazioni di crisi, a partire dagli anni della lotta armata, senza mai sospendere l’ordine costituzionale». Sabino Cassese fu ancora più pesante: «Prima o poi anche la Consulta boccerà le misure anti Covid del governo Conte … allora si riconoscerà che i Dpcm e i decreti sono illegali».
Draghi utilizza lo stesso strumento ma non si levano voci di protesta, del resto molti dei critici di prima ora sono al governo quindi va bene così. E anche le misure restrittive indicate come “dittatura sanitaria” rimangono più o meno le stesse eppure questa volta tutti si sentono magnificamente liberi e soddisfatti. Magie della propaganda, evidentemente. Il fatto che il primo Dpcm di Draghi sia di fatto la prosecuzione dei Dpcm precedenti con in più una stretta sulla scuola non infiamma nessuno. Tutto bene.
In compenso molti commentatori hanno sottolineato come il presidente del Consiglio abbia deciso di non presenziare alla conferenza stampa facendo notare come questo atteggiamento indichi la rinuncia a personalismi. E infatti ieri c’erano Speranza e Gelmini. Ieri la ministra Gelmini ha parlato di scuola, lei proprio lei, quella che la scuola l’ha affossata a colpi di tagli ieri ha parlato alla nazione, impunita, inaspettata, di nuovo, nel 2021, di scuola. Ma non solo: la berlusconiana, con uno stile di cui faremmo anche volentieri a meno, ha trasformato la conferenza stampa in un piccolo comizietto politico (non ce la fanno a trattenersi, da quelle parti) continuando a rivendicare una presunta “discontinuità” (la parola magica per accarezzare i suoi elettori), spiegandoci che questa volta non si è arrivati all’ultimo momento ma che il Dpcm fosse già pronto da venerdì (quindi gli altri quattro giorni sono serviti ad apparecchiare la conferenza stampa, probabilmente) e soprattutto rivendicando una maggiore collaborazione con gli enti locali. Sarà per questo che l’Anci e alcune regioni hanno criticato il Dpcm un minuto dopo.
È il solito trucco di cambiare la lente per convincerci che sia cambiato il paesaggio. Bene così.
Foto Mauro Scrobogna /LaPresse
05-07-2020 Roma , Italia
Cronaca
Manifestazione Stati Popolari - rendere visibili gli invisibili
Nella foto: Immigrati braccianti dell'agricoltura in Piazza San Giovanni
Photo Mauro Scrobogna /LaPresse
July 05, 2020 Rome, Italy
News
Popular States demonstration - making the invisible visible
In the picture: Agricultural laborers immigrants in Piazza San Giovanni
«Ho lavorato dalle 9-10 del mattino alle 5 del pomeriggio per piantare cavolfiori. Non so quante piantine c’erano in ogni cassetta ma una cassetta copriva un intero filare. E per ogni cassetta ci davano 1,5 euro che dividevamo in tre. Alla fine della giornata, scontati i 5 euro del trasporto, mi restavano 15 euro», spiega una bracciante. «Siamo in grado di ispezionare efficacemente gli impianti di confezionamento o le serre, ma sui terreni è tutta un’altra storia. Un pezzo di terra può essere affittato da qualcuno e poi affittato a sua volta ad una terza persona. A quel punto chi è responsabile per i lavoratori irregolari? Chi è il loro datore di lavoro?», aggiunge un ispettore del Lavoro.
Potrebbero essere testimonianze raccolte in uno dei tanti epicentri dello sfruttamento del lavoro in agricoltura disseminati nello Stivale. Principalmente nel Mezzogiorno, ma – come ormai sappiamo – non solo lì. E invece no. La bracciante, Catalina, nicaraguense senza permesso di soggiorno, lavora nei campi di Murcia, la regione spagnola posizionata ad Est, che coi suoi quasi 470mila ettari di terreni agricoli è conosciuta come la huerta d’Europa, l’orto d’Europa. Mentre l’ispettore, Petros, lavora in un’unità che opera sotto la guida del ministero del Lavoro del governo greco. Entrambi i nomi, per ovvie ragioni, sono fittizi.
Le loro testimonianze parlano di una realtà, quella del lavoro nero nelle campagne, omogenea nel Sud del Vecchio continente, pur considerando alcune peculiarità particolari. E che necessiterebbe di risposte immediate, forti, non solo in ambito nazionale ma pure sul piano europeo. A raccogliere queste voci, assieme ad analisi, dati, reportage dal campo, ci ha pensato l’associazione ambientalista Terra!, all’interno del recentissimo report: E(U)xploitation. Il caporalato: una questione meridionale. Italia, Spagna, Grecia. Autori delle tre sezioni, con focus sui rispettivi Paesi: Fabio Ciconte e Stefano Liberti, Mariangela Paone, Apostolis Fotiadis, con la curatela di Maria Panariello.
Il quadro che emerge con estrema chiarezza si compone di drammatiche consonanze: «Innanzitutto c’è un livello diffuso di lavoro grigio che fa paura – spiega a Left Fabio Ciconte, portavoce di Terra! -. In Italia ci sono aziende che pagano i lavoratori senza segnare tutte le giornate. In questo modo i datori risparmiano, hanno in mano un pezzo di carta, il contratto, utile in caso di controllo e possono tenere sotto scacco i lavoratori immigrati che hanno bisogno di dichiarare un certo reddito per restare in Italia o per chiedere il ricongiungimento familiare. Ma dinamiche simili si riproducono nel resto dell’Europa del Sud. C’è poi il cottimo. C’è la questione della tratta e degli abusi sessuali sulle lavoratrici agricole migranti. C’è la crescita delle agenzie interinali, che in Spagna somigliano a caporalato legalizzato, e catalizzano il 75% dei contratti del settore. C’è poi la figura del caporale, presente soprattutto da noi e in Grecia, dove viene chiamato mastoura. Ci sono agenzie di certificazione che non riescono a garantire il rispetto dei diritti dei braccianti. Ci sono da un lato le difficoltà dello Stato nel controllare il rispetto delle leggi e, dall’altro, i vuoti normativi».
Ultimi ma non ultimi, ci sono gli squilibri economici di filiera. La madre di tutte le disuguaglianze, le storture e le violenze nei campi del Mezzogiorno europeo. «Assistiamo alla presenza di un panorama agricolo fatto spesso di piccoli produttori, atomizzato, incapaci di farsi valere di fronte ai grandi oligopoli della distribuzione che possono così imporre le proprie condizioni e di una cultura imprenditoriale ottocentesca – descrive Ciconte -. Laddove queste circostanze si sommano, si creano inevitabilmente sacche di sfruttamento».
Volete un’immagine per sintetizzare tutto ciò? «Questa estate – aggiunge ancora il portavoce – proprio nei giorni in cui moriva Eleazar Blandón, bracciante nicaraguense che lavorava a cottimo sotto il sole a 44 gradi alla raccolta di cocomeri, in Italia una delle più grandi catene di discount lanciava la promozione delle angurie a un centesimo al kilo. I due fatti non sono correlati ma restituiscono la misura delle sperequazioni nella filiera».
Non tutto, però, è perduto. Il rapporto, visto in controluce, presenta anche un elemento incoraggiante. Se il problema del caporalato è europeo, la risposta può e deve essere collettiva, oltrepassando i confini nazionali. Per questo è importante fare rete, unire lavoratori e opinione pubblica, per fare pressing affinché si allarghi il terreno dei diritti.
A questo proposito, è bene ricordare che entro maggio i Paesi Ue dovranno recepire la direttiva sulle “pratiche sleali” che punta ad arginare le pesanti condizioni che la grande distribuzione organizzata impone ai fornitori. Mentre la legge per dire stop alle aste al doppio ribasso, fortemente voluta da Terra!, si trova al momento alla Camera in seconda lettura. «L’iter, se ci fosse la volontà politica, si potrebbe concludere in pochi giorni», dice Ciconte.
Si tratta di partite importanti, per la tutela dei diritti dei lavoratori. E non sono però disconnesse, come si potrebbe pensare, rispetto alla lotta contro la crisi ambientale. «Sono due facce della stessa medaglia – chiosa il portavoce di Terra! -. L’agricoltura è uno dei settori che ha più responsabilità come emissioni di CO2 e violazioni dei diritti umani. Dobbiamo riuscire a tenere unite le due tematiche, perché non sempre accade. Sulla Politica agricola comune europea, la Pac, stiamo vincendo da un lato e perdendo dall’altra. Riusciremo probabilmente a far inserire la clausola sociale – che prevede l’erogazione dei fondi previo rispetto dei contratti dei lavoratori – ma non le clausole ambientali, finendo col replicare lo schema precedente gradito all’agroindustria».
La chiamano transizione ecologica. È la sfida che si vorrebbe compiere con una parte del tesoretto del Recovery plan. Sfida e ostacolo all’unica idea di sviluppo aggressivo e disuguale che abbiamo da decenni. Oggi il tema è sulla bocca di tutti anche grazie ai soldi in arrivo dall’Europa. Per molti è solo una pezza al presente obsoleto e inquinante che ha l’ambizione, dicono i vip europei, di rimettere in moto uno sviluppo sostenibile per raggiungere l’obiettivo del taglio delle emissioni di gas serra del 55 per cento entro il 2030 cercando di arrivare alle emissioni zero per il 2050.
Ma nel dibattito c’è un grande assente, ed è l’agricoltura, o meglio, un nuovo modello di agricoltura che potrebbe essere un asset per ri-progettare l’Italia in linea con il Green deal.
L’Italia si conferma al primo posto in Europa per il valore della produzione delle attività agricole connesse (trasformazione, vendita diretta, agriturismo, ecc.) e al terzo posto, dopo Francia e Germania, per il valore della produzione in generale. È anche un Paese, però, che ha 3,5 milioni di ettari di terreni inattivi che potrebbero essere riconvertiti a pascoli o in coltivazioni, ma che giacciono vittime dell’abbandono delle zone rurali per i centri urbani. Un problema, e pure grosso. Soprattutto perché per l’Italia l’agricoltura è un settore trainante dell’economia, che potrebbe avere a disposizione molti più terreni di quanti già ne abbia, con tutte le conseguenze positive in termini di crescita e di occupazione. Sembra, insomma, che il nostro Paese non creda ancora che il settore agricolo possa avere una valenza strategica per una nuova economia.
Le decisioni che saranno prese nei prossimi mesi possono “bloccare” i…
Il conto alla rovescia è iniziato: ArcelorMittal ha ormai meno di 60 giorni per spegnere l’area a caldo dell’acciaieria Ilva di Taranto. Così ha deciso la prima sezione del Tribunale amministrativo di Lecce alla luce del rischio sanitario derivante dalle tossine emesse dagli impianti produttivi. Ma la verità è che il conto alla rovescia per la riconversione ecologica d’impianti produttivi come lo stabilimento siderurgico di Taranto è iniziato molto prima: quando l’Ipcc (Intergovernmental panel on climate change) nel 2018 ha avvertito che dobbiamo dimezzare le emissioni climalteranti entro il 2030 e raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Infatti l’Ilva è la più grande fonte di emissioni di CO2 in Italia, se si includono nel calcolo anche le due centrali termoelettriche Cet2 e Cet3 asservite al ciclo siderurgico. Stiamo parlando di emissioni nell’ordine di circa dieci milioni di tonnellate di anidride carbonica all’anno: un vero e proprio climate monster.
Le acciaierie di Taranto non sono però solo un problema sanitario e climatico ma anche una realtà industriale che rischia di essere incapace di produrre profitti a lungo termine. Per tale ragione urge una chiusura programmata a fronte di un investimento ingente da parte dello Stato e dei privati e una riconversione economica accelerata in grado di garantire la continuità salariale e reddituale dei dipendenti. Una proposta che va in tale direzione è l’istituzione di un Tecnopolo mediterraneo per lo sviluppo sostenibile per fare di Taranto una Silicon Valley delle energie rinnovabili. Ma sebbene lo stanziamento di fondi per tale progetto risalga al 2018, i governi Conte 1 e 2 lo hanno lasciato lettera morta. La presa in carico dell’implementazione di questo progetto potrebbe rappresentare l’opportunità per il nuovo ministero della Transizione ecologica di dimostrare il cambio di passo rispetto al precedente dicastero.
Invece che pensare la tutela dell’ambiente e le politiche economiche come due ambiti a sé stanti, il…
*-*
Gli autori: Lorenzo Fioramonti è docente universitario e deputato, iscritto al gruppo misto. È stato ministro dell’Istruzione, dell’università e della ricerca nel governo Conte II. Riccardo Mastini è dottorando di ricerca in Economia ecologica ed Ecologia politica presso l’Istituto di scienze e tecnologie ambientali dell’Università autonoma di Barcellona
Foto Mauro Scrobogna /LaPresse
25-02-2021 Roma, Italia
Cronaca
MISE - tavolo su vaccini covid 19
Nella foto: Domenico Arcuri, Commissario straordinario COVID-19 al Ministero dello Sviluppo Economico
Photo Mauro Scrobogna /LaPresse
February 25, 2021 Rome, Italy
News
MISE - table on covid 19 vaccines
In the photo: Domenico Arcuri, COVID-19 Extraordinary Commissioner to the Ministry of Economic Development
Siamo ancora in quel momento in cui l’eliminazione delle pedine precedenti viene considerata una vittoria, dove ad esempio le dimissioni forzate di Domenico Arcuri bastano per fare esultare elettori e per infervorare capi di partito che si appuntano la medaglia il merito della cacciata (su Arcuri sono Renzi e Salvini, curioso nevvero?) e dove “basta non vedere più certe facce” per sentirsi già meglio, secondo alcuni. Il governo Draghi è all’inizio della sua opera, sentimentalmente è ancora acerbo e il profumo della vendetta continua a spirare. Però alcuni fatti incontestabili si scorgono.
Innanzitutto in meno di una settimana Mario Draghi ha cambiato le persone apicali a cui è affidata la missione contro la pandemia. Non è una scelta di poco conto, soprattutto in un Paese che piuttosto avrebbe mediato, spacchettato e mischiato le competenze per tenere in bilico assetti nuovi e quelli passati. Di questo gli va dato atto: si è preso la responsabilità di imprimere una svolta (per ora almeno sui nomi e poi naturalmente anche sulle dinamiche) della distribuzione del vaccino e della gestione dell’emergenza. Ieri ha preteso le dimissioni del commissario straordinario all’emergenza Domenico Arcuri, prima aveva sostituito il capo della Protezione civile Angelo Borrelli richiamando Francesco Curcio e al coordinamento dei servizi segreti ha messo il capo della polizia Franco Gabrielli, al posto del diplomatico Piero Benassi.
Qualcuno in queste ore ci dice che la dipartita di Arcuri (che per ora cade perfettamente in piedi visto che è e rimane a capo di Invitalia) sarebbe “una vittoria della destra”: falso. Arcuri è, forse sì, uomo molto stretto a Giuseppe Conte ma le osservazioni sul suo operato sono arrivate da più parti. È l’Arcuri che ha fallito su tutta la linea con l’app Immuni, è l’Arcuri dei banchi a rotelle tra l’altro arrivati persino troppo tardi, è l’Arcuri delle costose e inutili primule come centri vaccinali, è l’Arcuri sempre tronfio in conferenza stampa che non rispondeva ai giornalisti o se rispondeva lo faceva con una querela, è l’Arcuri soprattutto che c’entra con l’inchiesta della procura di Roma per traffico di influenze illecito nell’acquisto di 1,25 miliardi di euro in mascherine cinesi intermediato da un giornalista Rai in aspettativa, Mauro Benotti, che ha ottenuto 12 milioni di euro per la mediazione che ha avuto 1282 contatti con Arcuri tra gennaio e maggio 2020. Insomma Arcuri ha molto da spiegare e molto da farsi perdonare e anche su queste pagine ne abbiamo scritto spesso.
Ieri sui social girava una card di pessimo gusto di PiùEuropa (quelli che dovrebbero essere seri) che diceva “ciao #Arcuri” con la scritta “Liberisti da divano te salutant”. Salviniani e renziani hanno esultato sbracciandosi. Siamo ancora nel tempo del rancore. E intanto ci ritroviamo pezzi di esercito a gestire la pandemia, con l’aria di un’idea militarizzante che ricorda tanto ciò che fa Bolsonaro in Brasile. E a nessuno viene il dubbio che per quel compito ci sarebbe, proprio per sua natura, ad esempio anche la Protezione civile. Ma quando finirà la voglia di rottamazione, finalmente, osserveremo e giudicheremo i risultati.
Cinque anni fa con un piccolo gruppo di amiche e amici pensammo di organizzare una festa a sorpresa per i sessant’anni di Pietro Greco. Ero molto eccitata all’idea di vedere la tipica espressione di Pietro quando riceveva un complimento. Un’espressione di contentezza trattenuta, che gli faceva rimpicciolire gli occhi e non trovare subito le parole per dirlo. Il giorno stabilito ci trovammo nella sala della chiesa valdese in piazza Cavour a Roma e quando Pietro arrivò lo presi per il braccio per portarlo al tavolo dove c’era un microfono. In quel breve tragitto, io avanti, lui dietro, io agitata, lui calmo, mentre tutti applaudivano e persino i festoni di carta si muovevano rumorosi, Pietro si avvicinò al mio orecchio e sussurrò: «Lo sapevo sai. Sapevo di questa festa a sorpresa».
Ecco Pietro era così: intelligente, generoso, mite (qualità riconosciute all’unisono da tutti coloro che lo hanno incontrato), ma anche attratto irresistibilmente dal poter smontare qualcosa che viene data dagli altri per scontata. Anche fosse solo una festa a sorpresa. Poi mi confessò che Carlo Bernardini (quanto manca anche la sua voce) gli aveva telefonato per scusarsi del fatto che non avrebbe partecipato alla sua festa a sorpresa. Perché anche Carlo Bernardini era così: refrattario al superfluo e concentrato sul necessario. La festa fu bella e tra noi amici ogni tanto ce la raccontavamo per tirarci su. Pietro Greco come amico e come intellettuale è stato un motore propulsore in ogni ambiente che ha attraversato. Dove c’era lui accadeva sempre qualcosa, fosse solo cambiare titolo a una festa tra amici. Come giornalista (lo ha ricordato in questi giorni Cristiana Pulcinelli) era un distruttore di false notizie. Come studioso e scrittore costruiva costantemente reti di persone, di significati, di conoscenze. Come insegnante faceva scuola, esercizio molto raro in questi tempi. Come uomo aveva una costante attitudine a guardare al futuro.
A differenza di molti suoi coetanei e non, Pietro Greco sapeva riconoscere l’innovazione, senza esibire l’entusiasmo del neofita, né criticarla a priori, ma capace di confrontarsi con essa usando la calma del ragionatore e la curiosità del ricercatore. Recentemente aveva scritto – da cronista come diceva lui – di come era cambiata la sua vita personale, la sua vita quotidiana, la sua vita sociale con la pandemia. (La vita dopo il/la Covid-19 a cura di Manuela e Alberto Redi, Ibis). Quello che colpiva in questo racconto di un inedito Pietro privato, era il giudizio sulle tecnologie digitali. «Non sono e non vorrei sembrare un apologeta acritico delle nuove tecnologie» scriveva. E aggiungeva: «Molte sono le “speranze infrante”, per usare un’espressione di Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia, dell’era digitale. Ma in questo contesto e per quanto mi riguarda non mi limito a ringraziarle, le benedico».
Con l’uso delle piattaforme, dei social e dei diversi device, Pietro Greco diceva di aver potuto mantenere durante la pandemia tutte le sue attività, migliorando i prodotti e godendo del tempo liberato per la famiglia. Era la conferma che il distanziamento sociale è e deve rimanere solo distanziamento fisico. E che partendo da questo potevamo e dovevamo riflettere su come ricostruire la nostra comunità. Cosa più di questo narrare di sé può dare il senso del lavoro intellettuale di Pietro Greco? Un lavoro inteso prima di tutto come disciplina di vita, e poi vocato alla ricerca storica mai fine a se stessa, o apologetica, e sempre legata a comprendere l’oggi e a prepararci per il futuro.
Qualche giorno prima della sua morte mi aveva chiesto cosa Radio3 stesse preparando per l’anniversario dantesco di quest’anno: i settecento anni dalla morte del sommo poeta.
Anche in questa occasione, come era stato per anniversari di altri illustri umanisti (Leopardi, Rodari per citarne due assai diversi tra loro) Pietro scavava, leggeva, studiava e scriveva. Mi disse che gli sarebbe piaciuto raccontare Dante Alighieri come un comunicatore culturale. A partire dal Convivio, Dante auspicava che tutti potessero accedere al sapere anche quelli che non avevano studiato. Questo auspicio secondo Pietro è ancora oggi l’obiettivo principale di una buona comunicazione scientifica. Credo che Pietro stesse scrivendo un libro su Dante, e fosse pronto a raccontarlo alla radio. Purtroppo non ha fatto in tempo.
Così noi di Radio3 abbiamo provato a ricordare Pietro continuando, a modo nostro, il suo lavoro, riprendendo argomenti a lui cari e mimando quel suo sguardo sempre di insieme e sempre indirizzato alla comprensione del presente.
Sul nostro sito raiplayradio.it possono essere ascoltate e scaricate cinque Lezioni per Pietro. Cinque i temi: cittadinanza scientifica, diversità umana, ruolo della storia della scienza, la scienza e le donne, arte e scienza. Cinque i relatori e relatrici scelte tra coloro che hanno condiviso con Pietro Greco questi valori: Elena Cattaneo, Giovanni Destro Bisol, Walter Tocci, Elena Gagliasso e Bruno Arpaia.
Sono convinta che per chi ha letto i suoi scritti, ascoltato le sue puntate alla radio, oppure lo abbia avuto come insegnante, la scomparsa di Pietro sia stata la brusca frenata di un percorso di conoscenza e di consapevolezza. Pochi, in questo cammino, sapevano stargli al fianco. Ma ognuno di noi, nel proprio piccolo, seguiva a suo modo una strada tracciata.
Ora si tratta di riprendere a seguire quelle tracce costituite da alcuni concetti universali: il valore della conoscenza, l’attitudine al rigore, la propensione alla comunicazione aperta a tutti, l’impegno per la democrazia.
In questo libro sono raccolti alcuni degli articoli che Pietro ha scritto per Left. I temi ricalcano i suoi valori e le sue curiosità: la ricerca di base, la cittadinanza scientifica. Poi l’indefesso lavoro di intreccio tra letteratura, poesia, arte e scienza. E il suo impegno affinché la conoscenza sia un diritto garantito a tutti. Ogni articolo segue e rispetta il suo metodo di scrittura. Pietro scriveva molto.
Sosteneva di essere affetto da una strana malattia, «la sindrome scriptoria senile» – per cui diceva – «più passano gli anni più aumenta la quantità di libri che scrivo».
Nella scrittura Pietro si dimostrava generoso con i lettori e fedele a se stesso. Si parla di ciò che si conosce, per cui in ogni articolo o saggio o conversazione pubblica era evidente che Pietro Greco seguiva la sua regola aurea: prima si studia, poi si scrive quindi si racconta.
Vorrei citare, infine, un articolo in particolare, come caso-studio, esempio di come lavorava Pietro. L’articolo è recente, è stato pubblicato ad aprile scorso, ed è dedicato a Trotula, scienziata dell’anno Mille, prima donna medico in Europa dopo essersi formata alla celebre Scuola medica salernitana. Divenne nei secoli un personaggio nascosto e misterioso. Un anno prima della pubblicazione di questo articolo e anche del libro Trotula. La prima donna medico d’Europa (L’Asino d’oro, 2020), Pietro ed io ci trovammo a partecipare insieme a Padova, alla cerimonia finale del Premio Galileo. Lo incontrai in un bar seduto davanti a un caffè, con in mano un libro dall’aspetto inequivocabile di libro di biblioteca. Cosa leggi?- gli chiesi. E lui, a sua volta: «Conosci Trotula ? È una storia che merita di essere raccontata. La sto studiando».
Allora capii. Che scrivesse sul treno o leggesse in un bar, Pietro in questi momenti non poteva essere disturbato. Non lo celava e se lo anticipavi lasciandolo solo, ti sorrideva come un gatto. Sì, a me sembra che i gatti sorridano, talvolta.
*-*
L’autrice: Rossella Panarese è stata per anni autrice e conduttrice di Radio3Scienza
*-*
La presentazione del libro di Left “La lezione di Pietro Greco. Quando la divulgazione scientifica è un’arte” – 20 febbraio 2021:
Students focused on the study in a public library. They’re all wearing protective face mask due to pandemic outbreak.
Se il discorso del presidente del Consiglio Mario Draghi al Senato può essere considerato il manifesto programmatico del nuovo governo, allora per quanto riguarda la scuola sarà l’istruzione tecnica al centro dell’azione del ministero nei prossimi mesi. Draghi ha fatto riferimento agli Its, Istituti tecnici superiori. In Francia e in Germania, ha detto, «sono un pilastro importante del sistema educativo». Il Piano nazionale di ripresa e resilienza, ha aggiunto, riserverà agli Its un miliardo e mezzo, «20 volte il finanziamento di un anno normale pre-pandemia».
Eccoli, dunque gli Its, la scommessa del sistema scolastico del futuro. Rappresentano, fuori dall’alveo universitario, l’apice della formazione tecnico-professionale. Un universo frastagliato che meriterebbe più attenzione e guida a livello centrale: l’ultimo “girone”, in fondo, è rappresentato dai corsi di formazione professionale gestiti dalle Regioni – “regalo” della riforma del Titolo V del 2001 – ed erogati da soggetti privati accreditati: quindi un sistema diseguale e perennemente in un cono d’ombra. Poi, salendo, troviamo gli istituti professionali che con la riforma Gelmini sono stati deprivati di ore in discipline basilari come Italiano, Storia dell’arte, Lingue straniere e poi, più su, gli istituti tecnici statali molto simili ai licei e infine, dopo il diploma di scuola superiore, si arriva finalmente agli Its. Nati sotto il governo Prodi con il Dpcm del 25 gennaio 2008, sono la prima esperienza italiana di formazione terziaria legata direttamente al mondo produttivo. Così legata che le imprese figurano dentro le fondazioni che li organizzano insieme agli enti locali, alle università e agli istituti del sistema scolastico statale. E dentro le aziende è prevista la presenza degli studenti per il 30 per cento delle ore complessive, così come il 50 per cento dei docenti viene dal mondo del lavoro.
Entrati in funzione nel 2010, attualmente sono 107 suddivisi in corsi biennali o triennali in 6 aree tecnologiche “strategiche”: dall’efficienza energetica al turismo, dal sistema casa, meccanica e moda alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. In dieci anni di attività non hanno prodotto grandi risultati. Il diploma tecnico superiore corrisponde al V livello del quadro europeo, corredato, si legge nel sito dell’Indire, dall’Europass diploma supplement. Ma a quanto pare non risulta un titolo di studio attraente visto che, come afferma lo stesso ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi nel suo libro Nello specchio della scuola (Il Mulino) gli iscritti in tutta Italia nel 2020 erano poco più di 15mila.
«Ci troviamo in una situazione abbastanza incompiuta», dice Carlo Salmaso, membro della Lip scuola e insegnante in un istituto tecnico di Padova che fin dal 2010 ospita una delle diramazioni dell’Its Meccatronico veneto di Vicenza. «Lo spunto iniziale aveva una sua logica e il lavoro dei primi anni è stato migliore rispetto al periodo successivo. Allora c’era una…
Foto Cecilia Fabiano/LaPresse
04 febbraio 2021 Roma (Italia)
Cronaca
Murales di Harry Greb che ritrae Matteo Renzi che stringe la mano a Mohammed bin Salman
Nella foto: il murales in una via del centro Mercati di Traiano
Photo Cecilia Fabiano/LaPresse
February 04, 2021 Roma (Italy)
News
Harry Grab painting figure Matteo Renzi shaking the hand of Mohammed bin Salman.
In the pic: the paint in a roman centre alley
«È così egocentrico che se va a un matrimonio vorrebbe essere la sposa, a un funerale il morto». Rubo le parole che Longanesi dedicò a Malaparte per provare a raccontare come Matteo Renzi abbia pensato di risolvere la questione dei suoi rapporti a pagamento con il principe ereditario Mohammed bin Salman.
Ricapitoliamo. Nel pieno della crisi di governo (da lui provocata) Matteo Renzi conduce un’intervista con il principe saudita in cui magnifica il regime, magnifica il principe (lo chiama più volte “amico mio” e “grande” principe), basta guardarsi il video dell’intervista, parla di un «nuovo Rinascimento» e addirittura ammette di invidiare “il costo della lavoro” dei sauditi. Tutto questo alla modica cifra di 80mila euro (o dollari, Renzi non ricorda esattamente) all’anno.
Quando esce la notizia del suo essere al soldo del principe saudita lui si difende, piuttosto goffamente, dicendo che rientra tutto nella sua normale attività di “conferenziere”: falso. Conferenziere non significa essere pagato per contribuire alla ricostruzione di una credibilità che i sauditi faticano a mantenere: molti grandi gruppi dei media – come New York Times e Cnn – dopo l’omicidio di Khashoggi, editorialista del Washington Post, hanno boicottato la Future Investment Initiative del principe bin Salman. L’ingaggio di Renzi evidentemente è tornato molto utile per coprire un buco che altri non erano disposti a coprire. È legale? Sì, purtroppo, perché in Italia (e solo in pochi altri Paesi) c’è un evidente buco legislativo. È legittimo? Ognuno ha la sua idea.
Poi accade che Renzi, incalzato, affermi letteralmente: «Prendo l’impegno di discutere con tutti i giornalisti in conferenza stampa dei miei incarichi internazionali, delle mie idee sull’Arabia saudita, di tutto; ma lo facciamo la settimana dopo la fine della crisi di governo».
La crisi di governo si è risolta e intanto Biden ha reso pubblico il rapporto dell’intelligence Usa che conferma la diretta responsabilità del principe saudita nell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi. Una brutta botta per il leader di Italia Viva.
Arriviamo finalmente a questi ultimi giorni, Renzi risponde, bene, e come risponde? Intervistandosi da solo. Badate bene: aveva parlato di «discutere con tutti i giornalisti in conferenza stampa» ma furbescamente si inventa l’autointervista per avere a che fare con l’unica persona di cui è interessato e che stima davvero: se stesso. E che fa? Mischia le carte, come molti dei suoi fan sui social in queste ore, confondendo attività politica e attività professionale personale. Il trucco è quello di equiparare l’attività politica di rappresentanti politici in carica (su cui poi ci sarebbe parecchio da scrivere) con il suo lavorare per la propaganda di regime di un Paese straniero mentre è senatore pagato dai cittadini italiani. Peccato che su questo punto il Renzi giornalista non abbia avuto la prontezza di interrogare il Renzi intervistato. Scrive Renzi che è «giusto e anche necessario» avere rapporti con l’Arabia Saudita, Paese «baluardo contro l’estremismo islamico e uno dei principali alleati dell’Occidente da decenni» confondendo il lavoro diplomatico con l’attività di un privato cittadino. Insomma, il solito Renzi.
Nella sua risposta ovviamente non cita mai il principe (non sia mai, che non si irriti “amico mio”), spende ancora parole d’elogio per la famiglia reale saudita ma si dimentica di farsi la domanda sugli interessi economici dei sauditi in Italia e in Europa. Che distratto. Sarebbe stata una bella domanda. In compenso si fregia di pagare le tasse, come se fosse una cosa straordinaria. Grandioso.
E infine, come sempre, la butta sul vittimismo politico: questo però è sempre un classico. Renzi infine rivendica di essere sempre pronto a parlare di diritti umani ovunque sia necessario: benissimo, ma ci faccia sapere su mandato di chi e se poi emette fattura. Così ci viene più facile.