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Un virus dalle uova d’oro

FILE - In this April 27, 2018, file photo, a person walks by the headquarters of the Bill and Melinda Gates Foundation in Seattle. Marking another phase in his education agenda, Bill Gates is now taking a more targeted approach to help struggling U.S. schools. The Bill and Melinda Gates Foundation is now funding groups working directly with clusters of public schools in some of the most impoverished regions of the country. (AP Photo/Ted S. Warren, File)

Una delle prime mosse stravaganti di Donald Trump, nella fase iniziale della pandemia, conquistò le prime pagine della stampa internazionale quando il presidente degli Stati Uniti tentò di acquistare in anticipo, sborsando un miliardo di dollari, il brevetto del vaccino di una promettente biotech tedesca per conto della amministrazione nordamericana. Era il mese di marzo. Il governo tedesco intercettò prontamente la manovra, che fallì clamorosamente: «La vendita esclusiva di un possibile vaccino agli Stati Uniti deve essere bloccata in tutti i modi. Il capitalismo ha dei limiti», aveva chiosato in un tweet il politico tedesco Karl Lauterback. Ma CureVac, l’azienda coinvolta nel pasticcio di Trump, una biotech specializzata nella tecnologia Rna alla base di molti programmi di ricerca sul vaccino contro Covid-19, da allora ha fatto il botto. Lanciatasi sul mercato finanziario a metà agosto, i suoi titoli sono svettati del 249,4% in 24 ore, del 400% in due giorni di borsa. E sapete chi è uno dei principali investitori di CureVac? La onnipresente Fondazione Bill e Melinda Gates, naturalmente. In estate, Bill Gates ha irrobustito la partecipazione finanziaria nella ormai prestigiosa azienda tedesca con altri 40 milioni di dollari.

CureVac non è la sola gallina dalle uova d’oro di Bill e Melinda. Stando alle più recenti informazioni della Securities and exchange commission (Sec) americana, la Fondazione Gates ha un portafoglio di investimenti di oltre 250 milioni di dollari in una dozzina di aziende impegnate nella ricerca contro Covid-19 – vaccini, medicinali, diagnostici o altre produzioni medicali. La Fondazione ha inoltre annunciato di voler utilizzare una parte cospicua del suo Fondo di investimento strategico (Strategic investment fund) di 2,5 miliardi di dollari per far avanzare il programma di impegno contro Sars-Cov-2.

Soldi, soldi, soldi. Come spiega accuratamente l’Institute for policy studies, il 2020 è un anno del Ringraziamento per i miliardari americani. Da marzo a oggi, mentre nel mondo divampa una pandemia sociale ed economica senza precedenti, costoro sono riusciti a incamerare profitti dell’ordine di un miliardo di miliardi. Un incremento della ricchezza da capogiro (+34%), per questi “approfittatori della pandemia” che nessuno sembra in grado di controllare. I Gates cominciarono a espandere i loro tradizionali investimenti nel settore farmaceutico dopo che la comunità scientifica, convocata a Seattle nel 2015 per una discussione sugli scenari futuri, lanciò l’allarme su un nuovo patogeno respiratorio destinato a sconvolgere il pianeta. Non era un’eventualità di scuola, ma una questione di tempo, confermarono gli scienziati convinti dell’imminente spillover. Le proiezioni che aveva commissionato restituivano a Gates lo scenario di un contagio che avrebbe colpito i centri urbani in tutto il pianeta; nel giro di mesi, milioni di persone avrebbero perso la vita. Così Bill Gates, gli va dato atto, fece di tutto per lanciare l’allarme. Raccontò la macabra profezia in una Ted Talk divenuta ormai famosa, rilasciò interviste e scrisse articoli sulla stampa scientifica, formulò…


L’articolo prosegue su Left dell’11-17 dicembre 2020

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SOMMARIO

Alpha Kaba: «Vi racconto la mia vita di schiavo in Libia»

FILE - In this Friday, Nov. 29, 2013, file photo an illegal migrant from Nigeria is seen in his cage at a detention camp for illegal migrants in Gharyan, 50 miles (80 kilometers) south of Tripoli, Libya. Libya’s chaos has turned it into a large and lucrative funnel attracting migrants desperate to make the dangerous sea voyage to Europe. With no central authority to stop it, business is booming, creating a vicious circle that only translates into more tragedies in the Mediterranean. (AP Photo/Manu Brabo, File)

Il libro Schiavi delle milizie è la storia di un uomo, Alpha Kaba, catturato da trafficanti di esseri umani in Libia mentre, perseguitato per motivi politici, fuggiva dal suo Paese, la Guinea. Per due anni Kaba, che in patria lavorava come giornalista, è stato gettato nell’inferno di un sistema perfettamente organizzato, il commercio di schiavi. Una realtà che esiste da anni, ma che non è stata mai condannata. Il traffico di umani serve all’economia libica e si svolge già da tempo sotto gli occhi complici dell’Europa. Il 23 settembre scorso, infatti l’Europa ha firmato un nuovo Patto sull’immigrazione che si basa su una ancora più stretta cooperazione con Paesi esterni all’Ue come la Libia. Di fronte all’indifferenza generale, Alpha Kaba ha scelto di trasformare la sua testimonianza in un racconto. Con delle parole semplici, dipinge un mondo di estrema violenza, basato sul razzismo, che gli ha tolto la sua libertà e la sua umanità.

Lei testimonia l’inferno che ha vissuto in un documentario e nel libro Schiavi delle milizie edito da Quarup. Perché le è sembrato necessario raccontare la sua storia ?

Testimoniare è innanzitutto un dovere per me. Fare la scelta di non testimoniare e interpellare il mondo, gli Stati e i dirigenti politici, i governi e le istituzioni, mi renderebbe complice dei crimini che sono commessi in Libia. Testimonio per i miei fratelli e sorelle che sono stati vittime di razzismo e di schiavitù adesso mentre siamo nel ventunesimo secolo. Testimonio per i miei fratelli e sorelle che sono stati ammazzati nel deserto, nelle carceri, nei campi di schiavitù in Libia. Testimonio per coloro che sono morti nel Mediterraneo. Infatti, testimoniare mi libera e mi dà forza. Fino a che non ci saranno più schiavi in Libia e nel mondo, testimonierò. Ma è difficilissimo per me tornare su tutto questo che ho vissuto, lo faccio per una buona causa e spero che la mia storia sarà ascoltata da persone che hanno la volontà di cambiare le cose.

Lei può spiegare perché l’Unione europea è tra i primi complici del traffico di esseri umani organizzato in Libia ?

La Libia è un Paese instabile, in cui non c’è né Stato, né governo. Ci sono solo le milizie e il traffico di esseri umani. Il semplice fatto che l’Ue abbia scelto di firmare dei contratti con il cosiddetto Stato libico, che in realtà è solo virtuale, la rende complice. L’Ue fornisce alle autorità libiche (le stesse che appoggiano le milizie) delle imbarcazioni, le chiede di intercettare i migranti in Mediterraneo ed impedirgli di raggiungere le coste europee. Secondo me, questi trattati sono la peggiore decisione che l’Ue abbia preso nella crisi migratoria. La storia si ricorderà che gli Stati europei sono stati non solo complici del traffico umano ma soprattutto di un crimine contro l’umanità.

Mentre l’inferno libico è alle sue spalle, al suo arrivo in Europa lei ha dovuto far fronte alla solitudine, alla miseria e al sistema burocratico. Spiega che deve dipendere allora «dalla buona volontà di uomini seduti dietro a una scrivania». Il sistema di accoglienza dei profughi in Europa è disumanizzante? Funziona in spregio dei diritti umani?

È difficilissimo per una persona, per esempio un giovane africano, appena arrivato in Europa, scoprire e capire come fare gli interventi necessari al livello amministrativo, e conoscere le leggi dell’Ue sull’immigrazione. Per me, è stato l’inizio di un’altra battaglia. Personalmente, penso che ci sia una carenza di comunicazione, di organizzazione e soprattutto di volontà politica sull’accoglienza dei migranti. Comunque mi rendo conto ogni volta che alcuni governi, associazioni e Ong, forniscono degli sforzi enormi per agevolare l’accoglienza dei migranti. Li ringrazio, ma anche li invito a raddoppiare gli sforzi per il benessere dei migranti. Allo stesso tempo, invito tutte le persone, che pensano che il migrante sia un fardello, un criminale o un ladro venuto qua per trovare dei soldi e mandarli in Africa, ad aprire il loro cuore e le loro porte ai migranti. Le invito a non ascoltare i discorsi dei politici e di fare attenzione a quello che dice la gente. Il migrante è una brava persona, piena di amore e di vita. Mettetevi nei panni del migrante. Richiamo alla solidarietà e all’umanesimo.

Nel suo libro, lei racconta: «Solo una cosa avevamo in comune: eravamo tutti negri», parlando di tutti coloro catturati dalle milizie libiche. Il commercio degli schiavi di cui lei è stato vittima si basa sullo stesso razzismo di quello di chi ha giustificato durante secoli la tratta degli schiavi africani ?

La storia della colonizzazione e della tratta negriera l’ho conosciuta alla scuola media. E pensavo che quell’epoca fosse dei tempi passati e ormai alle nostre spalle. Sono stato molto sorpreso di sapere che nel ventunesimo secolo e a qualche chilometro dalle coste europee, vicinissimo all’Italia, esiste ancora la schiavitù. La schiavitù di cui sono stato vittima è quella del disprezzo e della barbarie contro i neri. È un commercio pianificato e organizzato da gruppi criminali senza cuore che continuano ad imperversare in Libia. Torture e atti di violenza sessuale contro le donne sono ad esempio quello che si svolge in Libia.

Lei descrive un sistema in cui ci sono dei padroni e degli schiavi, ma sembra che non ci sia più spazio per l’essere umano. Come ha fatto a preservare la sua umanità in questo universo di violenza estrema?

In Libia, tutto esiste tranne la speranza. Tuttavia, sono riuscito a non perdere la speranza. Ho trasformato l’umiliazione dell’uomo nero in un’arma per superare tutte le difficoltà, per essere, ogni giorno che trascorre, sempre più forte. Il coraggio, la speranza di rivedere la mia famiglia e soprattutto i miei coetanei, o voglio dire i miei fratelli schiavi, sono stati la mia forza.

Vaccino bene comune, la lezione di Mandela

Sembrano lontanissimi gli anni Novanta quando l’epidemia di Aids consumava l’intero continente africano senza che nessun Paese riuscisse a farvi fronte. Nemmeno il ricco (per i parametri africani) Sudafrica guidato allora da Nelson Mandela. Qui nel 1997 si contavano circa 3 milioni di persone infettate da Hiv e almeno 100mila morti l’anno. Altrove, dove pure l’Aids da un decennio colpiva duramente, la situazione cominciava invece a migliorare grazie all’entrata in commercio, nel 1996, di farmaci antiretrovirali. Questi farmaci si stavano dimostrando altamente efficaci ma avevano una contro indicazione insormontabile per i bilanci di Paesi poveri e in via di sviluppo: erano infatti estremamente costosi e protetti da brevetti. Stiamo parlando di terapie che potevano costare fino a 10mila dollari e di Paesi nei quali la spesa sanitaria annua pro capite si aggirava attorno ai 10 dollari. Per far fronte a questa situazione – che era aggravata, è bene non dimenticarlo mai, anche dall’anatema lanciato dal papa Giovanni Paolo II contro l’uso del profilattico – il presidente Mandela nel 1997 promulgò una legge, il Medical Act, che bypassando i brevetti autorizzava la produzione locale di farmaci generici a basso costo e/o l’importazione degli stessi da altri Paesi. Si stima che in soli tre anni quella legge – che permetteva ai malati di Aids l’accesso alle medicine ad un decimo del costo di mercato – avrebbe potuto salvare la vita a oltre 400mila cittadini africani.

Ma durò solo fino al febbraio 1998 perché venne bloccata da un’azione legale di 39 case farmaceutiche le quali contestavano la violazione delle regole del commercio mondiale in tema di proprietà intellettuale. In particolare quelle che fissano in 20 anni il monopolio per i brevetti sui medicinali, inclusi quelli necessari alla tri-terapia antiAids. Per farsi un’idea, nel 2000, dopo quattro anni dalla scoperta di questa tri-terapia, il numero dei decessi negli Stati Uniti era dimezzato (da 19 a 10mila vittime/anno nel 2000), mentre in Africa – dove viveva il 70% del totale mondiale delle persone sieropositive (25 milioni) – era quasi raddoppiato (da 1.5 a 2.4 milioni di persone). Quando il 5 marzo 2001 si aprì il processo contro il Medical Act di Mandela il mondo occidentale si divise in due. Da un lato c’erano i sostenitori di Big pharma, a partire dagli Stati Uniti, che intendevano in tutti i modi far cadere la legge per impedire la licenza obbligatoria e l’importazione parallela dei farmaci (ovvero le uniche due modalità per ridurre i costi delle spese sanitarie formulate dell’Organizzazione mondiale del commercio e incluse nei Trips, gli accordi commerciali sulla proprietà intellettuale). Dall’altro c’era l’opinione pubblica internazionale sensibilizzata dal mondo dell’associazionismo (qui in Italia si spesero moltissimo Legambiente, Lila e Medici senza frontiere).

E come finì? Finì che il Medical Act non è entrato mai in vigore anche a causa della minaccia di ritorsioni commerciali contro il Sudafrica qualora la legge fosse definitivamente passata. Ma al tempo stesso grazie alle pressioni internazionali le 39 farmaceutiche di Big pharma si convinsero ad abbandonare il processo. Si trattò della prima storica vittoria contro gli interessi commerciali nel campo della salute. Come ci ricorda Salute internazionale nei 15 anni successivi la situazione è andata lentamente migliorando e la mortalità si è ridotta parallelamente al crescere della copertura della terapia antiretrovirale. Ma ancora nel 2016 37 milioni di persone nel mondo erano affette da Hiv/Aids e di queste oltre il 50% non aveva accesso al trattamento. Dal canto suo Nelson Mandela continuò la battaglia fino a convincere le Nazioni unite a dedicare una sessione speciale dell’Assemblea generale al tema della lotta contro l’Hiv/Aids che si concluse con una risoluzione che impegnava la comunità internazionale a sostenere i Paesi più colpiti dall’epidemia, per rendere più diffusi e accessibili gli interventi di prevenzione e di cura.

Sembrano lontanissimi gli anni Novanta eppure oggi di fronte alla pandemia da Covid-19 rischiamo di vivere una situazione simile a quella dell’Hiv-Aids. Con Paesi di serie A che stando alle ultime notizie entro la fine del 2021 potranno vaccinare gran parte delle rispettive popolazioni, e Paesi di serie B che non avendo le risorse finanziarie per poter acquistare le dosi vaccinali necessarie a determinare l’immunità di gregge dovranno fare i conti con il coronavirus chissà ancora per quanto tempo. Già nel giugno scorso uno studio dell’Accademia nazionale dei Lincei aveva evidenziato, nel caso specifico della pandemia, il significato anche politico che il vaccino avrebbe teso ad assumere: «Lo Stato che lo produce per primo può utilizzarlo per affermare così la sua eccellenza scientifica e tecnologica e dimostrare la sua capacità di proteggere per primi gli abitanti della sua nazione e poi gli abitanti dei Paesi amici. La competizione economica diviene così anche competizione politica e misura di potere».

Ed è proprio quello che sta accadendo ora con la Cina e la Russia che hanno approvato vaccini prodotti “in casa” senza aspettare i risultati di fase 3 dei trials. Per non dire di Donald Trump che a ottobre in piena campagna elettorale per le presidenziali Usa si è giocato la carta dell’annuncio di un vaccino pronto entro breve, salvo poi essere smentito dal Ceo della multinazionale da lui chiamata in causa. A Trump è andata male ma a testimoniare quanto anche in Occidente sia sentita la competizione planetaria ci sono i quasi 8 miliardi di dollari di finanziamento per la ricerca e lo sviluppo ricevuti da Stati Uniti, Paesi Ue e Gran Bretagna da sei multinazionali farmaceutiche che oggi si trovano in fase 2 o 3 di sperimentazione di vaccini su cui i Paesi che hanno investito hanno ovviamente una prelazione. E non è un caso se – come abbiamo raccontato su Left del 27 novembre – i Paesi appena nominati, più l’Australia e qualche altro si sarebbero già garantiti 6 miliardi di dosi per un miliardo di cittadini. Così ad altri 92 Paesi poveri rimarrebbero solo 500 milioni di dosi per 4 miliardi di persone. Il quadro già così è abbastanza chiaro e di fronte a queste grandi manovre c’è chi da tempo ha lanciato l’allarme paventando gli squilibri e le discriminazioni che con un vaccino per soli ricchi si verrebbero a determinare. Tuttavia anche grazie a quella antica battaglia di Nelson Mandela siamo ancora in tempo per evitare il peggio.

In che modo? Tutto ruota intorno ai brevetti o meglio alle regole di produzione dei vaccini. Come i nostri lettori sanno è partita da alcuni giorni una raccolta firme europea per spingere la Commissione europea a rendere un bene pubblico mondiale i vaccini anti-Covid19 (e anche i futuri farmaci) che saranno autorizzati al commercio dalle autorità regolatorie internazionali. La richiesta avanzata a Bruxelles è che si dia la possibilità ai Paesi Ue di applicare le clausole contenute negli accordi sui brevetti (gli stessi accordi Trips di cui abbiamo parlato a proposito del farmaci anti-Hiv) e produrre i farmaci generici togliendo o sospendendo per un certo periodo i brevetti, e che tutti i farmaci e i vaccini, che vengono prodotti con contributi pubblici, siano messi a disposizione della popolazione. Attualmente in questa direzione vi è il programma globale Covax per la distribuzione dei vaccini futuri con criteri di equità, guidato dall’Organizzazione mondiale della sanità, dalla Cepi (Coalition for epidemic preparedness innovations) e dall’alleanza Gavi (Gavi the vaccine alliance). Al progetto hanno aderito oltre 180 Paesi fra cui la Cina ma non gli Stati Uniti che con Trump sono anche usciti dall’Oms. Tra questi ci sono 94 Paesi ad alto reddito, ciascuno dei quali ha preso impegni vincolanti. Avranno tutti accesso ai vaccini nella lista Covax e ognuno pagherà le proprie dosi. I restanti Paesi a basso reddito invece lo riceveranno gratuitamente. Il programma Covax lancia un messaggio importante ma non basta a garantire che sia sdoganata definitivamente l’idea che il vaccino è un “bene comune”.

In proposito nei giorni scorsi si è espresso anche il Comitato nazionale per la bioetica ricordando che già a giugno l’Ue raccomandava «una strategia sui vaccini con la doppia finalità di un contenimento dei costi e di un’equa distribuzione». Secondo il Cnb, inoltre, togliere i brevetti sul vaccino è la strada che l’Oms ha più volte caldeggiato, anche se l’eliminazione del brevetto rischia di rallentare significativamente la ricerca e di diminuire il numero dei competitori». Qualora, comunque, sia ammesso il brevetto, prosegue il Cnb «almeno nelle fasi più drammatiche della pandemia, se ne dovrebbe prevedere la sospensione e al contempo si dovrebbe prevedere la concessione di licenze obbligatorie, regolate tramite accordi internazionali». Questa delle licenze obbligatorie potrebbe essere una soluzione per far sì che tutti abbiano la stessa possibilità di difendersi dalla pandemia e al tempo stesso non venga tolta la proprietà intellettuale a chi ha prodotto il vaccino ma come abbiamo visto nel 1997 fu pesantemente ostacolata da Big pharma con il sostegno degli Stati Uniti e nulla lascia pensare che oggi sarebbe diverso con il rischio che si perda troppo tempo appresso a eventuali cause legali. Fatto sta che gli strumenti per arrivare a ottenere un vaccino “bene comune” ci sono. Ora tocca alla politica intervenire per far sì che la produzione e la distribuzione dello strumento chiave per la lotta contro la pandemia non siano regolate dalle leggi di mercato. Facciamo quindi nostre le parole del Cnb: «Questo è un obbligo a cui deve far fronte la politica internazionale degli Stati. L’Europa ha l’opportunità di fare qualcosa di unico, se vuole che tutti i suoi Paesi e tutti i Paesi del mondo abbiano il vaccino».


L’editoriale è tratto da Left dell’11-17 dicembre 2020

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Ingiusti perfino nel vaccino

Ne dovevamo uscire migliori ne usciremo probabilmente vaccinati. Noi. Noi saremo vaccinati perché il caso ha voluto che nascessimo in quella parte di mondo che se lo può permettere, eppure proprio durante la pandemia (che è stata e che continua a essere globale) abbiamo scritto, ascoltato e discusso centinaia di volte sull’esigenza di garantire una copertura vaccinale che fosse solidale e non seguisse solo secondo le logiche di mercato. I dati, per ora, dicono tutt’altro.

I numeri ce li dà People’s vaccine alliance, l’organizzazione formata da Amnesty international, Frontline aids, Global justice now e Oxfam: secondo le loro stime nove persone su dieci non riusciranno a vaccinarsi entro il prossimo anno contro il Covid-19 in almeno 67 Paesi a basso reddito.

Il ruolo del razziatore, manco a dirlo, spetta ovviamente all’Occidente che è riuscito ad accaparrarsi in tempo tutte le dosi che servono. I Paesi ricchi con appena il 14% della popolazione mondiale si sono già assicurati il 53% dei vaccini più promettenti: il Canada addirittura è riuscito a ottenere dosi in tale quantità da poter vaccinare ogni cittadino cinque volte, mentre l’Unione europea 2,3 volte.

Ben 67 Paesi a reddito medio-basso e basso rischiano di essere lasciati indietro sebbene 5 – Kenya, Myanmar, Nigeria, Pakistan e Ucraina – abbiano registrato quasi 1,5 milioni di contagi. «A nessuno dovrebbe essere impedito di ottenere un vaccino salvavita a causa del Paese in cui vive o della quantità di denaro che possiede», dice Sara Albiani di Oxfam Italia: «Senza un’inversione di marcia, miliardi di persone in tutto il mondo non riceveranno un vaccino sicuro ed efficace contro il Covid-19 negli anni a venire».

E a proposito di vaccini ha ragione Heidi Chow, di Global Justice Now quando dice che «tutte le case farmaceutiche e gli istituti di ricerca che stanno lavorando allo sviluppo di un vaccino devono condividere i dati, il know-how tecnologico e i diritti di proprietà intellettuale in modo che sia prodotto un numero sufficiente di dosi sicure ed efficaci per tutti. I governi devono anche garantire che l’industria farmaceutica anteponga la vita delle persone al profitto».
Non è una questione da poco: sull’equità della distribuzione del vaccino si gioca la credibilità mondiale e lo spirito di solidarietà mondiale. Quello che qualcuno diceva che sarebbe arrivato e invece, non è una sorpresa, non c’è. Oppure quello che gli altri dicono che non sia importante, sempre per quella vecchia storia di essere nati dalla parte giusta del mondo.
Notate: un argomento così enorme viene discusso pochissimo, proprio nel momento in cui tutti discutono delle loro piccole facezie. Tutto così gretto, tutto così basso, tutto così ingiusto.
Buon giovedì.

Per approfondire, leggi Left dell’11-17 dicembre 2020

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I pieni poteri

Ok, ci siamo arrabbiati moltissimo quando Salvini, l’estate scorsa, ha chiesto pieni poteri, ve lo ricordate?, per gestire la sua emergenza immaginaria. I pieni poteri sono antipatici e ostici alla democrazia da qualsiasi parte provengano e la democrazia parlamentare è qualcosa da preservare con cura, qualcosa che deve essere difesa da un atteggiamento, al di là di chi sia la causa. Per dirsela tutto: a noi danno fastidio quelli che chiedono pieni poteri, non è un problema o no di Salvini.

E allora bisogna discutere con molta pacatezza ma anche con molto rigore del fatto che Giuseppe Conte insista da tempo nel gestire i soldi del Recovery Fund (e sono parecchi soldi) con un piano di cui addirittura alcuni ministri si dichiarano all’oscuro. E già questa è una mostruosità che andrebbe spiegata, punto per punto.

Ma non è tutto: decidere di assumere un potere assoluto e discrezionale facendo leva sull’ennesima task force costituita semplicemente per nomina (senza concorso pubblico come avviene per i funzionari e senza voto come avviene per i politici) è uno scavalcamento che non porta nulla di buono. A chi rispondono quelli? A Conte? No, mi spiace, no. Ci può andare bene pensare di avere evitato pessimi politici per questa pessima pandemia ma la regola del meno peggio scivola sempre al peggio, sempre, e che ci siano tecnici che non rispondano al regolamento pubblico e nemmeno agli elettori non è accettabile, no.

Ci siamo incazzati con quello per la richiesta di pieni poteri e non è il caso, no, di accettare nemmeno la richiesta di troppi poteri di questo che risulta più garbato e elegante. Non è una questione di partiti, no, è una questione di funzionamento di democrazia. Anche se in questo caso ci tocca essere d’accordo con quelli con cui siamo in disaccordo su tutto.

Buon mercoledì.

Bella ciao, Lidia

È partita Lidia, fiaccata dal Covid ma con tutta la brillantezza dei suoi 96 anni vissuti tutti senza nodi in gola, con la libertà di chi lotta per la libertà e la giustizia. Ogni volta che muore un partigiano a guardarla da fuori questa nostra Italia sembra un po’ più debole per affrontare la ricostruzione e questa brutta aria che spira in giro per l’Europa. Ogni volta che muore una partigiana perdiamo una chiave per leggere il presente.

Lidia Menapace, all’anagrafe Brisca, era una pacifista. E quanto abbiamo bisogno di pacifisti che amano la lotta e disprezzano la guerra, come spesso ripeteva lei. E sapeva bene che la lotta dei partigiani non è qualcosa che va rinchiuso in un solo periodo storico, nonostante sia la tesi di molti a destra e di troppi anche a sinistra: «La lotta è ancora lunga perché quello che abbiamo ottenuto è ancora recente e fatica a durare», disse, con una lucidità che servirebbe a molta della nostra classe dirigente.

Fu staffetta partigiana e rivendicò il ruolo delle donne durante la guerra della Liberazione: «Contesto l’idea che le donne potessero essere solo staffette perché la lotta di liberazione è una lotta complessa», disse lo scorso 25 aprile in un’intervista che le fece Gad Lerner. «Il Cnl del Piemonte mi disse che potevo essere partigiana combattente anche senza portare armi». Di noi dicevano che «eravamo le donne, le ragazze, le puttane dei partigiani». Ma «senza le donne che ricoveravano l’esercito italiano in fuga non avrebbe potuto esserci la resistenza». Quando Togliatti chiese che le donne non sfilassero alla sfilata della Liberazione a Milano perché, secondo lui, il popolo non avrebbe capito lei non seguì l’ordine e si presentò comunque.

Quando si laureò nel 1945 con il massimo dei voti in Letteratura Italiana il suo professore lodò il suo lavoro definendolo frutto di “un ingegno davvero virile”. Lei non gliela fece passare e si prese dell’isterica. È la stessa Lidia Menapace che diventa la prima donna eletta nel consiglio provinciale di Bolzano, dove abitava, poi assessora alla sanità e agli affari sociali. Poi in Parlamento come senatrice di Rifondazione comunista quando era a un passo da diventare presidente della commissione Difesa ma non si trattenne dal dire che le Frecce tricolori fossero “uno spreco di soldi pubblici”. Mai moderata, mai zitta. Venne sostituita dal dimenticabile Sergio Di Gregorio dell’Italia dei Valori.

La sua formazione da donna libera la raccontava così: «Mia madre insegnò a noi due figlie un suo codice etico. Ci diceva: “Siate indipendenti economicamente e poi fate quello che volete, il marito lo tenete o lo mollate o ve ne trovate un altro. L’importante è che non dobbiate chiedergli i soldi per le calze”». Combatté il sessismo nel linguaggio. A proposito delle declinazioni delle parole al femminile scrisse: «Se è tanto poco, dicevo, perché non si fa? Non si fa perché il nome è potere, esistenza, possibilità di diventare memorabili, degne di memoria, degne di entrare nella storia in quanto donne, non come vivibilità, trasmettitrici della vita ad altri a prezzo della oscurità sulla propria».

Era una donna libera Lidia Menapace e non poteva che essere innamorata della libertà.

Buon martedì.

 

È la scuola il luogo da cui partire per ripensare una nuova società

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 04 Novembre 2020 Roma (Italia) Cronaca Studenti manifestano davanti al ministero della pubblica istruzione per chiedere lezioni in presenza Nella foto: gli studenti svolgono le ore di didattica a distanza davanti al ministero Photo Cecilia Fabiano/LaPresse November 04, 2020 Rome (Italy) News Students demonstrate in front of the Ministry of Education to ask for face-to-face lessons. In the pic: students carry out the hours of distance learning in front of the ministry

Dopo il primo lockdown e un’estate quanto mai insolita, da settimane ognuno di noi è tornato a vivere e rivivere spazi di solitudine più o meno ampi e diffusi. Si lavora da casa, si studia da casa, si organizzano webinar e corsi on-line da casa. Nel proprio soggiorno, talvolta in camera oppure in salotto se i figli possono permettersi uno spazio dove studiare o giocare.
Se si esce, ovviamente con la mascherina, si cerca in ogni modo di evitare contatti, quindi confronti.
Si percorrono strade solitarie e si rinuncia a quei colloqui informali che un tempo avrebbero dettato il tempo della giornata: la lettura condivisa del giornale, il caffè in compagnia, le battute scambiate con il vicino nel cortile di casa.
Solitari e soli, a casa e a lavoro, in strada e dentro di noi.

Ci stiamo abituando, non solo al cinismo delle centinaia di morti al giorno, ma anche a un destino che sembra incontrovertibile: rispondere ai bisogni da soli, farlo nella solitudine delle nostre vite.
Questo futuro però possiamo e dobbiamo cambiarlo, riconquistando un livello di consapevolezza, non dettato dalla drammatica situazione che stiamo vivendo, ma dalla partecipazione attiva di un percorso condiviso.
La necessità di rompere il muro della solitudine, che cresce e si fortifica nelle società performanti in cui viviamo, diviene necessità oggettiva per tutti, come la costruzione di un quotidiano che possa permetterci di condividere paure, fragilità, debolezze.
È quindi questa la prospettiva futura lungo cui camminare per ripensare un modello di società diverso, partendo dalla necessità di rimettere in discussione lo stato di cose presente, provando a ridisegnare una società della cura e del rispetto dei bisogni oggetti e soggettivi.

Per farlo dovremmo partire dal luogo di crescita per eccellenza: la scuola.
Dalla scuola, costruendo uno spazio aperto e condiviso, che sia luogo principale per rinsaldare rapporti e legami, coinvolgendo la cittadinanza attraverso percorsi di partecipazione attiva, mettendo a disposizione spazi per un uso comune e pubblico.
Dalle associazioni di volontariato, alle associazioni culturali e sportive.
Rivalorizzare gli spazi quindi, ripensando un modo diverso per vivere il luogo fisico della scuola, con le proprie aule e cortili, non più separato dal resto della città.
Ripartire da qui, dalla necessità di offrire momenti e spazi per ritornare a vivere, ma guardando a immaginando un modo diverso di farlo.
Attraverso interventi di questo tipo, partendo da questo nuovo rapporto con la scuola, ricostruendo legami di solidarietà nelle nostre comunità e nelle nostre città.

Dalla scuola quindi, dalla necessità di non dover misurare i percorsi di crescita attraverso standard quantitativi con il fine ultimo di formare esclusivamente elementi produttivi capaci di svolgere più o meno bene il proprio lavoro.
No a una fabbrica di futuri lavoratori, ma una scuola che torna comunità di crescita, confronto, sapere umano trasversale.
Per farlo, sullo sfondo, resta da ricostruire il ruolo di una politica partecipativa fuori dai compiti esclusivamente istituzionali, politica come spazio di aggregazione e crescita, organizzazione collettiva di una comunità ampia e diffusa.

La politica con un ruolo mutualistico rinnovato: non più sostitutiva del welfare sociale, seppure talvolta anche questo compito risulti necessario, ma come motore di legami e rapporti.
Produttrice di solidarietà, costruttrice di spazi aperti in cui la priorità torna essere la centralità dell’essere umano in tutte le sfumature.
Se nel Paese le esperienze dal basso sono molteplici e variegate, la sfida è ridare una dimensione politica unitaria a queste pratiche, per allacciarle con un filo comune e disegnare una rete su cui rielaborare un pensiero nuovo capace di contenere al suo interno le molteplici eterogeneità della sinistra.
Il lavoro con tutte le sue articolazioni, lo sviluppo sostenibile, l’emergenza climatica, il femminismo e la lotta al patriarcato, l’antirazzismo.
È una sfida politica, culturale e umana da cui non possiamo rifuggire cercando inutili e già esplorate scorciatoie.

*-*

L’autore: Lorenzo Ballerini è consigliere comunale di Campi a sinistra, Campi Bisenzio (Firenze) 

I medici ci sono ma non possono medicare

Foto Claudio Furlan - LaPresse 22 Giugno 2020 Milano (Italia) News Manifestazione medici speciallizandi per regolarizzazione dopo i mesi dell’emergenza covid Photo Claudio Furlan - LaPresse 22 June 2020 Milano (Italy) News Medical doctors under training demonstration for regularization after the months of the covid emergency

Vi è capitato di leggere il sottopancia durante una qualche trasmissione televisiva in cui lo Stato cerca urgentemente medici disponibili per riuscire a arginare la difficile situazione degli ospedali italiani? Quante interviste a primari o direttori di ospedali avete ascoltato in cui lamentano la mancanza di personale in corsia per riuscire ad assorbire la pandemia? Avete letto o visto di terapie intensive che sono già attrezzate ma non riescono a partire perché manca il personale sanitario?

Da oltre due mesi più di 23mila medici sono parcheggiati, inutilizzati, bloccati dal Consiglio di Stato che ha accolto l’appello cautelare del ministero dell’Università contro i ricorsi dell’ultimo bando e così nonostante il cronoprogramma prevedesse l’entrata in servizio con l’assegnazione del luogo di lavoro per migliaia di medici oggi rimane tutto fermo, tutto appeso.

La prova per i 24mila candidati avrebbe dovuto svolgersi a luglio ma si è riusciti a farla solo il 22 settembre. L’elenco degli ammessi avrebbe dovuto essere pubblicato alle 12 del 5 ottobre ma l’enorme mole di ricorsi ha spostato tutto al 26 ottobre. Non si muove nulla per un mese finché l’elenco definitivo non viene stilato il 23 novembre. Il giorno successivo il Mur pubblica anche la tabella riepilogativa per la scelta della sede, l’assegnazione e l’immatricolazione: 1 dicembre chiusura della fase di scelta per i candidati, 3 dicembre pubblicazione delle assegnazioni alle Scuole di specializzazione, entro il 10 dicembre immatricolazione dei futuri specialisti, 16 dicembre pubblicazione degli esiti delle immatricolazioni per ciascun candidato, ovvero il via libero definitivo alla presa di servizio. E invece? E invece niente. Tutto rimane in sospeso.

E sapete perché ci sono così tanti ricorsi? Perché il ministero ha compiuto un errore nella compilazione del bando che escludeva determinati titoli dal punteggio generale. L’errore sbagliato nel momento sbagliato. I medici sono esasperati. Immaginatevi noi a leggere notizie così.

Buon lunedì.

Libertà, subito, per Öcalan

QANDIL, IRAQ: Female guerrillas dance a traditional Kurdish dance while holding a flag depicting Apo Ocalan, the spiritual leader of the PKK and PJAK. The PJAK is a Kurdish separatist group fighting a guerrilla war for Kurdish independence in Iran. They were founded in 2004 when they split from the PKK, the (Kurdistan Workers' Party) which is fighting for Kurdish independence in Turkey. Both groups follow a general Communist ideology and both have male and female fighting units. Photo by Sebas (Photo by Sebastian Meyer/Corbis via Getty Images)

Quando Öcalan giunse a Roma ci insegnò in che cosa consistesse la sua splendida proposta universale del confederalismo democratico. Non un disegno secessionista, di frantumazione di popoli, come veniva presentato dalla stampa dominante per l’influenza turca, ma un progetto di superiore unità di popoli. Fondata sull’autodeterminazione, sull’utopia della democrazia quotidiana, permanente, perenne, sul pluralismo di genere, di culture, di etnie. Ci apparve più come un richiamo all’“autogoverno dei produttori” della Comune di Parigi che il richiamo ad un nazionalismo populista.

Öcalan a Roma ci spiegava, con calma e determinazione, che i volti, gli sguardi, le vite delle curde e dei curdi reclamavano visibilità ed il riconoscimento storico di un processo di rivoluzione e di liberazione. Disegnando una cooperazione internazionale che non fosse schiava di sistemi mercantili, di geopolitica, di egemonismi militari. Ma l’Unione europea ed il governo italiano non vollero comprendere la grandezza e la generosità storica del messaggio di Öcalan. Fu tradito. Fu consegnato dall’Europa vigliacca nelle mani dei suoi carcerieri. Prevalse la logica degli affari. La Confindustria italiana fece pressione sul pavido governo italiano affinché si liberasse della presenza di Öcalan; temeva per i suoi affari con la Turchia. Prevalsero gli equilibri militari della Nato. Prevalse l’egemonismo del governo israeliano come struttura di comando dell’intera area mediorientale e mediterranea. Ora vogliamo, rilanciando la campagna per la libertà di Öcalan, riaprire il tema anche sul piano giuridico e giurisdizionale. Il primo ottobre del 1999, infatti, la seconda sessione civile del Tribunale di Roma ha dichiarato il diritto di Öcalan all’asilo politico ai sensi dell’articolo 10, terzo comma, della Costituzione italiana. Il governo italiano, con atto grave, si oppose alla richiesta di Öcalan. Nel procedimento, non a caso, era intervenuta anche la Turchia che, come il governo italiano, contestava la fondatezza della domanda di asilo. Il provvedimento giudiziale del 1999 puntualmente descriveva la negazione, per i Curdi, dei diritti fondamentali e delle libertà, che caratterizzava lo stato di assoluta discriminazione di un intero popolo, rappresentato, per l’appunto, da Öcalan. L’articolo 10 della Costituzione stabilisce che…

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Gli autori: Giovanni Russo Spena è un accademico e costituzionalista, già senatore Prc per due legislature. L’avvocato Arturo Salerni è uno dei difensori di Öcalan in Italia, legale della Ong Open arms e presidente della Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild) 


L’articolo prosegue su Left del 4-10 dicembre 2020

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Abiy Ahmed, da colomba a falco

Abiy Ahmed (2nd L), Prime Minister of Ethiopia, is seen among members of a military band during an event to honour the national defence forces in Addis Ababa, on November 17, 2020. - The United Nations on November 17, 2020 expressed alarm at the "large-scale humanitarian crisis" developing on the border between Sudan and Ethiopia, where thousands of people are fleeing the ongoing fighting in northern Tigray every day. (Photo by EDUARDO SOTERAS / AFP) (Photo by EDUARDO SOTERAS/AFP via Getty Images)

«La guerra è l’epitome dell’inferno per tutti coloro che vi sono coinvolti. La guerra rende gli uomini aspri, senza cuore e selvaggi». Era il 10 dicembre 2019 quando con queste parole il primo ministro etiope Abiy Ahmed riceveva il Premio Nobel per la Pace a Oslo per la «testimonianza senza tempo degli ideali di unità, di cooperazione e coesistenza reciproca». In effetti, salito al potere nell’aprile del 2018 a soli 42 anni, Ahmed aveva rappresentato una speranza per l’Etiopia e forse per l’intero continente africano: in politica estera, aveva firmato la pace con la vicina Eritrea ponendo fine a un conflitto durato 20 anni mentre in politica interna aveva deciso di liberare i prigionieri politici, di riallacciare il dialogo con gli oppositori in esilio e combattere la corruzione promuovendo la riconciliazione, la solidarietà e la giustizia sociale.

In meno di 365 giorni di quell’uomo così tanto lodato in Occidente sembra essere rimasto ben poco. La brutale guerra civile iniziata da Addis Abeba nel nord del Paese il 4 novembre scorso contro il Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf) sconfessa tutto quanto il leader etiope aveva detto a Oslo. Ovviamente, Ahmed si difenderebbe dalle accuse: l’operazione militare nel nord del suo Paese è solo per «liberare» il territorio tigrino e riportare «il governo della legge» nell’area dove imperversano le forze «terroriste» del Tplf. Ma la realtà è come sempre ben più complessa: il conflitto in corso nel Tigray è figlio di mesi di forti tensioni e violenti scontri interetnici che hanno preso di mira non solo i tigrini ma anche gli oromo, l’etnia maggioritaria del Paese a cui appartiene il primo ministro.

Lo strappo tra Tplf e il governo di Ahmed risale a un anno fa quando il premier dissolse il governo di coalizione e creò al suo posto il “Partito della prosperità” a cui però non ha aderito la forza tigrina. Il clima di ostilità è montato di giorno in giorno con il Tplf che ha denunciato la campagna governativa repressiva nei suoi confronti. La situazione è però precipitata soprattutto a ottobre quando nella regione del Tigray, in cui risiede il 6% dei 110 milioni complessivi di etiopi, si sono svolte le elezioni regionali nonostante il governo federale avesse deciso di…


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