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Paola Zannoner: Le fiabe non sono solo orchi e streghe

Conosco Paola Zannoner da molto tempo, da quando a Massa Marittima frequentai il mio secondo corso di scrittura creativa. Allora era già una scrittrice affermata, e tutor di laboratori, con una lunga gavetta alle spalle, iniziata nel 1986 da bibliotecaria nella Biblioteca di documentazione pedagogica di Firenze nel dipartimento di letteratura giovanile. Poi negli anni Novanta ci sono state le collaborazioni alle riviste di letteratura per ragazzi, e quella con la casa editrice Giunti come consulente e formatrice del corpo docente nei progetti di lettura. Nel 1998 la svolta: in contemporanea pubblica due romanzi, un giallo per Mondadori e una biografia per Giunti, che ricevono subito premi e attenzione da parte della critica. Da allora non si è più fermata, e oggi ha all’attivo una cinquantina di libri – presenti nei cataloghi di Mondadori, De Agostini, Giunti, Ediciclo – destinati ai bambini, agli adolescenti e agli adulti. Nel 2018 le è stato assegnato il Premio Strega ragazze e ragazzi con lo straordinario romanzo corale L’ultimo faro pubblicato da De Agostini.

Non è stato facile, scrivere per ragazzi non è “un gioco da ragazzi” nel nostro Paese, dove c’è ancora chi crede che questa sia una forma di letteratura minore, e che invece nelle scuole si dovrebbe far leggere solo “i classici”. Ma se c’è una cosa che s’impara da Paola, prima ancora delle tecniche di scrittura, è il rigore professionale, l’attenzione per il mondo in sempre più veloce trasformazione, e la necessità della ricerca. Doti che, oltre quella della fantasia, le hanno permesso di recente di cimentarsi anche nel romanzo storico per adulti, Il bardo e la regina (De A Planeta), con ottimi risultati.

Ho appena letto il suo ultimo lavoro, edito da Giunti, Ti racconto le fiabe, sapendo che era germinato durante i duri mesi del lockdown. Fiabe conosciute, altre meno, alle quali Paola, come un’antica cantrice, ha tolto o aggiunto particolari, talvolta rispolverando dal passato finali dimenticati. Sarebbe stato facile cadere, nel contesto duro dell’isolamento, nel puro passatempo, nell’incoraggiamento all’evasione, soprattutto per i più piccoli. E invece questo libro è qualcosa di più, anche perché le fiabe non sono solo questo. Hanno preso sostanza dai racconti del popolo, dalle donne al telaio, dalle veglie dei contadini, dalle storie dei marinai e dei mercanti. Si modificano nel tempo ma non troppo, dove le prove da affrontare e le trasformazioni del sé sono una costante. Paola fa anche qualcos’altro: sceglie accuratamente le fiabe partendo dai suoi piccoli destinatari, dalla relazione che ha con loro. Così ogni racconto ha un’introduzione e una…


L’articolo prosegue su Left dell’18-24 dicembre 2020

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Così Joyce vide nel futuro

Cos’è una profezia? Una voce inascoltata? Un testo, scritto o meno, che si verificherà in futuro? E se non succede, ovvero, per tutto il tempo in cui non si sarà verificato, siamo autorizzati a chiamarlo bugia? Una semplice menzogna in progress, magari, oppure una fandonia possibile?
Per definire tutte queste aporie al meglio, c’è bisogno di chiamare in causa e di mettere in discussione l’idea del possibile, e può giovare partire dal suo potenziale opposto, vale a dire l’impossibile. Cos’è allora l’impossibile? Qualcosa che non si può fare, e che non può accadere, o qualcosa che non s’è ancora fatto e che non è ancora accaduto? Sappiamo bene che nella storia della scienza, intesa qui come storia del sapere, tante cose erano reputate impossibili fino al momento della loro realizzazione; il che farebbe pensare che valga la pena indagare in termini profetici, e al netto dei ragionamenti matematici, le visioni cosmologiche di Bruno, ad esempio, o anche le intuizioni di Einstein.

E la letteratura? Può mai essere profetica in uno qualunque dei sensi sopra esposti? Menzognera lo è di sicuro, ce lo insegna Manganelli, e il profetismo messianico nei testi letterari (sempre che nel loro insieme siamo disposti a inserire anche quelli considerati “sacri” da alcune culture), è presente da sempre. Prendiamo le sortes, il metodo divinatorio utilizzato dai romani. Veniva applicato anche a Omero, ma sono certamente più famose le sortes vergilianae, un tipo di bibliomanzia grazie alla quale si leggevano predizioni del futuro nell’interpretazione di passaggi dell’opera di Virgilio.

E nella modernità? In uno dei libri sicuramente più profetici e al contempo più menzogneri di sempre – e per questo più affidabili (non siamo, infatti, che una risposta nel vento, mai udita del tutto, sibilata, e dunque sibillina…), il Finnegans Wake di James Joyce – un libro dei numeri – incontriamo, a pagina 282, riga 12 delle annotazioni di destra, le «sortes virginianae», invenzione divinatoria in cui Joyce probabilmente si fa beffe all’unisono di presunte vergini vestali, e anche di una tra le sue maggiori hater del tempo, Virginia Woolf.
Ora, il Finnegans è un libro che nega la propria fine sin dal titolo (fin +negans), un’opera che niente, è stato detto, potrà mai rendere meno oscura, perché l’oscurità abita la sua ombra profonda. Eppure, da questo abisso, se oggi volessimo trarre un qualche sapere anche in termini di predizione, saremmo facilmente – si fa per dire – accontentati. Questo perché parte da…

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Illustrazioni di Vittorio Giacopini


L’articolo prosegue su Left dell’18-22 dicembre 2020

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Quel “no” di Franca Viola: «Io non sono proprietà di nessuno»

Sono le ultime settimane del 1965. Franca ha 17 anni e vive ad Alcamo, in Sicilia. Un paio di anni prima si era fidanzata con Filippo Melodia, di pochi anni più grande di lei. Il ragazzo però appartiene a una nota famiglia mafiosa locale e quando viene arrestato per furto e associazione mafiosa, il padre di Franca, Bernardo Viola decide di rompere il fidanzamento. Da quel momento iniziano le intimidazioni, gli incendi dolosi e le devastazioni alle proprietà della famiglia Viola. Il padre viene addirittura minacciato con una pistola.
Improvvisamente il 26 dicembre Melodia irrompe nella casa di Franca insieme a dodici suoi amici e la rapisce, portando via anche il fratellino più piccolo, rilasciato poco dopo.

La ragazza viene tenuta segregata prima in un casolare fuori città, poi a casa della sorella dell’ex fidanzato. Viene lasciata a digiuno, in stato di semi-incoscienza, e dopo una settimana Melodia abusa di lei. La famiglia Viola viene contattata per la cosiddetta “paciata” al fine di farla acconsentire alle nozze dei due ragazzi. L’offerta è un “matrimonio riparatore”, una pratica diffusa che nell’Italia degli anni 60 consentiva a chi violentava una donna di estinguere il reato commesso sposando la vittima (articolo 544 del Codice penale). Franca non è più vergine e per la morale del tempo, se non si sposa, sarà additata come una svergognata e presumibilmente nessuno la vorrà più prendere in moglie.

La polizia riesce a scoprire dove viene tenuta prigioniera e i primi di gennaio del 1966 la ragazza viene liberata e Melodia arrestato. Franca non vuole sposare il suo rapitore e stupratore e con la famiglia dalla sua parte rifiuta le nozze e decide di denunciarlo. Quasi un anno dopo inizia il processo presso il Tribunale di Trapani che vede Bernardo Viola costituirsi parte civile al fianco della figlia, sempre presente a tutte le udienze. La storia di Franca diventa un caso nazionale. Il processo non è più solo ai protagonisti della vicenda, ma a tutto il sistema di rapporti di forza dell’uomo sulla donna che stava alla base della società patriarcale italiana del tempo. Un’occasione importante per le donne italiane di rivendicare insieme a Franca la propria libertà. Melodia verrà condannato alla fine a dieci anni, mentre cinque anni e due mesi verranno dati a sette dei suoi complici.
Per la sua storia, per l’attenzione mediatica che attirò, per il dibattito e le polemiche, Franca Viola è…


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Dal Perù all’Argentina, quei predatori di terre e di diritti

FILE - This Nov. 11, 2014 file photo shows a deforested area dotted with blue tarps, marking the area where miners reside, and craters filled with water, caused by illegal gold mining activities, in La Pampa, in Peru's Madre de Dios region. Peru's government declared an emergency across a broad jungle region because of mercury contamination, much of it caused by wildcat gold mining. Photographer Rodrigo Abd of The Associated Press and three other journalists in Brazil, Colombia and El Salvador won the 2016 Maria Moors Cabot Prize, which recognizes excellence in coverage of Latin America and the Caribbean. (AP Photo/Rodrigo Abd, File)

Una lunga coda di 200 camion ogni giorno attraversa il corridoio andino peruviano che parte da Cotabambas, nella regione di Apurimac, transita dalle province di Chumbivilcas e Espinar nella regione di Cusco e arriva sulla costa, al porto di Matarani. Una lunga ferita del territorio peruviano che connette la più grande zona mineraria del Paese dove si trovano le enormi zone estrattive di Las Bambas e di Antapaccay. Le imprese transnazionali Glencore, svizzera, e Mmg (Minerals and metals group), per il 75% di proprietà cinese, qui estraggono rame. Molto rame. Circa il 20% della produzione nazionale, per un giro di investimenti che si stima raggiungerà 20mila milioni di dollari nel 2021. Cifre da capogiro di cui la popolazione locale non beneficia in alcun modo, anzi. «L’aria è irrespirabile, il rumore, l’inquinamento acustico e ambientale è insostenibile – dice Benenacia Valencia Jara, leader indigena che vive da sempre a Velille, provincia di Chumbivilcas -. Questo è sempre stato un distretto agricolo, ma con l’arrivo della miniera, tutto è cambiato, non possiamo coltivare più niente. Il terreno si è inaridito, le fonti d’acqua sparite o inquinate».

Le comunità che abitano questi territori sono solo dei dettagli, dei piccoli ostacoli da spostare – letteralmente – per mandare avanti gli enormi interessi che queste compagnie straniere muovono ogni giorno con la complicità dello Stato che nell’ultimo anno ha visto aumentare il Pil del 7%: nel 2018 il 48% del territorio della regione di Apurimac e il 14,8 % della regione di Cusco erano dati in concessione per attività estrattive. Ovvero in usufrutto quasi gratuito a imprese transnazionali, con tasse bassissime e possibilità di disporre di quelle terre e delle persone che lo abitano in modo indiscriminato, grazie anche alla militarizzazione delle zone e la repressione del dissenso. «Le nostre terre sono inquinate, i nostri animali muoiono, le persone si ammalano e lo Stato cosa fa? Non ci difende. Permette che ci avvelenino. Fa leggi in favore delle imprese. Ci fa arrestare se protestiamo o se chiediamo di essere informati e partecipare alla gestione delle risorse. Ora – conclude Benenacia – è il momento di prendersi delle responsabilità». Le istituzioni statali in effetti potrebbero avere gli strumenti per regolamentare e per arginare questo continuo e sempre più violento sfruttamento delle risorse naturali da parte di imprese straniere, e anche per riparare alle tante violazioni dei diritti umani messe in atto. Dal 2011 l’Onu ha infatti emanato i…

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Aguas para los pueblos è l’iniziativa avviata dal 2019 nell’ambito del progetto europeo “Imprese transnazionali e Principi guida, verso meccanismi effettivi per la protezione dei diritti umani in America Latina”, che vede tra i sostenitori Cospe onlus di cui fa parte Pamela Cioni che firma questo articolo. Nello stesso progetto è stato realizzato il rapporto Analisi dell’applicabilità e efficacia de principi guida Onu in Argentina, Brasile, Perù e Colombia da cui sono estratti i dati dell’articolo di Cioni


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Salute mentale, un diritto sbarrato

In this photo taken on Friday, June 23, 2017, a sailing boat is painted on a wall inside the Terni penitentiary, Italy. Stunned that Berlin market attack suspect spent time in Italian jails, Italy turns to “moderate” imams to discourage radicalization among Muslim inmates. (AP Photo/Gregorio Borgia)

Il sistema carcerario, realtà già di per sé complessa, è stato messo a dura prova dalla natura “democratica” della pandemia. Il coronavirus infatti non fa distinzioni di reddito, colore della pelle, pena da scontare e non risparmia luoghi usualmente dimenticati o lasciati ai margini della società. L’unica possibilità di rallentarne la diffusione è l’attuazione tempestiva di misure di contenimento che, se da un lato hanno tutelato la vita dei detenuti, dall’altro l’hanno resa molto più difficile a causa dell’interruzione di tutte le attività di gruppo, dei colloqui con familiari e legali, dei permessi premio e dei processi. Le restrizioni proposte, figlie di necessità sanitarie in un’ottica di prevenzione, unite al timore di essere contagiati, sono state l’innesco delle rivolte di marzo scorso in diversi Istituti nazionali.

Significative le parole scritte dai detenuti in una delle lettere inviate a Radio radicale: «Viviamo ogni giorno nel terrore di essere contagiati dal virus e morire qui dentro, perché in queste celle sovraffollate è impossibile rispettare il distanziamento… Terrore perché ci sentiamo abbandonati e la nostra incolumità sembra essere lasciata al caso». Fortunatamente, l’adeguamento dei protocolli sanitari per il contenimento della pandemia in concomitanza con la sua evoluzione, ha disteso la tensione e fatto svanire in larga parte quel “terrore” e quello spaesamento iniziale che colpivano non solo i detenuti ma tutti gli operatori in campo.

Un’attenzione particolare è diretta verso i “nuovi giunti” ovvero le persone che iniziano la detenzione; un momento estremamente delicato in cui si crea una frattura tra un “prima” e un “dopo” nella vita di chi ne è coinvolto che può avviare o far precipitare situazioni di vulnerabilità. Per questo motivo è richiesta un’accurata valutazione da parte di diverse figure professionali (lo psicologo, l’educatore, lo psichiatra ed il personale di Polizia penitenziaria) per garantire la presa in carico di persone che sono costrette ad affrontare questo momento di fragilità in completa solitudine a causa dell’isolamento sanitario.

Dall’altra parte i detenuti in cui non si palesa alcuna condizione di “debolezza” o che nel corso della detenzione, magari per buona condotta, meriterebbero una…

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Gli autori: Gli psichiatri e psicoterapeuti Claudia Dario, Alessio Giampà e Francesca Padrevecchi sono dirigenti medici Uosd Salute mentale penitenziaria e psichiatria forense Asl Roma 2 


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Il Manifesto dell’ignominia che affossò la ricerca italiana

Il 14 luglio 1938 il ministro degli Esteri del governo Mussolini, Galeazzo Ciano, annota sul suo diario: «Il Duce mi annuncia la pubblicazione da parte del Giornale d’Italia di uno statement sulle questioni della razza. Figura scritto da un gruppo di studiosi, sotto l’egida del ministero della Cultura popolare. Mi dice che in realtà l’ha quasi completamente redatto lui». L’indomani il Giornale d’Italia sotto il titolo “Il Fascismo e i problemi della razza”, pubblica la prima versione del Manifesto della razza firmato da dieci scienziati italiani, tra cui primeggiano l’onorevole Sabato Visco, direttore dell’Istituto di fisiologia generale dell’Università di Roma e direttore dell’Istituto nazionale di biologia presso il Cnr; il senatore Nicola Pende, direttore dell’Istituto di Patologia speciale medica dell’Università di Roma; Edoardo Zavatteri, direttore dell’Istituto di zoologia dell’Università di Roma. L’incipit del Manifesto è destinato a diventare tristemente famoso: «Le razze umane esistono». Il Manifesto sostiene – con l’avallo di alcuni scienziati ma senza alcuna base scientifica – che l’umanità, appunto, si divide in razze; che queste razze sono diverse per capacità intellettuali dei propri membri; che esiste anche una “razza italiana” la quale, naturalmente, è più capace di altre e bisogna tutelarla da pericolose contaminazioni genetiche. In particolare va tutelata dalle contaminazioni di sangue con una razza palesemente inferiore, quella degli ebrei.

Il Manifesto sulla razza non è un fulmine a ciel sereno. Come ha scritto Pietro Nastasi, storico della matematica, trova agganci in almeno tre diverse istanze presenti nella società italiana. Le istanze di tipo razziale: frutto della esperienza coloniale (1891-1941), che nel 1935 aveva trovato una rinnovata fase propulsiva nell’aggressione all’Etiopia, conclusasi il 9 maggio 1936 con «la riapparizione dell’Impero sui colli fatali di Roma». Le istanze di tipo ideologico, ovvero quell’antisemitismo di matrice religiosa («il veleno di una fede feroce»), cui si aggiunge il concordato del 1929 con cui viene abolita di fatto di fatto la parità dei culti, una conquista dell’Italia liberale. Le istanze di tipo scientifico, frutto del vasto movimento eugenetico che ha trovato nuova linfa dopo la riscoperta delle leggi di Mendel. No, davvero la comunità scientifica italiana non può dirsi esente da colpe. E non solo per via dei dieci firmatari e di qualche zelante adepto. Ma anche e soprattutto perché non seppe opporsi al fascismo. In fondo sette anni prima, nel 1931, solo una ventina di docenti universitari su oltre 1.200 rifiutarono il giuramento di fedeltà al fascismo. Tra loro pochi gli uomini di scienza: il matematico e “padre” della scienza italiana Vito Volterra; il chimico Giorgio Errera; l’antropologo criminale Mario Carrara. Ma torniamo al 1938. L’ignominia intellettuale del Manifesto – che il Duce si vanta di aver contribuito a redigere in prima persona – si traduce ben presto in pratica discriminazione. Già nel mese di settembre il governo di Benito Mussolini vara una serie di leggi che portano alla espulsione degli ebrei dalle scuole e dagli incarichi pubblici. Gli ebrei in Italia nel 1938 erano all’incirca 50mila: lo 0,15 per cento della popolazione. La percentuale di ebrei nelle università era molto superiore. Furono infatti epurati 99 tra professori ordinari e straordinari: il 7,3 per cento delle 1356 cattedre universitarie italiane restarono senza titolari. Furono cacciati anche 191 liberi docenti, 117 dei quali a medicina. Fu davvero una scelta sciagurata, quella del varo delle leggi razziali, da ogni punto di vista: perché ebbe conseguenze tragiche per gli ebrei e i rom; per l’intero Paese che si trovò a praticare una odiosa discriminazione in base alla (inesistente) differenza di razza; e, anche, per la scienza italiana.

L’impatto sulla comunità dei ricercatori fu enorme. Tra i biologi mandati via ci fu Giuseppe Levi, ordinario di Anatomia umana normale a Torino e maestro di tre futuri premi Nobel, tutti conseguiti in America: Salvatore Luria, Rita Levi Montalcini, Renato Dulbecco. Sedici i matematici che persero la cattedra e si ritrovarono senza lavoro. Tra loro persone di fama internazionale, come Federico Enriques, Gino Fano, Tullio Levi-Civita, Beniamino Segre. Altri matematici “ariani”, primo fra tutti il grande Francesco Severi, cavalcarono la tigre Mussolini. Anche con eccesso di zelo. Dodici furono i chimici epurati, tra cui Giorgio Renato Levi, ordinario di Chimica generale e inorganica a Pavia e Mario Giacomo Levi, ordinario di Chimica industriale a Milano. Ma, forse, fu la fisica che pagò il tributo più alto. Le due scuole italiane che in quel momento erano al vertice mondiale – quella di fisica nucleare a Roma, diretta da Enrico Fermi, e quella dei raggi cosmici a Padova, diretta da Bruno Rossi – vennero dissolte. Rossi era ebreo e per di più imparentato con una famiglia invisa ai fascisti, quella di Cesare Lombroso. Enrico Fermi, che proprio alla fine del 1938 ottenne il premio Nobel, aveva una moglie ebrea, Laura. Ed ebrei erano anche due dei ragazzi di via Panisperna. Emilio Segré e Bruno Pontecorvo. Tutti raggiunsero l’America. E l’Italia perse in poche settimane un patrimonio inestimabile. Non è difficile calcolare gli effetti negativi sulla scienza e sulla società italiane di quella successione di eventi. Ci è d’aiuto, fra l’altro, un altro anniversario che ricordiamo in questo medesimo anno: l’ottantacinquesimo anniversario delle leggi razziali di Hitler, che aveva già prodotto conseguenze nefaste in Germania. Cosa era successo, dunque, in Germania esattamente cinque anni prima della scelta di Mussolini? La successione è nota. Il 30 gennaio Hitler viene nominato cancelliere del Reich. Il 27 febbraio fa incendiare il Parlamento (Reichstag). Il 28 gennaio vara il «decreto dell’incendio dei Reichstag» e, in nome della sicurezza nazionale, abolisce molti diritti civili. Il 7 aprile con il «paragrafo ariano» della «legge sul ripristino dell’impiego nel pubblico servizio» obbliga tutti coloro che non sono di razza ariana a lasciare ogni incarico pubblico. In breve l’obbligo viene esteso anche agli avvocati e ai medici “non ariani”, che non possono più lavorare nei tribunali e negli ospedali.

L’idea nazista è che la società tedesca debba essere divisa in due categorie: quella dei Volksgenossen (camerati della nazione), che appartengono alla comunità popolare, e quella dei Gemeinschaftsfremde (stranieri della comunità) che, invece, non appartengono alla storia e alla cultura della Germania. Stranieri della comunità sono: ebrei, zingari, portatori di handicap, asociali. Il 14 luglio 1933 Hitler vara due nuove norme: una riguarda la revoca della naturalizzazione degli ebrei dell’Europa orientale che hanno avuto la cittadinanza tedesca dopo il 9 novembre 1918. L’altra è la sterilizzazione, «anche contro la volontà del soggetto», dei portatori di presunte malattie ereditarie. Negli anni successivi, fino al 1938, c’è in Germania uno stillicidio di leggi che accentuano sempre più le discriminazioni razziali e culminano nella creazione dei lager e nell’inizio dell’Olocausto. Ma già nel 1933 gli effetti di queste leggi sono evidenti. In primo luogo per la cultura tedesca, fino ad allora leader in Europa. Nei giorni successivi al provvedimento di aprile, infatti, ben 1.200 professori universitari (il 14 per cento dell’intero corpo docente) deve lasciare l’insegnamento. La gran parte emigra all’estero, riparando soprattutto in gran Bretagna e negli Stati Uniti. A soffrirne è in primo luogo la scienza. Da Einstein (già andato via) a Max Born, da James Franck a Fritz Haber lascia infatti la Germania una moltitudine di cervelli perché di origine ebrea, quantificata nel 20 per cento degli scienziati e nel 25 per cento dei Nobel scientifici.

Non è solo una diaspora, è un vero e proprio ribaltamento polare. L’asse della scienza mondiale – da tre secoli saldamente centrato sull’Europa – si sposta per la prima volta nel Nord America. Giustamente gli storici americani Jean Medawar e David Pyke hanno parlato di «Hitler’s gift», del più grande regalo di Hitler agli Stati Uniti. Le leggi razziali di Hitler hanno spostato l’asse scientifico del mondo. Nel 1938, quando l’Italia fascista si accinge a copiare la Germania di Hitler, tutto questo è già sostanzialmente evidente. La cultura di una parte decisiva dell’Europa è già stata distrutta. Mussolini vuole dare un proprio ulteriore contributo a quel disastro. È il “Mussolini’s gift” agli Stati Uniti. L’ultima manciata di terra sulla tomba di un’Europa che si accinge a entrare in una guerra devastante. Certo, dopo la guerra ci sarà la ricostruzione. Ma la scienza italiana si riprenderà solo in parte. Ancora oggi a ottant’anni di distanza paghiamo le conseguenze – culturali, ma anche economiche – delle leggi razziali. Quanto all’Europa, anch’essa si riprenderà. Ma la leadership scientifica detenuta per oltre tre secoli ormai appartiene ad altri.

L’articolo di Pietro Greco è tratto da Left del 12 gennaio 2018


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Andrea Orlando: Riformare il sistema penale per applicare la Costituzione

Foto LaPresse - Andrea Panegrossi 22/11/2019 - Roma, Italia. POLITICA Festival del Lavoro anteprima 2020. Andrea Orlando Photo LaPresse - Andrea Panegrossi 22/11/2019- Rome, Italy Labor Festival preview 2020

Il sovraffollamento in carcere è una questione annosa. Per questo l’Italia è stata condannata dalla Corte europea nel 2013. Con il Covid la situazione è ulteriormente peggiorata. Lo denunciano numerose associazioni impegnate nella difesa dei diritti umani e lo documenta ogni settimana Radio carcere dando voce ai detenuti attraverso Radio radicale.

Onorevole Orlando come si può e si deve intervenire per affrontare questa grave situazione?
Si può intervenire facendo quello che chiediamo da tempo: che si riprenda la riforma del sistema penitenziario che è rimasta appesa nel passaggio fra le due legislature nel 2018. Perché in quella riforma c’erano tutti gli strumenti per intervenire sul sovraffollamento senza provvedimenti di carattere eccezionale, ovvero senza “lotterie” che beneficiano alcuni in specifiche condizioni oggettive e magari penalizzano altri che in quel momento non hanno quei presupposti. Al contrario la  riforma era basata su un’idea di valutazione del percorso trattamentale e della possibilità di utilizzare pene alternative; il che coniuga la flessibilità e la congruità del trattamento alla certezza della pena. La pena non viene cancellata viene trasformata in un’ottica di finalità rieducativa come indica la Costituzione.

A questo proposito ormai è dimostrato che il tasso di recidiva si abbassa molto se la pena non è scontata “marcendo in cella”. È un interesse dello Stato recuperare pienamente la funzione rieducativa del carcere e conviene a tutti?
Io ho sempre sostenuto che la sicurezza non si garantisce con questo tipo di carcere. Tutti i passi che abbiamo fatto nella direzione di una più forte flessibilità dell’esecuzione della pena hanno dato frutti positivi a partire dalla messa alla prova, così come la possibilità di usufruire delle pene alternative. La reclusione è uno strumento rigido che impone un trattamento uguale a situazioni diverse. In altre parole c’è un effetto emulazione dentro il carcere e delle gerarchie criminali che dentro il carcere si esplicitano e si concretizzano che portano a una regressione, non a una educazione del detenuto.

Il carcere andrebbe abolito come hanno sostenuto figure autorevoli?
Io non credo che si possa abolire il carcere, ma ritengo che…


L’intervista prosegue su Left dell’18-24 dicembre 2020

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Luigi Manconi: Vi racconto perché il carcere è inutile

Foto Fabio Cimaglia / LaPresse 25-07-2016 Roma Camera dei Deputati. Conferenza stampa dell'intergruppo parlamentare cannabis legale Nella foto Luigi Manconi Photo Fabio Cimaglia / LaPresse 25-07-2016 Rome (Italy) Politic Chamber of Deputies . Press conference of the Parliamentary Legal cannabis intergroup In the pic Luigi Manconi

Luigi Manconi, intellettuale e politico, fondatore e presidente della onlus A buon diritto, è un interlocutore obbligato quando si parla di emergenza carceraria. Promotore di importanti battaglie di civiltà, è da sempre uno strenuo difensore dei diritti dei detenuti e in un momento in cui la pandemia da Covid-19 ne aggrava ulteriormente le condizioni un libro come il suo Abolire il carcere è quantomai attuale e prezioso.

Firmato per Chiarelettere insieme a Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta, questo libro, davvero illuminato e dal carattere fortemente pratico, ci fa capire perché il carcere vada abolito: è un totale fallimento sotto tutti i profili e non si tratta di buonismo, sono i numeri a dirlo. Il carcere è “un lungo e minuzioso processo di spoliazione”, fortemente lesivo di ogni diritto e della dignità delle persone, e in più è fallimentare anche sotto il profilo più pratico perché aumenta il tasso generale di criminalità. Il carcere annienta l’essere umano e non protegge i cittadini, deve quindi perdere la sua centralità.

In questo momento Abolire il carcere si ripropone come un faro da seguire per sfatare il mito secondo cui ricorrere alla pena detentiva sia una cosa inevitabile.

Questo libro potrebbe essere stato scritto oggi per la sua attualità ma in realtà è stato pubblicato nel 2015. Com’è stato accolto e che reazioni ci sono state nel tempo?
È stato accolto molto seriamente dalla comunità scientifica e dai giuristi perché ha un impianto di natura normativa. Il libro indaga la struttura del carcere dal punto di vista della sua ragion d’essere e degli effetti negativi che ha sull’amministrazione della giustizia e sull’esecuzione della pena. Per il resto è stato accolto come un manifesto utopico da respingere perché considerato come scarsamente correlato alla realtà. In verità è qualcosa di estremamente realistico, molto ragionevole e soprattutto concretamente realizzabile.

Il vostro lavoro è particolare perché è molto pratico, si percepisce la concretezza di quanto viene scritto. Voi autori ci avete spiegato, numeri alla mano, perché il carcere è fallimentare: non garantisce sicurezza, non serve al suo scopo.
È così, noi partiamo dalla constatazione che il carcere si è rivelato uno strumento totalmente inutile sia rispetto a…


L’intervista prosegue su Left dell’18-24 dicembre 2020

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Caserma, manette, botte

Ci sono tutte le caratteristiche per essere una di quelle brutte storie a cui purtroppo ci siamo abituati e per questo la vicenda di Emanuel Scalabrin va raccontata per bene, punto per punto, compresi i lati oscuri che ci sono tutti intorno.

Emanuel ha 33 anni e fa il bracciante agricolo. Ha problemi di dipendenza. Il suo arresto lo raccontano i suoi famigliari nelle parole pubblicate dalla Comunità San Benedetto al Porto, fondata da don Andrea Gallo, «Secondo il racconto dei parenti il 4 dicembre Emanuel verso le 12.30 si trova nella sua casa di Ceriale insieme alla compagna Giulia, mentre il loro figlio minore di 9 anni si trova presso una famiglia di amici. Ad un certo punto mentre si apprestano a pranzare viene a mancare la corrente elettrica ed Emanuel esce dalla porta di casa per verificare se si tratta di un’interruzione o altro. Improvvisamente viene spintonato all’interno dell’alloggio da alcuni agenti in borghese che erano lì appostati per l’irruzione, lui viene trascinato all’interno della casa fino alla camera da letto e qui gettato sul materasso dove viene colpito in ogni parte del corpo torace, addome, schiena, viso ed estremità».

Emanuel urla e chiede aiuto, dice che non riesce a respirare mentre Giulia la sua compagna implora i carabinieri del nucleo di Albenga di fermarsi.

L’arresto dura 30 minuti. Il ragazzo viene portato nella cella di sicurezza della caserma dei carabinieri di Albenga. Non si sente bene. Alle 21 viene chiamata la Guardia medica che lo visita per un’ora e che chiede di trasferire Emanuel in ospedale. Viene portato con l’auto di servizio dei Carabinieri e al Pronto Soccorso ci rimane per 5 minuti. Cinque. Non viene fatto nessun accertamento. Gli viene solo dato del metadone perché i medici del Pronto soccorso ipotizzano che si tratti di una crisi di astinenza.

Rientra in cella verso mezzanotte. Da lì, il buio. Verrà ritrovato morto alle 11 del mattino del giorno successivo, il 5 dicembre. Cosa sia successo quella notte non si può sapere perché la videocamera di sorveglianza della cella non aveva l’hard disk e quindi le immagini non sono state registrate.

La Procura di Savona ha aperto un fascicolo per omicidio colposo contro ignoti. Il pubblico ministero Chiara Venturi, appena giunta sul posto, ha prontamente chiesto non solo una ispezione del corpo al medico legale, ma anche un confronto con il fotosegnalamento con l’obiettivo di rilevare eventuali ecchimosi successive all’arresto.

Cosa è successo? Sperando di non ritrovarci di fronte ancora alla retorica delle mele marce. Intanto lo raccontiamo, vigiliamo, aspettiamo.

Buon venerdì.

Giustizia non è sinonimo di vendetta

TO GO WITH AFP STORY BY ELLA IDE A prisoner looks out a window at Regina Coeli prison in Rome on May 30, 2014. Crouched on bunk beds in the narrow cells of the Regina Coeli lockup in Rome, prisoners say Italy still has a long way to go to ease a chronic overcrowding problem condemned by the European Court of Human Rights. AFP PHOTO / ALBERTO PIZZOLI (Photo credit should read ALBERTO PIZZOLI/AFP via Getty Images)

«Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni» scriveva Dostoevskij. In Italia dunque è bassissimo. Trascuratezza, abbandono, violazione di diritti umani ancora segnano la condizione carceraria, come denuncia Rita Bernardini. Mentre scriviamo arriva la notizia che la leader radicale ha interrotto lo sciopero della fame «come atto di fiducia nei confronti del presidente Conte» fino al 22 dicembre data del loro incontro. Siamo sollevati perché eravamo preoccupati per la sua salute. Anche se, insieme a lei, ben sappiamo che sarà ancora lunga la lotta per umanizzare le carceri e per chiedere un maggior ricorso alle pene alternative ma anche provvedimenti di amnistia e di indulto.

La situazione è sotto gli occhi di tutti. Le carceri italiane stanno scoppiando. Il problema del sovraffollamento è annoso ed è rimasto irrisolto anche dopo la condanna da parte della Corte europea dei diritti umani. La pandemia ha reso le condizioni di vita nelle carceri ancor più drammatiche. Come documenta Bernardini in una lettera consegnata al presidente Mattarella di cui riportiamo stralci e che potete leggere integralmente sul sito del Partito radicale. Basti dire che il 30 novembre quando il tasso di positività al Covid-19 della popolazione italiana era dell’1,30%, quello della popolazione carceraria negli istituti sovraffollati era pari al doppio: 2,63%. La situazione è tre volte più grave oggi rispetto alla prima ondata, come scrive Alessio Scandurra della associazione Antigone che su Left traccia un quadro comparativo fra quel che succede nelle carceri italiane e quel che accade in quelle del resto di Europa.

Le tensioni generate dalle necessarie restrizioni e dalla paura dei contagi sono state enormi, e nel nostro Paese hanno causato numerose rivolte che sono costate la vita a ben 14 detenuti. Perché si è arrivati a tutto questo? Il governo socialista portoghese ha adottato una misura straordinaria di amnistia, perché non avviare questo percorso anche in Italia? «A partire dall’articolo 79 della Costituzione le condizioni si potrebbero creare» propone Bernardini intervista per Left da Valentina Angela Stella. E fin da adesso perché non procedere per la strada che prevede la possibilità di un maggiore accesso a pene alternative? Molti studi e ricerche internazionali mostrano ormai che il grado di recidiva è estremamente più basso quando non si sconta la pena restando in quel luogo dei «sepolti vivi» che è il carcere (per dirla con un’espressione di Turati). Condizione tanto più inaccettabile se si pensa che in Italia ci sono ben 34 bambini costretti a vivere in stato di detenzione per poter stare con le proprie madri come scrive qui Susanna Marietti di Antigone.

Il diritto all’affettività in carcere oggi appare del tutto negato. Così come, nonostante l’impegno e la professionalità di operatori, psichiatri e psicoterapeuti, la salute mentale in carcere resta una questione aperta, delicatissima e urgente, alla quale la politica e le istituzioni non possono restare sorde. L’inchiesta di Carmine Gazzanni ci rivela un quadro drammatico. Nei primi 11 mesi del 2020 55 detenuti si sono tolti la vita; alcuni di loro erano giovanissimi. Per capire come stanno davvero le cose, al di là dei titoli di cronaca, abbiamo chiesto a tre psichiatri che lavorano in carcere di aiutarci a capire. A partire dall’importante approfondimento di Claudia Dario, Alessio Giampà e Francesca Padrevecchi, che pubblichiamo in questo sfoglio di copertina, abbiamo interrogato la politica, intervistando Andrea Orlando, che di questi temi si era molto occupato quando era ministro della Giustizia. Autore di una riforma che, purtroppo, è rimasta incompiuta nel 2018, Orlando invita indirettamente a riflettere sui danni che hanno prodotto in Italia forze politiche e media che propongono soluzioni “facili” di populismo penale.

A questo proposito a dir poco sconcertante ci appare il risultato di un’indagine Censis che ci parla di un 43,7 per cento di italiani favorevoli alla pena di morte; percentuale che è ancora più alta fra i giovani. Ci appare come il frutto perverso di una più ampia e inaccettabile idea di pena come vendetta, come carcere a vita, per cancellare chi è stato condannato dalla vista, buttando via le chiavi. Idea che oltre ad essere inumana è incostituzionale. La nostra Carta parla di recupero della persona. L’obiettivo è la reintegrazione nella società di chi è stato condannato per aver commesso un reato. La Costituzione non contiene una antropologia negativa, un’idea di colpa come peccato originario che condanna all’immutabilità, come ha detto la costituzionalista Gabriella Millea al recente convegno “La Furia di Aiace” a cui abbiamo partecipato. Proprio in quel contesto, aprendo i lavori lo psichiatra Andrea Masini ci ha ricordato la provocazione avanzata anni fa dallo psichiatra Massimo Fagioli: abolire il carcere. Quella sua proposizione spiazzante e avanguardistica lanciata nel 2006 dalle pagine di Left suscitò un forte dibattito e aprì un interessante dialogo con Manconi e Boraschi sulle colonne de l’Unità. In questa storia di copertina Luigi Manconi torna a parlare di questa ipotesi «niente affatto utopica» ma dettata da fatti di realtà a cui nel 2015 ha dedicato un libro che oggi, insieme al suo nuovo Per il tuo bene ti mozzerò la testa (Einaudi) scritto con Federica Graziani, appare più attuale che mai.


L’intervista prosegue su Left dell’18-24 dicembre 2020

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