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Se i poveri non fanno più notizia

Non è vero che il virus ci ha resi tutti uguali: in qualche modo anzi ha ampliato e reso più visibili le disparità sociali, di accesso al mondo dell’istruzione, della casa, del lavoro soprattutto per le donne.  Ce lo stiamo ripetendo come un mantra da settimane, mesi, ma poi il racconto dei media sulle disuguaglianze e sugli effetti della pandemia rischia ancora una volta di oscurare le cause strutturali che determinano vecchie e nuove povertà, così come i soggetti che li subiscono.

Il rapporto I non luoghi dell’informazione, la terza edizione dell’iniziativa Illuminare le periferie curato dall’Osservatorio di Pavia e promosso da Cospe, Usigrai, Fnsi con il contributo dell’Agenzia Italia per la Cooperazione internazionale e da quest’anno anche dall’impresa sociale “Con i bambini”, fotografa bene le sfide per il mondo dell’informazione in Italia.

Oggetto dell’indagine sono stati i telegiornali del prime time delle 7 tv generaliste (i canali Rai,  Mediaset e La7)  da gennaio a settembre 2020 per un complessivo numero di 1918 edizioni. Per la parte di analisi sulla trattazione della povertà e delle marginalità in Italia si è deciso di aggiungere al campione anche le edizioni del prime time dei tg regionali della Rai di dieci regioni italiane, scelte sulla base della rappresentatività territoriale: tre regioni del Nord Italia (Piemonte, Lombardia e Veneto); tre regioni del Centro Italia (Emilia Romagna, Toscana e Lazio) tre regioni del Sud Italia (Campania, Puglia e Calabria) e la Sicilia per le isole. Sono state analizzate tre edizioni al mese per nove mesi per un numero complessivo di 270 edizioni di tg regionali.

Solo l’1% dei servizi dei telegiornali di prima serata – che ricordiamo sono seguiti da circa 8 italiani su 10 –  riguarda le…

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L’autrice: Anna Meli è giornalista ed esperta di migrazioni. È stata promotrice e coordinatrice dell’Associazione Carta di Roma e attualmente è direttrice Comunicazione di Cospe onlus. Ha scritto “Europa Media e Diversità” edito da Franco Angeli nel 2015


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La crisi nella crisi del Sud sempre più povero

Bari, Italy - March 10, 2019: Child sweeping through the poor streets of Bari.

Il 2020 è stato un anno tribolato in cui la pandemia ha portato in drammatica evidenza i troppi nodi del regionalismo, mai districati dal 2001 ad oggi, e che ora sono venuti tutti insieme al pettine.
Si pensava che il caos causato dell’autonomia differenziata in campo sanitario potesse far recedere dai propositi “separatisti” governo e Regioni del Nord, ma purtroppo questo non è avvenuto, anzi come vedremo alcuni articoli inseriti o spariti nelle bozze della legge di bilancio 2021 fanno temere il peggio.
Nel frattempo la crisi ha acuito le differenze fra le due Italie.
L’ultimo Rapporto Svimez ci informa infatti che nel Sud la pandemia non è stata una livella, ma un acceleratore dei processi di ingiustizia sociale, in atto in Italia da molti anni, che hanno ampliato le distanze tra le due parti del Paese. A soffrire di più in questo periodo d’emergenza sono state infatti le fasce della popolazione più fragili, soprattutto i giovani e le donne. Evidenziamo solo pochi dati dal Rapporto per meglio comprendere la portata del disastro in corso.

Rispetto al 2008, anno di inizio della crisi, l’occupazione giovanile è crollata nel Mezzogiorno di 573mila unità, l’emergenza sanitaria ha cancellato quasi l’80% dell’occupazione femminile creata tra il 2008 ed il 2019, riportando il tasso d’occupazione femminile a poco più di un punto sopra i livelli del 2008.
Nel 2018 sono emigrati dal Mezzogiorno oltre 138mila residenti, di cui un terzo del totale laureati, di questi, 20mila hanno scelto un Paese estero come residenza, quota decisamente più alta che in passato pur in una tendenza che si protrae da anni e che sta portando alla desertificazione demografica di ampie zone, soprattutto dell’entroterra. Quasi i due terzi dei restanti cittadini che nel 2018 hanno lasciato il Mezzogiorno per una regione del Centro-Nord, avevano almeno un titolo di studio di secondo livello: diploma superiore per il 38% e laurea il 30%.Grazie anche al vergognoso (per un Paese civile) parametro della “spesa storica” i posti autorizzati per asili nido rispetto alla popolazione sono il 13,5% nel Mezzogiorno ed il 32% nel resto del Paese. La spesa pro capite dei Comuni per i servizi socioeducativi per bambini da 0 a 2 anni è pari a 1.468 euro nelle regioni del Centro, a 1.255 euro nel Nord-Est per flettere a 277 euro nel Sud.

Nel Centro-Nord, nell’anno scolastico 2017-18, è stato garantito il tempo pieno al 46,1% dei bambini. Nel Mezzogiorno in media solo al 16%, in Sicilia la percentuale scende al 7,4%”. In sintesi il Sud sconta un ritardo in infrastrutture e servizi, scolastici e sanitari in particolare, causati anche dal sottofinanziamento statale degli ultimi vent’anni a favore delle regioni del Nord, mentre continua la perdita di popolazione residente e aumentano le persone beneficiarie di misure di…

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L’autore: Natale Cuccurese è presidente del partito del Sud-meridionalisti progressisti


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Dicembre nero

Foto LaPresse/Matteo Corner 09/12/2019 Milano (Italia) Cronaca Inaugurazione delle formelle con i nomi delle vittime di piazza Fontana Nella foto: l’inaugurazione Photo LaPresse/Matteo Corner December 9.2019 Milan (Italy) News Inauguration of the panels with the names of the victims of Piazza Fontana

Piazza Fontana è l’abbrivio della stagione delle stragi conseguente a quanto stabilito nel convegno di Parco dei Principi a Roma del maggio 1965. In quella adunata di tre giorni, le destre – quelle scampate alla Resistenza, quelle infiltratesi nel tessuto democratico dopo la nascita della Repubblica, quelle che costituivano un corpo consistente nelle forze armate, nelle forze dell’ordine e di polizia, quelle miracolate da Togliatti, quelle che si rifacevano a piazza San Sepolcro (il luogo a Milano dove vennero fondati i Fasci di combattimento nel 1919 ndr), quelle che rimpiangevano il regime, e tutte quelle che, sotto mentite spoglie, avevano trovato spazio nei partiti dell’arco costituzionale (Dc in testa) e che si riconoscevano in un anticomunismo viscerale – si posero il problema del “che fare?” per contrastare l’ormai irresistibile avanzata delle sinistre. Una metastasi senza fine dopo l’entrata dei socialisti nell’esecutivo. Rotto, a sinistra, ogni argine, nulla poteva ostacolare la marcia del Partito comunista, ben più pericolosa di quella socialista. Un’ossessione – quella dell’anticomunismo – cresciuta anche sul fertile terreno di ampi strati della Democrazia cristiana, oltre che dei suoi alleati storici, primo fra tutti, il «partito americano» dei socialdemocratici. Partito che aveva il suo leader in Giuseppe Saragat che, da presidente della Repubblica, s’era lasciato sfuggire che «Se la situazione dovesse precipitare sono disposto a far scendere i carri armati per strada contro il pericolo comunista in Italia».
Un autentico, viscerale anticomunismo che faceva il paio con quella «tolleranza democratica», che nelle intenzioni dei padri nobili della nuova Italia repubblicana avrebbe dovuto fagocitare ogni pulsione centrifuga verso spinte eversive e sovversive, ma che finì invece col favorire la sopravvivenza del fascismo sotto più mentite spoglie oltre che con quelle orgogliosamente esibite con tanto di estetica e chincaglieria varia. Una «tolleranza» che permise ai tanti fascisti e neofascisti presenti sulla piazza, non solo di professare la loro indomita fede nera, ma di intercettare attraverso il voto quell’elettorato prigioniero di una mitologia fascista destinata a scavalcare perfino il millennio, col duce fautore di «cose buone». Una permanenza che avrebbe fatto proseliti, con nuovi cuori neri nati nel dopoguerra e suggestionati da narrazioni mistificatorie oltre che dal mito dell’azione per l’azione: tratto sostanziale del fascismo. Di questo lassismo istituzionale verso una sciagura sperimentata sulla propria pelle per un ventennio fece le spese la neonata Repubblica italiana. Nel segno quindi di un malinteso senso della democrazia, la nuova Italia vestitasi di Costituzione repubblicana consentì agli orfani del Pnf di riorganizzarsi e di agire alla luce del sole oltre che…


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L’ira delle donne

Il bilancio del 10 dicembre 2020, Giornata mondiale dei Diritti umani, è preoccupante: possiamo affermare che il diritto umano alla salute è compromesso non dalla pandemia ma dalla sindemia, ovvero dalla interazione deleteria di due o più malattie o altre condizioni di salute quale conseguenza delle differenze sociali, mentre le politiche sanitarie sono diventate lo specchio tragico del potere esercitato con ingiustizia.

Il diritto umano a decidere di abortire è ostacolato ovunque. In Italia si consente a delle organizzazioni criminali di affiggere manifesti che esprimono tranquillamente la violenza contro le donne. Nonostante l’aborto sia consentito da una legge dello Stato, le influenze cattoliche lo hanno reso un diritto inaccessibile e la maternità anziché essere una libera scelta consapevole, diventa una condanna orribile, per non parlare degli obiettori, ovvero medici con licenza di uccidere negando assistenza sanitaria a chi si è autodeterminata per i propri diritti sessuali e riproduttivi. Una buona notizia arriva dall’Argentina dove, nonostante le interferenze criminogene della chiesa cattolica, le donne sono riuscite ad ottenere una legge che consente loro di abortire.

Gli avvocati che si impegnano per l’affermazione di diritti umani vengono arrestati in Grecia, in Turchia, in Iran, in Cina, in Arabia Saudita, in Egitto, in Russia e la lista dei Paesi si allunga ogni giorno. L’arresto di un avvocato ha una potente carica simbolica repressiva per dire a tutti che non c’è difesa che tenga rispetto alla violenza del regime.

La tortura è praticata ovunque. I detenuti e le detenute nelle carceri italiane subiscono trattamenti degradanti, violenti. Nella civilissima Francia la repressione e la violenza del regime di Macron, il novello Robespierre, veste la divisa da poliziotto con licenza di uccidere per strada, e da qui le nuove norme che vietano di riprendere i poliziotti con telecamere, perché la bestialità non vuole riflettori. In Egitto l’uccisione di Giulio Regeni ha disvelato al mondo intero la ferocia dittatoriale di AL-Sisi il quale in un recente colloquio d’affari proprio con Macron ha persino sostenuto la superiorità dei regimi teocratici rispetto a quelli democratici, perché, a suo dire, affidati alle leggi del loro dio. Francia ed Egitto sono due modelli di governo antitetici, ma riescono ad essere accomunati dallo stesso modello di potere esercitato con la violenza nel disprezzo dei diritti umani.

Il filo conduttore di questo disastro planetario è riconducibile ad un’unica matrice, ovvero la società patriarcale che quasi ovunque ha segnato una alleanza tra l’amministrazione autoritaria e le autorità religiose colpendo prioritariamente i diritti sessuali e riproduttivi delle donne per schiavizzare l’intera società. L’unica alternativa possibile è il rovesciamento delle strutture gerarchiche patriarcali e l’affermazione della società matriarcale.

Una rivoluzione senza vittime è solamente quella che determina l’ascesa della donna. La liberazione della donna è la chiave di volta per la liberazione della società e per una autentica affermazione delle libertà per tutta la società. Occorre ribaltare il ruolo dell’uomo, il suo portato di gerarchie oppressive, il suo capitalismo agghiacciante, la sua bellicosità predatoria. Per dirla con Öchalan: «Le donne sono gli agenti sociali più affidabili lungo il percorso verso una autentica società paritaria e libertaria». La società matriarcale è la nuova frontiera, e adesso in nome di quanto hanno subito e continuano a subire, è il tempo di sostenere l’ira delle donne.

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L’autrice: Carla Corsetti è segretario nazionale di Democrazia atea e componente del coordinamento nazionale di Potere al popolo

Le siringhe e Arcuri

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 12-11-2020 Roma Politica Conferenza stampa del Commissario straordinario per l'emergenza Covid-19 Domenico Arcuri sulle attività di contenimento della pandemia Nella foto Domenico Arcuri Photo Roberto Monaldo / LaPresse 12-11-2020 Rome (Italy) Press conference by the extraordinary Commissioner for the Covid-19 emergency Domenico Arcuri on the containment activities of the pandemic In the pic Domenico Arcuri

Il super mega ultra turbo commissario Domenico Arcuri, delegato all’emergenza Covid, in qualsiasi altro luogo di lavoro che non sia quello del governo italiano avrebbe già fatto le valigie da un pezzo. Eppure nonostante i ritardi sulle mascherine, nonostante le consulenze milionarie sugli acquisti (ne parleremo nei prossimi giorni) e nonostante la barzelletta dei banchi a rotelle continua serafico nel suo ruolo, ostentando la sua solita sicumera e addirittura minacciando di querela chi fruga nei suoi affari.

Sulle siringhe che serviranno per la prossima campagna vaccinale nazionale Arcuri ha pubblicato un bando di offerta pubblica di 157 milioni di siringhe. Di questi 157 milioni ben 150 milioni dovranno essere “luer lock” (ad avvitamento) che sono più difficili da trovare, che richiedono tempi più lunghi di produzione e che costano parecchio di più.

Quando qualcuno ha fatto notare il punto (anche tra i produttori italiani che riforniscono gli altri Stati europei con le normali siringhe e che invece si sono ritrovati tagliati fuori dalla gara qui da noi) l’ufficio stampa di Arcuri ha precisato che la scelta è stata fatta perché le siringhe sarebbero «più precise e performanti». E poi ha scritto: alla redazione di Tagadà, che ha ricostruito la vicenda e denunciato questa anomalia: «Tali indicazioni sono state formulate dal Cts-Iss, in collaborazione con l’azienda produttrice e sono molto importanti», lasciando evidentemente intendere che il Comitato tecnico scientifico, l’Istituto superiore per la sanità e la società produttrice del vaccino (Pfizer) avessero dato questa indicazione.

Bene, il Cts ha dichiarato che «non è mai stato investito da quesiti relativi a vaccini, alle siringhe e alla catena di distribuzione», smentendo di fatto Arcuri.

«L’Iss non è stato coinvolto nella definizione delle specifiche tecniche sulle siringhe da acquistare», fanno sapere dall’Istituto superiore per la sanità.

Pfizer ha dichiarato che «la somministrazione richiede l’utilizzo di aghi comunemente utilizzati».

Quindi si può sapere perché sono state scelte quelle siringhe? Aspettiamo, poco fiduciosi.

Buon venerdì.

Franco Cavalli: Quei profitti sulla pelle dei malati di tumore

Indian protesters lift a balloon shaped like a medicine capsule during a demonstration against Swiss drug manufacturer Novartis, outside their offices in Mumbai on December 21, 2012. Demonstrators including cancer patients were protesting against the potential impact of the company's legal battle in India. Novartis is engaged in a legal battle over a part of the country's patent law that led to the company being denied a patent by an Indian court on their cancer drug "Gleevec". AFP PHOTO/ INDRANIL MUKHERJEE (Photo credit should read INDRANIL MUKHERJEE/AFP via Getty Images)

Medicinali e vaccini messi in commercio a prezzi esorbitanti, che possono essere acquistati – non senza difficoltà – solo dai Paesi più ricchi. Mentre quelli più poveri restano tagliati fuori, assieme ai loro cittadini. Tutto ciò a causa dei brevetti e dello strapotere delle aziende farmaceutiche che li possiedono, dettando legge e stabilendo chi ha diritto alla salute e chi no. Non è soltanto un possibile scenario futuro (probabile?), per quanto riguarda gli antidoti al Covid: si tratta dell’attuale situazione circa l’approvvigionamento di molti farmaci salvavita, come quelli antitumorali.

«I prezzi dei farmaci oncologici sono aumentati in media di 50 volte negli ultimi 25 anni. Prezzi che non hanno nulla a che vedere con i costi di produzione. Questi medicinali vengono venduti semplicemente al prezzo che il mercato accetta» ci spiega Franco Cavalli, già presidente dell’Unione internazionale contro il cancro e membro del Comitato per la selezione dei medicinali essenziali dell’Oms, attuale presidente del Comitato scientifico dell’European school of oncology.

Come mai gli antitumorali, negli anni, hanno subito questa incredibile impennata dei prezzi?
Per capirlo, occorre fare una premessa. Gli Stati Uniti rappresentano il 60% del mercato di questi medicinali e i presidenti repubblicani, di cui le grandi multinazionali farmaceutiche sono state sponsor, hanno eliminato ogni vincolo che…


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Il fascino (e le incognite) del mRna

Coronavirus Covid-19 Protection and Vaccine. Doctor drawing up solution from vaccine bottle and filling syringe injection for patient vaccination in medical clinic, Coronavirus in background

La notizia che i vaccini sperimentali di Pfizer-BioNTech e di Moderna hanno un’efficacia superiore al 90% ha fatto il giro del mondo alimentando la speranza di vedere presto la fine della pandemia in corso. Se le percentuali fossero confermate dai dati scientifici si potrebbe davvero parlare di una concreta via per sconfiggere la Covid-19.

Questi due vaccini utilizzano una tecnologia del tutto nuova basata sull’uso del Rna messaggero, o mRna che nel corpo umano è il materiale genetico che contiene le istruzioni per la creazione delle proteine.

I ricercatori hanno riprodotto in laboratorio piccoli segmenti di Rna del virus Sars-CoV-2 che trasmettono alle cellule le informazioni per la produzione delle proteine Spike, presenti sulla superficie del nuovo coronavirus. La proteina Spike è innocua per l’uomo, ma sembra essere sufficiente per stimolare la produzione di anticorpi. Il vaccino è pensato quindi per insegnare al nostro corpo a riconoscere le proteine Spike e, non appena si viene in contatto con il virus, a produrre i linfociti specifici prima che l’infezione possa espandersi.

A differenza dei vaccini ottenuti con il metodo tradizionale, questi non sono ricavati da una forma indebolita del virus stesso, e quindi non possono causare i sintomi della malattia né, in teoria, avere gravi effetti collaterali.

In pratica però è la prima volta che un vaccino del genere viene sperimentato sull’uomo. La tecnologia mRna è infatti abbastanza…


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Un vaccino contro il virus del negazionismo – Sommario

Premessa di Federico Tulli

 

Capitolo 1 Cosa ci rende umani

  • Introduzione
  • Quando la cura è accanimento
    di Simona Maggiorelli
  • M.G. Gatti: Il feto, un’esistenza senza sogni
    di Simona Maggiorelli
  • Come e perché la vita umana inizia alla nascita
    di M. Gabriella Gatti
  • Diavolo di una pillola (anticoncezionale)
    di Anna Pompili
  • Ru486, breve storia dell’“altra pillola”
    di Anna Pompili
  • C.A. Defanti: Ma quale eugenetica!
    di Simona Maggiorelli
  • «La vita è la donna che ti ama, il vento nei capelli…»
    di Daniela Polese

 

Capitolo 2 Le parole sono importanti

  • Introduzione
  • Conoscenza, cura e libertà
    di Francesca Fagioli e Andrea Masini
  • La destra e la nostalgia del manicomio
    di Francesco Fargnoli
  • Conoscere e curare la depressione
    di Giovanni Dal Poggio
  • L’insostenibile incertezza
    di Francesca Fagioli
  • Chi si occupa di salute mentale non può trascurare gli adolescenti
    di Nella Lo Cascio
  • R. Carnevali: La salute mentale non ha colore
    di Federico Tulli
  • Questo qualcosa davanti a me
    di Annelore Homberg, Martina Laiolo, Daniela Liberato e Simona Paciotti

 

Capitolo 3 Libera scienza in libero Stato

  • Introduzione
  • Vaccini, il pregiudizio che uccide
    di Simona Maggiorelli
  • La dieta della discordia
    di Federico Tulli
  • Cure miracolose e bufale che fanno ammalare
    di Simona Maggiorelli
  • Vaccini e bugie, contro le false credenze la parola ai medici
    di Simona Maggiorelli

 

Capitolo 4 La cura possibile

  • Introduzione
  • Quella gran rottura… dei no-vax
    di Federico Tulli
  • Il mare magnum della negazione
    di Domenico Fargnoli
  • S. Garattini: L’omeopatia? Un bluff di Stato
    di Federico Tulli
  • F. Pregliasco: L’omeopatia? Manca una verifica basata su dati significativi
    di Federico Tulli
  • La medicina irrazionale
    di Matteo Fago
  • Una nuova società della conoscenza
    di Ilaria Maccari, Alessia Nota e Giulia Venditti
  • C. Rovelli: Maggioranza non è sinonimo di verità di Federico Tulli
  • E. Cattaneo: Il mio vaccino contro l’oscurantismo
    di Federico Tulli
  • Se volere la Luna è poter fare ricerca scientifica
    di Ilaria Maccari, Alessia Nota e Giulia Venditti

Evitiamo di votare ancora una volta con una legge incostituzionale

Foto Claudio Furlan - LaPresse 20 Settembre 2020 Milano (Italia) cronaca Popolazione al voto per il referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari presso la Scuola Media Parini di Via Solferino Photo Claudio Furlan - LaPresse 20 September 2020 Milano (Italy) news Population voting for the constitutional referendum on the cut of parliamentarians at the Parini Middle School in Via Solferino

La settimana prossima le commissioni affari costituzionali di Camera e Senato devono dare il parere sullo schema di decreto legislativo sui collegi elettorali, anche se ci sono problemi, cui si farà accenno in seguito. Appena sarà promulgato si potrà votare alla scadenza naturale della legislatura, entro 70 giorni dalla fine della precedente, la XVIII, eletta il 4 marzo 2018: il quinquennio si calcola dalla prima riunione delle Camere, il 23 marzo 2018, che, come stabilisce l’art. 61 Cost., è avvenuta entro 20 giorni dalle elezioni. Però in ogni momento, in caso di elezioni anticipate, se il presidente della Repubblica le scioglie prima della scadenza, con sua decisione insindacabile, «sentititi i loro Presidenti» (art. 88 c. 1 Cost.), ma non negli ultimi 6 mesi del suo mandato, nel cosiddetto semestre bianco: che per il Presidente in carica, eletto il 31 gennaio 2015, inizia il 1° agosto 2021.

Le prossime elezioni saranno le prime dopo il taglio del Parlamento, con l’entrata in vigore il 5 novembre del corrente anno della legge costituzionale 19 ottobre 2020, n. 1 “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari“ in GU Serie Generale n.261 del 21-10-2020. Per un giorno si è evitato che coincidesse con la Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate, che si celebra il 4 Novembre, giorno della vittoria nella Prima Guerra mondiale, l’unica festa sempre celebrata nell’Italia dalla Monarchia sabauda alla Repubblica nata dalla Liberazione e dalla Resistenza , attraversando il Ventennio.

Questa è la novità, ma se non si modifica la legge elettorale, sarebbe la quinta votazione con una legge elettorale incostituzionale, la terza della serie: 1) l.n. 270/2005 (porcellum) nel 2006-2008-2013; 2) l.n. 165/2017 (rosatellum) nel 2018 e 3) l.n. 165/2017 con le modifiche peggiorative della l.n. 51/2019 nel 2023, ma con rischio di elezioni anticipate. In realtà dal 2005 tra le leggi elettorali incostituzionali approvate dal Parlamento dovremmo nominate anche la l.n. 52/2015 (italikum), ma non è mai stata applicata, perché fatta annullare della Corte Cost, con la sentenza n.35/2017, grazie all’iniziativa di 23 ricorsi, che ho avuto l’onore di coordinare, degli avvocati antitalikum. Quest’ultima legge ha creato un pericoloso precedente per la colpevole leggerezza della Presidente della Camera, che ha ammesso tre voti di fiducia, richiesti dal Governo su altrettanti articoli della legge, contro la chiara disposizione dell’art. 72 c. 4 Cost. Tale articolo prescrive che «La procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera è sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale», opinione espressa nel 1981 dalla unica grande Presidente donna della Camera, l’on. Nilde Iotti. Quel precedente ha fatto scuola perché la terza legge incostituzionale, ma non ancora dichiarata ufficialmente tale, è stata approvata con 8 voti di fiducia, i soliti 3 alla Camera e 5 al Senato.

Altra costante delle leggi elettorali nazionali dal 2005, è la loro approvazione in violazione del Codice di Buona Condotta in Materia Elettorale approvato dal Consiglio d’Europa, che ritiene una cattiva pratica, cambiamenti nell’anno che precede le elezioni. La legge n. 270/2005 è del 21 dicembre con il voto previsto il 9 aprile 2006. La legge n. 165/2017 è datata 3 novembre, una cinquantina di giorni prima del porcellum, ma le elezioni del 2018 erano anticipate al 4 marzo. Per mantenere il ritmo e non perdere le abitudini, il nostro Parlamento, che non ama le leggi elettorali costituzionali, perché l’art. 66 Cost. lo proteggeva dalle decisioni della magistratura in materia elettorale, nel 2009, cioè nello stesso anno delle elezioni europee del 7 giugno, introduceva la soglia d’accesso del 4% con la legge 20 febbraio 2009, n. 10. “Modifiche alla legge 24 gennaio 1979, n. 18, concernente l’elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia”.

Questa violazione della Costituzione in un diritto fondamentale in ogni ordinamento è stato facilitato dalla stessa Costituzione, che non ha costituzionalizzato i principi informatori del sistema elettorale, ma solo che le Camere sono elette «a suffragio universale e diretto» (artt. 56 e 58 Cost.) e che «Il voto è personale ed eguale, libero e segreto» (art.48 Cost.). Non ha neppure previsto una categoria di leggi intermedie tra le norme di rango costituzionale e le leggi ordinarie, come in Spagna e in Francia, le cosiddette leggi organiche (ley orgànica e loi organique rispettivamente), che regolano materie complesse (l’equivalente dei nostri Testi Unici o Codici dell’ Ambiente, del Consumatore o del Contribuente per fare degli esempi), che devono essere approvate a maggioranza assoluta del Parlamento e, pertanto, caratterizzate da una certa stabilità e al riparo da emendanti capziosi o da norme infilate in decreti legge o nelle cosiddette leggi omnibus, come la tradizionale, con cadenza annuale, legge di proroga dei termini scaduti o di imminente scadenza.
Inoltre a differenza di Spagna, i cui costituenti avevano ben presente il modello italiano, nel senso di scelte da evitare in materia di controllo di costituzionalità e di revisione costituzionale, e Germania, non abbiamo l’accesso diretto dei cittadini alla Corte o Tribunale costituzionale in caso di violazione di diritti costituzionali fondamentali, tra i quali è sempre compreso il diritto di voto.

Da noi bisogna trovare un giudice sensibile ai valori, costituzionali, cosa non facile perché quando controparte è lo Stato, in persona del Presidente del Consiglio dei Ministri non tutti i Tribunali sono competenti, ma solamente quelli di Roma o del Comune sede del capoluogo del Distretto di Corte d’Appello, dove ha sede l’Avvocatura distrettuale dello Stato. Pensare che la Cassazione, su nostra opposizione alla decisione del Tribunale di Brescia dichiarativa della competenza di Roma ha statuito, che «La controversia, siccome appunto avente ad oggetto l’esercizio del diritto di voto, deve ritenersi radicata nel luogo ove si esercita il diritto, ovvero nel comune di residenza, nelle cui liste elettorali sono iscritti i ricorrenti»( Cass. Civ., VI-1, ord. n. 3395/18). Si chiama “privilegio del foro erariale”, che con il processo telematico ha perso ogni ragione pratica. Sempre grazie a cittadini elettori che si sono rivolti a tribunali è ora chiaro, che competente ad accertare il diritto di votare secondo Costituzione in ogni elezione è il giudice ordinario anche al di fuori dalle impugnazioni elettorali (Cass.SS.UU. civili, ord. 21262/16), ma di accertamento di un diritto.

Per l’art. 54 Cost. «Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi» e agire in giudizio per il diritto di votare secondo Costituzione, non è solo un diritto, ma anche un dovere, che lo Stato e il Governo non hanno ragione di contrastare, perché «la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione» (art. 1 c. 2 Cost.), quindi non si può correttamente esercitare la sovranità nel procedimento elettorale, se la legge elettorale non è costituzionale. I cittadini devono citare in giudizio il Governo, perché i soggetti responsabili per l’entrata in vigore di una legge, il Parlamento e il Presidente della Repubblica, non possono essere chiamati a risponderne. Lo vieta l’art. 68 Cost. per i parlamentari e l’art. 90 Cost. per il Presidente della Repubblica, nelle cui mani prima di entrare in carica giurano il Presidente del Consiglio e i ministri (art. 93 Cost.) con la formula «Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservare lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione».

Le incostituzionalità della legge elettorale (liste totalmente bloccate, voto congiunto obbligatorio di liste plurinominali e candidati uninominali, premio di maggioranza nascosto, mancato rispetto percentuali seggi proporzionali e maggioritari), per la prima volta, si accompagnano ad un sospetto di costituzionalità della legge costituzionale n. 1/2020 secondo i parametri della sentenza della Corte Cost. n 1146/1988. Le precedenti revisioni sospette di Berlusconi e Renzi sono state spazzate via dai referendum 2006 e 2016, di quest’ultimo abbiamo appena celebrato il quarto anniversario.
L’incostituzionalità non consiste nella riduzione dei parlamentari elettivi da 945 a 600, così tranquillizzo chi ha votato Sì, perché dovrebbero essere alleati per avere una legge elettorale costituzionale, ma i 6 seggi al Senato del Trentino-Alto Adige/ Südtirol e altri dettagli. Questa Regione con 1.029.000 (arrotondato) abitanti del censimento 2011, ha più senatori di Abruzzo e Friuli-Venezia Giulia che ne hanno 4, nonché di Liguria, Marche e Sardegna con 5 seggi, pur avendo tutte queste Regioni una popolazione superiore in percentuale dal 18,36% del Friuli-VG (ab. arr. 1.218.000) al 59,28 % della Sardegna (ab.arr..1.639.000) e lo stesso numero della Calabria.(ab.arr. 1.959.000), che ha il 90,37% di abitanti in più. Questa anomalia contro l’uguaglianza discende dall’equiparazione delle Province autonome di Trento (ab. 524.000) e Bolzano (504.000 ab.) alle Regioni. A ciascuna Provincia autonoma è stato attribuito lo stesso numero di 3 senatori, come alle regioni Umbria (ab. arr. 884.000 + 68,70 % di TN) e Basilicata (ab.arr. 578.000+14,68% di BZ). Non solo vi è una violazione degli artt. 3 e 48 Cost. sull’uguaglianza di voto, ma anche del 51 Cost. perché per essere eletto senatore in Provincia autonoma di Bolzano bastano 168.000 voti, mentre in Lombardia ce ne vogliono 313.000 e in Umbria 294.000.

Se il privilegio fosse limitato alla provincia di Bolzano si potrebbe inventare che si tratta di un effetto dell’accordo-Abkommen Degasperi (a quel tempo non si era ancora nobilitato in De Gasperi)-Gruber, perché abitato in maggioranza da germanofoni, maltrattati dal fascismo (una mezza verità, che come insegna il Talmud è una bugia intera), ma si avvantaggiano anche gli italianissimi trentini, alla faccia dei loro martiri Cesare Battisti, socialista, e Damiano Chiesa, cristiano sociale, perché anche in quella provincia bastano 174.666 voti per fare il senatore, sempre meno che in Basilicata: 192.666. Per la fretta, però, si son dimenticati di cambiare l’art. 57 c. 1 Cost. per il quale l’elezione del Senato è “a base regionale” e le regioni sono quelle dell’art. 131 Cost., mai cambiato, tra le quali figura, al quarto posto, la Regione Trentino-Alto Adige, che con il nuovo nome ex l. cost. n. 3/2001, Trentino-Alto Adige/Südtirol è menzionata, come Regione a Statuto speciale dall’art. 116 c. 1 Cost. e le Province autonome, a differenza delle Regioni, non sono nominate dall’ art. 114 Cost. tra le parti costitutive della Repubblica e la seconda Camera si chiama Senato della Repubblica.

Il termine per l’esercizio della delega è di 60 giorni dall’entrata in vigore della l. cost. n. 1/2020, perciò entro il 3 febbraio 2021, sembra, però, che tutti abbiano fretta, non di votare la maggioranza e il Governo, ma perché, paradossalmente, una legge applicabile subito diventa uno strumento di ricatto per tenere a freno i malumori nella sempre fremente maggioranza, appena si parla di fondi europei. Tuttavia, gli apprendisti stregoni, come insegna il cartone animato Fantasia di Walt Disney, possono non essere in grado di governare la furia degli elementi da loro stessi scatenati. Poi c’è la pandemia e le centinaia di miliardi di euro in arrivo, prima o poi, se si supera l’opposizione di Polonia, Ungheria e Slovenia, che in una federazione democratica, entità che l’Ue non è, sarebbe stata superata perché sono doppia minoranza di stati membri e di popoli .
I partiti di una volta, in omaggio al loro nome, sono andati e non tornano più, questo è un fatto, a mio avviso irreversibile, piaccia o no. Quelli esistenti non sono corpi intermedi che rappresentano il cittadino come «formazioni sociali ove si svolge la sua personalità», ma rappresentano se stessi, al più i loro dirigenti, che non so se siano (parafrasando e adattando titoli di film di Pedro Almodovar e Alexander Kluge) uomini (le donne sono troppo poche nella politica italiana) sull’orlo di una crisi di nervi o artisti sotto la tenda del circo: perplessi, di una politica ridotta a spettacolo e sceneggiata o scemeggiata, se si amano i neologismi.

Tutto in ordine? Per niente perché ad avere il coraggio, il tempo e la capacità di guardare dentro alle carte e alle 347 pagine dell’Atto del Governo sottoposto a parere parlamentare ex art.3 legge n. 51/2019, ci si accorgerebbe che la fretta è cattiva consigliera. Se non fosse scoppiato il caso di Teramo, la provincia abruzzese spartita tra Pescara e l’Aquila, un caso da manuale, che rischia di diventare un simbolo, come Danzica, provocato dal taglio lineare dei parlamentari in un sistema misto di collegi uninominali maggioritari e collegi plurinominali proporzionali.
Con 14 seggi i 3/8 uninominali calcolati ai sensi dell’art. 1 c. 1 lett. a) n. 1) della legge n. 51/2019, sarebbero stati 5, per 4 province, di cui 3 con popolazione equivalente (L’Aquila 296.491, Pescara 318.678, Teramo 307.412), tutte comprese nello scostamento del 20% ammesso in più o in meno. Con un taglio del 20% ci sarebbero stati sempre 4 collegi, anche con un taglio del 25%, se si fosse applicato il criterio di arrotondamento del Senato, cioè l’art. 2 c. 1 lett. a) n. 1) della legge n. 51/2019, ritenuti entrambi legittimi dal legislatore, anche se io dubito che il criterio più maggioritario si applichi alla Camera con la metà dei seggi, accentuando la diseguaglianza di voto censurata dalla sentenza n. 1/2014 della Corte Cost. In effetti l’obiettivo legittimo e non vietato di ridurre il numero dei Parlamentari, messa a parte la squallida motivazione della riduzione dei costi della politica, avrebbe chiesto, che il problema della rappresentanza territoriale fosse affrontato prima per stabilire una percentuale di riduzione e criteri di arrotondamento più equilibrati ovvero assumere la decisione di una legge elettorale integralmente proporzionale, che presenta minori problemi, se non prevede soglie d’accesso o molto ridotte tra l’1 e il 2 per cento. La stessa improvvisazione è avvenuta con la Circoscrizione estero ridotta da 12 a 8 alla Camera e conseguentemente da 6 a 4 al Senato. Una riduzione che non ha tenuto conto che al Senato la legge 27 dicembre 2001, n. 459, prevede 4 circoscrizioni, che hanno diritto di eleggere almeno un senatore, con la conseguenza che ora i 277 997 elettori italiani di Africa, Asia, Oceania e Antartide, il minor numero per la circoscrizione, che rappresenta la grandissima maggioranza della popolazione mondiale, eleggeranno un senatore, come i 2 685 815 italiani della circoscrizione Europa.

Si tratta di particolari, forse, ma tutti conoscono il famoso detto che “il diavolo si annida nei dettagli”, ma ci sono principi costituzionali che lo schema presentato dal governo ignora e che sono stati sollevati nei ricorsi relativi al porcellum, all’italikum e al rosatellum, ma che nessun giudice ha mai ritenuto, finora, meritevoli di attenzione. Soltanto in relazione alla legge elettorale europea c’è stata una rimessione alla Consulta, e, non a caso, da parte dei Tribunali di Cagliari e Trieste, città capoluoghi di Regioni con le due più consistenti minoranze linguistiche, la sarda e la friulana, riconosciute con la legge n. 482/1999, di cui sono stato il relatore della sua definitiva approvazione nella XIII Legislatura, dando finalmente attuazione all’art. 6 Cost. e alla Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali del 1 febbraio 1995, ratificata con la 28 agosto 1997, n. 302, mentre siamo gravemente inadempienti rispetto alla Carta europea delle lingue regionali o minoritarie del 5 novembre 1992 e entrata in vigore il 1 marzo 1998, mai ratificata a distanza di 22 anni dall’entrata un vigore e a 28 dalla sottoscrizione. Nei ricorsi già presentati si era eccepito, e a maggior ragione si eccepirà nei prossimi, che violava il principio di parità di trattamento dei parlanti lingue minoritarie, tutelate dall’art. 6 Cost. e riconosciute dalla legge n. 482/1999, che le norme speciali dipendessero dalla regione di residenza, se a statuto speciale o ordinario, e se la tutela della minoranza linguistica di competenza fosse a livello statutario, una discriminazione arbitraria, tanto che fino all’entrata in vigore della legge n. 165/2017 non rientrava nelle norme elettorali speciali proprio la più consistente minoranza linguistica riconosciuta, quella sarda, finché non sono state equiparate dalla legge elettorale vigente le disposizioni di attuazione dello Statuto speciale, nel caso di specie il d.lgs. del 13 gennaio 2016, n. 16, alle norme statutarie. La distinzione tra lingue minoritarie riconosciute dalla legge n.482/1999 e quelle contemplate dall’art. 14 bis del dpr n. 361/1957, come modificato dall’art. 1 c. 7 della legge n. 165/2017 non è stata colta dal Governo, come si desume dalla p. 2 cpv VI e dalla p. 16 alinea I della Relazione illustrativa.
L’art. 3 c. 1 lett. d) della legge n. 165/2017, richiamato dall’art. 3 della legge n.51/2019 si riferisce o, comunque, dovrebbe per mettersi al riparo da censure di incostituzionalità a tutte le minoranze linguistiche riconosciute. In Regioni a statuto ordinario ci sono minoranze linguistiche storiche della stessa consistenza o equivalente della minoranza slovena del Friuli-Venezia Giulia, che, se non fossero stati decimati dall’emigrazione, sarebbero rilevanti come insediamento territoriale. Basta pensare agli albanofoni di Calabria, agli occitani delle Valli piemontesi e ai grecanici del Salento e del Reggino.

La scarsa conoscenza delle minoranze linguistiche degli estensori dello Schema di decreto legislativo per la determinazione dei collegi, sottoposto al parere delle Commissioni Affari Costituzionali di Camera (atto n. 225) e Senato (atto n. 225), è rivelato da un altro “dettaglio diabolico” il Prospetto 20.3-Senato della Repubblica. Elementi definitori della geografia elettorale della circoscrizione a pag. 344, la quart’ultima di 347. In grande evidenza si nota un chiaro NO, in carattere maiuscolo grassetto, alla voce Minoranze linguistiche riconosciute: sono due la maggiore, quella sarda, e la catalana, lingua ufficiale della Comunità autonoma di Catalogna. Quando si è parlato del Friuli-VG (p. 16 Relaz. Ill.va) si è parlato, errando, solo della minoranza slovena, il 50% dei comuni censiti con presenza slovena sono nell’ex Provincia di Udine, non è perciò esatto che è stata concentrata nella circoscrizione che comprende le ex province di Trieste e Gorizia. Non una parola sulla minoranza friulana, la seconda minoranza riconosciuta, dopo la sarda, ma di gran lunga più numerosa della tedesca.

La parte più importante dello Schema di decreto legislativo n. 225 è la suddivisione dei collegi in uninominali e plurinominali, nel complesso e nelle singole circoscrizioni, di norma regionali alla Camera, ad eccezione di Piemonte, Lombardia, Veneto, Lazio, Campania e Sicilia, e sempre al Senato.
Alla Camera i seggi da attribuire in Italia sono 392, cioè 400 – 8 seggi della Circoscrizione estero, la ripartizione tra uninominali maggioritari e plurinominali proporzionali è indicata per ogni circoscrizione nella Tavola 1 (p.6 Rel. Ill.va) in 147 uninominali e 245 plurinominali, che corrispondono nel loro complesso al riparto previsto: 1/8 di 392= 49, quindi 3/8 (49×3)=147 e 5/8 = 245.

Al Senato i seggi elettivi sono 196, cioè 200-4 seggi C.E., ripartiti in 74 uninominali e 122 plurinominali (Tavola 2, p. 8 Rel. Ill.va), anche loro corrispondenti nel complesso alla percentuale tra maggioritari e proporzionali, poiché 1/8 di 196=24,5, quindi 3/8 (24,5×3)=73,5 e 5/8=122,5. Qui il legislatore delegato ha compiuto una scelta autonoma a favore del maggioritario, perché ben potevano essere 73 uninominali e 123 plurinominali. Una scelta non autorizzata dalla norma sull’arrotondamento prevista dal legislatore, che all’art. 2 c.1, lett. a) n. 1) della legge n. 51/2019 aveva deliberato: «Il territorio nazionale è suddiviso in un numero di collegi uninominali pari ai tre ottavi del totale dei seggi da eleggere nelle circoscrizioni regionali, con arrotondamento all’unità più prossima, assicurandone uno per ogni circoscrizione», che non è di nessuna utilità perché 73,5 è assolutamente equidistante da 73 e 74, unità che si ottengono sottraendo o aggiungendo la stessa cifra 0,5 a 73,5. Il legislatore delegato è vincolato dalla «determinazione di principî e criteri direttivi» ex art. 76 Cost., che spettano esclusivamente al Parlamento, senza scorciatoie del tipo decreto-legge, per rispettare l’art. 72 c. 4 Cost. in “materia costituzionale e elettorale”.

Proprio perché la norma del Senato favorisce il maggioritario nello stabilire l’arrotondamento all’unità più prossima, invece, che all’unità inferiore come alla Camera, e prevedendo che vi debba essere obbligatoriamente un seggio uninominale in ogni circoscrizione, l’interpretazione deve essere stretta come norma speciale. Il favor dell’uninominale al Senato deriva già dall’art. 57 c. 3 Cost., che assegna direttamente al Molise 2 seggi senatoriali fissi, unica Regione con la Vall’Aosta a non subire alcun taglio, senza la disposizione speciale, con i criteri Camera il Molise avrebbe avuto 2 seggi plurinominali, poiché i 3/8 di 2 [(2:8) x 3]=0,75, quindi 0 è l’unità inferiore, invece ne avrà 1, anche perché è l’unità più prossima, l’altro è solo formalmente plurinominale, cioè con più candidati per lista, perché elegge un solo seggio e non con il proporzionale, ma con la maggioranza relativa. Con il criterio Camera di un collegio plurinominale con 2 seggi, come in Umbria a Basilica, ci sarebbe stata una rappresentanza plurale. Lo squilibrio a favore dell’uninominale maggioritario è rafforzato dal secondo periodo dell’art. 2 c. 1, lett. a) l.n. 51/2019, di modifica dell’art. 1 c. 2 del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533: «Fatti salvi i collegi uninominali delle regioni che eleggono un solo senatore e quelli del Trentino-Alto Adige/Südtirol». Senza la norma speciale al Trentino-A.A./S, applicando la regola Senato, sarebbero spettati percentualmente 2 collegi uninominali su 6, altrimenti con la riserva di un seggio uninominale per circoscrizione 1 per ogni Provincia autonoma su 3, come Umbria e Basilicata, un’incongruenza dopo avere equiparato le province autonome di Bolzano e Trento per il numero minimo di senatori ridiventano Regione Trentino-A.A./S, per beneficiare di altra norma speciale, il carattere di furbo escamotage, per sfuggire al taglio del 36,50% è confermato, come la sottrazione di 4 seggi dal proporzionale a favore del maggioritario, che aggiunti quello guadagnato con l’arrotondamento a 74 e quello del Molise, ma in realtà 2 fanno 6/7 in più, 7/8, se si calcola anche il seggio della Valle d’Aosta, su 196 seggi sono il 3,57% con 7 e il 4,08% con 8 e proprio nella Camera con la metà dei seggi e elezione a “base regionale”, quindi con soglie regionali implicite molto elevate: con 18 seggi (Lazio e Campania) il quoziente naturale intero, la sicurezza matematica di avere almeno un seggio è (100:18)= 5,55%, quindi superiore al 3% nazionale, che comunque non garantirebbe un quoziente naturale intero (3,22%) nemmeno in Lombardia con 31 senatori.

Che fare? Evitare che si voti per la quinta volta consecutiva con una legge elettorale incostituzionale. Quindi deve essere impugnata con una serie coordinata di ricorsi, come fu fatto per l’Italikum e nel contempo aderire/promuovere iniziative per rendere più agevole il controllo preventivo di costituzionalità delle leggi elettorali, con decisioni che rendano chiaro, che il diritto di votare in conformità alla Costituzione è cosa diversa dall’essere ammesso alle elezioni ed impugnare le operazioni elettorali sollevando con i ricorsi anche l’incostituzionalità delle norme applicate. Se non c’è accertamento prima del voto il diritto non è stato garantito, a meno che, ma per le elezioni parlamentari non è possibile allo stato, che si possa evitare la proclamazione e l’insediamento di membri di assemblee elettive rappresentative di in conseguenza di norme
incostituzionali.

Un primo correttivo è di ristabilire l’impugnabilità delle operazioni elettorali preparatorie per la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica, già prevista dalla legge di delegazione del d.lgs 2 luglio 2010, n. 104, rafforzata dalla previsione in norma regolamentare parlamentare, che non si procede a convalida dei parlamentari proclamati in presenza di rimessione di norme della legge elettorale alla Corte Costituzionale e/o che la rimessione sospenda il termine per i ricorsi alla Giunta delle elezioni della Camera di pertinenza e la decisione per quelli già radicati. Per lo stesso fine bisogna equiparare, anche in via giurisprudenziale, come è avvenuto per l’Ufficio Centrale per i referendum, che gli Uffici Elettorali Centrali o Regionali, che proclamino membri di assemblee rappresentative elettive, composti integralmente da magistrati, possano rimettere norme della legge elettorale alla Corte Costituzionale. Inoltre, visti gli artt. 54 e 93 Cost., che l’Avvocatura dello Stato, che rappresenta ex lege il Governo nei giudizi elettorali, per resistere alla richiesta di rimessione deve ottenere specifica deliberazione del Governo, che se ne assume la responsabilità, dal momento che il Parlamento e il Presidente della repubblica non possono essere evocati in giudizio e l’interesse pubblico potrebbe essere rappresentato dall’intervento facoltativo del PM, al cui ufficio vanno notificati gli atti introduttivi dei giudizi in materia elettorale. Come si può constatare senza introdurre norme di rango costituzionale, perché sarebbe l’ora di attuare la Costituzione, invece, che cambiarla, fossanco per migliorarla.

Una decisione politica, che devono prendere cittadini elettori singoli e associati in assenza di un soggetto politico che dell’attuazione dell’art. 3 c. 2 Cost., faccia lo scopo del suo programma, assicurando tutti i diritti fondamentali a partire dall’istruzione alla salute minacciate dalla pandemia, con scelte di politica economica, finanziaria, tributaria e industriale, rispettosa dell’ambiente, ispirate dai principi del Titolo III Rapporti economici della Parte Prima della Costituzione, per contrastare le crescenti diseguaglianze e la tentazione di autonomie sempre più differenziate tra le Regioni.

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Felice Besostri è avvocato ed ex senatore della Repubblica. Fa parte del Circolo Rosselli di Milano

Un vaccino contro il virus del negazionismo. Per una nuova società della conoscenza

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«La salute è importante ma altrettanto lo è l’economia» disse all’inizio dell’estate 2020 il dottor Alberto Zangrillo lanciando una sorta di manifesto degli ottimisti firmato dall’infettivologo Matteo Bassetti e altri in cui si parlava di casi di Covid-19 «debolmente positivi». Il direttore della terapia intensiva al San Raffaele di Milano, noto per essere stato il medico di Berlusconi, aveva già acquisito visibilità alla fine di maggio affermando in diretta da Lucia Annunziata su Rai 3 che il Sars-Cov-2 «dal punto di vista clinico non esiste più». Eppure sapeva bene Zangrillo che il calo di contagi dopo i terribili mesi di marzo e aprile, oltre all’impegno incessante di medici e infermieri, era dovuto in primis al funzionamento delle basilari misure di distanziamento fisico e di igiene. Sostenere che il virus si stesse indebolendo e che fosse diventato meno aggressivo come hanno fatto insieme a lui, senza uno straccio di evidenza scientifica, alcuni altri medici è stato a dir poco irresponsabile. E ben presto, purtroppo, sono stati smentiti dai fatti. Ma anche da autorevoli virologi e specialisti. Nonché da un contro manifesto di scienziati che però – curiosamente – non fu altrettanto rilanciato dai media mainstream. Allo stesso tempo la comunità scientifica internazionale non smise mai di dire che non si dovesse abbassare la guardia dal momento che non disponiamo ancora né di un vaccino né di farmaci ad hoc per questa malattia. Ma è stato inutile. Come se non bastassero il dolore per le vittime della pandemia e le difficoltà dovute alla crisi economica, negazionisti e complottisti, anche tra i politici, a partire da alcuni leader della destra, su tutti Matteo Salvini e Giorgia Meloni, incuranti del rischio di farci pagare un prezzo se possibile ancor più alto, non hanno mai lesinato le loro fandonie sull’inutilità delle mascherine e della prevenzione.

È bene ricordare che il capo della Lega il 27 luglio 2020 ha addirittura partecipato a un convegno di negazionisti che si è tenuto in Senato, rifiutandosi di indossare la mascherina, per dire che non c’era alcun pericolo. Salvo poi accusare i migranti di essere degli untori. Negazionista intermittente, a seconda della convenienza, insieme a esponenti di Forza nuova, Salvini è fra quanti hanno cavalcato e cavalcano cinicamente stanchezza e malessere sociale per far cadere il Paese in una crisi ancor più grave. Costoro sono in buona (si fa per dire) compagnia. Due nomi per tutti: Trump e Bolsonaro. Ricordiamo tutti l’ingiustificato scetticismo dell’ex presidente Usa sull’efficacia dei dispositivi di protezione personale e gli sproloqui contro provvedimenti restrittivi adottati da numerosi Stati americani per tentare di rallentare la crescita dei contagi. Questo nonostante il 31 luglio 2020, audito da una commissione speciale del Congresso Usa, l’immunologo Anthony Fauci avesse avvertito che il virus negli Stati Uniti continuava ad essere fuori controllo. Anche perché, disse, gran parte delle attività economiche non si sono mai fermate. Consigliere della Casa Bianca per la gestione dell’emergenza sanitaria da Covid-19 e direttore del National institute of allergy and infectiousdiseases da quando il presidente Usa era Reagan, Fauci per questa sua posizione prudente nei confronti della pandemia perché basata sulle evidenze scientifiche è stato più volte attaccato da Donald Trump. L’ex presidente non lo faceva a caso.

Il negazionismo è un virus e diffusissimo negli Usa alimentato dal mito nazionale del produrre e consumare a tutti i costi, da una storica avversione dei conservatori nordamericani verso i dettami della scienza, e da predicatori di sette evangeliche che hanno sostenuto Trump. Ma c’è forse anche dell’altro: una diffusa e mal intesa idea di libertà personale che si traduce in un rifiuto delle norme (in questo caso sanitarie), infischiandosene dei rischi per sé e per gli altri. Su questa stessa linea di Trump e dei leader della destra nostrana si è mosso il presidente brasiliano Bolsonaro, l’amico di Salvini, che ancora nell’agosto 2020 di fronte a 6mln di casi e oltre 150mila cittadini brasiliani morti parlava del Covid come di una banale influenza. Ma non si può nemmeno negare la responsabilità dei media: quando, ci chiediamo, televisione, radio e giornali smetteranno di commettere l’errore stupido ma frequente di trattare come punti di vista equivalenti chi presenta fatti veri e chi esprime idee strampalate senza alcuna competenza?

Sottovalutare il Covid-19 considerandolo solo un’influenza, sminuirne le conseguenze senza l’avallo di adeguate conoscenze scientifiche, convincere che l’uso delle mascherine è inutile, equivale ad una condotta criminale che può costare, ed è costato, la vita a centinaia di migliaia di persone. Nonostante ciò questi politici hanno un seguito. Trump, per dire, ha preso 70milioni di voti alle presidenziali nonostante la gestione scellerata della pandemia e le 270mila vittime statunitensi.

Come ci si può difendere da queste persone e dalle idee velenose di cui si fanno promotori? È una delle domande chiave a cui vogliamo rispondere con questo libro. «Delegittimare la scienza è un passo verso il potere dell’idiozia» diceva nel 2017 il fisico Carlo Rovelli. E certamente viviamo in un’epoca in cui la scienza, la ricerca ma anche l’istruzione pubblica vengono costantemente delegittimate (e definanziate). È questo il motivo per cui il negazionismo dei no vax o dei no mask attecchisce fino a mettere in dubbio l’utilità dei vaccini anti-Covid che si spera saranno pronti nel 2021 e una pandemia che ha ucciso almeno un milione e mezzo di persone nel mondo in pochi mesi? C’è un nesso tra queste idee e quelle criminali di chi nega l’Olocausto? E quelle xenofobe di chi nega l’identità umana dei migranti hanno una matrice comune? Altre domande che attraversano il libro alle quali vogliamo provare a dare una risposta.

«Complottismo, razzismo, annullamento sistematico della verità storica oggi confluiscono nel fiume in piena del negazionismo che, alimentato da soggetti senza scrupoli, rischia di travolgere le deboli difese di popolazioni stremate dal lockdown e dalla crisi economica» scrive lo psichiatra Fargnoli. Oltre a lui e Rovelli, Cattaneo, Garattini, Defanti, Mantovani, Pregliasco, Di Grazia, Fagioli, Homberg, Gatti, Masini e numerosi altri esperti in diverse discipline ci aiutano in queste pagine a leggere il fenomeno del negazionismo da diversi punti di osservazione, indagandone le radici.
Un cardine della democrazia e della nostra Costituzione è il diritto di accesso all’istruzione, alla conoscenza e all’informazione per tutti i cittadini. Per poter deliberare con consapevolezza occorrono conoscenza e senso critico. E serve un dibattito pubblico di qualità e trasparente. Noi di Left con questo libro vogliamo contribuire a stimolarlo.

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Il sommario è consultabile > qui <