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Alessandro Barbero: Dante e i tempi della politica

Un uomo del suo tempo. Dante, il libro di Alessandro Barbero appena uscito per Laterza, ci restituisce con grande vividezza il periodo turbolento e di cambiamenti in cui Dante ha vissuto come protagonista. Non solo gigante della letteratura ma uomo medievale, cavaliere e soldato, politico impegnato nella Firenze guelfa e poi esiliato e costretto a cercare rifugio nelle corti dei signori.

Come ci spiega, professor Barbero, l’apparente contraddizione tra il politico impegnato nel governo popolare e l’autore del De Monarchia? Si tratta di un cambiamento di opinione profondo o dovuto alle circostanze? La nobiltà, di spirito e di sangue, resta nel pensiero di Dante una costante con cui si confronta, chi sarebbero oggi i “nobili” agli occhi di Dante?
Non c’è dubbio che Dante ha cambiato profondamente il suo modo di vedere la politica fra il periodo in cui era un uomo di potere nel comune guelfo e popolare di Firenze e quello in cui era un esiliato costretto a cercare ospitalità presso grandi corti signorili, anche ghibelline, e a sperare nella vittoria dell’imperatore Enrico VII. La contraddizione non è apparente, è reale. Quello che non sapremo mai è quanto sia stato sincero, prima e dopo, quanto abbia ammesso con se stesso di aver cambiato opinione, quanto un mutamento dovuto al disastro della sua carriera politica abbia prodotto in lui una trasformazione davvero profonda: queste sono domande a cui è impossibile rispondere, come faremmo a saperlo? Però possiamo dire senza dubbio che Dante fra il 1295 e il 1301 ha partecipato con ruoli di grande responsabilità al governo di popolo, è stato membro di consigli per i quali il criterio di ammissione era di essere plebei, e si è iscritto, anche se solo pro forma, a una corporazione di mestiere; mentre nei suoi scritti successivi all’esilio parla con disprezzo della gente che lavora, dichiara di volersi rivolgere solo ai nobili, usa con i suoi protettori il linguaggio della fedeltà e della sottomissione feudale, e finisce, nel Paradiso, per vantarsi della propria nobiltà di sangue; quanto alla legittimità dei governi comunali, nella Monarchia dichiara che non ne hanno nessuna, e non rappresentano nessuno: l’evoluzione ideologica è davvero impressionante!

Dante, il popolo e i Signori, un rapporto dialettico. Quando pensiamo al governo del popolo noi contemporanei pensiamo a un sistema democratico basato sulla rappresentanza e la partecipazione: cosa c’era di paragonabile nel governo del popolo a cui partecipa Dante e di cui nel libro si trovano tanti riferimenti documentati?
Anche se gli storici esitano a parlare di democrazia, per paura di cadere nell’anacronismo, in realtà il sistema aveva davvero dei tratti democratici: qualunque cittadino poteva partecipare e…


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Mathijs Deen: In viaggio, su antiche strade, verso il futuro dell’Europa

Con Per antiche strade Mathijs Deen ci guida in un immaginario viaggio lungo le vie che attraversano l’Europa fin dalla sua antichità. Attraverso un ampio percorso nel tempo e nello spazio, lo scrittore olandese ci parla della costruzione europea, come progetto culturale comune nato molti secoli prima che l’Europa diventasse in qualche modo un’unità. Come arterie e vene, le vie che solcano il Vecchio continente hanno visto scorrere la linfa di idee, speranze, scambi, fin dalla preistoria. «Tanti sono i percorsi significativi in questo senso, dipende dalla storia che vuoi raccontare», accenna l’autore di questo affascinante libro edito da Iperborea, quando gli chiediamo quali sono gli itinerari più interessanti.

Se i primi Sapiens arrivarono a piedi via terra «con il sole sulla schiena e il mondo che si apriva verso nord», nell’età del bronzo i fiumi furono le rotte principali. Ogni epoca e ogni civiltà ha lasciato la sua impronta costruendo ponti e connessioni? «Quando i romani conquistarono il continente i fiumi erano ancora di primaria importanza, ma riuscirono a costruire strade, valichi e ponti percorribili tutto l’anno», ricostruisce Deen. «Nel Medioevo le vie dei pellegrini divennero sempre più importanti ed era molto conveniente che la vecchia viabilità fosse ancora in vigore. Anche se molte strade romane caddero nel dimenticatoio, furono ancora utilizzate nel Medioevo e oltre, quando governanti come Carlo Magno, Luigi XIV e Napoleone iniziarono a migliorarle».

Attraverso i secoli, le strade sono state il più importante tessuto connettivo della sfaccettata identità europea che si andava formando. «Quelle che attraversavano i divari naturali furono di primaria importanza – prosegue Deen -. Penso per esempio alle strade attraverso le Alpi che Augusto costruì. Ma anche all’importanza del progresso nella costruzione navale non va sottovaluta», dice lo scrittore che dedica un importante capitolo di Per antiche strade ai Celti che dal IV secolo a.C. sciamarono dalla Francia e dalla Svizzera verso i Balcani, seguendo il corso del Danubio.
Per quelle vie non si avventuravano solo sovrani, conquistatori ed eserciti ma anche e soprattutto viaggiatori, studiosi, cercatori di fortuna, migranti.
Importantissimo fu il loro contribuito nel tracciare il ricco mosaico culturale europeo, come documenta lo scrittore e giornalista olandese in questo suo primo libro tradotto (da E. Svaluto Moreolo) e pubblicato in Italia. «Con tutta evidenza c’era/c’è il tentativo egemonico della Chiesa di Roma, che ha offerto ai cittadini di territori rivali una visione comune della vita e della morte. Viaggiare nel territorio dei Paesi vicini all’epoca era un’attività rischiosa, ma lo era molto meno se…


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Diritti annegati

Foto di Sea watch Italia

La questione della migrazione si trova oggi di fronte a un triplice momento spartiacque, a livello globale, europeo e nazionale. È in discussione infatti, come abbiamo ricordato su Left del 20 novembre, l’applicazione a livello europeo dei Global compact per la migrazione e per i rifugiati, del nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo, mentre in Italia la Camera ha dato il via libera alla fiducia sul decreto Immigrazione, che avrà conseguenze che si estendono ben al di là del territorio nazionale, in quanto in esso vengono ridefinite le procedure in vigore in merito al salvataggio in mare.
Come è noto da molti anni ormai a tutti i cittadini italiani, l’Italia si trova a condividere, insieme ad altri Paesi, lo spazio delle frontiere esterne europee, con tutte le conseguenze che ne derivano, soprattutto in materia di salvataggio in mare. Non a caso, il testo di questo nuovo decreto-legge fa riferimento al Codice della navigazione che risale al 1942 nonché alla Convenzione di Montego Bay dell’1982. È dunque chiaro che le disposizioni in materia di immigrazione approvate alla Camera, la cui applicazione viene riconosciuta come di “straordinaria necessità ed urgenza”, avranno un impatto decisivo tanto sullo spazio del Mediterraneo centrale quanto sulle frontiere esterne, e dunque sull’Europa intera.
L’importanza a livello nazionale è poi resa ancor più evidente dal fatto che questo decreto-legge costituisce il primo tentativo di modifica dei decreti Sicurezza e Sicurezza bis promossi dal governo precedente. Tale sostituzione, a lungo attesa, è di enorme rilievo, se si considera che la risposta del precedente governo italiano alla crisi dei rifugiati e al controllo delle frontiere esterne ha coinciso di fatto col tentativo di importare il modello australiano di procedura offshore e delle politiche di detenzione (la Operation sovereign borders, nota come “Stop the boats”) e che il decreto Sicurezza bis è rimasto in vigore ben oltre la data di dimissioni del governo precedente.
In realtà, in tanti ci aspettavamo che questa operazione di emendamento arrivasse molto prima. Ci era parso inoltre essenziale che i decreti non venissero emendati ma che fossero riscritti completamente su basi diverse. Desta inquietudine il fatto che il nuovo decreto-legge abbia come base le idee dell’ex ministro degli Interni, Matteo Salvini. È nostra opinione che una legislazione nazionale sull’immigrazione in un Paese come l’Italia non possa che partire da basi diverse. Certamente, gli emendamenti riportano a una situazione più accettabile rispetto a quella dei decreti salviniani. Ma un ritorno al pre-Salvini non costituisce un passo avanti. Si torna a qualche anno fa. La questione in gioco nell’attesa modifica della legislazione nazionale sull’immigrazione era invece quella di cancellare completamente lo scempio provocato dal governo precedente, il quale, lungi dall’essere mosso dall’intenzione di occuparsi del fenomeno migratorio e di gestirlo, lo aveva invece utilizzato a scopo propagandistico per controllare i sentimenti, le decisioni e gli orientamenti dell’opinione pubblica. Il nostro…

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Le autrici: Caterina Di Fazio, dottoressa di ricerca in filosofia alla Sorbona, ricercatrice post-dottorato presso l’Università di Maastricht, è cofondatrice di Agora Europe; Giorgia Linardi, giurista specializzata in diritti umani e migrazioni, è referente per l’Italia e portavoce dell’Ong Sea watch


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La politica anaffettiva

Come si può definire ciò che è sinistra da ciò che non lo è? Questa domanda è la domanda da farsi se si vuole cercare di costruire una politica nuova. E dico politica e non “sinistra nuova” perché penso che la politica nel senso illuminista del termine, da cui deriva anche la distinzione tra destra e sinistra, è probabilmente giunta al suo termine. Ma qui bisogna intendersi bene sul senso delle parole. Il politico moderno si propone all’elettore per essere eletto sulla base di un programma di amministrazione della cosa pubblica. Un elenco di cose da fare, di promesse da mantenere una volta eletti. Ma questa non è la sostanza della politica quanto più una questione più di marketing. Di fatto è ridurre la politica alla mera gestione della realtà materiale. Cosa che in effetti è anche importante. Ma certamente non si esaurisce in questo. L’azione politica è l’azione materiale. Tuttavia prima di essa il politico avrà certamente una ricerca e una idea della realtà che lo circonda. Perché il politico, colui che fa la politica, è un essere umano. E tutti gli esseri umano hanno un’idea del mondo. Non è possibile immaginare una realtà di un essere umano senza un’idea del mondo.

Ma attenzione: idea del mondo non si riferisce solo alla realtà materiale che ci circonda. Idea del mondo si riferisce, ed in realtà si riferisce in particolare, a un’idea della realtà umana. Cosa ci muove? Cosa ci appassiona e spinge a fare le cose? Cosa ci spinge a proporre una nostra idea politica o ad appassionarci a una determinata visione del mondo, qualunque essa sia? L’azione politica viene quindi dopo un’idea della realtà. E come detto non esiste essere umano senza un’idea del mondo, che, possiamo dire, è un’idea politica. Si potrebbe pensare che sia possibile una gestione della realtà senza avere un’idea del mondo e degli esseri umani che lo abitano. In realtà ciò non è possibile per il semplice fatto che pensare di non avere un pensiero al proposito è già esso un pensiero preciso sugli esseri umani. Il politico che dice “io intendo amministrare nel massimo interesse economico di tutti” in realtà ha un’idea ben precisa della realtà umana anche se dice che essa non è rilevante per il suo programma di governo. Immaginare che gli esseri umani sottostiano a forze economiche immateriali (la “mano invisibile” di Smith) è annullare e negare l’esistenza dei rapporti tra gli esseri umani. Sono infatti i rapporti tra le persone, nello specifico i rapporti economici, che realizzano qualcosa che poi, dimenticando l’esistenza di tali rapporti, viene pensato come una mano invisibile che regola quei rapporti.

Quella “cosa invisibile” non è altro che la risultante di tanti numerosissimi piccoli rapporti. In questi piccoli rapporti il danaro è il mezzo di comunicazione. Perché il denaro è un mezzo, non certamente un fine. Il fine, per gli esseri umani, è sempre altro, anche quando non sembra così. È sempre qualcosa di immateriale. La realtà materiale è semmai qualcosa che viene usata per fare rappresentazione, per significare qualcosa. La cultura in cui siamo immersi fin da bambini piccolissimi è quella che fa riferimento al logos occidentale. Quel pensiero che mette al primo posto la ragione, della primazia dell’utile sull’inutile, del non affetto sull’affetto. La gestione della realtà materiale, della polis, diventa l’attività della ragione che deve mettere da parte ciò che non è razionale, ciò che non è utile. E se questo è certamente importante e va bene per fare in modo che la realtà materiale sia al nostro servizio per la sopravvivenza, non funziona più quando il mettere da parte l’irrazionale diventa annullamento, cancellazione di esso. L’essere umano sarebbe tale per la sua caratteristica di essere razionale. Tutto ciò che non lo è diventa qualcos’altro di sconosciuto. L’uomo razionale per rimanere tale deve allora allontanare da sé l’irrazionale. E se non sa fare questa separazione, se fa scomparire quella realtà irrazionale da sé stesso, perde la sua umanità. Perde gli affetti. E inventa dio. Dio diventa ciò che non è ragione. Diventa ciò che permette agli artisti di essere geniali senza razionalità.

L’idea del mondo e degli esseri umani allora diventa quella di un universo macchina. In cui noi tutti siamo degli ingranaggi. Pezzi di una grande macchina che però, dato che gli esseri umani difficilmente si comportano da macchine, non si riesce mai a far funzionare bene. Potremmo dire che l’homo occidentalis basa il suo pensiero sulla scissione del pensiero dal processo affettivo (cfr. Massimo Fagioli, Una depressione, L’Asino d’oro edizioni, 2020). Ma cosa è questo irrazionale ingovernabile che impedisce la realizzazione della perfezione razionale? La ragione lo pensa come mostro violento e pericoloso. Ma viene denunciata nella sua stupidità dal genio di Kafka nella metamorfosi. Il mostro è in realtà la ragione. Perché il pensiero che perde l’irrazionale non capisce e ha paura. Deforma lo sconosciuto rendendolo inconoscibile. E poi collocandolo in qualcosa di conosciuto: l’essere terrificante, mezzo uomo e mezzo animale. L’irrazionale mostro. E viene detto che sarebbe quello che uccide senza motivo e che è in ognuno di noi, pronto ad esplodere. Ed ecco che gli artisti, i poeti, gli scrittori, i musicisti, le donne e i bambini non si capisce più cosa siano.

Il genio è un mostro? O è creatura divina? O entrambe le cose? La verità è che l’irrazionale è necessario all’esistenza di ogni società. Non può esistere una società perfettamente razionale. Sarebbe la pazzia totale. I tentativi nella storia ci sono stati. Sono i totalitarismi più terrificanti. È il nazismo, l’annullamento totale della realtà umana. Le società moderne sono organizzate secondo una concezione liberale che ha la sua matrice nella Rivoluzione francese. Ma quella rivoluzione liberale era monca perché aveva dimenticato, o meglio annullato, l’irrazionale. I diritti di libertà, uguaglianza e fraternità infatti valevano solo per gli uomini. Non per le donne e per i bambini. Era una rivoluzione solo razionale e quindi monca. Mancava la metà del mondo. Le donne e i bambini. E visto che l’irrazionale è necessario ma terrificante, la religione si prende il compito di contenerlo, di narcotizzarlo. La religione sono le bugie che vengono dispensate come lenitivo del senso di colpa di non essersi saputi ribellare alla cultura razionale in cui viviamo. Perché ribellarsi è difficile. Si rischia grosso. Perché non bisogna fare negazioni della realtà. Per fare una rivoluzione è necessaria grande intelligenza. La politica è idea che diventa azione, dicevamo. Come deve essere allora una politica di sinistra?

È semplice: non deve negare l’esistenza dell’irrazionale. Ne deve comprendere l’origine e la realtà superando la scissione millenaria. E di quel pensiero nuovo deve fare la base teorica della propria proposta politica. Questa è un’idea che ci ha regalato con il suo lavoro e la sua ricerca che ha compiuto in pubblico, qui su queste pagine per 11 anni, Massimo Fagioli. Ciò che ci rende esseri umani, diversi dagli animali, è il pensiero di esistenza di sé stessi che è immediatamente idea di rapporto con l’altro, che compare alla nascita per la reazione della materia biologica del cervello, la retina, alla realtà inanimata della luce. La reazione, che è specie specifica degli esseri umani, e ciò che ne deriva è ciò che ci fa quello che siamo. È la matrice del pensiero. È la capacità di amare, di fare le cose per niente, di fare cose che non hanno un utile. Fare cose il cui fine è soltanto dire ti amo. Il cui fine è dire io sono perché tu sei. Il cui fine è la realizzazione dell’altro che è realizzazione di sé stessi. La sinistra se vuole trovare una nuova strada deve comprendere questa dinamica. Perché è necessario questo pensiero nuovo che permette di superare la scissione che impera sulle menti degli esseri umani da 3mila anni, scissione che finché non verrà vista e superata impedirà sempre l’esistenza di una qualunque politica che non sia, in un modo o in un altro, di annullamento della realtà più profonda degli esseri umani e quindi impedirà la loro realizzazione. La sinistra deve rinnovarsi e trovare un rapporto completo con la realtà umana. La sinistra ha sempre avuto un rapporto con la realtà umana che è più reale di quello delle altre forze politiche perché ha alla sua base un’idea di uguaglianza materiale.

La novità possibile è che questo rapporto con la realtà umana superi la scissione e l’annullamento millenario e non sia più parziale. Non riguardi solo la realtà materiale. Ma comprenda anche la realtà psichica umana. Una realtà non materiale sempre annullata. È questo il pensiero nuovo che la sinistra deve accogliere per poter, finalmente, nascere.


L’articolo è tratto da Left del 4-10 dicembre 2020

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Sarà l’anno della web tax

An activist of the Association for the Taxation of financial Transactions and Citizen's Action (ATTAC) sticks a poster "Apple pay your taxes" on the facade of the Apple store window during a protest against tax evasion on the release day of the new iPhone X in Aix-en-Provence, southern France on November 3, 2017. / AFP PHOTO / ANNE-CHRISTINE POUJOULAT (Photo credit should read ANNE-CHRISTINE POUJOULAT/AFP via Getty Images)

Un’importante svolta potrebbe arrivare con la presidenza italiana del G20 che è stata inaugurata il primo dicembre: stando ai rumors che arrivano da Bruxelles, Giuseppe Conte adesso ha l’occasione di premere sull’importanza di un accordo per la tassazione dei giganti del web. D’altronde, che il 2021 possa essere l’anno zero di una nuova Europa anche da questo punto di vista, in un’ottica di maggiore inclusione e giustizia sociale, è opinione condivisa nel Parlamento europeo. Lo stesso ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, nell’incontro di qualche giorno fa con il collega francese Bruno Le Maire è stato chiaro: «Abbiamo discusso di un tema importante a livello globale ed europeo: quello della tassazione, della digital tax e del livello minimo di tassazione. Sono due pilastri su cui siamo impegnati in una battaglia comune per raggiungere un accordo a livello globale che come presidenza italiana del G20 vogliamo rilanciare». Come è noto, l’Unione europea è membro a pieno titolo del G20 insieme a tre dei suoi Stati membri: Francia, Germania e Italia ed è rappresentata ai vertici del G20 dal presidente della Commissione europea e dal presidente del Consiglio europeo.

Pertanto, le strade che ora si aprono sono due: giungere a un’intesa europea di modo che ci sia una politica fiscale condivisa, o agire autonomamente. La stessa Francia ha già deciso di tassare i colossi come Amazon, Google, Apple e gli altri gruppi con ricavi sopra i 750 milioni di euro, con un’imposta pari al 3% del fatturato che realizzano nel Paese. E su questa strada potrebbe adesso muoversi anche l’Italia: il governo Conte – secondo quanto risulta a Left – sta ragionando su una norma da inserire già in legge di Bilancio e che poi cesserebbe di esistere nel momento in cui dovesse esserci un’intesa sovranazionale. «Oggi più che mai occorre adeguare i criteri di tassazione e occorre farlo attraverso un’azione comune e condivisa a livello europeo» spiega Francesca Galizia, capogruppo M5s in commissione Politiche Ue alla Camera. Una delle idee su cui si starebbe ragionando è quella concepita da Leu: prevedere che tutte le piattaforme abbiano una sorta di partita Iva di modo da essere assoggettate al fisco.
La vera sfida, però, si gioca tra Ocse ed..


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Quante fake news sulla proposta di una patrimoniale

Foto Claudio Furlan - LaPresse 24 Aprile 2020 Milano (Italia) News Elena , con la figlia Erika e la cugina Rita , vivono da mesi dopo lo sfratto da una casa popolare in ripari di fortuna sotto il ponte stradale di via Gonin , nel pieno dell’emergenza coronvirus Photo Claudio Furlan/Lapresse 24 Aprile 2020 Milano (Italy) Elena, with her daughter Erika and her cousin Rita, have been living for months after the eviction from a public housing in makeshift shelters under the road bridge in via Gonin, in the midst of the coronavirus emergency

In Italia il 10 per cento più povero della popolazione ha un patrimonio netto negativo: solo debiti. Il 10 per cento più ricco concentra invece nelle sue mani il 44 per cento della ricchezza nazionale. Si tratta di un divario insostenibile, che tuttavia da anni non fa altro che allargarsi. In quel baratro, cade la possibilità per milioni di persone di avere una vita dignitosa, ma anche la capacità dello Stato di garantire servizi pubblici universali di qualità, a partire da scuola e sanità. Ce ne siamo accorti in questi lunghi mesi segnati dalla pandemia, in cui le pessime condizioni dei sistemi di trasporto pubblico, lo sgretolamento della medicina territoriale, il sovraffollamento delle strutture destinate all’istruzione hanno compromesso seriamente la nostra capacità di resistenza al virus.

Il Covid-19 è un fenomeno naturale, ma le difficoltà in cui è precipitata la nostra società dipendono da un modello economico preciso, che da 40 anni alimenta le disuguaglianze ed espande le periferie. Il momento di cambiare quindi è ora, a partire proprio da un intervento che redistribuisca la ricchezza. Ecco perché abbiamo presentato in Parlamento una proposta che se approvata rivoluzionerebbe il nostro sistema fiscale. In Italia esistono già molte imposte patrimoniali. C’è l’Imu sugli immobili diversi dalla prima casa, il bollo sui conti correnti e quello sui titoli finanziari. Sono tutti tributi non progressivi, che pesano soprattutto sulla casa e chiedono troppo a chi ha poco e poco a chi ha troppo. L’ipotesi è di cancellarli e sostituirli con un’unica imposta che si applichi a partire dai 500mila euro di proprietà netta. Questo significa che per una famiglia di lavoratori ereditare un immobile, magari difficile da vendere, cesserebbe di essere un dramma a causa dell’onerosità dell’Imu. Difficilmente infatti supererebbe il mezzo milione di valore catastale, anche se sommato alla prima casa e ai risparmi. Vorrebbe dire che i Btp acquistati con il Tfr da un pensionato sarebbero liberi da balzelli, così come il conto corrente in cui arriva lo stipendio a fine mese. In compenso c’è chi pagherebbe molto di più, in particolare tutti

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L’autore: Giovanni Paglia è stato deputato della XVII legislatura ed è responsabile Economia di Sinistra italiana


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Sui diritti Lgbtq+ si dividono i Palestinesi d’Israele

Hundreds of LGBT members and supporters attend a gay pride rally under strict health restrictions due to the coronavirus outbreak in Tel Aviv, Israel, Sunday, June 28, 2020. The rally has been down-scaled amid the coronavirus outbreak in Tel Aviv, which last year drew more than 250,000 people. (AP Photo/Oded Balilty)

Dopo un grande successo elettorale ottenuto il 3 marzo scorso con oltre 15 seggi al Parlamento israeliano (la Knesset), l’unità della Lista araba unita – ad oggi il terzo schieramento politico israeliano in ordine di seggi e rappresentativo di quel 21% di cittadini arabi d’Israele -, dall’estate ha iniziato a scricchiolare. Lista multiforme che non si è mai dotata di una struttura partitica unica, essa è composta da numerose anime e attraversata da tensioni indotte da scelte etiche di fondo che sembrano riguardare i diritti civili, ma che in realtà sottendono visioni diverse sul ruolo della minoranza araba palestinese in Israele e sul proseguimento della lotta per la Palestina.

Le quattro anime della Lista unita – Hadash, il Fronte democratico per la libertà e l’uguaglianza, Balad, l’Alleanza democratica nazionale, Ta’al, il Movimento arabo per il rinnovamento e Ra’am, la Lista araba unita espressione del Ramo sud del movimento islamico arabo-israeliano – si sono unite per necessità politica, comprendendo che il loro elettorato voleva contare di più alle ultime elezioni, ma senza trovare una vera convergenza sugli obiettivi politici che la lista dovesse darsi. Così le anime politiche dei vari partiti e le loro rispettive leadership sono rimaste distinte e – in un processo che richiama da vicino la frammentazione e la debolezza della Sinistra italiana – sono potenzialmente più ostili le une alle altre che al nemico comune che dovrebbero fronteggiare, ovvero le varie destre israeliane – identificate con i partiti Likud e la Casa ebraica, prima Kadima – che con sfumature lievemente distinte governano Israele da oltre ventiquattro anni.

Pietra dello scandalo sono stati i diritti Lgbtq+ recentemente dibattuti in una importante seduta alla Knesset: quella sul disegno di legge iniziato da Meretz, il partito sionista di sinistra, mirata a proibire le “terapie di conversione” di gay, lesbiche e transgender operate da psicologi e autorità religiose, votato da un ampio arco trasversale di forze politiche ma fortemente osteggiato dal partito arabo di matrice islamista Ta’al (luglio 2020). La Lista unita ha dunque votato sulla mozione in ordine sparso, con Hadash a favore, i deputati nazionalisti astenuti e quelli islamisti apertamente contrari.

A seguito del voto, quasi del tutto ignorato dalla stampa mainstream ebraica come tema minore, l’opinione pubblica araba si è profondamente lacerata. Aymah Odeh, leader della Lista unita e di Hadash, ha difeso il proprio sostegno alla legge affermando di aver votato secondo coscienza e non per porre la battaglia Lgbtq+ all’ordine del giorno nell’agenda araba, ma Mansour Abbas, leader del partito islamista Ra’am, l’ha pubblicamente accusato di aver tradito le aspettative di una comunità a maggioranza legata a valori musulmani tradizionali, bollando la scelta di Odeh come antidemocratica, in quanto priva di un chiaro mandato a negoziare su scelte etiche contrapposte ai valori dei suoi elettori. Abbas gli rimprovera inoltre un atteggiamento snobistico nei confronti di un elettorato arabo accusato di “ipocrisia” in tema di diritti civili.

La controversia tra i due leader si è estesa col tempo, dilagando su altri fronti. Occorre tenere a mente che Abbas non è soltanto il leader dell’unico partito religioso che si richiama apertamente alla movenza islamista in Israele, ma è anche il vicepresidente della Knesset e, dunque, un potenziale concorrente ad Odeh all’interno dello scacchiere politico israeliano. Entrambi, infatti, lottano nominalmente per l’uguaglianza dei cittadini arabo-palestinesi in Israele, ma facendosi portavoce di progetti politici sostanzialmente diversi.

Se Hadash rappresenta il partito più progressista di Israele, con un’adesione ed una rappresentanza mista arabo-ebraica anche ai più alti livelli dirigenziali e una visione laica per uno Stato binazionale che dovrebbe sconfessare il proprio carattere esclusivo ebraico (rigettando la Legge fondamentale sullo Stato-nazione ebraico, 2018) per incorporare in piena parità tutti i propri cittadini, Ra’am è un partito separatista, che sprona lo sviluppo dei Palestinesi di Israele in quanto gruppo autonomo e distinto dalla maggioranza ebraica.

Quale sia il progetto di società ipotizzato da Mansour è lui stesso a rivelarlo in parole riportate recentemente in un editoriale del giornalista di Ha’aretz, Anshel Pfeffer: «Che cosa dovrei avere io in comune con la sinistra come leader di un partito islamico? Sulle questioni etiche e religiose io sono un uomo di destra. Ho molto più in comune con partiti come Shas (il partito ultraortodosso mizrahi ebraico) e il partito dell’Unità dell’ebraismo della Torah (UTJ) che con Meretz e Hadash». Ed è proprio il modello vincente dei partiti ultraortodossi che Ra’am vorrebbe emulare: un modello che passa per la piena incorporazione nelle commissioni della Knesset e, potenzialmente, anche nei futuri governi israeliani, anche e soprattutto a guida Netanyahu. Poco male se il prezzo da pagare sia accorrere in sua difesa rigettandone le accuse di corruzione nel caso dell’affare della vendita dei sottomarini (caso 3000) e blindandone la posizione al governo, come avvenuto lo scorso ottobre.

Abbas è consapevole, infatti, che Netanyahu sia “lì per restare” mentre la Sinistra ebraica si è ormai ridotta ad una riserva in via di estinzione e senza più alcuna possibilità di tornare al potere: perché mai dunque gli arabi dovrebbero perseguire la via di un’alleanza fallimentare con partiti ininfluenti condannandosi così a loro volta all’inconsistenza? Se l’obiettivo è che gli arabi contino di più in Israele, per ottenerlo ogni scelta è lecita: anche appoggiare Netanyahu che li ha retoricamente dipinti come terroristi alle scorse elezioni. La sua è una rivoluzione pragmatica: predicazione di un Islam moderato, rigetto del terrorismo e integrazione settoriale nella società israeliana per lo sviluppo autonomo della comunità araba. Un’integrazione che porti posti di lavoro nei settori dell’hi-tech israeliano, strade, infrastrutture e servizi nelle municipalità arabe e nuove stazioni di polizia per arginare la violenza urbana di cui quest’ultime sono particolare preda.

Poco importa se i Palestinesi oltre cortina continuano a vivere in una riserva in Cisgiordania e in un carcere a cielo aperto nella Striscia di Gaza, se gli islamisti arabo-israeliani possono accrescere la loro influenza alla Knesset ottenendo più fondi per la loro comunità compiendo una “normalizzazione” interna che tanto assomiglia a quella operata dagli “Accordi di Abramo” sullo scacchiere internazionale. In definitiva, la lotta contro il progresso dei diritti civili individuali rientra a pieno titolo tra gli obiettivi della lotta palestinese, mentre quella contro l’imminente annessione e il continuo avanzamento delle colonie potrebbe anche essere tralasciata in nome della “moderazione e del pragmatismo”.

Mai come oggi la questione palestinese sembra versare in una crisi identitaria profonda e aver smarrito il suo obiettivo, ma oggi più che mai occorrerebbe ricordarsi che le lotte per i diritti non vanno mai disgiunte le une dalle altre e che combattere per il riconoscimento dei diritti collettivi nazionali non può escludere la battaglia progressista per l’avanzamento dei diritti individuali, pena la perdita di un contenuto ideale che solo può raccogliere intorno a quella battaglia un’adesione trasversale di gruppi di fedi politiche e religiose diverse.

 

993

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 03 Novembre 2020 Roma (Italia) Cronaca : Reparto di Terapia Intensiva del San Filippo Neri Nella Foto : operatori sanitari al lavoro Photo Cecilia Fabiano/LaPresse November 03 , 2020 Roma (Italy) News : Intensive Therapy of San Filippo Neri Hospital In The Pic : Health workers in the new Covid Intensive Therapy

Ieri 993 famiglie hanno pianto la morte di un loro famigliare. Non l’hanno potuto salutare, non lo possono vedere nemmeno da morto perché quei 993 sono stati sigillati e ora vengono messi in coda per la cremazione. Ieri 993 famiglie hanno smesso di pensare alle feste, agli addobbi, ai menù, a tutto.

Per dare un’idea delle proporzioni, negli Usa il dato più alto di morti in un solo giorno, in tutti gli Usa, è di 2.880.

Questa seconda ondata che per alcuni non doveva arrivare è arrivata e si rivela più mortifera della prima. In Italia non ci sono mai stati così tanti decessi. Novecentonovantatré morti mentre ancora qualcuno gioca a dipingere come disfattisti quelli che parlano di Covid. Novecentonovantatré morti in un Paese che ci diceva che avevamo imparato la lezione, che ora sappiamo come curarli, che sono state migliorate le prestazioni, le cure e l’assistenza sanitaria.

Dal 10 ottobre sono morte 21.898 persone. Dall’inizio della pandemia sono morte 58.038 persone. È sparita una città come Agrigento.

Ma i numeri sono diventati muti, non condizionanti, si sommano e si continuano a sommare come cifre nude e vuote, una sopra all’altra. Anche di fronte a questa pandemia continuiamo a non riuscire a restare umani, a sentire le store che ci sono dietro, a leggere con un vocabolario che non sia burocratico, medico, politichese.

Sono 760mila gli attualmente positivi al virus; 760mila.

Se ci fosse un segreto perché i numeri non cancellino le storie bisognerebbe usarlo ora, subito. Restituire il dolore, su numeri così grossi, diventa un’impresa così titanica che sembra non volerla fare nessuno. Superare i lutti scavalcandoli senza farsene carico è la reazione meno consapevole e meno etica, anche se viene facile facile. Chissà se troveremo le parole per raccontare questo tempo. Chissà se conieremo parole nuove per descrivere la levità con cui siamo passati attraverso un giorno così.

Buon venerdì.

Per un’Europa dei diritti e della salute

BRUSSELS, BELGIUM - JULY 8: German Chancellor Angela Merkel (L) meets European Parliament President David-Maria Sassoli (R) after Germany takes over EU presidency in Brussels, Belgium on July 08, 2020. (Photo by Dursun Aydemir/Anadolu Agency via Getty Images)

Vogliamo provare a pensarla sul serio questa Europa della salute di cui ha parlato Ursula von der Leyen? «Non possiamo aspettare la fine della pandemia per riparare i danni e pensare al futuro. Porremo le basi per un’Unione europea della salute più forte, in cui 27 Paesi possano lavorare insieme per individuare le minacce, prepararsi e avviare una risposta collettiva» aveva detto la presidente della Commissione europea il 25 ottobre scorso durante il suo intervento al vertice mondiale sulla salute. Ebbene, ora avanziamo alcune nostre indicazioni. Due innanzitutto. L’Europa della salute è una Europa in cui la salute è un diritto per tutte e tutti. Ed è una Europa che sta in salute, che fa in modo che lo sia chi ci vive e che per ottenere questo risultato siano in salute la sua economia, le sue istituzioni. Come si fa? Abbiamo visto che molte cose che si pensavano impossibili fino a non molto tempo fa, sono state invece realizzate. La Banca centrale europea, organo della ideologica stabilità monetaria, ad un tratto si è messa a “coprire” tutto ciò che è necessario per reggere l’urto della pandemia.

Un gruppo trasversale di parlamentari europei ha proposto persino che la Bce segua la politica dell’helicopter money, ossia diventi distributore diretto di denaro ai cittadini, come la Fed degli Usa. Per ottenere la svolta di cui stiamo parlando, c’è bisogno di avere denaro e di spesa comunitaria. Finalmente, si è visto che si può fare e che le ossessioni monetaristiche erano nient’altro che tali, fobie magari create ad arte. Si è visto anche che il giochino dei trasferimenti finanziari dai 27 Stati al bilancio comunitario dell’Ue, la quale poi controlla in realtà il bilancio degli Stati, e fa fare assurdi tagli di organi vitali (il Welfare), è un non senso, farraginoso e non funzionale. Allora, invece, sarebbe funzionale che l’Ue, su indicazione e con il controllo del suo Parlamento, spendesse, non solo in emergenza ma anche dopo, ciò che serve attingendo in proprio dalla Bce, riformandola, e avendo alcuni livelli fiscali propri come quelli sulle multinazionali o sui consumi ambientali transfrontalieri. Puntare sulla spesa comunitaria, inoltre, porrebbe dinamiche di prestiti assurdi come quelle del Mes. In più sarebbe bene che l’Ue dettasse norme per farla finita con dumping e trucchetti fiscali di cui abbiamo parlato recentemente su Left.

Ma con i soldi così resi disponibili, cosa si dovrebbe fare? Esercitare le funzioni e creare gli organi di un’Europa post pandemia. La potremmo chiamare, oltre che l’Europa della salute, l’Europa dei diritti. E potremmo per ciascuno dei diritti proporre un patto che sancisca funzioni ed organi dell’Unione. Oggi i diritti sono delegati ad auspici mentre funzioni e organi sono riservati al mercato. Occorre fare il contrario. Mettere al centro delle funzioni e degli organi europei i diritti. L’Europa della salute in realtà assomiglia alla Europa del Welfare così bistrattata nell’ultimo trentennio. Tutto ci dice che contro il virus ciò che serve sono organi e funzioni europei che si occupino permanentemente del benessere dei cittadini, che possono resistere al virus se resiste il sistema che li protegge. Serve un Servizio sanitario europeo che funzioni come tale. La pandemia…


L’articolo prosegue su Left del 4-10 dicembre 2020

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Un volto nuovo per l’Europa

Un virus invisibile è riuscito a fare quel che sembrava impossibile. Ha fatto sospendere il Patto di stabilità, ha mandato in soffitta l’austerity e la fede nella manina magica del mercato. Ma ha anche messo ko i sovranisti dimostrando che è impossibile rendere i propri confini impenetrabili e che la chiusura autarchica rende impotenti di fronte a una crisi pandemica. Da una emergenza sanitaria come quella che stiamo attraversando ormai quasi da un anno si può uscire solo stando assieme, cooperando, come hanno fatto gruppi di scienziati di tutto il mondo per studiare il coronavirus e cercare di mettere a punto terapie, farmaci, vaccini. La dura lezione imposta dalla pandemia sta costringendo l’Europa a un cambio di passo che ci auguriamo diventi cambio di paradigma. La presidente Ursula von der Leyen ha cominciato a parlare di un ministero europeo della Salute per uniformare protocolli e interventi (pensiamo quanto sarebbe importante avere una regia unica per la distribuzione dei vaccini, in modo che non vi siano aree scoperte) ma anche per prepararsi a possibili, future, pandemie.

Che la salute e il benessere psicofisico delle persone sia un bene comune e prioritario ora è chiaro alla più ampia opinione pubblica. Che la ricerca e la formazione siano gli ambiti strategici in cui investire per la costruzione del futuro ora non è più la convinzione solo di una élite. E pensiamo che si debba cogliere immediatamente questo aspetto positivo di una vicenda così drammatica per tradurlo in atti concreti. Perché, se una consapevolezza sta maturando, è anche vero che riguardo alla ricerca l’Europa non fa ancora abbastanza. Se ha saputo reagire alla pandemia lanciando uno straordinario piano chiamato Next generation Eu dall’altra parte, prima dell’estate, ha tagliato i finanziamenti per il programma Horizon Europe che sono stati recuperati ora in parte.

Esponenti di rilievo del mondo della ricerca e delle università europee propongono di utilizzare questi fondi ripescati per compensare i tagli subiti dalla ricerca di base e in particolare dallo European research council e dal programma Marie Curie che sostengono i progetti più innovativi. Tanto c’è da fare su questo, come accennavamo, ma quel che prima pareva intoccabile della granitica ideologia neoliberista comincia ad essere quanto meno suscettibile di critica, o quanto meno non viene più proposto come fosse un dato di natura. E si cominciano a bisbigliare frasi un tempo impronunciabili in Europa come cancellazione del debito, assegnazione dei fondi del Recovery fund in base al rispetto dello Stato di diritto, tassazione dei colossi web (che proprio con questa pandemia si sono ancor più arricchiti), Green new deal, reddito minimo indispensabile, rafforzamento della sanità pubblica… Attraverso questi spiragli si insinuano i politici, gli analisti politici e studiosi della storia d’Europa – Roberto Musacchio, Pasqualina Napoletano, Nadia Urbinati e altri – ai quali abbiamo chiesto di aiutarci ad immaginare l’Europa del futuro, un’Europa che sia sempre meno un’unione dei mercati e sempre più un’unità politica, area di integrazione e inclusione nel rispetto delle diversità, pensando anche al ruolo che potrebbe avere nei prossimi anni in uno scenario geopolitico mutato dalla pandemia e in cui un ruolo da protagonista lo avranno quei Paesi, a cominciare dalla Cina, che più hanno investito e investono in ricerca.

Per un’Europa della salute e dei diritti. Con questo titolo lanciamo una discussione su proposte che riguardano temi cardine come la sanità, l’istruzione, il lavoro, l’ambiente, l’immigrazione. Ed è proprio questo il punto più dolente. Se l’Europa sta andando incontro a interessanti cambiamenti su un punto è ancora chiusa e immobile: le politiche di accoglienza e integrazione. Nonostante la promessa di un nuovo patto sull’immigrazione presentato con enfasi da Von der Leyen nulla si è fatto per cercare di modificare gli accordi di Dublino, per creare canali umanitari e per rivedere i famigerati accordi con Libia e Turchia con cui esternalizziamo le frontiere. Lo documentano su questo numero il reportage di Marina Turi dalla Spagna che denuncia le politiche di respingimenti che hanno trasformato le Canarie in una piattaforma di confino e di espulsione e lo argomentano Giorgia Linardi di Sea watch e Caterina Di Fazio di Agora Europe che qui passano a raggi X la modifica dei decreti sicurezza, mettendone a nudo la radicale insufficienza.

Lungi dall’essere stati aboliti i decreti Salvini gettano un’ombra nera sulla nuova legge sull’immigrazione. Intanto in mare si continua a morire. E continua la criminalizzazione di chi invece dovrebbe essere ringraziato perché, in assenza di politiche di salvataggio, interviene per salvare vite umane. Come il grande mosaico culturale europeo è nato e si è sviluppato grazie all’incontro con l’altro, con viandanti, viaggiatori, emigranti che venivano da lontano – come ci racconta qui Mathijs Deen parlando del suo affascinante Per le strade d’Europa – l’Europa del futuro nascerà solo se riusciremo ad abbattere i muri e non voltarci dall’altra arte.


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