Home Blog Pagina 439

Rita Bernardini: C’è un’epidemia di disumanità contro le persone in carcere

Nel momento in cui andiamo in stampa Rita Bernardini, storica esponente del Partito radicale e presidente di Nessuno tocchi Caino, ha appena sospeso dopo 35 giorni lo sciopero della fame intrapreso per chiedere al governo misure urgenti per svuotare le carceri in questo momento di emergenza sanitaria. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha infatti deciso di incontrarla il 22 dicembre. A lei dal 10 novembre scorso si erano uniti a staffetta circa 3.500 detenuti, 200 docenti di diritto penale, personaggi del mondo della cultura come Luigi Manconi, Sandro Veronesi, Roberto Saviano.

Innanzitutto come sta?
Quando lo sciopero della fame dura da più di un mese, si raggiunge uno stato di grazia, una forza interiore che è difficile riscontrare nella normalità quotidiana. Ho perso circa dieci chili e mi sono nutrita alla Pannella con tre cappuccini al giorno, un paio di caffè e tanta acqua.

Ancora una volta si ritrova a dover intraprendere una iniziativa nonviolenta per i diritti dei detenuti. Cosa chiede alle istituzioni?
Al governo e al Parlamento chiedo di varare urgentemente misure volte a ridurre sensibilmente la popolazione detenuta. Le strade possono essere tante. Da quella che noi, come Partito radicale, privilegiamo perché più efficace: una legge di amnistia e di indulto, o altre misure che comunque facilitino l’accesso alle misure alternative al carcere e che riducano il tempo di permanenza nelle illegali patrie galere italiane.

Che fine hanno fatto le migliaia di braccialetti elettronici che avrebbero potuto mandare a casa in questa situazione di emergenza migliaia di detenuti?
È uno scandalo tutto italiano: decine di milioni di euro per non…


L’intervista prosegue su Left dell’18-24 dicembre 2020

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

La stalla e il verme

Ci sono stalle fuori dai presepi che si portano addosso delle storie che sanguinano. Nel piccolo comune di Ischia di Castro, in provincia di Viterbo, dentro la stalla ci stavano uomini, braccianti. Solo che non erano uomini, no, erano cani, vermi, servi, li chiamavano così i loro “datori di lavoro” che li pagavano 1 euro all’ora per giornate che potevano durare fino a 17 ore nei campi.

Dormivano nelle stalle, in alloggi umidi e malsani che sarebbero sporchi anche per delle bestie. Non esistevano nemmeno i giorni: festivi, straordinari, turni notturni erano compresi nel prezzo, porzioni di lavoro da regalare al proprio padrone. Gli investigatori scrivono che «lo sfruttamento della manodopera è stato reso possibile dalla determinazione con cui la famiglia imprenditrice ha sfruttato le condizioni delle vittime, spesso quasi ai limiti dell’indigenza, fino ad assoggettarli completamente, poiché cittadini stranieri per lo più soli, con le famiglie da mantenere nei loro luoghi di origine, bisognosi della paga che veniva loro elargita come unica forma di sostentamento ed isolati dal resto della comunità, poiché di fatto impossibilitati per mancanza di tempo e di mezzi con cui muoversi ad uscire dall’azienda in cui vivevano e lavoravano».

Qui non c’è nessun bambinello. C’era un 44enne albanese, che si chiamava Petrit Ndreca e che avrebbe dovuto essere morto in auto con alcuni suoi famigliari. Questa è stata la versione dei fatti riportata ai carabinieri dopo la chiamata, solo che le forze dell’ordine si sono insospettite per la presenza sul posto anche dei due imprenditori agricoli e hanno avviato le indagini. Così alla fine la verità è venuta fuori: Petrit è morto in modo indegno all’interno dell’azienda dopo avere accusato un malore e i suoi datori di lavoro con le minacce sono riusciti a convincere i suoi famigliari a trasportarlo lontano da lì avvolto in una coperta. «Il corpo di Petrit è stato trattato come quello di una pecora», ha raccontato il cognato quando è crollato di fronte ai carabinieri. E così si è scoperto che nelle stesse condizioni di Petrit lavoravano altre 17 persone.

Quella stalla è il presepe della schiavitù che si consuma e della vita umana cha non vale niente. Se poi lo schiavo è straniero e senza documenti allora il gioco viene fin troppo facile. Auguri, a tutti.

Buon giovedì.

Qualcuno morirà, pazienza

Intervenendo all’evento “Made for Italy per la moda” l’imprenditore e presidente di Confindustria Macerata Domenico Guzzini ha detto, in uno stentato italiano: «Ci aspetta un Natale molto magro, stanno pensando di restringere ulteriormente. Questo significa andare a bloccare un retail che si stava rialzando per la seconda volta dalla crisi e lo stanno mettendo nuovamente in ginocchio. Io penso che le persone sono un po’ stanche e vorrebbero venirne fuori. Anche se qualcuno morirà, pazienza. Così diventa una situazione impossibile, impossibile per tutti».

Insomma, se muore qualcuno, pazienza, dice Guzzini, riuscendo nella mirabile impresa di dire piatto piatto, senza i soliti giri di parole e senza troppe edulcorazioni quello che pensa una buona fetta dell’imprenditoria italiana. Tra salute e profitto il profitto vince, il profitto interessa, il profitto conta.

Inquietante anche il tentativo di difesa di Claudio Schiavoni, presidente di Confindustria Marche che dice testualmente: «Non scuso le affermazioni di Guzzini, ma dico che oggi anche gli imprenditori sono sotto stress perché, comunque, stiamo portando avanti la carretta, stiamo facendo di tutto e di più per tenere in piedi le nostre aziende e quindi, ripeto, non giustificando queste parole, dico che in momenti di tensione si possono anche dire cose che uno non pensa, magari anche preso dalla foga o inserito in un altro discorso». In sostanza questi imprenditori, poveretti, si fanno prendere dalla foga e inciampano sui morti. C’è da capirli, eh.

Ma alla domanda “come siamo potuti arrivare fino a qui?” c’è una risposta semplice semplice: accettando anche solo di mettere sullo stesso piano salute e profitto, perdendo il senso dell’indecenza di fronte a chiunque usi questa bilancia. Come se avessimo perso il senso della misura. E così nel momento in cui abbiamo accettato la contrapposizione tra le due cose abbiamo sdoganato le vittime collaterali del fatturato, quelli che in questi mesi sono andati in fabbrica, sui mezzi pubblici, nei supermercati. Abbiamo accettato che ci fossero vittime collaterali. Non è mostruoso?

Accade da anni e noi non siamo ancora riusciti a mettere in discussione il nocciolo del discorso. Che è un nocciolo sbagliato. E ci convincono che debba per forza andare così.

Buon mercoledì.

Regole, non paternalismi

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 08-12-2020 Roma , Italia Cronaca Affollamento e shopping Nella foto: La frequentata via del Corso con la presenza di un Babbo Natale in monopattino e positivo nel pensiero Photo Mauro Scrobogna /LaPresse December 08, 2020  Rome, Italy News Crowding and shopping In the photo: The busy Via del Corso with the presence of a Santa Claus on a scooter and positive in thought

È un’oscillazione continua, un tira e molla tra due fazioni che evidentemente non hanno il senso di responsabilità di sedersi e parlare ma che si divertono moltissimo a giocare nell’una e nell’altra parte. Nella discussione di questo 2020 di pandemia si sviluppa un gioco sottile di paternalismi da parte di una classe dirigente che non ha il coraggio di mettere regole e che lascia spazio a tutte le ciance possibili immaginarie.

L’ultima in ordine di tempo è la sorpresa (ma davvero ci si può sorprendere?) di aprire negozi, ristoranti e bar a pochi giorni dal Natale e stupirsi che la gente frequenti negozi, ristoranti e bar. E quindi lamentarsene per essere già pronti a trovare i colpevoli in caso di terza ondata. Dopo i runners, dopo i passeggiatori con il cane, dopo le discoteche estive ora arriveranno i camminatori natalizi. E così via, in un continuo paternalismo che diventa insopportabile, solo per mettersi nella posizione poi di poter dire “l’avevamo detto” ma senza il coraggio di averlo fatto.

«I cittadini fanno quello che è consentito loro di fare. Se negozi, bar e ristoranti sono aperti, perché non dovrebbero uscire, andare a fare shopping (in più c’è il cashback), pranzare fuori o prendersi un caffè? Cosa ci si aspettava? Troppo facile prendersela con loro», ha scritto ieri il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, uno che con i morti, molti morti, ha dovuto averci a che fare quest’anno.

Il sogno recondito di questi è che le attività commerciali possano incassare senza gente in giro, riuscire a trovare un algoritmo per cui le persone escano solo giusto il tempo per riempirsi il carrello, ridisegnare la socialità completamente appiattita sul fatturato, solo quello.

Mentre in Germania si prendono decisioni impopolari qui da noi ora è un rincorrersi alla “responsabilità dei cittadini” come se il compito della politica fosse eccitarla piuttosto che regolamentarla e governarla. Ci sono molte persone senza mascherina? Benissimo, ci sono regole da fare rispettare e che si facciano rispettare. Ci sono assembramenti? Si controllino gli assembramenti. Si multino gli irregolari e gli irresponsabili.

Ma la politica deve decidere le regole e deve trovare i modi per farle rispettare, troppo facile limitarsi alle ramanzine.

Tutto questo, ovviamente, con l’aggiunta di un pezzo di popolo che del senso di responsabilità se ne fotte da sempre, mica solo con il Covid.

Buon martedì.

Il dilemma di Teheran

TEHRAN, IRAN - SEPTEMBER 21: A man, wearing a face mask as a preventive measure against the coronavirus (COVID-19), walks past a mural depicting the Statue of Liberty as daily life continues in the country after U.S. administration announced reimposing sanctions on Iran which were lifted by the United Nations Security Council (UNSC) within the nuclear deal struck with Iran, on September 21, 2020 in Tehran, Iran. (Photo by Fatemeh Bahrami/Anadolu Agency via Getty Images)

Per gli iraniani il 2020 si chiude così come si è aperto: con un omicidio extragiudiziale e tensione bellica alle stelle. Il 3 gennaio all’aeroporto di Baghdad un drone statunitense aveva centrato l’auto su cui viaggiava il generale Qassem Soleimani, capo dell’unità Al Quds delle Guardie rivoluzionarie. Il 27 novembre un’operazione da remoto del Mossad israeliano ha ucciso Mohsen Fakhrizadeh, scienziato responsabile del programma per l’energia nucleare del Paese.
Due omicidi compiuti al di fuori della legalità internazionale, dal fronte israeliano-statunitense, ad appena due mesi dall’uscita dalla Casa Bianca del presidente più filo-Tel Aviv di sempre, Donald Trump. Tra un’operazione e l’altra, sulla Repubblica islamica sono piovute altre sanzioni finanziarie e commerciali, le più pesanti e severe mai applicate contro un Paese nell’era contemporanea, come le ha definite il segretario di Stato Mike Pompeo. In piena pandemia. Il risultato è un Paese internazionalmente isolato (dell’Unione europea non c’è pressoché traccia) e preda di tensioni sociali interne con pochi precedenti. Ed è un Paese in attesa: il 20 gennaio entrerà in carica Joe Biden che davanti avrà l’occasione di reindirizzare la politica Usa verso l’Iran.

Resterà da vedere quanti pozzi brucerà Trump in queste ultime settimane, prima di chiudere il sipario: «Fakhrizadeh, al di là di qualsiasi propaganda di regime, era un civile – ci spiega Stella Morgana, ricercatrice e docente di Storia contemporanea dell’Iran alla Leiden University e di Storia e politica del Medio Oriente all’Università di Amsterdam -, Israele ha assassinato un cittadino iraniano in Iran, una violazione della sua sovranità. Questo omicidio, ingiustificato dal diritto internazionale, ha lo scopo di polarizzare l’Iran internamente ma soprattutto rispetto agli Stati Uniti. Vuole garantire che l’amministrazione Biden non sia in grado di resuscitare l’accordo nucleare iraniano. È volto a sabotare un ritorno a quell’accordo e di conseguenza alle relazioni Usa-Iran che nel 2015 stavano andando verso uno storico scongelamento».

«Sicuramente ci sarà una risposta e probabilmente accadrà quanto successo con l’omicidio Soleimani», ci spiega Maziyar Ghiabi, docente e ricercatore in Scienze politiche alla Soas, Università di Londra e Università di Exeter. «Ovvero lo Stato iraniano si assumerà il diritto di risposta: non un atto nascosto o di sabotaggio, ma un attacco formale come quello compiuto in Iraq contro le…


L’articolo prosegue su Left dell’11-17 dicembre 2020

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

La cupidigia dei due Mattei

«Hai visto? Gli ho fatto il mazzo!». Non sono due discoli in mezzo a una strada dopo qualche bighellonata, no, è Matteo Renzi che incassa soddisfatto i complimenti dell’altro Matteo, Salvini, che si congratula con lui per avere bastonato Conte in Parlamento e avere incrinato il governo. Una scena simbolica, per niente inaspettata.

Vi ricordate quando, mesi fa, qualcuno faceva notare le assonanze dei due Mattei? Vi ricordate come si offesero le rispettive tifoserie, convinti davvero che i due fossero distanti come mimavano? Eccoli qui, ora: la coppia perfetta con la loro danza macabra che si inventa una crisi di governo nel giorno in cui l’Italia diventa il Paese europeo con più morti in assoluto. Si assomigliano in molte cose i due Mattei, parecchie.

Sventolano entrambi la “responsabilità” per incassare qualcosa. Lo fanno entrambi. Renzi appicca una polemica sulla cabina di regia del Recovery Fund (che contiene dubbi intelligenti che vale la pena discutere) ma poi come suo solito lascia andare la frizione e si ributta a frugare per trovare un posticino al sole buttando all’aria tutto. L’altro Matteo leghista invece parla da sempre di “buon senso” ma è solo una perifrasi per provare a riprendersi lo spazio che si è mangiato con il suo suicidio politico.

Hanno giocato entrambi con la salute cianciando di libertà. Matteo Salvini, greve come sempre, sventola addirittura l’ombra della dittatura sanitaria mentre Matteo Renzi gioca a fare il turboliberista per anteporre il fatturato alla salute. Due lati diversi di uno stesso modo di pensare: per loro i decessi sono i naturali effetti collaterali del loro modo di vedere il mondo. A loro va bene così. E non è un caso che invocassero le riaperture con gli stessi tempi.

Entrambi temono le elezioni. Renzi sa che con il suo partito da zerovirgola rischierebbe di contare per quello che effettivamente conta, poco o quasi niente, e quindi punta a monetizzare le dimensioni dopate dalla sua scissione in corso d’opera. Salvini sa che di non essere più il padrone del centrodestra e ha capito da tempo che Meloni e Berlusconi non sono più disposti a incoronarlo re. E infatti in nome della “pacificazione nazionale” propongono un governo nuovo (meglio: propongono loro al governo) senza passare dalle elezioni.

Entrambi non si capisce bene cosa vorrebbero. Se scorrete le loro dichiarazioni risultano chili di errori addossati agli altri ma non si vede bene quale sia la proposta. O meglio: si capisce che si propongono come soluzione, non si sa con quale strategia.

Entrambi hanno la memoria corta. Renzi da padrone del Pd urlava contro gli scissionisti e se la prendeva con i piccoli partiti che mettono a rischio i governi. Se l’è dimenticato. Salvini invocava elezioni a ogni piè sospinto e ora si abbandona ai giochi di palazzo addirittura invocando quel Mattarella che ha vilipeso per mesi.

Fantastici. Uguali. Una coppia perfetta, appunto.

Buon lunedì.

Giorgio Zanchini: Il giornalismo di qualità che serve oggi

Come è cambiato il ruolo delle riviste culturali dopo la rivoluzione digitale? Come e quanto ha inciso la pandemia su questo prezioso settore, creativo, colto, ma di nicchia? Come tutelare e valorizzare il lavoro di ricerca di storiche e nuove testate fuori dal coro, minacciate dalla potenza economica di un mainstream schiacciasassi? Sono alcune delle domande che abbiamo rivolto a Giorgio Zanchini, scrittore, conduttore radiofonico e televisivo ma anche condirettore del Festival del giornalismo culturale. Da poco è uscito un suo nuovo libro, scritto con Giovanni Solimine, dal titolo Cultura orizzontale (Laterza), che offre un’indagine a tutto campo sul ruolo della cultura ai tempi del cosiddetto uno vale uno. Da qui siamo partiti per capire quali processi ha messo in moto questa lunga emergenza sanitaria. «La pandemia ci ha messo davanti agli occhi un fatto: la centralità assoluta del web. Da vent’anni a questa parte ormai internet ha cambiato l’offerta culturale. La pandemia ha accelerato ulteriormente questo processo. Ora, tutto si è acuito», nota il conduttore di Radio Anch’io e di Quante storie su Raitre.
«La domanda di fondo è quella che suggerisce Valdo Spini – osserva Zanchini – ovvero come far sopravvivere il ruolo di stimolo al dibattito pubblico che hanno avuto le riviste nel secondo dopoguerra. Allora sono state determinanti per l’avanzamento della riflessione collettiva dando vita a veri e propri laboratori interdisciplinari».

Il ruolo delle riviste culturali come fucine di idee e di dibattito è ancora vivo oggi?
La risposta è articolata. La rivoluzione digitale ha portato abbondanza di risorse. Nel dopoguerra erano scarse. La cultura, il dibattito, passavano dalle riviste, le classi dirigenti dialogavano anche attraverso quegli strumenti. Oggi abbiamo un eccesso di contenuti, per altro in larga parte gratuiti. La produzione è enorme, la dispersione lo è altrettanto e la nostra capacità di attenzione è limitata. Qui sul tavolo ho radunato un po’ di contributi, La testa altrove (Donzelli) di Enrico Campo e Otto secondi (Il Saggiatore) di Lisa Iotti, viaggio nell’era della distrazione, solo per citarne due.

Una lotta impari per le riviste culturali?
Devono competere in un territorio ampio e rischiano di rimanere schiacciate tra i social (il luogo più frequentato dai giovani) e la stampa mainstream che durante la crisi del Covid sono emersi come centrali, come del resto la tv. E sappiamo che in Italia ci sono pochi lettori. Si compete per…


L’intervista prosegue su Left dell’11-17 dicembre 2020

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

L’importante è partecipare

«Se noi chiudiamo, i ragazzi perdono tutto. E non solo perché non potranno più allenarsi. Quando hai vissuto in un contesto che non ti ha dato nulla, nel momento in cui hai l’opportunità di avere spazi come il nostro, è come se ti si aprisse un mondo. Un faro nel buio delle istituzioni».

Giulio Bartolini è il preparatore atletico della Palestra Popolare Valerio Verbano, situata nella periferia nord di Roma, nella borgata del Tufello, e le sue parole ci portano all’interno di una delle realtà sociali che più ha subito le conseguenze della pandemia: lo sport popolare. Da quando il Dpcmc del 18 ottobre ha stabilito la chiusura di tutte le palestre e i campionati dilettantistici di sport di contatto, definendoli non essenziali, è entrato in profonda crisi un intero settore che il Coni valuta attorno ai 60 miliardi e a quasi il 4% del Pil italiano. Ma il danno di cui vogliamo parlare non è solo di carattere economico. In luoghi fragili come le nostre periferie, attanagliate da problemi con in primis la dispersione scolastica decine di migliaia di realtà sportive non professionistiche riempiono il vuoto lasciato dallo Stato attenuando il senso di emarginazione e le infiltrazioni della malavita organizzata. Realtà come la Palestra Popolare Valerio Verbano attraverso la diffusione e la promozione dello sport sono diventate a tutti gli effetti dei veri e propri baluardi di legalità e valori sociali.

«Esistiamo da 12 anni – racconta Bartolini – e la Palestra è nata in seguito all’occupazione dei locali delle ex caldaie di alcune case popolari del Tufello». Questo presidio porta il nome di un giovane antifascista del quartiere, ucciso nel 1980 in un agguato squadrista. Nella palestra si allenano 300 ragazzi e ragazze che frequentano corsi che vanno dalla boxe alla ginnastica artistica e che porta molti di questi a gareggiare in campionati regionali e nazionali. Ma quest’esperienza, a causa dell’emergenza da Covid 19 e delle restrizioni per contenerla, oggi rischia di sparire.
«Quando a marzo è arrivata la pandemia ci siamo subito resi conto che non saremmo stati in grado di affrontare le inevitabili restrizioni, erano troppo proibitive. Una situazione che nessuno conosceva e non sapevamo come gestire. Il nostro pensiero si è concentrato sulla salute dei ragazzi prima di tutto, tanto vero che abbiamo chiuso subito» continua a raccontare Giulio che ha vissuto tutti i suoi quarant’anni nella borgata e considera i suoi allievi come una seconda famiglia. Nella sua struttura ci si iscrive non solo per fare sport ma anche per studiare e incontrarsi, con la partecipazione dei genitori e della comunità. Ma gli unici aiuti che la palestra ha ottenuto fin ora dallo Stato sono quelli erogati ai collaboratori sportivi, 600 euro una tantum. «Lo sport nelle periferie lo facciamo noi o almeno quello che noi intendiamo come attività sportiva che trasmette un valore. Se non ci bloccano gli affitti e il pagamento delle utenze questo mondo è destinato a morire».
Ci spostiamo ora in Toscana. Il Centro storico Lebowsky è una cooperativa sportiva calcistica dilettantistica ad azionariato popolare, situata nella periferia di Firenze, fra Tavernuzze e Impruneta. Nata con l’idea di sottrarsi alle logiche imprenditoriali che appiattiscono il mondo dello sport, conta circa 800 soci che di fatto sono anche i proprietari.
Schierava, fino al blocco di ottobre, ben 5 squadre di calcio che militano dalla prima categoria fino alle amatoriali, di cui 2 femminili, ed ha una scuola calcio totalmente gratuita nel centro storico del capoluogo toscano. Tommaso Gamannossi, socio e allenatore del Centro storico Lewbosky, vede perdersi, man mano che passano i mesi, l’obiettivo primario della sua associazione: riscoprire il senso di aggregazione che sia lo sport che gli spazi urbani non riescono più a fornire. «Stiamo soffrendo, atrocemente. Perché per tante delle centinaia di persone che formano la nostra Cooperativa, la «ricompensa» per il tempo, le energie e i soldi spesi nella cura del nostro progetto, sono dati dalla socialità e dallo stare insieme. Il virus ha azzerato tutto questo».
Però secondo Tommaso e i suoi soci non tutto è perduto: «Si può immaginare un calcio diverso che recuperi la propria funzione sociale nel territorio che lo ospita? Noi pensiamo di sì. Attorno alla capacità di risposta che porteranno a braccetto istituzioni e comunità, si giocherà la sopravvivenza di tante società nei prossimi mesi!»
Se è vero, come abbiamo detto, che lo Stato di fatto delega al privato un settore fondamentale per la salute psicofisica dei cittadini come lo sport, vanno anche sottolineate le eccezioni.
L’azienda pubblica di servizi alla persona Asilo Savoia è una di queste. Gestisce, finanziandosi con bandi pubblici e utilizzando strutture sottratte alla criminalità organizzata, realtà fondamentali nel macrocosmo della periferia romana. A Ostia sul litorale romano c’è per esempio la Palestra della legalità. È stata aperta nei locali confiscati a Mauro Balini, re decaduto del porto turistico del X Municipio e ora in carcere per associazione a delinquere e bancarotta fraudolenta. Ai corsi sono iscritti 1200 persone, di cui il 20% a titolo totalmente gratuito, mediante un accordo con i servizi sociali e il municipio.
«L’esistenza di questo spazio ad Ostia è importante» commenta Francesco Tittolo, responsabile della struttura. «Le realtà sportive di arti marziali ben si prestano ad essere strumentalizzate dalla criminalità che ne detiene il monopolio per poi utilizzare gli atleti nella riscossione del pizzo».
La Palestra della legalità affianca all’insegnamento dello sport anche una formazione professionale sportiva, per proporre un futuro e non abbandonare gli atleti dopo la fine dell’attività agonistica. Adesso i corsi sono chiusi ma fin da marzo con il primo lockdown sono state istituite lezioni di allenamento tramite una piattaforma on line, per non lasciare «soli» i propri iscritti in questo difficile periodo.
«Questa è una filiera pubblica che si occupa dall’inizio alla fine di un bene, che in questo caso è la palestra. Non è la solita situazione del pubblico che riqualifica e poi lascia a un privato non ben identificato. Non abbiamo una finalità commerciale e non vogliamo fare utile. Noi vogliamo creare un impatto sociale in un territorio abbandonato» conclude Francesco.
Per Libera contro le mafie, associazione che coordina più di 1600 realtà nazionali e internazionali che si occupano di opporre la cultura alla criminalità organizzata e di promuovere la legalità negli spazi dove più frequentemente è oltraggiata, lo sport è un medium fondamentale per parlare con i giovani.
«Lo sport è un bene pubblico e non una cenerentola da chiudere perché non essenziale– racconta Lucilla Andreucci, referente nazionale “sport” per l’associazione -. Dopo la scuola e la famiglia, è la terza via educativa e formativa che possediamo. Possiamo usarlo come ponte per parlare di legalità o far rivivere la memoria degli eroi della lotta alle mafie. Nelle periferie dove i nostri ragazzi vivono una dimensione di solitudine affollata possiamo ricreare aggregazione e appartenenza».
Il quartiere San Lorenzo nella capitale invece non è definibile periferia, ma subisce allo stesso modo la disgregazione del tessuto sociale, causata dalla chiusura di spazi culturali, come il nuovo Cinema Palazzo (sgombrato recentemente dalla Prefettura) e il proliferare incontrollato di attività ricreative che vanno ad alimentare la filiera di quartiere parco giochi per studenti. A resistere e a lottare contro la desertificazione dell’identità civica c’è l’Atletico San Lorenzo.
Ad Andrea Dorno, allenatore di una della squadra di basket della società, preme subito chiarire: «La concezione di sport che proponiamo è totalmente alternativa a quella istituzionale. Deve essere una parte fondamentale della costruzione dell’identità di individuo e cittadino. Ci siamo resi conto che nelle scuole la materia di educazione fisica viene totalmente lasciata a se stessa mentre al di fuori esistono solo modelli iper competitivi e non inclusivi». L’Atletico è un’associazione sportiva dilettantistica popolare che esiste da sette anni ed è basata sulla partecipazione e sull’autofinanziamento. Collabora a vario titolo anche con le scuole elementari del quartiere dove è inserita. «Ci ritroviamo a fare i nostri progetti con più di venti studenti in palestre di pochi metri quadri in periodo di pandemia. L’unica possibilità è aprire allo sport le piazze e le strutture private, ma sono idee che possono passare solo da degli investimenti pubblici e dalle decisioni dettate dal municipio».
Secondo dati Istat in Italia circa il 30% degli sportivi giudica non adeguati i luoghi dove pratica sport; nel Mezzogiorno la percentuale supera il 50%. Se si è un portatore di handicap che abita in una periferia di una grande città meridionale, le possibilità di avere strutture adeguate sono prossime allo zero. Per questo la Onlus Maestri di strada ha aperto dei corsi di sport inclusivo nella periferia est di Napoli. Un’area che non permette una vita semplice alle persone disabili, anche a causa del cono di ombra che rende invisibile allo stato questo territorio. Ma con l’esplosione dei casi di Covid-19 che hanno reso la Campania “zona rossa” tutte le lezioni sono state bloccate, isolando famiglie e portatori di handicap che già di fatto da anni vivevano una condizione di segregazione domestica. Federico Zaccaria, psicologo e collaborare di Maestri di strada ci spiega: «Le attività sono sospese e quindi cerchiamo di mantenere il rapporto con i nostri assistiti come possiamo, per salvare il lavoro fatto fino ad oggi. Per farvi un esempio un ragazzo autistico che ho incontrato dopo la fine del primo lockdown era peggiorato vistosamente, aumentando tutte le sue stereotipie». Il vuoto che si crea con il blocco dello sport in questo caso assume un doppio significato. Si perde sia la possibilità di permettere a chi ha handicap gravi di praticare sport, sia di far uscire le persone dalle proprie case e socializzare. Ma Federico come tanti altri non si arrende: «È una situazione che mette i ragazzi e i loro cari in estremo stato di disagio. Ma questa emergenza non fermerà mai il nostro lavoro, al massimo lo rallenterà».


Il reportage è stato pubblicato su Left dell’11 dicembre 2020

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

 

🆙  Bastano pochi click!

🔴  Clicca sull’immagine oppure segui questo link > https://left.it/abbonamenti

—> Se vuoi regalare un abbonamento digitale, vai sull’opzione da 117 euro e inserisci, oltre ai tuoi dati, nome, cognome e indirizzo mail del destinatario <—

Pena di morte, l’agghiacciante record di Trump

Midazolam, vecuronio bromuro, cloruro di potassio. Poi più niente. No, non sono sostanze stupefacenti o i componenti di una qualche soluzione da scienziato in provetta: sono gli ingredienti che creano il cocktail letale con cui, ancora oggi, vengono portate a termine le esecuzioni capitali negli Stati Uniti d’America, la sedicente più grande “democrazia” del mondo. Prima il midazolam, 500 mg al posto dei 4 di un paziente chirurgico, un sedativo che dovrebbe ridurre al minimo la consapevolezza del condannato; poi il vecuronio bromuro, 100 mg invece di 8, rilassa e blocca i muscoli come il diaframma fermando la respirazione; infine, la terza iniezione a base di cloruro di potassio, che paralizza il cuore. Molto spesso i condannati muoiono dopo la seconda iniezione, ma se ciò non accade, tra la seconda e la terza somministrazione la persona – pur paralizzata senza poter mostrare alcun segno di sofferenza – prova fortissimi dolori e un generale senso di bruciore in tutto il corpo a causa della distruzione delle vene.

L’ultima esecuzione è avvenuta proprio giovedì notte, il 10 dicembre, in Indiana, alle 21.27 ora locale (le 3.27 italiane) in un penitenziario nella città di Terre Haute. Il condannato si chiamava Brandon Bernard. Era stato condannato nel 1999, appena adolescente, per aver partecipato ad un duplice omicidio ai danni di una coppia nel giugno dello stesso anno. Faceva parte di un gruppo di cinque giovanissimi accusati di aver rapinato le due vittime e di averle costrette a salire sul retro della loro macchina in Texas, prima di ucciderle. A fare fuoco era stato un complice diciannovenne di Bernard, Christopher Vialva – già giustiziato in settembre , ed era stata la settima condanna a morte da luglio -, mentre lo stesso Bernard aveva incendiato l’auto. Secondo gli avvocati della difesa, però, le due vittime erano probabilmente morte prima dell’incendio: Bernard avrebbe potuto essere condannato solo per distruzione di cadavere. La pubblica accusa ha sostenuto, invece, che una delle due vittime fosse ancora viva. Non è sfuggito al giogo della critica il fatto che Bernard fosse un uomo di colore, ragion per cui il suo caso è stato subito ricollegato alle proteste per le discriminazioni contro i neri che per tutto il 2020 hanno infiammato le piazze al grido di “Black lives matter”, opposto al “law and order” trumpiano, dopo l’uccisione di George Floyd.

«Mi dispiace, vorrei poter tornare indietro, ma non posso. Queste sono le uniche parole che posso dire che catturino del tutto ciò che provo ora e ciò che ho provato quel giorno», è stata l’ultima frase pronunciata dal 40enne, nei suoi ultimi minuti di vita. Il caso di Bernard è stato sotto l’attenzione di media, politici e celebrità per mesi, per gli innumerevoli tentativi di fermare l’esecuzione. La celebrity e attrice Kim Kardashian tra le personalità più attive per salvare l’uomo, ma anche la rappresentante alla camera Ayana Pressley, dem del Massachusetts. Alcuni avvocati del legal team difensivo avevano chiesto almeno di ritardare l’iniezione per l’ultima volta, di sole due settimane, ma la Corte suprema – in particolare i giudici Stephen Breyer, Sonia Sotomayor ed Elena Kagan – ha respinto la richiesta, stabilendo arbitrariamente data e ora dell’esecuzione. Persino 5 dei 9 giudici ancora viventi che avevano condannato a morte Bernard nel 1999 si erano fatti avanti pubblicamente, dichiarando che, visti gli ultimi sviluppi che provavano un coinvolgimento marginale dell’allora 18enne nell’omicidio della coppia, non lo avrebbero più condannato a morte.

La stessa procuratrice che aveva proposto la condanna si era poi ricreduta sostenendo la commutazione della pena, con un editoriale sull’Indianapolis Star: «Avendo imparato così tanto dal 2000 a oggi sulla maturazione del cervello umano e avendo visto Bernard crescere e diventare un adulto umile e pieno di rimorsi assolutamente capace di vivere pacificamente in prigione, come possiamo sostenere che sia parte di quel piccolo gruppo di criminali che devono essere condannati a morte?».

Bernard era un detenuto modello, in carcere si è infatti dedicato a studiare e a lavorare come volontario a programmi di sensibilizzazione per tenere i giovani lontani dalle gang criminali. L’ergastolo sarebbe stata un’alternativa possibile. Ma negli Usa la pena di morte incontra ancora l’approvazione di una discreta fetta di cittadini. E basta andare a vedere i commenti sotto i tweet in cui proprio Kim Kardashian parlava dell’esecuzione, ahimè, per capirlo.

Sono ancora 28 gli Stati americani in cui la pena di morte è legale, ma un numero crescente di altri – in questo momento 22 -, stanno abolendo la misura, ultimo il Colorado il 26 febbraio 2020. Tuttavia, a quanto pare, nei suoi ultimi scampoli di attività l’amministrazione Trump ha deciso di invertire la rotta. Così il presidente uscente si è trasformato in un vero e proprio giustiziere.

Ci sono ancora tre esecuzioni programmate da qui al 20 gennaio, quando Biden prenderà il suo posto con l’obiettivo dichiarato di mettere fine alla pena di morte federale. Ieri, 11 dicembre, è toccato ad Alfred Bourgeois, colpevole di aver torturato e ucciso la propria figlia di 2 anni, mentre a gennaio saranno giustiziati Lisa Montgomery, che aveva ucciso una donna incinta per rubarle il feto; Cory Johnson, spacciatore, responsabile per il decesso di sette persone; Dustin John Higgs, condannato per aver rapito e ucciso tre donne, omicidi per cui poi è risultato innocente grazie all’ammissione del suo complice reo confesso Willis Haynes.

Trump lascerebbe dunque il suo primo mandato con 13 esecuzioni, il numero più alto dal 1896, quando Grover Cleveland fece giustiziare ben 14 persone. Un’epoca da cui gli Usa si stanno finalmente allontanando. Il clima sta infatti cambiando: nel novembre del 2019 un sondaggio ha rivelato che il 60% degli statunitensi è favorevole a sostituire le esecuzioni con l’ergastolo, una maggioranza non schiacciante ma significativa.

In più l’esecuzione delle condanne a morte è sempre stata sospesa durante la transizione di potere da una presidenza all’altra. È una delle tante regole non scritte – ma rispettata da 130 anni – che disciplinano la complicata realtà delle elezioni americane ma Trump non si smentisce nemmeno durante l’ultimo mese in cui sarà inquilino della Casa Bianca. Vista la ritrosia con cui il Presidente sta accettando – o meglio rifiutando – il risultato delle elezioni, è probabile che non voglia apparire indebolito. Il segretario alla Giustizia Barr afferma invece che solo il Congresso può abolire la pena di morte e che, di conseguenza, «finché c’è, va applicata».

Trump la scorsa estate ha ripreso le esecuzioni federali che erano ferme dal 2003, proprio nel pieno delle proteste razziali. Il suo atteggiamento “law and order” potrebbe servirgli in caso di una futura ricandidatura. E mette in difficoltà Biden. Il quale, va ricordato, nel 1994 aveva sponsorizzato il Crime bill – Violent crime control and law enforcement act -, che aggiungeva ben 60 reati alla lista di quelli che prevedono la pena di morte. Biden ha assicurato di voler bloccare le esecuzioni federali e sollecitare gli Stati a fare altrettanto andando anche contro un eventuale no del Congresso. Potrà utilizzare la grazia, prerogativa tra i poteri del Potus, per commutare in ergastolo le pene dei 53 condannati a morte rimasti, o almeno di quelli che sopravviveranno agli ultimi 40 giorni dell’amministrazione Trump.

Se i poveri non fanno più notizia

Non è vero che il virus ci ha resi tutti uguali: in qualche modo anzi ha ampliato e reso più visibili le disparità sociali, di accesso al mondo dell’istruzione, della casa, del lavoro soprattutto per le donne.  Ce lo stiamo ripetendo come un mantra da settimane, mesi, ma poi il racconto dei media sulle disuguaglianze e sugli effetti della pandemia rischia ancora una volta di oscurare le cause strutturali che determinano vecchie e nuove povertà, così come i soggetti che li subiscono.

Il rapporto I non luoghi dell’informazione, la terza edizione dell’iniziativa Illuminare le periferie curato dall’Osservatorio di Pavia e promosso da Cospe, Usigrai, Fnsi con il contributo dell’Agenzia Italia per la Cooperazione internazionale e da quest’anno anche dall’impresa sociale “Con i bambini”, fotografa bene le sfide per il mondo dell’informazione in Italia.

Oggetto dell’indagine sono stati i telegiornali del prime time delle 7 tv generaliste (i canali Rai,  Mediaset e La7)  da gennaio a settembre 2020 per un complessivo numero di 1918 edizioni. Per la parte di analisi sulla trattazione della povertà e delle marginalità in Italia si è deciso di aggiungere al campione anche le edizioni del prime time dei tg regionali della Rai di dieci regioni italiane, scelte sulla base della rappresentatività territoriale: tre regioni del Nord Italia (Piemonte, Lombardia e Veneto); tre regioni del Centro Italia (Emilia Romagna, Toscana e Lazio) tre regioni del Sud Italia (Campania, Puglia e Calabria) e la Sicilia per le isole. Sono state analizzate tre edizioni al mese per nove mesi per un numero complessivo di 270 edizioni di tg regionali.

Solo l’1% dei servizi dei telegiornali di prima serata – che ricordiamo sono seguiti da circa 8 italiani su 10 –  riguarda le…

*-*

L’autrice: Anna Meli è giornalista ed esperta di migrazioni. È stata promotrice e coordinatrice dell’Associazione Carta di Roma e attualmente è direttrice Comunicazione di Cospe onlus. Ha scritto “Europa Media e Diversità” edito da Franco Angeli nel 2015


L’articolo prosegue su Left dell’11-17 dicembre 2020

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO