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La pornografia dello svago

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 02 December 2020 Roma (Italia) Cronaca : Nuove misure anti covid in vigore per il periodo natalizio Nella Foto : shopping in centro Photo Cecilia Fabiano/LaPresse December 02 , 2020 Roma (Italy) News: New measures against virus spread for Christmas season In the Pic : shopping in the centre of town

Ogni giorno in Italia cade un Boeing e muoiono tutti i passeggeri. I numeri sono gli stessi e ce n’è perfino qualcuno in più. Ogni giorno in Italia qualcuno non sa quando potrà concedersi il lusso di amare una persona fuori regione, l’amore non è considerato una giusta causa. Ogni giorno in Italia qualcuno guarda la serranda della propria attività che si è arrugginita a rimanere troppo abbassata (o è ancora abbassata) e si domanda che lavoro si ritroverà a fare domani, se ci sarà un lavoro, e se non ci sarà un lavoro come ci si inventerà un reddito. Ogni giorno qualche centinaio di famiglie piange un morto. Decine di migliaia di persone cadono nella preoccupazione di essersi ammalati e i loro famigliari e i loro frequentatori si arrabattano per cercare un tampone in giro.

Eppure mentre durante la prima ondata si assisteva a una riflessione ampia su ciò che accadeva (addirittura con furbe derive preoccupazionali) questa seconda ondata ha un sapore diverso, niente di buono, qualcosa che cammina sul filo della rimozione e della narrazione populistica. Si racconta delle attività chiuse (e delle loro evidenti difficoltà) prendendola al contrario: non vorrete mica un governo cattivo che vi vieti il cenone di mezzanotte? Dicono così. Non vorrete mica dover scegliere gli ospiti del cenone di Natale? Si reclama a gran voce il diritto dello svago e non lo si fa con il pensiero a chi quello svago lo produce e lo distribuisce (il che avrebbe almeno qualcosa di solidale) ma come affermazione del proprio bisogno fottendosene del resto. Ma attenzione, non è un atteggiamento solo di alcuni cittadini, no, è proprio una discussione che inonda anche i giornali e le televisioni: discussioni orrende e inutili sull’orario di nascita del bambinello e nessuna riflessione un po’ più approfondita sulla manutenzione degli affetti che di questi tempi sono così difficili da mantenere e da reinventare.

Tutto superficiale, tutto raccontato come se fosse solo un rispetto delle tradizioni, tutto declinato in una commedia nazionalpopolare in cui scompare la paura, la solitudine, la lontananza, la sofferenza e tutto diventa lustrini, lucine, panettoni e tute da sci. Ma siamo sicuri di trattare questo tempo cupo con la complessità che merita? Siamo sicuri di rispettare il nostro ruolo di narratori della realtà? Oppure viene più facile agitare simboli senza volere nemmeno approfondire un po’?

È un’epoca profondamente dolorosa che viene trattata con lo stesso vocabolario di una simpatica accidentale caduta con le risate finte. Le ferite (fisiche, sociali, economiche, affettive) non si supereranno con un bicchiere di spumante in compagnia. Noi invece siamo lì, fermi lì, protesi su quel bicchiere lì. Ed è uno spreco di attenzioni, anche piuttosto irrispettoso.

Buon giovedì.

L’attacco al pubblico impiego protegge i veri privilegiati

© Mauro Scrobogna / LaPresse 12-06-2010 Roma Politica Cgil - Manifestazione nazionale dei lavoratori del pubblico impiego per protestare contro le misure del governo contenute nella manovra finanziaria, lavoratori della ricerca Nella foto: lavoratori CGIL durante la manifestazione © Mauro Scrobogna / LaPresse 12-06-2010 Rome Politics CGIL public sector workers protest against Government's economic measure In the picture: CGIL workers protesting against the government

Ha cominciato Cacciari, Boeri ne ha fatto una ragione di vita e alla fine è arrivato anche Prodi: i dipendenti pubblici sono i veri privilegiati del momento, perché possono contare su un reddito fisso e sicuro in un mondo improvvisamente sprofondato nell’incertezza. Questo argomento viene ripetuto come se fosse un fatto assodato e fa presa su milioni di persone, che da qualche mese o da sempre vivono all’insegna di una precarietà sempre più arida di possibilità. Non ha importanza che i cosiddetti garantiti vadano avanti da sempre con 1.300 euro al mese, né che si spaccino per vittime della crisi anche persone con patrimoni milionari. Viviamo in un’epoca storica del tutto incapace di pensare al passato e guardare al futuro, in cui il presente diventa l’unica dimensione dell’esistenza.

Il risultato è la dittatura dell’istantanea, per cui chi in questo momento ha un calo di reddito ha comunque diritto ad essere risarcito, a danno di chi magari tira la cinghia ogni giorno, ma ora non più del solito. Il famoso chef dovrebbe ricevere migliaia di euro in un click, mentre il professore in smart working dovrebbe avere la busta paga decurtata.
Il primo continuerà ad essere straricco e il secondo ad avere difficoltà a pagare il mutuo, ma poco importa. Ciò che conta è cogliere l’occasione per mortificare ancora una volta il lavoro dipendente, colpirne i diritti e marginalizzare il ruolo dello Stato. Dovrebbe essere chiaro a tutti quanto pericolosa sia questa operazione, che arriva persino a mettere in discussione il diritto di sciopero, scatenando un’aggressione mediatica senza precedenti contro i sindacati del pubblico impiego. Si lascia intendere infatti che in Italia siano spariti i ricchi e i poveri, lo sfruttamento, l’evasione fiscale, la disuguaglianza dei redditi.

Rimane solo la divisione fra garantiti e non garantiti, ovvero un racconto della crisi funzionale agli interessi di chi vuole che nulla cambi. Si costruisce un’alleanza artificiale fra precari, lavoratori in nero, disoccupati, partite Iva, artigiani, commercianti, piccoli imprenditori, fondata sull’ostilità per “quelli che il 27 non hanno problemi”.
Spariscono invece dalla scena i veri privilegiati, quelli che da decenni accumulano ricchezza mentre l’Italia arretra, che hanno redditi a sei zeri, che danno del tu al potere e non hanno né hanno mai avuto un problema nella vita. Quelli che non hanno grandi difficoltà a far passare la loro opinione sui media, perché i media li possiedono.

È un’operazione raffinata di occultamento, finalizzata ad evitare che si saldi una coalizione sociale opposta, quella degli espropriati, di chi avrebbe bisogno di più regole, più stabilità, più diritti.
L’unione di quelli che da molti anni perdono continuamente, e anche quando apparentemente vincono lo fanno al prezzo di sprofondare nell’illegalità, ma che ora percepiscono la fragilità estrema del sistema e la precarietà della loro posizione. Quelli a cui proporre uno Stato che torni a farsi fino in fondo garante di un diverso equilibrio sociale, in cui non si sia obbligati a scegliere il lavoro autonomo, il precariato sia bandito, aumenti il potere negoziale dei piccoli attori economici nei confronti di quelli grandi, si ponga un freno allo strapotere delle multinazionali, a nessuno sia negato quanto necessario a vivere con dignità.
In cui le tasse si paghino secondo le proprie possibilità e chi possieda grandi patrimoni contribuisca molto più di altri al benessere collettivo. Un’Italia molto diversa da quella di oggi, ma molto più simile ad un Paese in cui valga la pena vivere.

*-*
L’autore: Giovanni Paglia è stato deputato della XVII legislatura ed è esponente di Sinistra italiana

I diritti cominciano pretendendoli

Quando nasce un diritto? Quando viene riconosciuto? Ma no, dai, su. Sessantacinque anni fa Rosa Parks su un autobus a Montgomery, in Alabama, si rifiutò di cedere il proprio posto ad un bianco. Stava tornando a casa dopo aver lavorato tutto il giorno in un grande magazzino come sarta, faceva molto freddo, e non aveva trovato posti liberi nel settore riservato agli afroamericani e per questo decise di avere il diritto di sedersi nel settore dei posti comuni. Salì un uomo bianco che rimase in piedi e l’autista del bus dopo alcune fermate le chiese di alzarsi. Disse di no. Venne arrestata. Iniziò una protesta che poi è storia: il boicottaggio dei mezzi pubblici di Montgomery durò 381 giorni, i tassisti afroamericani abbassarono le loro tariffe a quelli dei bus, le piazze si riempirono di sostenitori. Il 13 novembre 1956, la Corte suprema degli Stati Uniti dichiarò fuorilegge la segregazione razziale sui mezzi di trasporto pubblici poiché giudicata incostituzionale.

Cinquant’anni (e 1 giorno) fa fu approvata la legge che prevedeva il diritto al divorzio alla Camera dopo una seduta parlamentare che durò oltre 18 ore. La riforma era richiesta a gran voce dai movimenti delle donne e dai radicali. Quando si cominciò a chiedere il diritto al divorzio in un Paese clericale come l’Italia non ci credeva quasi nessuno. Nel 1878 ci provò il deputato Salvatore Morelli. Nel 1902 il governo Zanardelli elaborò una proposta che però non venne mai approvata.

La legge sul divorzio fu realizzata durante una stagione di diritti: furono gli anni dell’abrogazione del reato di adulterio (’68), del divorzio (’70), della riforma del diritto di famiglia (’75), dell’aborto (’78), dell’abrogazione del delitto d’onore (’81). Ne siamo usciti migliori.

Il punto è proprio questo: i diritti cominciano nel momento in cui si comincia a pretenderli. Non è vero che non siano mai esistiti prima: semplicemente non esisteva qualcuno capace di dire “no” e poi di moltiplicare la sua pretesa. E accade così ancora oggi, ogni volta che qualche conservatore ci vorrebbe dire che ci si “inventa” diritti. I diritti sono lì, sotto la brace per anni, e prima o poi trovano la scintilla. Ed è una brace da tenere con cura perché passano gli anni ma continuano a insistere quelli che vorrebbero negarli, i diritti, esattamente come decenni fa.

Disse Fanfani in merito al referendum sul divorzio, il 26 aprile 1974 a Caltanissetta: «Volete il divorzio? Allora dovete sapere che dopo verrà l’aborto. E dopo ancora, il matrimonio tra omosessuali. E magari vostra moglie vi lascerà per scappare con la serva».

Gli auguriamo di avere avuto ragione.

Buon mercoledì.

Ricchi che vorrebbero insegnare la povertà

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 02-11-2020 Roma Politica Camera dei Deputati - Comunicazioni del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte sull'emergenza Covid-19 Nella foto L'aula della Camera Photo Roberto Monaldo / LaPresse 02-11-2020 Rome (Italy) Chamber of Deputies - Communications from Prime Minister Giuseppe Conte on the Covid-19 emergency

Si è aperto il can can sulla patrimoniale. Da noi succede sempre così, quando si parla di uguaglianza e di ridistribuzione si fotografano tutti con la mano sul cuore e gli occhi stretti e dolci poi appena capiscono che ridistribuire significa tassare i ricchi si accende uno strano meccanismo: i ricchi convincono anche quelli che non sono ricchi di essere lì lì a un passo di diventarlo, i ricchi giocano a dipingere il loro mondo fatto solo di ricchi e così si alza una levata di scudi che fa spavento.

Si oppone la destra. Diciamocelo, ci sta. La destra difende la conservazione dei privilegi acquisiti negli anni ed è da sempre dalla parte dei ricchi, anzi la destra in Italia è stata per decenni un ricco evasore che incarna il sogno americano in versione panata milanese. Si oppone la presunta sinistra o meglio centrocentrocentrocentrosinistra. Ci sta anche questo: sono di destra sotto mentite spoglie da parecchio tempo ed è normale che la pensino così. Si oppongono quelli che non sono “né di destra né di sinistra” (che scientificamente sono sempre di destra): loro vogliono combattere la povertà senza disturbare nessuno, non hanno ancora capito che non è fattibile e che i diritti in economia sono un punto di equilibrio.

La favola che usano gli oppositori è che in fondo ognuno di noi, frugandosi nelle tasche e guardando bene nei cassetti, abbia un patrimonio di 500mila euro senza nemmeno saperlo. Fortissima la barzelletta delle case: “chi di voi non ha una casa o non ne ha ereditato una che vale almeno 500mila euro”? Peccato che qui si stia parlando di valore catastale dell’immobile e non di valore commerciale. Questo lo omettono. E bisogna dirlo a tutti, per bene, spiegarlo con attenzione. Badate: se qualcuno ha immobili per 500mila euro di valore catastale ha sicuramente lo 0,2% (1000 euro, eh, stiamo parlando di 1000 euro) per superare le disuguaglianze del Paese in cui vive. A proposito: il patrimonio è personale, ricordarselo bene.

Il fatto è che a furia di parlare molto confusamente di “tasse” (che sono il mezzo per ridistribuire la ricchezza) anche certa sinistra si è persa il vocabolario ed è finita a parlare come quegli altri. Notate bene: quelli che si oppongono alla patrimoniale sono gli stessi che tasserebbero di più i dipendenti pubblici, che tasserebbero di più lo smart working perché lo definiscono fin troppo comodo, sono gli stessi che dicono che non vanno tassati i ricchi.

Chi guadagna di più deve pagare di più? La domanda semplice semplice è questa. A ognuno la sua risposta. Ma che i ricchi ci insegnino la povertà è qualcosa di ferocemente patetico. Un po’ come quelli di destra che dicono alla sinistra come deve fare la sinistra. Una cosa così.

Buon martedì.

Vittime di tratta e riduzione in schiavitù, un’emergenza nell’emergenza

ideas, concepts

Se l’effetto combinato della pandemia e della recessione economica ha già prodotto effetti molto pesanti per gli occupati nell’economia sommersa, la condizione delle persone oggetto di tratta, grave sfruttamento sessuale e lavorativo appare ancora più grave. Nella cronaca degli ultimi mesi, il tema della prostituzione forzata e del caporalato è passato sotto silenzio, a conferma della sua marginalità nel dibattito pubblico. Eppure, la pandemia non ha certo annullato il mercato della prostituzione forzata e del lavoro sfruttato. Sono decine di migliaia le donne, gli uomini e i transgender che formano, a livelli diversi di sfruttamento e di autonomia, questo mercato sommerso di corpi.

Per capire le principali tendenze registrate nei mesi più acuti della pandemia, abbiamo interpellato alcuni referenti dei progetti a favore delle persone oggetto di grave sfruttamento sessuale. Sono progetti e servizi di vario tipo – riuniti dai primi anni 2000 in un unico sistema d’intervento, finanziato dal Dipartimento per le Pari Opportunità – che intervengono su tre livelli fondamentali (emersione, prima assistenza, seconda accoglienza e inclusione sociale), in un’ottica di protezione dei diritti sociali e di autonomia delle persone sfruttate.

Tiziana Bianchini, referente dell’area tratta e prostituzione per la cooperativa Lotta contro l’Emarginazione di Milano, sottolinea come durante il lockdown ci sia stata una netta diminuzione della domanda di prestazioni sessuali a pagamento. Inoltre, gli operatori antitratta hanno osservato un parziale spostamento dell’offerta dalle strade agli appartamenti, poi drasticamente limitato dai vari provvedimenti di restrizione alla mobilità. La fascia di popolazione transessuale è stata molto colpita a livello di bisogni primari, ma al tempo stesso ha saputo reagire alle difficoltà attivando aiuti e supporto attraverso canali informali e comunitari. Più complesso, secondo Bianchini, riuscire a leggere quanto sia avvenuto fra le donne nigeriane, con le quali i contatti si sono fatti più difficili. Si tratta della nazionalità che in Italia, da inizio secolo, forma il gruppo più numeroso della prostituzione straniera e che per molti aspetti è quello più esposto alla tratta e a forme di grave sfruttamento.

A Milano gli operatori antitratta, nei mesi più acuti della pandemia, hanno provato a sperimentare nuove modalità d’intervento, ad esempio attraverso incontri da remoto sulla riduzione dei rischi e videoclip informative sulle misure di protezione da Covid-19, sulla salute e sul benessere. Altri interventi d’aiuto, come è avvenuto a Firenze e in diverse altre località, hanno riguardato la distribuzione di pacchi alimentari o l’organizzazione di mense popolari.

Spostandosi a Napoli, Andrea Morniroli (cooperativa sociale Dedalus) sottolinea, come elemento di fondo, il fatto che la pandemia abbia accelerato e reso più evidenti le disuguaglianze già esistenti all’interno della popolazione che si prostituisce. Solo la fascia “alta”, più garantita della prostituzione, le escort e quelle lavoratrici del sesso italiane già attrezzate per esercitare in casa od online, ha in qualche modo assorbito la crisi. La maggioranza di donne straniere e italiane ha invece sperimentato ciò che Morniroli definisce una diffusa condizione di impoverimento, causata dalla scomparsa dei clienti e dall’assenza totale di forme di sostegno al reddito. In particolare, con lo svuotamento delle strade, le transessuali italiane e le donne nigeriane con debito hanno sofferto in modo acuto la nuova situazione determinata dalla pandemia. Oltre alla distribuzione di pacchi alimentari e di materiale informativo, Dedalus ha aderito, insieme ad altre realtà femministe e del terzo settore, a una raccolta fondi nazionale destinata alle lavoratrici sessuali, mirata alla raccolta e alla fornitura di generi di prima necessità, farmaci e presidi sanitari, sostegno per utenze e affitti.

In contesti più periferici come Asti e Alessandria, come racconta Alberto Mossino dell’associazione Piam, durante il lockdown la prostituzione su strada è quasi scomparsa e si è ridotta fortemente quella svolta in appartamento. Le donne nigeriane con debito e in situazioni di sfruttamento, si sono trovate spesso abbandonate a loro stesse dalle reti criminali: spremute per anni e anni, durante l’emergenza sanitaria non hanno ricevuto nessun aiuto dai loro sfruttatori, trovandosi intrappolate e sole. Anche in questo caso, le richieste arrivate all’associazione sono state prevalentemente legate a bisogni primari (cibo, richieste di soldi per pagare affitto e spese urgenti).

Grazie all’Osservatorio del Numero Verde Nazionale Antitratta, dispositivo di raccordo dei 21 progetti regionali antitratta, è ora possibile allargare lo sguardo del fenomeno su una dimensione nazionale. Se nei mesi più acuti della pandemia l’attività dei progetti antitratta è stata fortemente limitata, garantendo solo i servizi essenziali all’utenza, in molti contesti territoriali gli operatori e le operatrici hanno comunque mantenuto aperti i canali di contatto e di supporto con i gruppi più vulnerabili. Ciò ha permesso di realizzare campagne mirate di informazione e di prevenzione sanitaria.

Sul fronte delle emersioni, cioè delle persone che si sottraggono a una condizione di tratta o grave sfruttamento, l’Osservatorio Antitratta ha registrato un quasi azzeramento fra marzo e aprile, e da maggio una significativa diminuzione rispetto all’ordinario. Anche le chiamate di aiuto e le segnalazioni di potenziali persone sfruttate sono fortemente diminuite nei due mesi di confinamento domestico, per risalire – anche se al di sotto dei livelli ordinari – in seguito. Dal punto di vista dei bisogni e delle problematiche venute alla luce in questi ultimi mesi, tutti i progetti antitratta hanno da subito segnalato uno stato di forte emergenza per l’utenza, specie di tipo economico e abitativo. La precarietà intrinseca alle persone che si prostituiscono in condizioni di sfruttamento, la loro condizione di invisibilità sociale sono state da subito aggravate in modo acuto e drammatico dalle conseguenze della pandemia.

Nel complesso, il prolungamento dell’emergenza sanitaria e dei provvedimenti di blocco/restrizione della mobilità, fermando in larga misura il mercato della prostituzione, potrebbero accentuare le differenze esistenti. Mentre la fascia più garantita e autonoma della lavoratrici del sesso potrebbe assorbire la crisi in atto, per la maggioranza di persone trafficate o in condizione di sfruttamento, le incognite sono molte. Nello scenario di recessione economica in atto, una componente significativa di donne risulta sovra-esposta all’impoverimento, all’isolamento sociale e a problemi di accesso a bisogni di base.
Ciò potrebbe comportare due effetti. In primo luogo, marginalizzare ulteriormente la fascia più vulnerabile della prostituzione, a partire da quella straniera. In secondo luogo, la crisi economica crea lo sfondo per una ri-vittimizzazione: una parte di donne emerse da condizioni di grave sfruttamento, potrebbe nuovamente indebitarsi o rientrare in circuiti di sfruttamento. Se questa è la situazione di fondo, sarebbe fondamentale da una parte rafforzare il sistema di interventi antitratta, dall’altra implementare politiche sociali e misure di tipo economico capaci di ampliare le scelte di vita per le lavoratrici sessuali. In questo senso, l’adozione di misure di sostegno al reddito di tipo universalistico appare l’unica soluzione, sul medio periodo, in grado di arginare la condizione di impoverimento diffuso descritta.

*-*

L’autore: Andrea Cagioni è un operatore e ricercatore sociale a Firenze

Il libro

Le ombre del lavoro sfruttato Studi e ricerche sulle forme di sfruttamento lavorativo in Italia e in tre province toscane è il titolo del libro curato da Andrea Cagioni e uscito per Asterios. Si tratta di un testo che mette a confronto l’analisi di diversi tipi di dati e di fonti con il racconto di testimonianze dirette dei lavoratori e delle lavoratrici oggetto di sfruttamento. La ricerca, realizzata in tre province toscane (Lucca, Siena e Grosseto), mostra come il caporalato e le altre forme di sfruttamento lavorativo non siano affatto fenomeni residuali, specifici di contesti territoriali e produttivi marginali. Dall’agricoltura alla logistica, dalla ristorazione all’assistenza alla persona, emerge un quadro del lavoro oggi in Toscana fatto di poca luce e molte ombre.

Ne usciremo privati

Rome, Italy. Montecitorio palace, Italian parliament - governmental building.

Nel bel mezzo della seconda ondata della pandemia, nella discussione sul Natale,  di chi come il presidente della Liguria Toti ci dice di «chiudere le scuole e aprire le piste da sci», sempre schiacciati tra profitto e salute, tra incassi e malattie, avvicinandosi a queste feste che servono per le ore giuste per riempire i carrelli, in mezzo a tutto questo c’è la prossima legge di bilancio.

Ed è qualcosa che quest’anno conta ancora di più perché dentro la legge di bilancio c’è l’idea di Paese che si vuole disegnare, c’è la lista delle priorità e la visione del mondo. E allora mettiamoci le mani dentro questa legge di bilancio che si prepara ad arrivare in Parlamento. Ecco l’articolo 89 comma 3 e l’articolo 93:

ART. 89.3. Per l’anno 2021, i contributi di cui all’articolo 2 della legge 29 luglio 1991, n. 243, sono incrementati di 30 milioni di euro.

ART. 93. (Trattamento di previdenza dei docenti di Università private) 1. Ai fini dell’applicazione delle disposizioni di cui al comma 1 dell’articolo 4 della legge 29 luglio 1991, n. 243, per i professori e ricercatori delle Università non statali legalmente riconosciute, a decorrere dall’1 gennaio 2021, l’aliquota contributiva di finanziamento del trattamento di quiescenza è pari a quella in vigore, e con i medesimi criteri di ripartizione, per le stesse categorie di personale in servizio presso le Università statali. Restano acquisite alla gestione di riferimento e conservano la loro efficacia le contribuzioni versate per i periodi anteriori alla data di entrata in vigore della presente legge. Ai maggiori oneri derivanti dal differenziale tra l’aliquota contributiva e l’aliquota di computo relativa ai trattamenti di quiescenza con riferimento al periodo 2016-2020 pari a euro 53.926.054 per l’anno 2021, si provvede mediante apposito trasferimento dal bilancio dello Stato all’ente previdenziale.

I contributi alle università private (private!) vengono aumentati di 30 milioni di euro arrivando quindi a 98 milioni di euro. A livello percentuale si tratta di un incremento del 44%. Non male se si pensa a come sono ridotte le università pubbliche (e la pandemia ce lo sta raccontando). Uno potrebbe immaginare che lo stesso incremento percentuale arrivi alle università pubbliche e invece no, niente. Anche perché sarebbe un aumento di 3,4 miliardi per il prossimo anno. Quindi niente da fare. Nell’articolo 93 invece si dice che la maggioranza vuole dare il suo contributo per pagare i trattamenti di previdenza dei professori delle università private con un trasferimento all’Inps di 54 milioni di euro.

Ne dovevamo uscire migliori. Vediamo di non uscirne privati.

Buon lunedì.

Se è vera Unione, Bruxelles cancelli i debiti da Covid

European Parliament President David Sassoli in Debat named Will Europe be the engine of a green and socially fair transformation in Brussels, Belgium on 23 September 2020. debate between the EP President and Gunter Pauli and Beppe Grillo, Italian comedian and politician entrepreneur and author of The Blue Economy. Jonathan Raa / Nurphoto (Photo by Jonathan Raa/NurPhoto via Getty Images)

La proposta non viene da un qualche Social forum antagonista ma dal presidente del Parlamento europeo, il piddino David Sassoli che si spinge a far balenare l’idea di cancellare a livello europeo i debiti contratti dai governi per rispondere al Covid.

Dice anche altro Sassoli, che registra l’anacronismo e il rifiuto generalizzato del Mes e guarda ad una sorta di Tesoro gestito dalle istituzioni europee, pensando anche a rivedere i Trattati. L’esternazione di Sassoli trova il fuoco amico di una vecchia gloria del rigore di bilancio come Carlo Cottarelli ma anche del segretario del suo partito, Nicola Zingaretti.

In compenso su una linea non lontanissima da quella di Sassoli in merito di Mes e di risorse finanziarie europee da gestire in modi più  “normali” si posiziona un insospettabile come Enrico Letta. E lo stesso ministro Roberto Gualtieri, pur altalenante. C’è da chiedersi che succede. Si può ipotizzare che gli “uomini di Bruxelles” siano maggiormente sintonizzati con quanto matura nell’Ue alle prese col Covid e con la revisione degli equilibri della globalizzazione che comporta la pandemia.

Il segretario del Pd sembra più attardato in vecchie logiche, anche più italiane, che forse guardano anche alle…

L’articolo prosegue su Left del 27 novembre – 3 dicembre 2020

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Così hanno bloccato la ricerca

OXFORD, ENGLAND - AUGUST 25: Front of House Visitor Host Jessica Baudet wears protective mask and shield as she stands in the Duke Humphrey’s Library at the Bodleian Libraries on August 25, 2020 in Oxford, England. The world famous libraries closed in mid-March due to the coronavirus pandemic. After putting in strict social distancing measures the Oxford University Libraries have partially opened for students and academics. A gradual reopening to the public, via online booking, begins on September 1. (Photo by Christopher Furlong/Getty Images)

In questi giorni le proteste, talvolta molto dure, di diverse categorie di lavoratori contro le misure emanate dal governo per il contrasto alla diffusione del Covid-19 hanno trovato molto spazio sui media italiani, mentre un silenzio tombale regna sul disagio e sulle difficoltà di tutti coloro che vivono di ricerca, soprattutto nel campo delle scienze umane e sociali, per via della chiusura delle biblioteche e degli archivi. Nessun dibattito si è sviluppato sui reali rischi di contagio all’interno di questi luoghi o nel tragitto per raggiungerli, nessun dato è stato fornito per facilitare una riflessione sul tema.

Nello stesso Dpcm del 3 novembre gli archivi e le biblioteche non hanno nemmeno meritato una menzione specifica, né li ha ricordati il presidente del Consiglio nella lunga conferenza stampa in cui ha presentato i provvedimenti. Il dispositivo della loro chiusura è nascosto nelle pieghe del decreto, che sospende le mostre e i servizi al pubblico dei musei «e degli altri istituti e luoghi della cultura di cui ai sensi dell’articolo 101 del codice dei beni culturali e del paesaggio». Bisogna riprendere quest’ultimo (il decreto legislativo 42/2004) per scoprire che oltre ai musei la dizione «istituti e luoghi della cultura» comprende «le biblioteche gli archivi, le aree e i parchi archeologici, i complessi monumentali». La chiusura di tutte queste realtà appare dunque un semplice riflesso condizionato di quella dei musei, che non richiede alcuna riflessione sulle loro caratteristiche specifiche.

Per i ricercatori e gli studenti per i quali biblioteche e archivi sono il luogo di lavoro principale e insostituibile, l’impressione è quella di una scarsissima considerazione, che avevano già avuto modo di provare nei mesi successivi al lockdown quando, a fronte della riapertura delle attività commerciali e ricreative e di una vita che nelle strade aveva ripreso o quasi il suo ritmo normale, l’accesso alle sale di studio continuava ad essere regolato da misure severissime, che non si limitavano all’uso di guanti e mascherine, ma comprendevano la quarantena per i documenti consultati, la riduzione degli orari di apertura e un ferreo distanziamento degli utenti. La conseguente drastica limitazione del numero di ingressi rendeva quei luoghi molto più sicuri di altri, ma imponeva anche attese di mesi per consultare documenti indispensabili a…

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L’autore: David Armando è primo ricercatore all’Istituto per la storia del pensiero filosofico e scientifico moderno del Cnr; Paolo Broggio è professore associato di Storia moderna a Roma Tre

L’articolo prosegue su Left del 27 novembre – 3 dicembre 2020

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L’Italia s’è sciolta

A mountain lake is pictured on July 4, 2020 at the Presena glacier near Pellizzano. (Photo by Miguel MEDINA / AFP) (Photo by MIGUEL MEDINA/AFP via Getty Images)

I ghiacciai italiani che arretrano, costretti ad arrendersi di fronte all’innalzamento delle temperature. Le api travolte in Piemonte da sbalzi di temperatura che scombussolano i loro bioritmi e rischiano di farle scomparire. I frutti tropicali come mango e avocado che prosperano in una Sicilia ormai sulla via della desertificazione. Sono storie concrete. Di quelle che le capiscono tutti al volo, quando ne parli al bar sotto casa. E sono sconcertanti. Ci fanno cogliere immediatamente quanto il cambiamento climatico nel Belpaese non sia (solo) un’urgenza da risolvere per proteggere le prossime generazioni, ma (anche) una questione che ci investe oggi, che sta modificando irrimediabilmente le nostre abitudini e la nostra economia.

Ci fanno capire che non c’è tempo da perdere. Sono le vicende che ci racconta Stefano Liberti nella sua ultima fatica, Terra bruciata (Rizzoli), un viaggio avventuroso e inquietante nella Penisola ridisegnata dalla crisi ambientale. E poi ci sono le cause di questa crisi, dovuta al cambiamento del clima. Un fenomeno che, al contrario di quanto ancora si tende a credere, non è da attribuirsi solo all’inquinamento causato da trasporti e produzione di energia. Già, perché l’agricoltura, la deforestazione, gli usi del suolo, lo spreco alimentare e i processi di trattamento e trasformazione dei prodotti alimentari sono alla base del 37% delle emissioni totali di CO2 nel mondo. Un dato, quello fornito dall’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc), che ci fa comprendere quanto sia diventato insostenibile il modello di vita di una fetta di cittadini del pianeta, più precisamente il modo in cui produce e consuma frutta, verdura e carne.

Da tale percentuale si sviluppa la preziosa analisi che Fabio Ciconte racchiude nel saggio Fragole d’inverno (Laterza), un volume che accende i riflettori su quanto il riscaldamento globale sia legato a filo doppio a cosa scegliamo ogni giorno di mangiare. Liberti, giornalista e film-maker, e Ciconte, ricercatore e direttore della associazione ambientalista Terra!, a lungo hanno collaborato ad inchieste sulle filiere agroalimentari. E oggi, tra queste opere “soliste” da poco uscite in libreria, non manca un visibile un trait d’union. Da un lato, dunque, abbiamo un affresco di un’Italia sempre più calda che si piega ai diktat della colonnina di mercurio, e dall’altro una cartografia che traccia le responsabilità che hanno le attività agricole, con a margine alcune strategie per ripensarle radicalmente e provare a salvarci insieme. Il tempo che abbiamo a disposizione è limitato. Ad allarmare, prima di tutto, è…

L’articolo prosegue su Left del 27 novembre – 3 dicembre 2020

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Discriminati da un vaccino

A researcher works on virus replication in order to develop a vaccine against the coronavirus COVID-19, in Belo Horizonte, state of Minas Gerais, Brazil, on March 26, 2020. - The Ministry of Health convened The Technological Vaccine Center of the Federal University of Minas Gerais laboratory to conduct research on the coronavirus COVID-19 in order to diagnose, test and develop a vaccine. (Photo by Douglas MAGNO / AFP) (Photo by DOUGLAS MAGNO/AFP via Getty Images)

Da qualche settimana, mentre stiamo affrontando la seconda drammatica ondata di Covid-19, assistiamo ad un seguirsi di notizie apparentemente speranzose. Ad inizio novembre l’azienda farmaceutica AstraZeneca ha annunciato che il suo vaccino potrebbe essere sul mercato già a dicembre. L’auspicio che un vaccino, benché non rappresenti una panacea, possa costituire uno strumento importante nella lotta al Covid-19 fa sì che ogni annuncio di questo tipo venga accolto con grande entusiasmo dai più. Un entusiasmo condiviso dai mercati finanziari. Ogni comunicato stampa che annuncia l’avvicinarsi di un vaccino fa schizzare la quotazione delle azioni dell’azienda farmaceutica in questione. Le case farmaceutiche sono quindi incentivate a comunicare rapidamente ogni tipo di avanzamento nella sperimentazione dei loro prodotti. E ciò è ancora più vero se si pensa che ogni annuncio è seguito da un contratto miliardario proposto da governi ansiosi di garantirsi dosi sufficienti di un potenziale futuro vaccino.

Ed infatti, l’annuncio AstraZeneca sembra aver innescato una sorta di asta. Pochi giorni dopo, il consorzio Pfizer-BioNTech annunciava un’efficacia del 90% del proprio vaccino. Nemmeno 24 ore dopo, l’Unione europea ne aveva già prenotato 300 milioni di dosi, per un totale di quasi 5 miliardi di euro. Una settimana dopo era il turno della casa farmaceutica Moderna, che annunciava una preparazione col 94,5% di efficacia. Stéphane Bancel, direttore di Moderna, non si scordava di avvertire l’Unione europea. Se Bruxelles non firmasse velocemente un contratto – si suppone alle condizioni ed il prezzo imposti dall’azienda – Moderna non garantirebbe la consegna puntuale dei vaccini in Europa. Un ricatto appena implicito. L’indomani, anche la Pfizer-BioNTech partecipava a questa “asta”, annunciando di aver sviluppato un prodotto con un’efficacia del 95%, che avrebbe offerto una protezione anche alle persone anziane, più a rischio.

Su Twitter il microbiologo belga Emmanuel André ha ironizzato: «Comprendo le motivazioni finanziarie che spingono le aziende farmaceutiche a diramare comunicati stampa in cui dicono di essere le migliori. Ma siamo seri: se continueranno con queste escalation giornaliere, arriveremo al 140% di efficacia prima che venga pubblicato il primo studio peer-reviewed». André giustamente ha sottolineato le incertezze scientifiche che persistono riguardo il tasso di efficacia dei potenziali futuri vaccini, ma conviene considerare anche la doppia dimensione della loro accessibilità e…

Marc Botenga, eletto nel Parlamento europeo con il Parti du Travail de Belgique, fa parte del Gruppo della sinistra Gue/Ngl

 

 

L’articolo prosegue su Left del 27 novembre – 3 dicembre 2020

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